La buona cura, da Seneca alla medicina narrativa





Dai suggerimenti del filosofo spagnolo all’attuale “Medicina narrativa”, su cui arriva ora in traduzione italiana il manuale di Rita Charon, si ravvisa un’analogia: la considerazione del malato come persona, il rischio di ridurre il paziente a “cliente”. Sensibilità, dialogo, competenze psico-pedagogiche sono fondamentali per percorsi terapeutici più efficaci


È ovviamente la nostra lettura a posteriori che induce a ravvisare nelle parole di Lucio Anneo Seneca così tante e strette analogie con le questioni odierne della medicina e della sua comunicazione. Detratto però questo bias dobbiamo riconoscere un indubitabile interesse e una notevole attualità ai “Consigli ai medici” del filosofo spagnolo, precettore di Nerone, ora ripubblicati da EDB in un’edizione curata dal classicista Lucio Coco.

Seneca ci appare per esempio, data l’insistenza sull’analogia tra la metafora medica e la cura delle anime propria del filosofo, una sorta di antesignano del counceling: “Chi è un vero medico è anche filosofo” scriveva del resto anche Galeno. Non meno moderna l’attenzione prestata dallo scrittore latino al medico e al malato come persona (in un passaggio del dialogo “Sui benefici” afferma che “malato e malattia non sono la stessa cosa”), legate da uno spirito umanitario, amicale, in cui oltre alla cura contano i consigli, soprattutto scevro dall’approccio venale che riduce il paziente a “cliente”, anche perché per medico e insegnante la ricompensa sta nel loro stesso lavoro. Un concetto molto condiviso all’epoca, anche Celso nel “De medicina” afferma che “a parità di scienza è più utile che il medico sia amico che estraneo”.
E poi l’apprezzamento per la capacità professionale: “Il malato non domanda un medico eloquente ma esperto” ricorda a Lucilio, con un’affermazione tutt’altro che banale in tempi di improvvisazione e ciarlataneria dilaganti, che peraltro proseguono ben oltre l’epoca classica fino ai giorni nostri, come tanta cronaca insegna. Come nel “Giuramento” di Ippocrate, Seneca insiste insomma sui plus etici inscindibili dalla pratica clinica e sanitaria: temperanza, equilibrio, riservatezza sono chiaramente affermati come doveri ben prima che entrassero in vigore le norme sulla privacy.
Molto vicino ai nostri giorni anche l’accostamento di tre settori di ricerca come chirurgia, dietetica e farmaceutica (già nel “Corpus hippocraticum” leggiamo che è “Nel cibo il farmaco migliore, nel cibo il farmaco peggiore”), altra anticipazione plurisecolare rispetto alla odierna, talvolta maniacale o fobica, attenzione all’impatto della dieta e dell’alimentazione sulla salute. Peraltro, secondo il filosofo stoico, in passato i mali erano meno virulenti perché l’uomo “non aveva ancora inventato cibi elaborati che, invece di calmare la fame, stimolano l’appetito e il desiderio”: sembra di ascoltare una campagna contro il junk food!

Quando poi Seneca scrive che il medico deve materialmente “sentire il polso” del malato, non può curare “di passaggio” e non può decidere “per lettera” ci sembra davvero di leggere, mutatis mutandis, dei nostri rapporti digitali e tecnologici con una Sanità che raramente concede (e può permettersi) una palpazione o auscultazione del paziente.
Facendo poi un salto di parecchi secoli, ravvisiamo un’altra e fondamentale analogia, quella cioè di una “buona cura” che passi non solo per le competenze scientifiche del medico e per il supporto tecnologico ma anche per un rapporto umano autentico tra sanitari e pazienti, che consenta la necessaria comprensione, comunicazione e condivisione. Il concetto che oggi passa sotto il nome di “Medicina narrativa”. L’omonimo volume di Rita Charon è ora tradotto e pubblicato in Italia da Raffaello Cortina, a tredici anni dalla sua uscita negli Stati Uniti. Un omaggio all’opera su cui si fonda la disciplina della quale l’autrice – medico internista e docente alla Columbia University – è considerata tra i massimi rappresentanti. Senza dubbio la Medicina narrativa è ormai un modello di formazione irrinunciabile, anche nel contesto italiano, per chi operi a qualunque livello nel servizio sanitario, dove la sensibilità, la capacità di dialogo, le competenze in ambito psicologico e pedagogico sono considerati di fondamentale importanza, all’interno della complessiva ricucitura tra scienze umane e naturali.

“La medicina può trarre vantaggio da quello che gli studiosi di letteratura, gli psicologi e gli antropologi sanno già da un po’: come funzionano le narrazioni, come trasmettono conoscenze sul mondo, come organizzano l’esistenza permettendo di coglierne il significato”, scriveva Rita Charon rivolgendosi a un sapere medico all’epoca ancora “sordo verso tutto ciò” e “basato quasi esclusivamente sulla componente biologica della malattia e sullo sviluppo di competenze tecniche”, preoccupato soltanto di “spiegare” e “protocollare” su larga scala. Certo la situazione non è risolta definitivamente, di sicuro non nel contesto italiano, poiché le pur numerose esperienze e pratiche attivate sono ancora frammentarie, scarsamente visibili, conosciute e documentate. Sta però crescendo la consapevolezza etico-politica della cura, la coscienza che la fragilità che connota la malattia si interseca con la emarginazione sociale, con il disagio interiore: deficit su cui la narrativa ha indubbiamente un ruolo di cura, non nel senso generico di creare un ”immaginario clinico” ma nella capacità di “scendere verso” chi sta vivendo una situazione patologica prima di tutto per riconoscere, recepire e interpretare l’anamnesi (“ascoltare la storia del paziente”), quindi per meglio identificare la patologia e collaborare tra colleghi medici e con la famiglia al fine, molto concreto, di indirizzare e accompagnare lungo percorsi terapeutici più efficaci. “Una visita di otto minuti non basta a dire tutto quello che si deve […] è fondamentale costruire una fiducia longitudinale”.

Non è un obiettivo banale, poiché richiede “uno studio disciplinato e rigoroso” che confligge con le logiche di efficienza e redditività cui il sistema sanitario e anche l’atteggiamento di molti operatori sembrano guardare come al loro principale obiettivo, “un sistema di mercato burocratizzato e attento soprattutto ai costi”. Nel suo dipartimento universitario, una delle esperienze di Medicina narrativa più rilevanti a livello internazionale assieme alla rivista Literature and Medicine, Rita Charon ha creato un modello formativo preciso: “Noi insegniamo ad analizzare i testi con cura e a scrivere in maniera riflessiva disciplinata e ponderata […] Facciamo conoscere le grandi opere letterarie”. Ma – ammette l’autrice – questo modello confligge con una interpretazione molto diversa della medicina: “Siamo diventati molto bravi a diagnosticare e curare le malattie […] nonostante un progresso così impressionante, manca spesso la capacità umana di provare empatia per gli ammalati”. E non solo: “Le competenze narrative non riguardano solo il singolo incontro ma tutta la pratica clinica […] sembra che i dottori si tengano a distanza anche dagli studenti dai colleghi dagli altri operatori e dalla società”. In effetti, le università e le scuole di specializzazione non possono “insegnare il rispetto, l’altruismo e la responsabilità” se questi tratti non si sviluppano e coltivano fin dall’infanzia, nella formazione famigliare, scolastica e sociale.

Marco Ferrazzoli


Rita Charon, “Medicina narrativa. Onorare le storie dei pazienti” (Raffaello Cortina, 2019)
Lucio Anneo Seneca, “Consigli ai medici” (Dehoniani, 2019)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Denise De Santana

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