I pazzi salutano Clarisse

La tragica realtà di un reparto psichiatrico dove si intrecciano il lavoro del medico, di Clarisse, dei malati e di ciò che avviene nella loro mente.

Un “reparto tranquillo”, – spiegò il medico.

C’erano soltanto donne; avevano i capelli sciolti sulle spalle e i loro visi erano repulsivi, con lineamenti molli, enfiati, deformi.

Una di esser corse subito dal medico e gli consegnò una lettera.

E’ sempre la stessa storia, – disse Friedenthal e lesse forte:

-“Adolfo mio adorato! Quando vieni? Mi hai dimenticata?” –

La donna, più che sessantenne, ascoltava con aria ebete. – La spedirai subito, vero? – ella pregò – Certo! – promise il dotto Friedenthal e sotto i suoi occhi strappò la lettera ammiccando alla sorvegliante. Clarisse lo rimproverò: – Come può agire così? – esclamò con sdegno – I malati bisogna prenderli sul serio!

Venga via! – esortò Friedenthal. – Non mette conto di fermarsi qui. Se vuole le posso mostrare centinaia di lettere simili. Avrà osservato che la vecchia è rimasta indifferente quando ho strappato il suo biglietto.

Clarisse era allibita perché ciò che diceva il dottore era vero ma le sconvolgeva le idee.

(Cfr. Lechon, Il difficile problema del rispetto del paziente psichico)

sovente sono grandi artisti, molto moderni.

E ammalati? – dubitò Clarisse.

– Perché no? – sospirò Friedenthal pateticamente.

“Dunque anche un’arte rispettabile e rispettata come l’accademia ha una sorella rinnegata, defraudata e tuttavia quasi identica in manicomio?”

Nei letti della nuova stanza eran seduti o buttati una serie di orrori. Tutto di quei corpi era storto, imbrattato, contraffatto o paralitico. Dentature guaste. Teste ciondolanti. Crani troppo grandi, troppo piccoli e tutti deformi. Mascelle cascanti, colanti di saliva, bocche macinanti a vuoto, animalescamente, senza cibo né parole. (…)

Le sale dei gravemente affetti da idiozia sono fra gli spettacoli più raccapriccianti che si possan trovare nelle brutture di un manicomio, e Clarisse si sentì sprofondare in una tenebra fitta e spaventosa dove non distingueva più nulla.

Il dottor Friedenthal la seguiva spiegando: – Idiozia familiare amaurotica – Sclerosi ipertrofica tuberosa. – Idiozia timica.

Il generale che s’era stufato di vedere ebeti e lo stesso supponeva di Ulrich, guardò l’orologio e disse: – Dov’eravamo rimasti? 

il dottor Friedenthal (…)

Era abituato a quel, trantran. Ordine come in una caserma o in ogni altra comunità, alleviamento delle principali sofferenze e incomodi, prevenzione dei peggioramenti evitabili, ogni tanto un miglioramento, una guarigione: questi erano gli elementi della sua attività quotidiana. (…)

Adesso entriamo in un reparto di agitati, – annunziò Friedenthal, e già s’avvicinavano a uno schiamazzo, a un grido, che pareva erompere da un’immensa gabbia d’uccelli. (…)

Tutti i pazzi roteavano gli occhi e le braccia, eccitati e urlanti (…)

Alcuni erano liberi, altri erano legati all’orlo dei letti con cinghie che lasciavano pochissimo gioco alle mani. (…)

Infine il pazzo disse lentamente: – E’ il settimo figlio dell’Imperatore.

Stumm von Bordwehr diede una gomitata a Ulrich.

– Non è vero, – contraddisse Friendenthal, e continuando il gioco si rivolse a Clarisse coll’invito: – Gli dica lei stessa che s’inganna.

– Non è vero, amico mio, – mormorò Clarisse, che per la commozione quasi non riusciva a parlare.

Robert Musil

Trecani Enciclopedia Online

Robert Musil, “L’uomo senza qualità” (1930-1942)

Carmen Troiano

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