Memorie dal Sottosuolo

Il protagonista delle memorie nell’incipit del romanzo descrive il proprio tipo di disagio sociale, di malattia dell’anima che lo porta a ferire le persone intorno a lui, ed il rapporto con i medici.

Sono un uomo malato… Sono un uomo cattivo. Un uomo sgradevole. Credo di avere mal di fegato. Del resto, non capisco un accidente del mio male e probabilmente non so di cosa soffro. Non mi curo e non mi sono mai curato, anche se rispetto la medicina e i dottori. Oltretutto sono anche estremamente superstizioso; be’, almeno abbastanza da rispettare la medicina. (Sono abbastanza colto per non essere superstizioso, ma lo sono.) Nossignori, non voglio curarmi per cattiveria. Ecco, probabilmente voi questo non lo capirete. Be’, io invece lo capisco. Io, s’intende, non saprei spiegarvi a chi esattamente faccia dispetto in questo caso con la mia cattiveria; so perfettamente che neppure ai medici potrò “farla” non curandomi da loro; so meglio di chiunque altro che con tutto ciò nuocerò unicamente a me stesso e a nessun altro. E tuttavia, se non mi curo, è per cattiveria. Il fegato mi fa male, e allora avanti, che faccia ancor più male!

Fëdor Dostoevskij

Papà Goriot

Antologizziamo qui la scena della morte di Goriot, fiaccato dagli anni e dalle delusioni della vita, tra le quali un amore patologico e non corrisposto per le figlie, che si segnalano per la loro distanza ed assenza nei confronti del padre.

«Non dimentichi Sylvie», bisbigliò la signora Vauquer all’orecchio di Eugène, «sono due notti che veglia».
Appena Eugène ebbe voltato le spalle, la vecchia corse dalla cuoca. «Prendi le lenzuola rivoltate, numero sette. Perdio, vanno anche troppo bene per un morto», le disse all’orecchio.
Eugène, che aveva già salito qualche scalino, non sentì le parole della vecchia locandiera.
«Forza», gli disse Bianchon, «infiliamogli la camicia. Tienilo diritto».
Eugène si mise a capo del letto e sorresse il moribondo al quale Bianchon tolse la camicia. Il vecchio fece un gesto quasi volesse trattenere qualcosa sul petto, ed emise dei gridi lamentosi e inarticolati, come un animale che abbia un grande dolore da esprimere.
«Ah, sì!», fece Bianchon. «Vuole una catenella di capelli con un piccolo medaglione che prima gli abbiamo
tolto per applicare le sanguisughe. Pover’uomo! Bisogna rimettergliela. È sul caminetto». Eugène andò a prendere una catenella intrecciata di capelli biondo cenere, sicuramente quelli della signora Goriot. Su una faccia del medaglione lesse: Anastasie, e sull’altra: Delphine. Immagine del suo cuore che riposava
sempre sul suo cuore. I riccioli che conteneva erano talmente fini che dovevano essere stati tagliati nella loro prima infanzia. Quando il medaglione gli toccò il petto, il vecchio fece un haan prolungato che manifestava una soddisfazione terribile a vedersi. Era uno degli ultimi echi della sua sensibilità, che pareva ritrarsi in quel centro sconosciuto, origine e punto d’arrivo delle nostre simpatie. Il suo viso contratto assunse un’espressione di gioia morbosa. I due studenti, colpiti da quella tremenda esplosione di forza affettiva che sopravviveva al pensiero, piansero calde lacrime che caddero sul moribondo strappandogli un grido di acuto piacere.
«Nasie! Fifine!», esclamò.
«È ancora vivo», disse Bianchon.
«A che gli serve?», chiese Sylvie.
«A soffrire», rispose Rastignac.
Dopo aver fatto cenno al compagno perché lo imitasse, Bianchon s’inginocchiò per infilare le braccia sotto le gambe del malato, mentre Rastignac s’inginocchiava dall’altra parte del letto per infilarle sotto la schiena. Sylvie si teneva pronta a tirar via le lenzuola appena il moribondo fosse stato sollevato, per sostituirle con quelle che aveva portato. Ingannato forse dalle lacrime, Goriot impiegò le ultime forze per tendere le mani incontrando ai due lati del letto le teste degli studenti. Le afferrò con violenza per i capelli, e lo si udì mormorare fievolmente: «Ah! Angeli miei!».
Due parole, due mormorii espressi dall’anima che così sospirando volò via.

Honoré de Balzac

I Fiori del Male

Baudelaire descrive nella poesia proemiale della sua opera poetica la malattia più pericolosa che infetta il corpo umano e sociale: la noia.

AL LETTORE
La stoltezza, l’errore, il peccato, l’avarizia, abitano i nostri spiriti e agitano i nostri corpi; noi nutriamo amabili rimorsi come i mendicanti alimentano i loro insetti.
I nostri peccati sono testardi, vili i nostri pentimenti; ci facciamo pagare lautamente le nostre confessioni e ritorniamo gai pel sentiero melmoso, convinti d’aver lavato con lagrime miserevoli tutte le nostre macchie.
È Satana Trismegisto che culla a lungo sul cuscino del male il nostro spirito stregato, svaporando, dotto chimico, il riccometallo della nostra volontà.
Il Diavolo regge i fili che ci muovono! Gli oggetti ripugnanti ci affascinano; ogni giorno discendiamo d’un passo verso l’Inferno, senza provare orrore, attraversando tenebre mefitiche.
Come un vizioso povero che bacia e tetta il seno martoriato d’un’antica puttana, noi al volo rubiamo un piacere clandestino e lo spremiamo con forza, quasi fosse una vecchia arancia.
Serrato, brulicante come un milione di vermi, un popolo di demoni gavazza nei nostri cervelli, e quando respiriamo, la morte ci scende nei polmoni quale un fiume invisibile dai cupi lamenti.
Se lo stupro, il veleno, il pugnale, l’incendio, non hanno ancora ricamato con le loro forme piacevoli il canovaccio banale dei nostri miseri destini, è perché non abbiamo, ahimé, un’anima sufficientemente ardita.
Ma in mezzo agli sciacalli, le pantere, le cagne, le scimmie, gli scorpioni, gli avvoltoi, i serpenti, fra i mostri che guaiscono, urlano, grugniscono entro il serraglio infame dei nostri vizi, uno ve n’è, più laido, più cattivo, più immondo. Sebbene non faccia grandi gesti, né lanci acute strida, ridurrebbe volentieri la terra a una rovina e in un solo sbadiglio ingoierebbe il mondo.
È la Noia! L’occhio gravato da una lagrima involontaria, sogna patiboli fumando la sua pipa. Tu lo conosci, lettore, questo mostro delicato – tu, ipocrita lettore – mio simile e fratello

Charles Baudelaire

Paradisi Artificiali

Baudelaire descrive in questa originalissima opera gli effetti sul pensiero e sulla percezione delle droghe. Antologizziamo i brani riguardanti l’oppio.

L’oppio ingrandisce le cose che già non hanno limite, allunga l’infinito, approfondisce il tempo, scava nella voluttà e riempie l’anima al di là delle sue capacità di neri e cupi piaceri.
Ma tutto ciò non vale il veleno che sgorga dai tuoi occhi, dai tuoi occhi verdi, laghi in cui la mia anima trema specchiandovisi rovesciata… I miei sogni accorrono a dissetarsi a quegli amari abissi.
Tutto questo non vale il terribile prodigio della tua saliva che morde, che sprofonda nell’oblìo la mia anima senza rimorso, e trasportando la vertigine, la rotola estinta alle rive della morte!

[…]
Esasperato al pari d’un ubbriaco che vede doppio, rientrai a casa, serrai la porta, pieno di spavento, malato, infreddolito, l’anima febbrile e turbata, ferito dal mistero e dall’assurdo. Invano la mia mente voleva riprendere il timone; la tempesta, mulinando, rendeva inutili i suoi sforzi e la mia anima, vecchia barca senza alberi, ballava e ballava su un mare mostruoso e illimitato.

Charles Baudelaire

Don Chisciotte

Il brano antologizzato è tratto dall’inizio del romanzo: Don Chisciotte impazzisce immergendosi nei mondi possibili dell’universo cavalleresco: egli decide di divenire un cavaliere in piena età moderna, divenendo l’eroe anacronistico per eccellenza.

Cosicché per il poco dormire e per il molto leggere gli si prosciugò il cervello, in modo che venne a perdere il giudizio. La fantasia gli si riempì di tutto quel che leggeva nei libri, sia d’incantamenti che di litigi, di battaglie, sfide, ferite, di espressioni amorose, d’innamoramenti, burrasche e buscherate impossibili. E di tal maniera gli si fissò nell’immaginazione che tutto quell’edifizio di quelle celebrate, fantastiche invenzioni che leggeva fosse verità, che per lui non c’era al mondo altra storia più certa. […] Col senno ormai bell’e spacciato, gli venne in mente pertanto il pensiero più bislacco che mai venisse a pazzo del mondo; e fu che gli parve opportuno e necessario, sia per maggiore onore suo come per utilità da rendere alla sua patria, farsi cavaliere errante, ed andarsene armato, a cavallo, per tutto il mondo in cerca delle avventure e a provarsi in tutto quello che aveva letto essersi provati i cavalieri erranti, spazzando via ogni specie di sopruso, e cacciandosi in frangenti ed in cimenti da cui, superandoli, riscuotesse rinomanza e fama immortale. Già si vedeva il poveretto coronato dal valore del suo braccio, Imperatore di Trebisonda per lo meno; e quindi, rivolgendo in mente così piacevoli pensieri, rapito dal singolare diletto che vi provava, si affrettò a porre in opera il suo desiderio. E la prima cosa che fece fu di ripulire certe armi appartenenti ai suoi avi, che, arrugginite e tutte ammuffite, da secoli e secoli erano state messe e dimenticate in un canto. Le ripulì e le rassettò meglio che poté, ma vide che avevano un grave difetto; non c’era una celata con la baviera a incastro, ma solo un semplice morione. A questo però supplì la sua ingegnosità, poiché con certi cartoni fece una specie di mezza celata che, incastrata col morione, faceva la figura di una celata intera.

Miguel de Cervantes

Fonte: Corrado Bologna, Paola Rocchi, Fresca Rosa Novella, vol. 2 A, pp. 155-156.

Jane Eyre

Jane Eyre assiste alla morte dell’amica Helen a causa della tubercolosi: nel brano che antologizziamo assistiamo alla scena culminante.

«Dunque, Helen, sei sicura che esiste il cielo e che le nostre anime potranno raggiungerlo quando moriremo?».
«Sono sicura che vi è un futuro; credo che Dio sia buono; posso affidare a Lui la parte immortale di me stessa senza alcuna apprensione. Dio è il mio padre; Dio è il mio amico: io Lo amo e credo che Egli ami me».
«E ti rivedrò, Helen, dopo la morte?».
«Verrai nello stesso mondo di felicità: sarai ricevuta da quello stesso padre potente e universale, non aver
dubbi, cara Jane».
Feci ancora domande, ma solo entro di me. «Dov’è questo mondo? Esiste?». E strinsi più forte le braccia
attorno a Helen; mi sembrava più cara che mai, avevo l’impressione di non potere lasciarla partire. Giacevo col volto nascosto nel cavo della sua spalla; adesso lei mi diceva in tono dolcissimo:
«Come mi sento bene! Quest’ultimo accesso di tosse mi ha un po’ stancata; credo di poter dormire; ma non lasciarmi, Jane; mi piace sentirti vicina».
«Starò con te, cara Helen: nessuno mi porterà via».
«Sei al caldo?».
«Sì».
«Buona notte, Jane».
«Buona notte, Helen».
Mi baciò, la baciai e ci addormentammo insieme.
Quando mi svegliai era giorno: mi aveva destato un movimento insolito; guardai; ero nelle braccia di qualcuno; l’infermiera mi sosteneva riportandomi lungo il corridoio verso il dormitorio. Non fui sgridata per aver lasciato il mio letto; avevano altro da pensare; non mi diedero allora alcuna spiegazione a tutte le domande che feci; ma un paio di giorni dopo seppi che la signorina Temple, tornando nella sua stanza verso l’alba, mi aveva trovata nel lettino, il volto contro la spalla di Helen Burns, le braccia strette al suo collo. Io ero addormentata e Helen era… morta.
La sua tomba è nel cimitero di Brocklebridge: per quindici anni dopo la sua morte rimase coperta solo da un piccolo tumulo erboso; ma adesso una lapide di marmo grigio segna quel luogo con inciso il suo nome e la parola «Resurgam».

Charlotte Brontë

Il fascino ambiguo del “mostro”

“Mostro” è un termine che nella lingua italiana si colora di molte accezioni diverse: il prodigio, il genio, ma anche l’essere orribile, deforme e però -in quanto tale- in grado di suscitare stupore. Un campionario del quale sono piene la mitologia e la narrativa, fiabe, leggende, cronache, storie e racconti, ma anche la letteratura scientifica. Al tema è dedicato un capitolo del volume “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo”.

Quando un individuo diventa “anormale” per la società? “Mostro” è un termine che nella lingua italiana si colora di molte accezioni diverse: il prodigio, il genio, ma anche l’essere orribile, deforme e però -in quanto tale- in grado di suscitare stupore. Un campionario del quale sono piene la mitologia e la narrativa, fiabe, leggende, cronache, storie e racconti, ma anche la letteratura scientifica. La categoria del “mostruoso” tassonomicamente nasce per contrapposizione, accogliendo il diverso, lo sconosciuto, l’anomalo, l’anormale. Ed esercita un’ambigua fascinazione che spesso diventa atteggiamento giudicante, stigma, allarme.

Nella letteratura i richiami alle disabilità e alle deformità sono frequenti, sin dagli esordi: nell’Olimpo Efesto, dio del fuoco e marito di Afrodite, è descritto come “storpio” e oggetto di burle: «questo ci ricorda che gli zoppi erano originariamente visti come personaggi buffi», avverte Leslie Fiedler, evidenziando la differenza con l’atteggiamento invalso nei secoli seguenti, quando il “diverso” sarà spesso associato a malvagità e timore. Visioni rappresentate, ad esempio, dallo “storpio” e machiavellico sovrano Riccardo III di Shakespeare; da Quilp, il “nano mostruoso” in agguato contro Little Nell nella Bottega dell’antiquario di Charles Dickens; dall’animo inaridito del capitano Achab del Moby Dick di Herman Melville, con una gamba sola; dal suo omologo assassino Long John Silver, nell’Isola del tesoro di Robert Louis Stevenson.

E ancora, il “deforme” e spietato Roger Chillingworth nella Lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne, il
Capitano Uncino ritratto da James Barrie nel Peter Pan, il “gobbo” di Notre Dame de Paris di Victor Hugo. Il campionario negativo delle persone menomate e con deformità è ricco quanto quello compassionevole, presente soprattutto nella letteratura infantile. Si pensi alla sopravvivenza finale del piccolo Tim nella Favola di Natale di Dickens, intenzionata a convincerci che il disagio della disabilità può sempre essere alleviato o risolto dalla filantropia.

Ma, ammonisce Fiedler, «altri racconti incentrati su guarigioni quasi miracolose (come Heidi e il Giardino Segreto) rivelano similitudini impressionanti con le storie basate sulla paura: è il desiderio che non esistano handicappati e che finalmente spariscano tutti».

Lorenzo Montemagno Ciseri, analizzando figure reali, mitologiche e letterarie identifica la dimensione come uno degli elementi determinanti del mostruoso: si pensi solo agli esseri giganteschi e minuscoli in cui si imbatte Gulliver. Tante soprattutto «le figure di giganti che caratterizzano il Medioevo occidentale, a cominciare da quella del mostruoso Grendel nemico dell’umanità e protagonista diabolico del Beowulf» per arrivare alla Commedia di Dante, che cristallizza più di ogni altra opera «nel nostro immaginario le figure dei mostri infernali».

Analoga morbosità, curiosità e interesse letterario si legano alle persone più piccole, come i Pigmei citati già in Omero, mentre Aristotele nei Problemi si interroga sul motivo che porta alla nascita di uomini nani
e, più in generale, di creature più grandi e più piccole, rispondendo che due sono i possibili motivi: lo spazio in cui si sviluppa l’embrione o il suo nutrimento. La poesia “Judge Selah Lively” tratta dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, nella trasposizione di Fabrizio De Andrè del 1971, descrive un nano con una famosa strofa che è forse la più feroce e fedele espressione dello stigma: «una carogna, di sicuro, perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo».

In altri casi l’atteggiamento è quanto meno formalmente diverso. Il reality show “Our Little Family”, in onda anche in Italia con il titolo di “Una famiglia extra small”, vede protagonista Michelle Hamill con i suoi
tre figli, tutti con nanismo. Sempre su Real Time ha avuto un notevole successo, tanto da aver già inanellato nove stagioni, “Questo piccolo grande amore”, serie che racconta la storia di Bill Klein e di Jennifer Arnold, una coppia di persone nane. E rimane nella memoria di tutti gli amanti del jazz il pianista Michel Antoine Petrucciani (1962-1999), con una osteogenesi imperfetta, patologia ereditaria nota come “sindrome delle ossa di cristallo”, spesso definito per contrappasso come un “gigante”.

Da osservare a margine come, con la pandemia di Covid-19, il mondo sia stato sconvolto dall’aggressività di microrganismi, mentre la letteratura distopica e fantascientifica preferisce immaginare nemici macroscopici, in genere più grandi e forti degli esseri umani.

Michel Foucault stabilisce un nesso tra il pregiudizio socio-culturale e le categorie etico-giuridiche:
Il mostro è una violazione delle leggi e della natura che fa cadere il modello di essere umano, la legge si trova davanti all’impossibilità di concettualizzare secondo natura ciò che egli è […] è un essere che non rientra nelle categorie morali e questo stravolge, allarma il diritto che non riesce a funzionare. L’ausilio arriva dal sapere medico che differenzia ciò che è mostruoso per natura, che è più giustificante, da ciò che è mostruoso per la condotta.

Ma anche l’approccio scientifico non risolve la questione, secondo Focault, poiché con le perizie psichiatriche «si seleziona una mostruosità morale e da qui parte la storia di questo concetto che ne porterà un altro: quello della perversione»


Su una tavoletta d’argilla babilonese risalente al 2800 a.C. si distingue tra mostri: per eccesso, ad esempio con sei dita; per difetto, cioè mancanti di un organo; doppi, come i gemelli siamesi. Non meno antiche sono le prime immagini del genere: la Venere di Willendorf, raffigura una donna steatopigia, cioè con una spiccata lordosi lombare.

Secondo Fiedler rappresentazioni simili sono frutto dell’osservazione di esseri umani con anomalie fisiche e per questo eretti a divinità: la famosa statuetta paleolitica simbolo di fertilità, risalente al 23.000-19.000 a.C., «ritrae con precisione quasi clinica» una donna obesa «diencefaloendocrina con ipertonia parasintomatica, sterilità e riduzione della libido», mentre «altri mostri, ritenuti per molto tempo puramente fantastici, possono essere stati dei tentativi di rappresentare anomalie riscontrabili soltanto nei feti abortiti».

La teoria è insomma che «l’osservazione delle malformazioni umane precedette la creazione dei mostri mitici». Nella maggior parte dei casi, però, le nascite di bambini con deformità venivano interpretate come presagio di malaugurio e portavano all’infanticidio. La stessa parola “mostro” porta con sé questa duplicità: il latino monstrum, cioè “segno degli dèi”, rimanda alla stessa radice di monstrare e di monere, ammonire, mettere in guardia.

Con l’Illuminismo la connotazione magico-religiosa del corpo mostruoso comincia a cedere all’analisi scientifica. In particolare Cesare Taruffi, professore di Anatomia patologica nell’Università di Bologna dal
1859 al 1894 e autore della prima “Storia della Teratologia” (dal greco τέρας, “mostro”), inaugura gli studi delle patologie legate a somatizzazioni corporee anomale. E proprio in questo periodo nasce anche il freak show, come se lo spettacolo facesse da versione popolare della speculazione scientifica.

Comunque anche nei secoli successivi e persino oggi, in una società scientificamente molto più avanzata, non di rado si scivola nello stesso ambiguo obiettivo di suscitare attrazione. Varie forme di spettacolarizzazione della diversità sono presenti nel cinema, nella televisione, nei nuovi media,
magari con l’intento di sensibilizzare i pubblici sul tema delle disabilità.

Marco Ferrazzoli, Francesca Gorini, Francesco Pieri, “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” (LuCe Edizioni 2019).

Marco Ferrazzoli, Francesca Gorini, Francesco Pieri, “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” (LuCe Edizioni 2019).

“Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” sul sito di LuCe Edizioni


La Vita è Sogno

Il principe Sigismondo vive rinchiuso in una torre per volere di suo padre. La sua esistenza si svolge sul filo tra sogno e realtà, senza la possibiltà di ricomporre questa dicotomia. In questo brano il principe descrive la propria condizione.

Sigismondo (solo)
So che esistiamo in mondo singolare
dove vivere è sognare…
e l’esperienza mi insegna
che l’uomo che vive sogna
fino a farsi ridestare….
Sogna il re il suo trono, e vive
nell’inganno… comandando…
disponendo e governando…
e l’applauso che riceve
in prestito… nel vento scrive….
e in cenere lo converte
la morte… sventura forte!
Chi ancora vorrà regnare…
dovendosi ridestare
nel sogno della morte?
Sogna il ricco la ricchezza…
che continui affanni gli offre…
sogna il povero… che soffre
la miseria e la tristezza….
sogna chi agli agi s’avvezza…
sogna chi nell’ansia attende…
sogna chi ferisce e offende…
e nel mondo… in conclusione…
sogna ognuno la passione…
ch’egli vive… e non lo intende…
Io sogno la prigionia
che mi tiene qui legato…
e sognai che un altro stato
mi rendeva l’allegria…
Che è la vita?… Frenesia…
Che è la vita?… Un’illusione…
solo un’ombra… una finzione…
e il maggiore bene… un bisogno
del nulla… la vita è un sogno…
e i sogni… non sono che sogni.

Pedro Calderón de la Barca

David Copperfield

Il brano antologizzato riguarda la terribile morte della prima moglie di David, Dora, che viene a mancare a causa di un aborto spontaneo.

Tento di trattenere le lacrime e di rispondere: «Oh, Dora, amor mio, eri adatta come lo ero io per essere un marito!»
«Non lo so,» e scuote ancora i riccioli come un tempo. «Forse! Ma se fossi stata più adatta al matrimonio, avrei reso più adatto anche te. Inoltre tu sei intelligente, e io non lo sono mai stata.»
«Siamo stati molto felici, Dora mia dolce.»
«Sono stata molto felice, molto. Ma, col passar degli anni, il mio caro ragazzo si sarebbe stancato della sua moglie-bambina. Sarebbe stata sempre meno un compagno per lui. E lui avrebbe sentito sempre più quello che mancava nella sua casa. Non sarebbe migliorata. È meglio che sia andata così.»
«Oh, Dora, cara, cara, non dirmi queste cose. Ogni tua parola mi sembra un rimprovero!»
«No, nemmeno una sillaba!» mi risponde baciandomi. «Oh, caro, non lo meriti, e io ti amo troppo per dirti una sola parola di rimprovero, davvero: è tutto il merito che ho avuto oltre al fatto di essere graziosa… o almeno tu mi consideravi tale. C’è molta solitudine da basso, Doady?»
«Tanta! Tanta!»
«Non piangere! C’è ancora la mia sedia?»
«Al suo solito posto.»
«Oh, come piange il mio povero ragazzo! Zitto, zitto! Adesso fammi una promessa. Voglio parlare ad Agnes. Quando scendi, dillo ad Agnes e mandamela su; e mentre le parlo non lasciar venire nessuno, nemmeno la zia. Voglio parlare solo ad Agnes. Voglio parlare ad Agnes da sola.»
Le prometto che verrà subito; ma, nel mio dolore, non posso lasciarla.
«Ho detto che è meglio che sia andata così!» mi mormora tenendomi fra le braccia. «Oh, Doady, fra qualche anno tu non avresti amato la tua moglie-bambina più di quanto la ami adesso; e dopo qualche anno ancora lei ti avrebbe così messo alla prova e deluso che tu non saresti stato capace di amarla nemmeno la metà di adesso! So che ero troppo giovane e stupidella. È molto meglio che sia andata così!»
Quando scendo in salotto, Agnes è lì; le comunico il messaggio. Scompare lasciandomi solo con Jip.
La sua pagoda cinese è accanto al fuoco; lui vi è sdraiato dentro, sul suo letto di flanella, tentando
lamentosamente di dormire. La luna brilla luminosa nell’alto. Mentre guardo fuori nella notte, le lacrime mi cadono copiose e il mio indisciplinato cuore è castigato duramente… molto duramente.
Mi siedo accanto al fuoco pensando con un sordo rimorso a tutti i segreti sentimenti che ho nutrito durante il mio matrimonio. Penso a ogni piccola cosa intervenuta fra me e Dora, e capisco la verità che di piccole cose è formata la nostra vita. Sempre risorge dal mare dei ricordi l’immagine della cara fanciulla quale l’avevo conosciuta dapprima, aggraziata dal mio giovane amore e dal suo, con tutte le magie di cui questo amore è ricco. Sarebbe stato davvero meglio se ci fossimo amati come due fanciulli e ci fossimo poi dimenticati? Indisciplinato cuore, rispondi!
Non so come il tempo trascorra; finché sono richiamato a me dal vecchio compagno della mia moglie-
bambina. Più inquieto del solito, si trascina fuori della sua casa, e mi guarda, e va incerto alla porta, e uggiola per salire.
«Non stanotte, Jip! Non stanotte!»
Torna molto lentamente verso di me, mi lecca la mano e alza verso il mio volto i suoi occhi appannati.
«Oh, Jip! Forse non avverrà mai più!»
Si abbandona ai miei piedi, si allunga come per dormire, e, con un grido lamentoso, muore.
«Oh, Agnes, guarda qui!»
…Quel volto, così pieno di pietà e di dolore, quel fluire di lacrime, quel terribile, silenzioso appello a me,
quella mano solenne levata verso il cielo!

Charles Dickens

Racconti

I brani che riportiamo sono tratti dal racconto La Morte dell’Impiegato; Červâkov starnutisce su un suo superiore: in un attacco di psicosi, egli muore.

Una bella sera, il non meno bello usciere giudiziario Ivan Dmitrič Červâkov se ne stava seduto in una
poltrona di seconda fila e guardava col binocolo le «Campane di Corneville». Guardava e si sentiva al colmo della beatitudine. Ma all’improvviso… Nei racconti si trova spesso questo «all’improvviso». Gli autori hanno ragione: la vita è così piena di cose inaspettate. Ma all’improvviso il suo volto si contrasse, gli occhi gli si storsero, il respiro gli si fermò… allontanò il binocolo dagli occhi e… apscì.!!! Starnutì, come vedete. A nessuno e in nessun luogo è proibito di starnutire. Starnutiscono i contadini, gli agenti di polizia e alle volte persino i consiglieri segreti. Tutti starnutiscono. Červâkov non si confuse per nulla, si asciugò la bocca e il naso col fazzoletto e, da uomo educato qual era, si guardò attorno per assicurarsi di non aver dato noia a nessuno. Ma allora sì che gli toccò di confondersi. Si accorse che un vecchietto seduto davanti a lui nella prima fila delle poltrone si asciugava accuratamente col guanto la calvizie e il collo, borbottando qualcosa. Červâkov lo riconobbe: era Sua Eccellenza il generale Bricàlov, un pezzo grosso del
Ministero delle comunicazioni.
[…]
«Sono stato qui ieri a disturbarvi,» balbettò egli quando il generale alzò su di lui lo sguardo interrogativo, «non per scherzare come avete detto voi. Per scusarmi sono venuto, perché con uno starnuto ho spruzzato… non pensavo affatto a scherzare. Come oserei scherzare? Se uno si permettesse di scherzare, dove sarebbe il rispetto dovuto alle persone di…?»
«Fuori di qui!» urlò ad un tratto il generale facendosi paonazzo in viso e tremando tutto.
«Come dite?» chiese Červâkov con voce tremante dal terrore.
«Fuori di qui!» ripeté il generale, pestando i piedi.
Červâkov sentì rompersi qualcosa nelle viscere. Non vedendo più nulla, non sentendo più nulla, indietreggiò fino alla porta, si trovò in istrada e trascinando i piedi s’incamminò. Arrivato macchinalmente a casa, senza togliersi la divisa, si sdraiò sul sofà e morì.

Anton Cechov