Alle soglie

In questo componimento Guido Gozzano, all’epoca molto malato , descrive l’inquietudine provocata dalle visite mediche alle quali viene sottoposto e l’arrendevolezza al possibile incontro con “quella Signora dall’uomo detta la Morte”.

I.

Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,

mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo,

pur chiuso nella tua nicchia, ti pare sentire di fuori

sovente qualcuno che picchia, che picchia… Sono i dottori.

Mi picchiano in vario lor metro spiando non so quali segni,

m’auscultano con gli ordegni il petto davanti e di dietro.

E sentono chi sa quali tarli i vecchi saputi… A che scopo?

Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli.

“Appena un lieve sussulto all’apice… qui… la clavicola…”

E con la matita ridicola disegnano un circolo azzurro.

“Nutrirsi… non fare più versi… nessuna notte più insonne…

non più sigarette… non donne… tentare bei cieli più tersi:

Nervi… Rapallo… San Remo… cacciare la malinconia;

e se permette faremo qualche radioscopia…”

II.

O cuore non forse che avvisi solcarti, con grande paura,

la casa ben chiusa ed oscura, di gelidi raggi improvvisi?

Un fluido investe il torace, frugando il men peggio e il peggiore,

trascorre, e senza dolore disegna su sfondo di brace

e l’ossa e gli organi grami, al modo che un lampo nel fosco

disegna il profilo d’un bosco, coi minimi intrichi dei rami.

E vedon chi sa quali tarli i vecchi saputi… A che scopo?

Sorriderei quasi, se dopo non fosse mestiere pagarli.

III.

Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,

mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo,

mio cuore dubito forte– ma per te solo m’accora –

che venga quella Signora dall’uomo detta la Morte.

(Dall’uomo: ché l’acqua la pietra l’erba l’insetto l’aedo

le danno un nome, che, credo, esprima una cosa non tetra.)

È una Signora vestita di nulla e che non ha forma.

Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma.

Tu senti un benessere come un incubo senza dolori;

ti svegli mutato di fuori, nel volto nel pelo nel nome.

Ti svegli dagl’incubi innocui, diverso ti senti, lontano;

né più ti ricordi i colloqui tenuti con guidogozzano.

Or taci nel petto corroso, mio cuore! Io resto al supplizio,

sereno come uno sposo e placido come un novizio.

Guido Gustavo Gozzano. “Alle soglie”. (I colloqui. Traves,1911)

L’Eilisir d’amore. “Udite, udite o rustici”

Atto primo, scena V.

Di questa opera lirica di Gaetano Donizzetti su libretto di Felice Romani, riportiamo la scena in cui il sedicente dottor Dulcamara si spaccia per medico di grande fama, sfoggiando i propri portentosi preparati.

“L’Elisir d’amore: Melodramma giocoso in due atti.” Libretto originale e integrale di F, Romani.

DULCAMARA:
Udite, udite, o rustici;
Attenti, non fiatate.
Io già suppongo e imagino
Che al par di me sappiate
Ch’io sono quel gran medico,
Dottore enciclopedico
Chiamato Dulcamara,
La cui virtù preclara,
E i portenti infiniti
Son noti all’universo … e in altri siti.
Benefattor degli uomini,
Riparator de’ mali,
In pochi giorni io sgombero,
Io spazzo gli ospedali,
E la salute a vendere
Per tutto il mondo io vo.
Compratela, compratela,
Per poco io ve la do. (…)

O voi matrone rigide,
Ringiovanir bramate?
Le vostre rughe incomode
Con esso cancellate.
Volete voi, donzelle,
Ben liscia aver la pelle?
Voi, giovani galanti,
Per sempre aver amanti?
Comprate il mio specifico,
Per poco io ve lo do.
Ei muove i paralitici;
Spedisce gli apopletici,
Gli asmatici, gli asfitici,
Gl’isterici, i diabetici,
Guarisce i timpanitidi,
E scrofole e rachitidi,
E fino il mal di fegato
Che in moda diventò.
Comprate il mio specifico,
Per poco io ve lo do. (…)

Ecco qua: così stupendo,
Sì balsamico elisire,
Tutta Europa sa ch’io vendo
Niente men di nove lire:
Ma siccome è pur palese,
Ch’io son nato nel paese,
Per tre lire a voi lo cedo:
Sol tre lire a voi richiedo;
Così chiaro è come il sole,
Che a ciascuno che lo vuole
Uno scudo bello e netto
In saccoccia io faccio entrar.
Ah! di patria il caldo affetto
Gran miracoli può far.

Gaetano Donizzetti e Felice Romani, 1832

Bianciardi, prefatore di Buzzati

Lo scrittore e giornalista Luciano Bianciardi realizza, per l’edizione di Mondadori del 1958 dei “Sessanta racconti” del collega Dino Buzzati, un testo breve e incentrato in gran parte sui due nei quali la malattia la fa da protagonista assoluta: “Sette piani” e “Una cosa che comincia per elle”. Evidenziando il crescente terrore che, in entrambi i casi, pervade chi ne è colpito


Si al settimo piano le forme leggerissime al sesto le leggere al quinto le poco gravi e così giù e giù. Al piano terreno i casi disperati. In tal modo si evitava che i malati leggerissimi come lui Giuseppe Corte fossero turbati dallo stato preagonico dei dannati. E i medici sorridenti lusinghieri tutti li a rassicurarlo che in un paio di settimane lo dimetteranno. Ma naturalmente va in tutt’altro modo. In capo a dieci giorni si presenta il capo-infermiere a chiedere in via puramente amichevole un trasferimento al piano di sotto. Qui al settimo le camere scarseggiano e ci sarebbe da sistemare una gentile signora con due bambini. Naturalmente il trasferimento che al nostro amico Corte non garba gran che non ha alcuna motivazione medica. È un semplice trasloco momentaneo. E lui ai compagni di degenza tiene a precisare che si trova in mezzo a loro per una questione puramente formale …

[…]

E la vita è sempre una cosa che comincia per elle. Rammenti tu l’uomo cui l’altro giorno chiedesti soccorso a spingere il tuo carro? Rammenti che aveva un campanello al collo? Tu credi dunque che fosse uno zingaro? Credi pure quel che ti pare ma intanto applicati ai-polsi queste due sanguisughe visto che hai bisogno di un salasso. Ebbene l’uomo che ti diede soccorso è una cosa che comincia per elle. È un lebbroso e ora anche tu sei un lebbroso una cosa che comincia per elle. E anche tu avrai un campanello al collo e ti verranno tolti tutti i tuoi beni te ne andrai in giro ramingo poi altri diventeranno lebbrosi come te ineluttabilmente.

Luciano Bianciardi

Dino Buzzati “Sessanta racconti”, Mondadori Milano (1958)

Manzoni il nichilista

Un saggio indaga in senso critico la religiosità del romanzo manzoniano, secondo l’autore del brano, “I promessi sposi” sono un’opera “pervasa da un micidiale nichilismo anticristiano”, del quale si ravvisano le tracce anche nella descrizione della peste. Una visione opposta a quella di Niccolò Tommaseo, secondo cui la contingenza drammatica ha il solo scopo di far emergere la pietas cristiana: “Il Manzoni trova in quel libro, raccolti intorno a Federigo, i fatti d’un potente senza nome, d’una monaca strana, d’una sommossa, d’una fame, d’una peste; e, nella peste, le cure di alcuni uomini pii”


Nella bolgia della peste succede qualcosa di diverso e di infinitamente più significativo ai nostri fini.
[…]
L’esito disastroso della processione viene letto dalla gente come una vittoria del diabolico che ha prevalso sugli attesi effetti magici della salma di San Carlo. In questo atteggiamento la morte non viene misteriosamente da Dio ma dal Demonio che si serve degli untori cioè del nostro prossimo.
[…]
L’esito del ricorso alla religione nella prova suprema della peste è qualcosa che va oltre la disfatta che ha i segni della pazzia un marchio peggiore di quello della peste. Lo spettacolo è quello di un’intera città di un’intera comunità umana che lotta non contro la peste ma contro un nemico invisibile insidioso inafferrabile perché alleato del Demonio: gli untori le streghe.
[…]
Non c’è cenno di solidarietà cristiana: la comunità cristiana non esiste. I “cristiani” si mettono assieme solo per la processione che appare uno dei punti culminanti del delirio. Ancora una volta: perché la peste ha generato tutte le follie dell’odio e non quelle della carità? Perché l’enorme energia che si sprigiona nelle catastrofi non prende la strada dell’amore? Perché tanta paura del Demonio se Cristo è con noi? Perché i pastori lasciano andare il gregge allo sbando in questo modo? Dov’è la Provvidenza?
[…]
Non solo dicevamo i monatti sono in una numerosa compagnia. Ciò che produce il salto quantitativo è l’entrata in scena di altre decine di migliaia di feroci saccheggiatori che assieme ai monatti si avvengano su un’umanità indifesa esercitando su di essa una violenza che possiede quei connotati sadici e vigliacchi di cui abbiamo detto: i soldati che calano in massa e dirigendosi verso meridione attraversano e devastano la Lombardia.
[…]

Aldo Spranzi


“L’altro Manzoni”, Ares (2008)

‘e cecate ‘e Caravaggio

Versione Audio della poesia interpretata da Eduardo De Filippo

Dimme na cosa. T’ allicuorde tu
e quacche faccia ca p”o munno e’ vista,
mo ca pe’ sempe nun ce vide cchiù?

Sì, m’ allicordo; e tu?-No, frato mio;
io so’ nato cecato. Accussì ncielo,
pe mme murtificà, vulette Dio…

Lassa sta’ Dio!…Quant’ io ll’ aggio priato,
frato, nun t”o puo’ manco mmaggenà,
e dio m’ ha fatto addeventà cecato. (…)

E’ overo ca fa luce pe la via
‘o sole?…E comm’ è ‘o sole?-‘O sole è d’ oro,
comme ‘e capille ‘e Serrafina mia…


Serrafina?…E chi è? Nun vene maie?
Nun te vene a truvà?-Sì…quacche vota…
E comm’ è? Bella assaie?-Sì…bella assaie…


Chillo ch’ era cecato ‘a che nascette
Suspiraie. Suspiraie pure chill’ ato,
e ‘a faccia mmiezz’ ‘e mmane annascunnette.


Dicette ‘o primmo, doppo a nu mumente:
–Nun te lagnà, ca ‘e mammema carnale
io saccio ‘a voce…’a voce sulamente…

E se stettero zitte. E attuorno a lloro
addurava ‘o ciardino, e ncielo ‘o sole
luceva, ‘o sole bello, ‘o sole d’ oro…

Salvatore Di Giacomo.”‘ e ciecat ‘e Caravaggio”. (Suniette antiche, voce luntane, Mephite, 2010)

Cristo si e’ fermato a Eboli
(foto Archivio Cameraphoto Epoche/Getty Images)

Carlo Levi era laureato in medicina, ma trascurò presto la professione per dedicarsi alla pittura e alla letteratura. Venne condannato poi al confino in Lucania (dove risiedette nel 1935 e nel 1936) perché ritenuto oppositore del fascismo. Qui scopre il problema meridionale e nasce l’autobiografico “Cristo si è fermato a Eboli”.

In paese si diffonde la notizia che il confinato è un medico. I contadini, che non ripongono fiducia nei due “medicaciucci” Gibilisco e Milillo, lo interpellano sovente per consulenze mediche. Levi all’inizio avrebbe voluto evitare di occuparsi di malati, ma “capii subito che non avrei potuto resistere a lungo nel suo proposito”.

Non mi svegliarono, di primo mattino, le campanelle dei greggi, come a Grassano, perché qui non vi sono pastori, né pascoli, né erba; ma il rumore continuato degli zoccoli degli asini sulle pietre della strada, e il belar delle capre. È l’emigrazione quotidiana: i contadini si levano a buio, perché devono fare chi due, chi tre, chi quattro ore di strada per raggiungere il loro campo, verso i greti malsani dell’Agri e del Sauro, o sulle pendici dei monti lontani. La stanza era piena di luce: il berretto con le iniziali non c’era più. Il mio compagno doveva essere uscito all’alba, per portare i conforti della Legge nelle case dei contadini, prima che quelli partissero per la campagna; e a quest’ora forse già correva, col cappello sfavillante sotto il sole, e il clarinetto, e una capra al guinzaglio, sulla strada di Stigliano. Dall’uscio mi giungeva un suono di voci femminili e un pianto di bambino. Una diecina di donne, con i bimbi in collo o per mano, aspettavano, pazienti, la mia levata. Volevano mostrarmi i loro figli, perché li curassi. Erano tutti pallidi, magri, con dei grandi occhi neri e tristi nei visi cerei, con le pance gonfie e tese come tamburi sulle gambette storte e sottili. La malaria, che qui non risparmia nessuno, si era già insediata nei loro corpi denutriti e rachitici.

Io avrei voluto evitare di occuparmi di malati, perché non era il mio mestiere, perché conoscevo la mia poca competenza, e sapevo che, facendolo, sarei entrato, e la cosa non mi sorrideva, nel mondo stabilito e geloso degli interessi dei signori del paese. Ma capii subito che non avrei potuto resistere a lungo nel mio proposito. Si ripeté la scena del giorno precedente. Le donne mi pregavano, mi benedivano, mi baciavano le mani. Una speranza, una fiducia assoluta era in loro. Mi chiedevo che cosa avesse potuto generarle. Il malato di ieri era morto, e io non avevo potuto far nulla per evitarne la morte: ma le donne dicevano che avevano visto che io non ero, come gli altri, un medicaciucci, ma ero un cristiano bono e avrei guarito i loro figliuoli. Era forse il prestigio naturale del forestiero che viene da lontano, e che è perciò come un dio; o piuttosto si erano accorte che, nella mia impotenza, mi ero tuttavia sforzato di far qualcosa per il moribondo e l’avevo guardato con interesse, e con reale dispiacere? Ero stupito e vergognoso di questa fiducia, tanto piena quanto immeritata. Congedai le donne con qualche consiglio, ed uscii, dietro a loro, dalla stanza ombrosa nella luce abbagliante del mattino. Le ombre delle case erano nere e ferme, il vento caldo che saliva dai burroni sollevava nuvole di polvere: nella polvere si spidocchiavano i cani. Volevo riconoscere i miei confini, che erano strettamente quelli dell’abitato: fare un primo viaggio di circumnavigazione della mia isola: le terre, attorno, dovevano restare, per me, uno sfondo non raggiungibile oltre le colonne d’Ercole podestarili. La casa della vedova è all’estremità alta del paese su uno slargo che termina, in fondo, alla chiesa, una piccola chiesetta bianca, appena più grande delle case. Sull’uscio stava l’Arciprete, occupato a minacciare con un bastone un gruppo di ragazzi che, a qualche passo di distanza, gli facevano boccacce e sberleffi, e si chinavano a terra, nell’atto di volergli gettare delle pietre. Al mio arrivo i ragazzi scapparono come passeri; il prete li seguì con lo sguardo corrucciato, brandendo il bastone e gridando: – Maledetti, eretici, scomunicati! È un paese senza grazia di Dio, questo, – disse poi, rivolgendosi a me. – In chiesa ci vengono i ragazzi, per giocare. Ha visto? Se no, non ci viene nessuno. La messa la dico ai banchi. Neppure battezzati, sono. E i frutti di quelle poche terre, non c’è verso di farseli pagare. Non ho ancora avuti quelli dell’anno passato. Sono tutti fior di galantuomini, davvero, in questo paese, se ne accorgerà.

Era un vecchio piccolo e magro, con degli occhiali di ferro a stanghetta su un naso affilato, all’ombra del pendaglio rosso che scendeva dal cappello, e dietro agli occhiali degli occhietti pungenti, che passavano rapidamente da una fissità ossessionata a un brillare brusco di arguzia. La bocca sottile gli cascava in una piega di abituale amarezza. Sotto all’abito sporco e sdrucito, pieno di frittelle e sbottonato, spuntavano gli stivali scalcagnati e pieni di polvere. Da tutto il suo aspetto spirava un’aria stanca di miseria mal sopportata; come le rovine di una catapecchia incendiata, nera e piena di erbacce. Don Giuseppe Trajella non era amato da nessuno in paese, e dai signori del luogo, l’avevo sentito la sera prima nella loro conversazione, era addirittura esecrato. Gli facevano ogni sorta di villanie, gli aizzavano contro i ragazzi, si lagnavano di lui col prefetto e col Vescovo. – L’Arciprete, se ne guardi, – mi aveva detto il podestà. – È una disgrazia per il nostro paese: una profanazione della casa di Dio. È sempre ubriaco. Non ci è ancora stato possibile liberarcene, ma speriamo di poterlo presto cacciar via. Almeno a Gaglianello, la frazione che è la sua vera sede. È qui da parecchi anni, per punizione. Lo hanno mandato a Gaglianello, lui che era professore di Seminario, per castigo. Si permetteva certe libertà con gli allievi, lei mi capisce. A Gagliano ci sta per abuso, perché non ce n’è un altro. Ma è un castigo per noi -.

Povero don Trajella! Se anche il diavolo lo aveva tentato nei suoi giovani anni, questa era ormai una cosa antica e dimenticata. Ora egli non si reggeva quasi in piedi, non era che un povero vecchio perseguitato e inasprito, una pecora nera e malata in un gregge di lupi. Ma, lo si capiva anche nella sua decadenza, ai bei tempi in cui insegnava teologia al Seminario di Melfi e a quello di Napoli, don Giuseppe Trajella da Tricarico doveva essere stato un uomo buono, intelligente, pieno di spirito e di risorse. Scriveva vite di santi, dipingeva, scolpiva, si occupava vivacemente delle cose del mondo. L’improvvisa disgrazia lo aveva colpito, lo aveva staccato da tutto e l’aveva buttato, come un relitto, su quella lontana spiaggia inospitale. Egli si era lasciato cadere a picco, godendo amaramente di fare più grande la propria miseria. Non aveva più toccato un libro né un pennello. Gli anni erano passati, e di tutte le antiche passioni una sola era rimasta, e aveva preso il carattere della fissazione: il rancore. Trajella odiava il mondo, perché il mondo lo perseguitava. Si era ridotto a vivere solo, senza parlare con nessuno, nella sola compagnia di sua madre, una vecchia di novant’anni, inebetita e impotente. Il suo solo conforto (oltre alla bottiglia, forse) era di passare il giorno a scrivere epigrammi latini contro il podestà, i carabinieri, le autorità e i contadini. – È un paese di asini, questo, non di cristiani, – mi disse, invitandomi a entrare con lui nella chiesa. – Lei sa il latino, vero?

Gallianus, Gallianellus Asinus et asellus Nihil aliud in sella Nisi Joseph Trajella. La chiesa non era che uno stanzone imbiancato a calce, sporco e trasandato, con in fondo un altare disadorno su un palco di legno, e un piccolo pulpito addossato a una parete. I muri, pieni di crepe, erano ricoperti da vecchi quadri secenteschi dalle tele scrostate e piene di strappi, malamente appesi in disordine in parecchie file.

– Questi vengono dalla vecchia chiesa: sono le uniche cose che abbiamo potuto salvare. Li guardi, lei che è pittore. Ma non valgono molto. Questa d’ora non era che una cappella. La vera chiesa, la Madonna degli Angeli, era in basso, all’altra estremità del paese, dove c’è la frana. La chiesa è crollata improvvisamente, è cascata nel burrone, tre anni fa. Per fortuna era notte, l’abbiamo scampata bella. Qui ci sono continuamente le frane. Quando piove, la terra cede e scivola, e le case precipitano. Ne va giù qualcuna tutti gli anni. Mi fanno ridere con i loro muretti di sostegno. Fra qualche anno questo paese non esisterà più. Sarà tutto in fondo al precipizio. Pioveva da tre giorni quando è caduta la chiesa. Ma tutti gli inverni è la stessa cosa: qualche disastro, piccolo o grosso, avviene tutti gli anni, qui come in tutti gli altri paesi della provincia. Non ci sono alberi né rocce, e l’argilla si scioglie, scorre in basso come un torrente, con tutto quello che c’è sopra. Vedrà quest’inverno, anche lei. Ma le auguro di non essere più qui allora. La gente è peggio della terra. Profanum vulgus -. Gli occhi dell’Arciprete brillavano dietro gli occhiali. – Abbiamo dovuto accontentarci di questa vecchia cappella. Non c’è campanile, la campana è fuori, attaccata a un sostegno. Bisognerebbe anche rifare il tetto, ci piove. S’è dovuto anche puntellarla. Vede che crepe nei muri? Ma i denari, chi me li dà? La chiesa è povera, e il paese e poverissimo: e poi non sono cristiani, non hanno religione. Non mi portano nemmeno i regalucci d’uso, figuriamoci per fare il campanile. E il podestà, don Luigi, e gli altri, sono d’accordo a non lasciar far nulla. Loro fanno i farmacisti. Vedrà, vedrà, le loro opere pubbliche! Il mio cane Barone, inconsapevole della maestà del luogo, si affacciava all’uscio, stanco di aspettarmi, abbaiando allegro, e non mi riusciva di scacciarlo o di farlo tacere.

Presi allora congedo da don Trajella; e mi avviai, per la stessa strada a sinistra della chiesa che avevo percorso il giorno prima arrivando, verso le prime case del paese. Era questa la zona che mi era apparsa, il giorno avanti, passando rapido in automobile, accogliente e quasi gentile d’alberi e di verde. Ma ora, sotto il sole crudo del mattino, pareva che il verde si fosse dissolto nel grigio abbagliante dei muri e della terra. Era un gruppo di case costruite in disordine ai lati della strada, con attorno degli orticelli stenti e qualche magro olivo. Quasi tutte le case erano costituite da una sola stanza, senza finestre, che prendeva luce dalla porta. Le porte erano sbarrate, poiché i contadini erano nei campi: a qualche soglia stavano sedute delle donne con i bambini in grembo, o delle vecchie che filavano la lana; e tutte mi salutavano con un gesto, e mi seguivano con i grandi occhi spalancati. Qua e là alcune case avevano invece un primo piano, e un balcone; e la porta di strada, invece di essere di vecchio legno nero e consumato, brillava pretensiosamente di vernice, e si adornava di una maniglia di ottone. Erano le case degli «americani». In mezzo alle catapecchie contadine stava una casetta lunga e stretta, a un piano, costruita da poco nello stile cosiddetto moderno, quello dei sobborghi delle città, era la caserma dei carabinieri. Sulla strada e attorno alle case, nei mucchi di spazzature e di rifiuti, le scrofe, circondate dalle loro famiglie di maialini, dal viso di vecchietti avidi e libidinosi, grufolavano diffidenti e feroci, e Barone ringhiava rinculando, sollevando il labbro sulle gengive, coi peli ritti di uno strano orrore. Dopo l’ultima casa del paese, dove la strada, superata una selletta, comincia a scendere verso il Sauro, c’era un breve spiazzo di terra disuguale, coperta a tratti di un’erba gialla e intristita. Era il campo sportivo, opera del podestà Magalone. Qui dovevano esercitarsi i ragazzi della Gil, e si dovevano fare le adunate di popolo. A sinistra un sentiero saliva ancora su un poggio poco distante coperto di ulivi e terminava a un cancelletto di ferro, aperto tra due pilastrini che si continuavano in un muretto basso di mattoni. Dietro il muretto spuntavano due sottili cipressi; attraverso il cancello si vedevano le tombe, bianche sotto il sole. Il cimitero era il limite estremo, in alto, del terreno che mi era concesso. La vista di lassù era più larga che da ogni altro punto, e meno squallida. Non si vedeva tutto Gagliano, che sta nascosto come un lungo serpente acquattato fra le pietre; ma i tetti rosso-gialli della parte alta apparivano fra le fronde grige degli ulivi mosse dal vento, fuori della consueta immobilità, come cose vive; e, dietro questo primo piano colorato, le grandi distese desolate delle argille sembravano ondulare nell’aria calda come sospese al cielo; e sopra il loro monotono biancore passava l’ombra mutevole delle nubi estive. Le lucertole stavano immobili sul muro assolato; una, due cicale si rispondevano a tratti, come provando un canto, e poi tacevano improvvise.

Poiché di qui mi era vietato continuare, mi volsi al ritorno, scendendo rapido al paese per la strada percorsa; ripassai davanti alla chiesa, alla casa della vedova, e, giù per la discesa, arrivai all’ufficio postale, e al muretto della Fossa del Bersagliere. Il podestà, maestro di scuola, era in quel momento nell’esercizio delle sue funzioni di insegnante. Stava seduto al balcone della sua classe, e fumava guardando la gente sulla piazza, e interpellando democraticamente tutti i passanti. Aveva in mano delle lunghe canne, con le quali, ogni tanto, ristabiliva l’ordine senza muoversi dalla seggiola attraverso la finestra aperta, colpendo, con un colpetto abilissimo e ben aggiustato, la testa o le mani dei ragazzi che, lasciati soli, facevano troppo chiasso. – Bella giornata, dottore! – mi gridò dal suo arengo, quando mi vide comparire sulla piazza. Di lassù, con le sue bacchette in mano, egli si sentiva veramente il padrone del paese, un padrone affabile, popolare e giusto; e nulla poteva sfuggire alla sua vista. – Non l’avevo ancora veduto, stamattina. Dov’è stato? A passeggiare? Su, fino al cimitero? Bravo, bravo, passeggi, passeggi! Si diverta. E si trovi qua in piazza dopo colazione, alle cinque e mezzo. Prima dormirà, credo. Le voglio far conoscere mia sorella. Dove va? A Gagliano di Sotto? A cercare alloggio? Mia sorella glielo troverà, non si preoccupi. Per un uomo come lei non ci vuole una casa di contadini. Ma le troveremo meglio, dottore! E buona passeggiata!-

Dopo la piazza, la strada risaliva, superava un costone, e ridiscendeva in un’altra minuscola piazzetta, circondata di case basse. In mezzo alla piazza si ergeva uno strano monumento, alto quasi quanto le case, e, nell’angustia del luogo, solenne ed enorme. Era un pisciatoio: il più moderno, sontuoso, monumentale pisciatoio che si potesse immaginare; uno di quelli di cemento armato, a quattro posti, con il tetto robusto e sporgente, che si sono costruiti soltanto in questi ultimi anni nelle grandi città. Sulla sua parete spiccava come una epigrafe un nome familiare al cuore dei cittadini: «Ditta Renzi – Torino». Quale bizzarra circostanza, o quale incantatore o quale fata poteva aver portato per l’aria, dai lontani paesi del nord, quel meraviglioso oggetto, e averlo lasciato cadere, come un meteorite, nel bel mezzo della piazza di questo villaggio, in una terra dove non c’è acqua né impianti igienici di nessuna specie, per centinaia di chilometri tutto attorno? Era l’opera del regime, del podestà Magalone. Doveva essere costato, a giudicare dalla sua mole, le entrate di parecchi anni del comune di Gagliano. Mi affacciai al suo interno: da un lato un maiale stava bevendo l’acqua ferma nel fondo del vaso, dall’altra due ragazzi ci buttavano barche di carta. Nel corso di tutto l’anno non lo vidi mai adibito ad altra funzione, né abitato da altri che non fossero maiali, cani, galline, o bambini; se non la sera della festa della Madonna di settembre, in cui alcuni contadini si arrampicarono sul suo tetto per meglio godere, da quell’altezza, lo spettacolo dei fuochi artificiali. Una sola persona lo usò spesso per l’uso per cui era stato costruito; e quella persona ero io: e non l’usavo, debbo confessarlo, spinto dal bisogno, ma mosso dalla nostalgia. A un angolo della piazzetta, dove quasi giungeva l’ombra lunga del monumento, uno zoppo, vestito di nero, con un viso secco, serio, sacerdotale, sottile come quello di una faina, soffiava come un mantice nel corpo di una capra morta. Mi fermai a guardarlo. La capra era stata ammazzata poco prima, lì sulla piazzetta, e sdraiata sopra un tavolaccio di legno su due cavalletti. Lo zoppo, senza tagliarne altrove la pelle, aveva fatto una piccola incisione in una delle zampe di dietro, vicino al piede, e all’incisione aveva posto la bocca, e a forza di polmoni andava gonfiando la capra, staccandone la pelle dalla carne. A vederlo così attaccato all’animale, che andava a mano a mano mutando e crescendo, mentre l’uomo, senza mutare contegno, pareva assottigliarsi e svuotarsi di tutto il suo fiato, sembrava di assistere a una strana metamorfosi, dove l’uomo si versasse, a poco a poco, nella bestia. Quando la capra fu gonfia come una mongolfiera, lo zoppo, stringendo con una mano la zampa, staccò finalmente la bocca dal piede dell’animale, e se la pulì con la manica; poi, rapidamente, si pose a rovesciare la pelle della capra, come un guanto che si sfili, fino a che la pelle, intera, fu tutta sgusciata, e la capra, nuda e spelata come un santo, rimase sola sul tavolaccio a guardare il cielo.

– Così non si sciupa, si possono farne degli orci, – mi spiegò lo zoppo, pieno di sussiego, mentre un ragazzo docile e taciturno, suo nipote, lo aiutava a squartare la bestia. – Quest’anno c’è parecchio lavoro. I contadini ammazzano tutte le capre. Per forza. La tassa chi può pagarla?-

Pare infatti che il governo avesse da poco scoperto che la capra e un animale dannoso all’agricoltura, poiché mangia i germogli e i rami teneri delle piante: e aveva perciò fatto un decreto valido ugualmente per tutti i comuni del Regno, senza eccezione, che imponeva una forte imposta su ogni capo, del valore all’incirca della bestia. Così, colpendo le capre, si salvavano gli alberi. Ma a Gagliano non ci sono alberi, e la capra è la sola ricchezza del contadino, perché campa di nulla, salta per le argille deserte e dirupate, bruca i cespugli di spine, e vive dove, per mancanza di prati, non si possono tenere né pecore né vitelli. La tassa sulle capre era dunque una sventura: e, poiché non c’era il denaro per pagarla, una sventura senza rimedio. Bisognava uccidere le capre, e restare senza latte e senza formaggio. Lo zoppo era un proprietario decaduto, ma fiero tuttavia della sua posizione sociale, che per campare faceva molti mestieri; e fra l’altro era suo compito il sacrificio delle capre. Grazie al provvido decreto ministeriale potei, quell’anno, trovar spesso da lui della carne: negli anni precedenti, mi disse, mi sarei dovuto accontentare di mangiarla molto di rado. Egli si occupava anche di amministrare i beni di qualche proprietario che non abitava in paese, sorvegliava i contadini, faceva da sensale nelle vendite, metteva mano ai matrimoni, conosceva tutto e tutti; e non c’era avvenimento o fatterello dove non si vedesse comparire silenziosamente la sua gamba zoppa, il suo abito nero e il suo viso volpino. Era curiosissimo, ma, nelle parole, riservato: le sue frasi si fermavano a mezzo, a lasciare intendere che egli sapeva molto più che non dicesse; e sempre con un che di solenne e dignitoso, e terribilmente serio, quasi a smentire il suo cognome, Carnovale. Come seppe che cercavo un alloggio e possibilmente abbastanza grande e luminoso da poterci dipingere, rifletté un poco, con aria concentrata, e mi disse che c’era il palazzo dei suoi cugini che io forse conoscevo, perché erano dei grandi dottori di Napoli. Avrei forse potuto averne una parte, due o tre stanze: avrebbe subito scritto in città: sarebbe stata per me una fortuna, era la sola casa che potesse convenirmi. Era vuota, ma un letto e gli altri mobili necessari me li avrebbe potuti affittare lui. Se intanto volevo visitarlo, mi avrebbe subito fatto accompagnare dal nipote con le chiavi. Mi avviai col ragazzo, anche lui nero, triste e compassato come lo zio. La strada scendeva ancora dopo la piazzetta, finché arrivava ad un punto dove i due burroni di destra e di sinistra non lasciavano più posto per le case, e lì scorreva sullo stretto ciglione fra due muretti bassi, al di là dei quali l’occhio si perdeva nel vuoto. Era un intervallo di un centinaio di metri fra Gagliano alta e Gagliano bassa; e qui, fra le due gole, il vento soffiava violento in perpetuità. Verso il mezzo di questo intervallo, in un punto dove il ciglione si allargava un poco, c’era una delle due sole fontanelle del paese: l’altra l’avevo vista in alto, vicino alla chiesa. La fontanella, che dava l’acqua per tutta Gagliano di Sotto e per buona metà di Gagliano di Sopra, era allora affollata di donne, come la vidi poi sempre, in tutte le ore del giorno. Stavano in gruppo, attorno alla fontana, alcune in piedi, altre sedute per terra, giovani e vecchie, tutte con una botticella di legno sul capo, e la brocca di terra di Ferrandina. Ad una ad una si avvicinavano alla fontana, e aspettavano pazienti che l’esile filo d’acqua riempisse gorgogliando la botte: l’attesa era lunga. Il vento muoveva i veli bianchi sui loro dorsi diritti, tesi con naturalezza nell’equilibrio del peso. Stavano immobili nel sole, come un gregge alla pastura; e di un gregge avevano l’odore. Mi giungeva il suono confuso e continuo delle voci, un sussurrare ininterrotto. Al mio passaggio nessuna si mosse, ma mi sentii colpito da diecine di sguardi neri, che mi seguirono fermi e intensi, finché, superato l’intervallo, ricominciai a salire per giungere alle case di Gagliano di Sotto, che ridiscende poi fino alla chiesa diroccata e al precipizio. Giungemmo in breve al palazzo: e davvero era la sola costruzione, in paese, che potesse portare questo nome. Di fuori aveva un aspetto tetro con i suoi muri nerastri e le piccole finestre ferrate, e i segni di un secolare abbandono. Era la vecchia dimora di una famiglia nobile che da molto tempo aveva emigrato. Era stata poi adibita a caserma dei carabinieri, che l’avevano lasciata per la nuova sede modernizzante. Del passaggio dei militi serbava nell’interno i ricordi, nella sporcizia e nello squallore delle pareti. C’erano ancora le celle di sicurezza, ricavate dividendo un salone, buie, con le bocche di lupo alle finestrelle e i grandi catenacci alle porte. Ma le porte, gonfiate dall’acqua e dai geli, non chiudevano più; i vetri delle finestre erano tutti rotti, uno spesso strato di polvere, portata dal vento, copriva ogni cosa. Dal soffitto, dorato e dipinto, pendevano lembi di pittura e ragnatele; i pavimenti di pietra bianca e nera a disegno erano sconnessi, e qualche grigio filo d’erba cresceva negli interstizi. Al nostro ingresso nelle sale eravamo accolti da un rumore rapido e furtivo, come di animali che corressero impauriti nei loro nascondigli. Spalancai una porta-finestra, mi affacciai a un balcone, dalla pericolante ringhiera settecentesca di ferro, e, venendo dall’ombra dell’interno, rimasi quasi accecato dall’improvviso biancore abbagliante. Sotto di me c’era il burrone; davanti, senza che nulla si frapponesse allo sguardo, l’infinita distesa delle argille aride, senza un segno di vita umana, ondulanti nel sole a perdita d’occhio, fin dove, lontanissime, parevano sciogliersi nel cielo bianco. Nessun’ombra svariava questo immobile mare di terra, divorato da un sole a picco. Era mezzogiorno, ora di rientrare.

Come avrei potuto vivere in questa rovina nobiliare? Tuttavia, il luogo aveva un suo triste incanto: avrei potuto passeggiare sulle pietre sconnesse dei saloni, e preferivo, per compagnia delle mie notti, i pipistrelli agli ufficiali esattoriali e alle cimici della vedova. Forse, pensavo, avrei potuto far rimettere i vetri, farmi arrivare da Torino una zanzariera per proteggermi dalla malaria, e ridar vita ai muri arcigni e cadenti del palazzo. Dissi allo zoppo che mi aspettava sulla piazzetta con la sua capra squartata, che scrivesse a Napoli, e risalii verso casa.

Arrivato al muretto della Fossa del Bersagliere, sulla piazza, vidi un giovane biondo, alto e aitante, con una camicia cittadina dalle maniche corte, uscire dall’usciolo di una catapecchia portando in mano un piatto di spaghetti fumanti, traversare la piazza, posare il piatto sul muretto lanciando un fischio di richiamo, e rientrare poi rapidamente di dove era venuto. Mi fermai incuriosito a guardare di lontano quella pastasciutta abbandonata. Subito, da una casa di faccia, uscì un giovane alto, bruno questo, e bellissimo, con un viso pallido e malinconico, vestito di un abito grigio di taglio elegante. Andò al muretto, prese il piatto degli spaghetti e ritornò sui suoi passi. Giunto sulla soglia, lanciò un’occhiata circospetta alle finestre e alla piazza deserta, si volse verso di me, sorrise, mi fece con la mano un amichevole cenno di saluto, e subito, chinandosi per passare nella porticina bassa, scomparve in casa.

Don Cosimino, il gobbetto della posta, stava chiudendo il suo ufficio, e dal suo angolo nascosto aveva visto tutto come me. Si accorse del mio stupore, e mi fece col capo un cenno d’intesa; io lessi la simpatia nei suoi occhi tristi e arguti. – Questa scena, – mi disse, – avviene tutti i giorni a quest’ora. Sono due confinati come lei. Quello biondo è un muratore comunista di Ancona, un ottimo ragazzo. L’altro è uno studente di scienze politiche di Pisa. Era ufficiale della Milizia, e comunista anche lui. È di famiglia modesta, ma non gli danno il sussidio perché sua madre e sua sorella sono maestre, e perciò, dicono, hanno i mezzi per mantenerlo. Prima i confinati potevano stare assieme, ma da qualche mese don Luigi Magalone ha dato l’ordine che non debbano neppure vedersi. Quei due, che facevano cucina comune per economia, ora sono costretti a preparare il pranzo a turno, un giorno per uno, e a portare i piatti sul muretto, dove l’altro li va a prendere quando il primo è già rientrato in casa. Se no, se si incontrassero, chissà che pericolo per lo Stato!- C’eravamo incamminati insieme su per la salita: don Cosimino abitava non lontano dalla casa della vedova, con la moglie e parecchi bambini. – Don Luigi ci bada molto a queste cose. Lui è per la disciplina. Le pensano insieme, lui e il brigadiere. Con lei spero sarà diverso. Ma ad ogni modo non se la prenda, dottore! – Don Cosimino mi guardava di sotto in su, consolatore. – Hanno la mania di fare i poliziotti, e vogliono saper tutto. Il muratore ha avuto, anche delle noie. Parlava con dei contadini, e cercava di spiegare le teorie di Darwin, che l’uomo deriva dalla scimmia. Io già non sono darvinista, – e don Cosimino sorrideva arguto, – ma non ci vedo nulla di male, se qualcuno ci crede. Don Luigi lo è venuto a sapere, naturalmente. E ha fatto una scenata terribile. L’avesse sentito gridare! Ha detto al muratore che le teorie di Darwin sono contro la religione cattolica, che il cattolicismo e il fascismo sono una cosa sola, e che perciò parlare di Darwin è fare dell’antifascismo. E ha scritto anche a Matera, alla questura, che il muratore faceva propaganda sovversiva. Ma i contadini gli vogliono bene. È gentile e sa far di tutto -. Eravamo arrivati a casa sua. – Stia di buon umore, – mi disse. – Lei è appena arrivato, e si deve abituare. Ma tutto questo passerà. –

Quasi timoroso di aver detto troppo, questo angelo gobbo mi salutò bruscamente e mi lasciò.

Carlo Levi, “Cristo si è fermato a Eboli”. (Einaudi 1945).

Henrietta Lacks, questione di cellule

Nella sua ‘Vita immortale’, Rebecca Skloot racconta le vicende straordinarie dell’afroamericana che, ammalatasi di cancro, regalò inconsapevolmente alla scienza le cellule ‘immortali’ ancora oggi utilizzate nella ricerca su molte malattie


Unisce il meglio di diversi generi letterari, come accade sempre più frequentemente nelle opere recenti di maggiore successo, questa ‘Vita immortale di Henrietta Lacks’. Rebecca Skloot vi ha dedicato l’impegno di una biografa appassionata, rendendo la vita della protagonista con uno stile narrativo avvincente ma che non fa alcuno sconto, anzi, agli aspetti scientifici della vicenda.
Henrietta Lacks è una donna di colore vissuta negli Stati Uniti degli anni ’40 tra razzismo esplicito, infedeltà coniugali, gelosie immotivate e una fede fortissima. Avvenente, quasi analfabeta, passa la sua breve esistenza tra le piantagioni di tabacco di Baltimora, quasi a rammentarle le origini di schiavitù che la segnano.
La sua storia sarebbe già di per sé umanamente ricca e interessante, ma a renderla straordinaria è purtroppo l’esito post mortem. Henrietta si ammala di cancro della cervice uterina a poco più di 30 anni e viene curata in modo approssimativo, a causa delle conoscenze mediche ancora imperfette e dei molti pregiudizi vigenti contro le donne e gli afroamericani: una mancanza di rispetto che porta i sanitari a utilizzare un campione delle sue cellule per verificare un’ipotesi sulla proliferazione tumorale, senza preoccuparsi più di tanto di chiedere il consenso alla donna.
Accade a questo punto qualcosa di straordinario: per la prima volta, le cellule cominciano a riprodursi senza più morire, all’infinito, eternamente, dischiudendo alla ricerca scientifica possibilità fino ad allora precluse. Queste cellule vengono battezzate come HeLa, dalle iniziali della donna, e questo sarà l’unico riconoscimento che lei e la sua famiglia otterranno, nonostante l’enorme importanza, anche economica, della scoperta di cui Henrietta è stata l’inconsapevole protagonista.
Questo, per lo meno, fino agli anni 2000, quando un’altra donna bianca, ebrea e di buona famiglia, dunque – come lei stessa spiega nel libro – quanto di più distante dalla Lacks si possa immaginare, non resta prima incuriosita dalla mancanza di informazioni su questa persona vissuta sessant’anni prima, poi folgorata dalle notizie di cui viene man mano a conoscenza. La storia dell’indagine condotta da Rebecca Skloot si incrocia con quella della sua eroina e l’incontro-scontro tra due culture così lontane come quella dell’autrice e della famiglia Lacks è un altro elemento di grande interesse del libro.
La biografia, insomma, è prima di tutto un risarcimento a Henrietta e agli esseri umani che fanno la storia ma non la scrivono, cadendo così nell’oblio. E poi è una finestra aperta su uno dei maggiori progressi conseguiti dalla ricerca scientifica del ‘900, base delle ricerche sul cancro, sul Parkinson, sul Dna: anche questi risultati scientifici spesso restano sconosciuti alla stragrande maggioranza di noi, nonostante l’enorme incidenza che hanno nella nostra vita. Anche all’autrice di questo libro, del resto, era ignota l’origine delle cellule HeLa, finché non le è capitato di imbattervisi da studentessa, chiedendosi da dove venisse quell’acronimo curioso.

Marco Ferrazzoli


Rebecca Skloot, “La vita immortale di Henrietta Lacks”, Adelphi (2011)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Una cosa che comincia per elle

In questo racconto, contenuto nell’antologia “Boutique del mistero”, Buzzati racconta la lebbra, malattia innominabile e contratta dal mercante Schroder costretto a girare seminudo con la campanella del lebbroso.

Versione integrale audio del racconto

Cristoforo Schroder, mercante in legnami, andò subito a letto, perché non si sentiva bene. Mandò poi a chiamare il medico dottor Lugosi, ch’egli conosceva da anni. Il medico venne e sembrò rimanere perplesso. Escluse che ci fossero cose gravi, si fece dare una bottiglietta di orina per esaminarla e promise di tornare il giorno stesso.
Il mattino dopo lo Schroder si sentiva molto meglio (…)

“Sono qui con un amico, questa mattina” (…)

“Tutto bene, le orine. Solo vorrei farvi un piccolo salasso. ” (…)

Intanto il visitatore estraneo, senza togliersi l’ampio mantello, aveva deposto sul tavolo il cappello e un pacchetto oblungo che mandò un rumore metallico. Lo Schroder notò con un senso di vago malessere, che l’uomo si era seduto quasi sulla soglia come se gli premesse di stare lontano da lui.
” Don Valerio, voi non lo immaginate, ma vi conosce già” disse allo Schroder il medico (…)

Vi dirò non ho mai avuto l’onore di incontrarvi personalmente, ma so qualche cosa di voi che certo non immaginate. ” (…)

“Non era un uomo alto, tutto nero in faccia, con uno strano cappello a cilindro? ” insisteva don Valerio. ” E non aveva una specie di campanella? Non vi ricordate che continuava a suonare? ”  (…)

” E chi era quell’uomo, allora? ” chiese lo Schroder con asprezza, come per far capire che se il Melito aveva qualche cosa da dire, era meglio che lo dicesse subito. (…)

Voi, piuttosto, chi credeste che fosse?” (…)

Un povero diavolo, un disgraziato (…)

“Uno zingaro, poteva essere. Per far venire gente li ho visti tante volte suonare una campana” (…)

” No. Non era uno zingaro. O, se lo era stato una volta, non lo era più. Quell’uomo, per dirvelo chiaro, è una cosa che comincia per elle. “
” Una cosa che comincia per elle? ” (…)

“Un ladro? Volete dire?” (…) Un lanzichenecco forse?… ” (…)

” Nè un ladro nè un lanzichenecco ” disse lentamente il Melito. ” Un lebbroso, era. ” (…)

Sono l’alcade, caro signore (…)” In quel pacchetto c’è la vostra campanella ” rispose. ” Uscirete immediatamente di qui e continuerete a suonarla, fino a che sarete uscito fuori del paese, e poi ancora, fino a che non sarete uscito dal regno. “

“La giacca, la mantella, e basta. L’altro deve essere bruciato. Per la carrozza e il cavallo si è già provveduto.” (…)

Dino Buzzati. La boutique del mistero. (Oscar Mondadori, Mondadori, 1968)

La buona cura, da Seneca alla medicina narrativa





Dai suggerimenti del filosofo spagnolo all’attuale “Medicina narrativa”, su cui arriva ora in traduzione italiana il manuale di Rita Charon, si ravvisa un’analogia: la considerazione del malato come persona, il rischio di ridurre il paziente a “cliente”. Sensibilità, dialogo, competenze psico-pedagogiche sono fondamentali per percorsi terapeutici più efficaci


È ovviamente la nostra lettura a posteriori che induce a ravvisare nelle parole di Lucio Anneo Seneca così tante e strette analogie con le questioni odierne della medicina e della sua comunicazione. Detratto però questo bias dobbiamo riconoscere un indubitabile interesse e una notevole attualità ai “Consigli ai medici” del filosofo spagnolo, precettore di Nerone, ora ripubblicati da EDB in un’edizione curata dal classicista Lucio Coco.

Seneca ci appare per esempio, data l’insistenza sull’analogia tra la metafora medica e la cura delle anime propria del filosofo, una sorta di antesignano del counceling: “Chi è un vero medico è anche filosofo” scriveva del resto anche Galeno. Non meno moderna l’attenzione prestata dallo scrittore latino al medico e al malato come persona (in un passaggio del dialogo “Sui benefici” afferma che “malato e malattia non sono la stessa cosa”), legate da uno spirito umanitario, amicale, in cui oltre alla cura contano i consigli, soprattutto scevro dall’approccio venale che riduce il paziente a “cliente”, anche perché per medico e insegnante la ricompensa sta nel loro stesso lavoro. Un concetto molto condiviso all’epoca, anche Celso nel “De medicina” afferma che “a parità di scienza è più utile che il medico sia amico che estraneo”.
E poi l’apprezzamento per la capacità professionale: “Il malato non domanda un medico eloquente ma esperto” ricorda a Lucilio, con un’affermazione tutt’altro che banale in tempi di improvvisazione e ciarlataneria dilaganti, che peraltro proseguono ben oltre l’epoca classica fino ai giorni nostri, come tanta cronaca insegna. Come nel “Giuramento” di Ippocrate, Seneca insiste insomma sui plus etici inscindibili dalla pratica clinica e sanitaria: temperanza, equilibrio, riservatezza sono chiaramente affermati come doveri ben prima che entrassero in vigore le norme sulla privacy.
Molto vicino ai nostri giorni anche l’accostamento di tre settori di ricerca come chirurgia, dietetica e farmaceutica (già nel “Corpus hippocraticum” leggiamo che è “Nel cibo il farmaco migliore, nel cibo il farmaco peggiore”), altra anticipazione plurisecolare rispetto alla odierna, talvolta maniacale o fobica, attenzione all’impatto della dieta e dell’alimentazione sulla salute. Peraltro, secondo il filosofo stoico, in passato i mali erano meno virulenti perché l’uomo “non aveva ancora inventato cibi elaborati che, invece di calmare la fame, stimolano l’appetito e il desiderio”: sembra di ascoltare una campagna contro il junk food!

Quando poi Seneca scrive che il medico deve materialmente “sentire il polso” del malato, non può curare “di passaggio” e non può decidere “per lettera” ci sembra davvero di leggere, mutatis mutandis, dei nostri rapporti digitali e tecnologici con una Sanità che raramente concede (e può permettersi) una palpazione o auscultazione del paziente.
Facendo poi un salto di parecchi secoli, ravvisiamo un’altra e fondamentale analogia, quella cioè di una “buona cura” che passi non solo per le competenze scientifiche del medico e per il supporto tecnologico ma anche per un rapporto umano autentico tra sanitari e pazienti, che consenta la necessaria comprensione, comunicazione e condivisione. Il concetto che oggi passa sotto il nome di “Medicina narrativa”. L’omonimo volume di Rita Charon è ora tradotto e pubblicato in Italia da Raffaello Cortina, a tredici anni dalla sua uscita negli Stati Uniti. Un omaggio all’opera su cui si fonda la disciplina della quale l’autrice – medico internista e docente alla Columbia University – è considerata tra i massimi rappresentanti. Senza dubbio la Medicina narrativa è ormai un modello di formazione irrinunciabile, anche nel contesto italiano, per chi operi a qualunque livello nel servizio sanitario, dove la sensibilità, la capacità di dialogo, le competenze in ambito psicologico e pedagogico sono considerati di fondamentale importanza, all’interno della complessiva ricucitura tra scienze umane e naturali.

“La medicina può trarre vantaggio da quello che gli studiosi di letteratura, gli psicologi e gli antropologi sanno già da un po’: come funzionano le narrazioni, come trasmettono conoscenze sul mondo, come organizzano l’esistenza permettendo di coglierne il significato”, scriveva Rita Charon rivolgendosi a un sapere medico all’epoca ancora “sordo verso tutto ciò” e “basato quasi esclusivamente sulla componente biologica della malattia e sullo sviluppo di competenze tecniche”, preoccupato soltanto di “spiegare” e “protocollare” su larga scala. Certo la situazione non è risolta definitivamente, di sicuro non nel contesto italiano, poiché le pur numerose esperienze e pratiche attivate sono ancora frammentarie, scarsamente visibili, conosciute e documentate. Sta però crescendo la consapevolezza etico-politica della cura, la coscienza che la fragilità che connota la malattia si interseca con la emarginazione sociale, con il disagio interiore: deficit su cui la narrativa ha indubbiamente un ruolo di cura, non nel senso generico di creare un ”immaginario clinico” ma nella capacità di “scendere verso” chi sta vivendo una situazione patologica prima di tutto per riconoscere, recepire e interpretare l’anamnesi (“ascoltare la storia del paziente”), quindi per meglio identificare la patologia e collaborare tra colleghi medici e con la famiglia al fine, molto concreto, di indirizzare e accompagnare lungo percorsi terapeutici più efficaci. “Una visita di otto minuti non basta a dire tutto quello che si deve […] è fondamentale costruire una fiducia longitudinale”.

Non è un obiettivo banale, poiché richiede “uno studio disciplinato e rigoroso” che confligge con le logiche di efficienza e redditività cui il sistema sanitario e anche l’atteggiamento di molti operatori sembrano guardare come al loro principale obiettivo, “un sistema di mercato burocratizzato e attento soprattutto ai costi”. Nel suo dipartimento universitario, una delle esperienze di Medicina narrativa più rilevanti a livello internazionale assieme alla rivista Literature and Medicine, Rita Charon ha creato un modello formativo preciso: “Noi insegniamo ad analizzare i testi con cura e a scrivere in maniera riflessiva disciplinata e ponderata […] Facciamo conoscere le grandi opere letterarie”. Ma – ammette l’autrice – questo modello confligge con una interpretazione molto diversa della medicina: “Siamo diventati molto bravi a diagnosticare e curare le malattie […] nonostante un progresso così impressionante, manca spesso la capacità umana di provare empatia per gli ammalati”. E non solo: “Le competenze narrative non riguardano solo il singolo incontro ma tutta la pratica clinica […] sembra che i dottori si tengano a distanza anche dagli studenti dai colleghi dagli altri operatori e dalla società”. In effetti, le università e le scuole di specializzazione non possono “insegnare il rispetto, l’altruismo e la responsabilità” se questi tratti non si sviluppano e coltivano fin dall’infanzia, nella formazione famigliare, scolastica e sociale.

Marco Ferrazzoli


Rita Charon, “Medicina narrativa. Onorare le storie dei pazienti” (Raffaello Cortina, 2019)
Lucio Anneo Seneca, “Consigli ai medici” (Dehoniani, 2019)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Se Josef Mengele bussa alla porta

L’inquietante fascinazione iconica e narrativa esercitata dal nazismo trova nel medico di Auschwitz una figura di rilievo particolarmente sinistro, che alla follia ideologica aggiunge quella “scientifica”. Un po’ come nel film “I ragazzi venuti dal Brasile”, la biografia romanzata “L’ospite” di Margherita Nani mescola realtà storica e finzione letteraria


La fascinazione iconica e narrativa esercitata dal nazismo non è certo una novità, basti pensare alla collana video con le opere della regista di regime Leni Riefensthal che già decenni or sono L’Espresso, certo non sospettabile di nostalgie o simpatie verso il Terzo Reich, allegò al settimanale. Le dittature esercitano su di noi una contraddittoria fascinazione forse proprio perché rappresentano in forme e misure diverse l’abiezione umana, di chi comanda ma anche di chi obbedisce, in un’ambiguità che Hannah Arendt scolpì in modo indelebile ne “La banalità del male”. In questo contesto, il nazismo ha però assunto un inquietante primato: fotografia, filmografia, narrativa e saggistica sul devastante corso che Hitler impresse alla storia della Germania e del mondo intero sono, non a caso, sterminate.

In questo filone, la figura di Joseph Mengele assume un rilievo ancor più sinistro, poiché alla follia politica aggiunge quella “scientifica”. Mengele si erge, nelle gerarchie svasticate, come l’artefice più spietato degli esperimenti che dovevano tradurre in prove i teoremi razziali, utilizzando come cavie i deportati nei lager, bambini e gemelli in primis. La fuga in Sudamerica compiuta dopo il crollo del regime, la caccia inesausta compiuta per ritrovarlo e consegnarlo alla giustizia hanno ispirato “I ragazzi venuti dal Brasile”, film memorabile soprattutto per la sfida attorale tra Gregory Peck e Laurence Olivier, che vestono rispettivamente i panni di Mengele – impegnato nella creazione di 95 cloni del Fuhrer – e di Ezra Lieberman, personaggio ispirato a Simon Wiesenthal.
Il medico di Auschwitz è ora protagonista de “L’ospite. Le anatomie di Josef Mengele” di Margherita Nani: una biografia romanzata che, come la pellicola, prescinde molto dalla reale e misteriosa esistenza post-nazista di Mengele. Nel libro lo incontriamo nel 1955 a Candido Godoi, nel cuore del Brasile, dove si presenta come un misterioso tedesco in cerca di una stanza. Una famiglia di affittacamere lo accoglie ma Pia Souza, la figlia adolescente dei gestori, resta subito colpita da quello straniero riservato e imperscrutabile, il quale ricambia l’attrazione per la ragazza, molto lontana dai canoni ariani ma tanto pura e vitale da ispirargli emozioni fino ad allora sconosciute. Flashback e attualità, realtà storica e finzione letteraria si alternano nel libro, facendo emergere la diabolica malvagità dell’uomo, che non sarà mai sfiorato dal pentimento o almeno dal ripensamento per gli orrori compiuti.
Escamotage narrativo fondamentale del testo è però l’analisi psicologica che l’autrice compie sul protagonista, disegnato attraverso i rapporti con la famiglia di origine, con la moglie Irene e con Teresa, una ebrea assoldata quale collaboratrice ad Auschwitz come una personalità contraddittoria e fortemente complessata. Mengele non sembra avere davvero un’anima e l’esperienza brasiliana gli confermerà che non potrà mai trovare pace. Del resto non troverà mai nemmeno la punizione terrena.

Marco Ferrazzoli


Margherita Nani, “L’ospite. Le anatomie di Josef Mengele” (Brioschi, 2019)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni