Una malattia chiamata Solitudine

Secondo Mattia Ferraresi, giornalista del quotidiano “II Foglio” e corrispondente del “New York Times”, è questo “Il male oscuro delle società occidentali”, una patologia del nostro tempo, frutto dell’individualismo e dell’autocompiacimento che si sublima nel selfie. Al punto che l’Inghilterra ha creato un ministero ad hoc


L’autore Mattia Ferraresi – giornalista del quotidiano “II Foglio” e corrispondente del “New York Times” che così ama descriversi: “Nato nella terra di Virgilio e cresciuto in quella di Tassoni, ora vivo nel quartiere di Tony Manero” – nel suo ultimo libro dal titolo “Solitudine” (Einaudi), affronta il tema soffermandosi in particolare sul “nuovo narciso”. Una “figura ben più tragica di quella antica. Il Narciso della mitologia, condannato ad amare solo se stesso, sa che si tratta di una condanna e non di un dono. Il nuovo narciso non ha questa percezione, è così immerso nel suo individualismo che non ha nemmeno gli strumenti per rendersi conto di questa prigione interiore”, sostiene l’autore. “Pensa che concentrarsi su di sé e sulle proprie potenzialità sia una forma di emancipazione, un modo per superare tutto ciò che lo ha oppresso: autorità, gerarchie, partiti, chiese, convenzioni. Ed ecco che si ritrova solo. Il selfie è il meccanismo perfetto per il nuovo narcisista, che interpreta e presenta ogni cosa in relazione a sé”.
Al tema della solitudine è stata dedicata un’ampia letteratura. Per esempio, in “Solitudine” di John T. Cacioppo e William Patrick (il Saggiatore), gli autori sostengono che privarsi dello scambio con gli altri provoca uno strappo nel tessuto genetico che si espande nel nostro essere fino a pervadere le emozioni, e propongono al lettore le acquisizioni più avanzate della ricerca per la diagnosi e la cura di quella che ritengono una delle più diffuse “malattie” del nostro tempo. Secondo Ferraresi, invece, la solitudine è frutto di un individualismo, di un autocompiacimento che diventa una prigione. La scrittrice francese nota con lo pseudonimo di Colette scrisse: “Ci sono giorni in cui la solitudine è un vino inebriante che ti ispira libertà, altri in cui è un tonico amaro, e altri ancora in cui è un veleno che ti fa sbattere la testa contro il muro”.
Negli ultimi 400 anni l’ideale di liberazione dell’uomo, nello sviluppo delle società occidentali, si è affermato come indipendenza dall’altro, liberazione del singolo da tutte le costrizioni, siano esse leggi, autorità, gerarchia sociale. Questo processo di scardinamento delle relazioni profonde con l’altro è riuscito, ma ci si è resi conto che il tipo di società che ne è derivato non è garanzia di felicità, generando così – aggiunge l’autore – un paradosso: “I governi oggi cercano di combattere quello che essi stessi hanno generato e approvato”. O cercano, diciamo meglio, di correre ai ripari per curare questa sorta di epidemia che abbiamo deliberatamente diffuso, e da cui ci siamo fatti volontariamente contagiare.
L’Inghilterra è arrivata a creare il primo “ministero per la Solitudine” in Europa, nella consapevolezza che questa condizione è correlata ad altri disagi, patologie, disabilità croniche dagli effetti preoccupanti. Secondo una ricerca condotta della Brigham Young University nello Utah (Usa), l’isolamento ha un impatto così forte sull’organismo da aumentare del 30% la predisposizione dell’individuo ad ammalarsi.

Patrizio Mignano


Mattia Ferraresi, “Solitudine”, Einaudi (2020)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Un ictus che ricorda qualcosa…

È quasi scontato leggere il libro di Andrea Vianello condizionati dallo scenario del Covid-19. Ma la comparazione è giustificata: l’ischemia che colpisce il giornalista e conduttore Tv viene da lui vissuta come l’invasione di un male improvviso, misterioso e incomprensibile. Esattamente come sta capitando a tutti noi


In questi tempi è facile, fin troppo facile, quasi scontato, ma anche inevitabile, leggere qualunque vicenda – di malattia ma non solo – nello scenario, nell’ottica, nella chiave del Coronavirus. Il libro di Andrea Vianello però si presta a questa comparazione, pur distorsiva, in modo particolare. Il giornalista e conduttore televisivo si è deciso a raccontare la storia dell’ictus, per la precisione dell’ischemia cerebrale che ha colpito il lato sinistro del suo cervello, causata da una dissecazione della carotide.
Rispetto all’antico ma oggi particolarmente diffuso genere della medicina letteraria, dei diari di malattia, degli outing clinici e sanitari, in questa vicenda c’è infatti un aspetto più specifico: Vianello viene colpito in modo violento, rischia la vita, deve subire una fortunatamente riuscitissima operazione d’urgenza, segnata però da una complicanza non banale: la lesione della parola, che è il suo strumento di lavoro. Chi lo abbia visto di recente in una delle presentazioni del libro ha potuto constatare che il trauma è stato quasi completamente recuperato, non a caso un capitolo è dedicato alla struttura che l’ha curato e riabilitato, ma rimane intatto il senso di invasione da parte di un male improvviso e – almeno all’inizio – del tutto misterioso e quindi incomprensibile. Esattamente come è capitato a tutti noi con il Covid-19: siamo malati asintomatici, parenti, residenti in zone rosse e arancioni, cambia la misura, non lo sgomento.
Il merito di farci cogliere questa somiglianza, verrebbe da dire di affratellarci in questo comune destino, è ovviamente della impeccabile, lucidissima scrittura dell’autore. Basti citare il passo che giustamente è stato valorizzato dall’editore Mondadori nella bandella di – questo il titolo del diario – “Ogni parola che sapevo”. “Mia moglie arriva trafelata. Mi sembra un gigante sopra di me, un gigante buono che mi aiuterà, io sono inciampato in un buco nero del bosco ma lei mi tirerà fuori da lì. Ha gli occhi sgranati. ‘Che succede? Che succede?’ mi chiede. La mia risposta è chiara: ‘Megpdeiigrhiaa!’ le dico concitato, ‘mrlaiofoourhdka uhfe giumhu’. Non si capisce niente, lei non capisce niente, nemmeno io capisco niente, parlo una lingua nuova, eppure lo so cosa voglio dire, ma un demone si è intrufolato nella mia bocca. ‘Ceritturgra, mathra, titdiiiadotaio.’ Sono infuriato con me, sono infuriato con lei perché non capisce. ‘Stai calmo’ la sento dire, ma sono alle prese con questa follia, non riesco a dire una parola, maledizione, una vera parola, mi sento imprigionato, imbavagliato, sperduto, nel buco nero del bosco non ci sono parole, le mie amatissime parole, solo versi infantili, muggiti incomprensibili, rantoli disperati”.
La vulnerabilità fisica, l’insufficienza del nostro vocabolario, la necessità per se stessi e per gli altri di dare testimonianza della propria debolezza e anche della propria sofferenza, dei calvari personali e collettivi, la consapevolezza che possiamo passare in poche ore – o in qualche settimana, cambia poco – dalla vita “normale”, anche se non brillante come quella di chi vive illuminato dai riflettori di un studio tv, ai meandri inestricabili della sanità pubblica… Sì, le analogie tra la vicenda di Vianello e quella di noi tutti ci sono, e non sono poche.

Marco Ferrazzoli


Andrea Vianello, “Ogni parola che sapevo”, Mondadori (2020)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Le Humanities per la pratica medica

Attraverso l’arte e le discipline umanistiche è possibile conoscere lo sviluppo dei metodi di cura e i ruoli degli operatori sanitari nel corso dei secoli. Tale bagaglio è un prezioso patrimonio per la professione medico e sanitaria, perché crea empatia e una corretta relazione con il paziente. Il volume di Vincenza Ferrara, docente presso l”Università Sapienza di Roma, illustra la storia di questa complessa materia e le sue applicazioni


Le Medical humanities cosa sono e a cosa servono? Lo spiega il volume “L’arte come strumento per la formazione in area medica e sanitaria” (Aracne editore), scritto da Vincenza Ferrara, docente presso l”Università Sapienza di Roma e pioniera nell’insegnamento di questa disciplina che è una “sinergia” di materie di studio assai differenti. “La definizione, utilizzata in un campo interdisciplinare della medicina e in generale della cura, include la letteratura, filosofia, storia e religione, le scienze sociali (antropologia, psicologia e sociologia), le arti (letteratura, teatro, film e arti visive) e la loro applicazione sia nell’educazione medica che nella pratica clinica”, spiega l’autrice. Già nel 1994, in un articolo scientifico apparso negli Stati Uniti, veniva sottolineato che l’assistenza infermieristica non può svilupparsi da un background basato esclusivamente sulle scienze fisiche e sociali. Il personale sanitario, grazie a questi studi, può ridurre il gap nel rapporto con i pazienti e “umanizzare” la cura, superando una visione esclusivamente biomedica della professione. Dal 2014 è stata istituito presso l’Università di Roma un gruppo di ricerca per applicare il metodo nell’ambito della Medical education, cui è dedicato un laboratorio diretto dalla stessa Ferrara; è stata attivata una sperimentazione nei corsi di laurea in Medicina, Scienze infermieristiche e nella formazione specifica in Medicina generale.
Nello scorrere le pagine del libro sorprende rilevare quanto resti archeologici, sculture, dipinti, possano testimoniare lo sviluppo della scienza medica e l’affinarsi dello sguardo dell’artista nel ritrarre anche le imperfezioni del corpo umano, elementi che consentono di comprendere la diffusione di alcune patologie nel passato, campo di indagine dell’icodiagnostica. Basta andare nell’antica Grecia, dove gli anatomisti chiedevano aiuto agli artisti, “la dissezione era praticata sui corpi degli animali, mentre era vietato esplorare l’anatomia umana per motivi sociali e religiosi… Solo due medici ellenistici, che hanno operato ad Alessandria d’Egitto circa tra il 330 e il 240 a.C., sono noti non solo per l’uso della dissezione sistematica dei cadaveri, ma anche per la pratica della vivisezione sperimentale condotta sui condannati a morte: Erofilo ed Erasistrato”.
Nel Discobolo (copia del secolo II d.C. da originale greco del V secolo a.C.), conservato al Museo nazionale romano in Palazzo Massimo, ammiriamo i gruppi muscolari dell’atleta ritratti nell’atto di partecipare al movimento. Nei corso dei secoli, molti pittori – da Leonardo da Vinci a Michelangelo a Raffaello – hanno approfondito l’esame delle parti del corpo. Nel XVI secolo Bartolomeo Passarotti realizzò il dipinto “Lezione di anatomia per artisti” (Galleria Borghese, Roma) e Rembrandt nel 1632 raffigurò il dottor Tulp mentre mostra l’anatomia del braccio di un condannato a morte (Mauritshuis, L’Aia). L’autrice cita altri esempi di legame tra arte e medicina, che si traducono nelle modalità di riprodurre e conservare i corpi, quali la ceroplastica anatomica e la recente plastinazione, messa a punto da Gunther von Hagens. La rappresentazione della cura nell’arte, conclude Ferrara, è stimolante anche per lo sviluppo dell’empatia e della relazione tra personale di cura e paziente.

Sandra Fiore


Vincenza Ferrara, “L’arte come strumento per la formazione in area medica e sanitaria”, Aracne Editrice (2020)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Buona medicina, buoni medici, buona Sanità

Il saggio di Domenico Ribatti affronta il tema dell’etica in medicina in un’accezione molto ampia, che include il rapporto tra sanitari e paziente, i ruoli della politica e dell’industria farmaceutica, l’evoluzione scientifico-tecnologica, il significato stesso del termine “malattia”


Il tema dell’etica in medicina vanta una tradizione di studi e riflessioni ampia e autorevole, che va da Hans Jonas a Hugo Tristram Engelhardt, Martin Heidegger, Umberto Galimberti, Giorgio Cosmacini… Il saggio di Domenico Ribatti “La buona medicina”, però, affronta la problematica in un’accezione molto ampia, che include il rapporto medico-paziente, le politiche sanitarie, il ruolo dell’industria farmaceutica, l’evoluzione scientifica e tecnologica, il significato stesso del termine “malattia” che – nota l’autore – ne assume almeno tre diversi: concetto patologico, condizione esistenziale vissuta e condizione percepita dagli altri, tanto che in inglese esistono tre termini specifici: disease, illness e sickness.
Per lungo tempo la medicina ha posto l’accento più sulla patogenesi, cioè sugli aspetti meccanicistici che caratterizzano l’insorgenza della malattia, che su quelli eziologici che investono i rapporti tra l’individuo e l’ambiente. L’evoluzione successiva, dai postulati di Koch nello studio della tubercolosi  all’introduzione tra Ottocento e Novecento di numerosi strumenti medici, farmaci e vaccini, dall’epidemiologia clinica alla Evidence Based Medicine (Ebm) basata sulle prove sperimentali effettuate su grandi numeri, ha ovviamente spostato l’interesse molto sul secondo aspetto e sulle sue intersezioni con il “programma genetico” e con l’evoluzione, un combinato disposto che rende ogni individuo un “prodotto” unico.
“Non più del 2 per cento delle malattie umane” devono “la loro insorgenza a un chiaro meccanismo monogenetico”, mentre il 98 “si conforma a un modello complesso”. Si è così passati da un’idea deterministica della causalità a un’idea probabilistica. Il saggio ricorda il caso dell’attrice Angeline Jolie, che si sottopose a una doppia mastectomia preventiva dopo avere saputo di essere portatrice di una mutazione del gene Brca1 che le dava l’87 per cento di probabilità di sviluppare un tumore della mammella. Il problema della “cultura della scienza” diviene quindi nodale quanto quello della salute. L’Oms alla sua fondazione nel 1948 l’aveva definita “uno stato di completo benessere fisico mentale e sociale” e non soltanto “un’assenza di malattia o di infermità”, ma lo storico della medicina Mirko Grmek notava come questa definizione rischiasse di attribuire alla medicina una sorta di impossibile scopo “di assicurare l’agiatezza e la felicità”.
Se secondo Umberto Veronesi “la medicina è insieme scienza arte e magia”, tanta è l’importanza della capacità del medico (e non solo) “di influenzare psicologicamente il paziente”, secondo molte fonti – tra le quali il saggio cita un editoriale degli “Annals of Internal Medicine” – una significativa quota dei test di diagnostica per immagini non sono necessari. In Italia l’incremento delle radiazioni assorbite in tal modo è stato del 600 per cento negli ultimi venticinque anni. “Colpa” di una medicina troppo cautelativa, di medici che sono ormai ridotti a prescrittori di farmaci, analisi ed esami? Certamente un recupero del contatto professionale e umano è auspicabile, già nel 1984 Howard B. Beckman e Richard N. Frankel rilevarono “che solo nel 23 per cento dei casi al paziente era consentito di completare la presentazione dei suoi sintomi e che nel 63 per cento dei casi il medico interrompeva il paziente mediamente diciotto secondi dopo che questi aveva iniziato a parlare”. Un processo che in qualche misura si accentua dopo il Settecento, quando gli ospedali diventano il luogo in cui l’ammalato viene curato ma anche separato dalla comunità, tema sul quale ha molto scritto Michel Foucault. D’altronde gli eccessi diagnostico-terapeutici sono l’altra faccia di una medaglia che si chiama prevenzione, sulla quale è necessario insistere soprattutto nella lotta contro malattie particolarmente dure da sconfiggere come il cancro, nel quale la percentuale dei casi maligni che può essere attribuita a fattori ambientali varia tra il 70 e il 90 per cento.
La parte del saggio dedicata alla cronaca politico-istituzionale recente è utile soprattutto per capire quante acquisizioni della Sanità odierna siano nate solo dalla seconda metà del secolo scorso. Nel 1954 la Federazione nazionale degli Ordini dei medici introduce il principio del consenso informato, nel 1958 nasce il ministero della Salute e solo vent’anni dopo il Servizio sanitario nazionale, con la nascita delle Unità sanitarie locali (Usl) e un significativo incremento della spesa pubblica, mentre ci vuole l’intero decennio 1992-2001 per la definizione dei Livelli essenziali di assistenza (Lea), subordinati però alla disponibilità finanziaria. Ci avviciniamo così alla attuale gestione della Sanità, al frequente dissidio tra sanitari, amministrativi e politici nella stessa, e all’indebolimento progressivo del coordinamento nazionale a favore delle autonomie regionali, che anche in tempo di Covid-19 ha mostrato alcune lacune e contraddizioni. Questo non deve però farci dimenticare che la Sanità pubblica italiana resta un modello tutto sommato virtuoso, a paragone di altri, pensiamo agli Stati Uniti con il loro sistema assicurativo ancora sostanzialmente privatistico.

Marco Ferrazzoli


Domenico Ribatti, “La buona medicina” (La nave di Teseo, 2020)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Grazia e delirio

Nel suo dotto contributo, il critico e storico della letteratura Giancarlo Vigorelli contestualizza la “Storia della colonna infame” non solo nella maturazione spirituale di Alessandro Manzoni ma anche nel contesto letterario italo-francese, suggerendo spunti e confronti di grande interesse


[…]
…. diciamo allora che la Colonna è un romanzo, una scheggia di romanzo, che è cristiano soltanto à rébours, è il romanzo dello smarrimento dell’uomo e Dio, allora, non si sa se si è nascosto o piuttosto se è stato trafugato? Infatti, questo secondo romanzo breve, brusco ed intenso è un po’ la ricerca e la richiesta di là delle incrostazioni private o legali di una pur credibile giustizia, di una alfine conseguibile verità, una verità anche soltanto umana, ove almeno la decenza e la onestà dell’uomo sia a sufficienza probabile e provata, insomma quell’attestato pur parziale di verità da scalfire alla congerie della menzogna propria e di tutti. Che era poi di radice la umana preoccupazione del Manzoni, e chissà che questa non sia l’origine autentica della sua insistita crisi, come dicevo, tra verità e poesia e – più evidentemente e sul piano letterario – tra storia e romanzo.
[…]
La peste, allora, questo flagello di tutti e per tutti, finiva così ad essere il necessario scenario, persino di scusa, persino di giustificazione, del trionfo ovunque del male dell’uomo: direi che quel male ne era quasi mitigato, sovraeccitandogli intorno uno spettacolo di tanta corruzione e di tanto contagio. Insomma, né sfondo né inserto, come potrebbe essere per esempio la Rivoluzione Francese in Balzac; e anche in Verga la malaria non è un accidente e una miseria di più. Così questa peste, non fortuitamente (e non sorprenda), viene a prendere dal Rovani in giù quasi un senso ed un consenso metaforico allusivo. È troppo dire che i lazzaretti del Manzoni sono – da noi – una lontana introduzione persino degli ospedali di Baudelaire? Direi di sì, se si passa a leggere gli scapigliati lombardi.

Giancarlo Vigorelli



Alessandro Manzoni, “Storia della colonna infame”, Bompiani 1985 Milano

Sciascia e gli untori

Leonardo Sciascia, in un saggio scritto per la “Storia della colonna infame”, individua con grande acutezza alcuni meccanismi psicologici e sociali, soggiacenti alle dicerie in merito alla diffusione del contagio. Lo scrittore siciliano mette qui in campo la sua capacità di analisi non solo da “collega” di Manzoni ma anche da osservatore dei fatti della sua epoca e della storia della sua terra d’origine


La credenza che peste e colera venissero artatamente sparsi tra le popolazioni è antica. La registra Livio per, come ricorda Pietro Verri nelle sue “Osservazioni sulla tortura” che, appunto muovono dai funesto casi cui la credenza dette luogo nel 1630. “Veggiano i saggi Romani stessi al tempo in cui erano rozzi cioè l’anno di Roma 428 sotto Claudio Marcello e Cajo Valerio attribuire la pestilenza che gli afflisse a’ veleni apprestati da una troppo inverosimile congiura di marrone romane”. Al tempo in cui erano rozzi: perché pare che meno rozzi tra loro più non sia insorta quella credenza. E c’è da credere si fosse del tutto spenta nei secoli successivi e fino al XIII e XIV. Non ne troviamo traccia, infatti, nei cronisti che pure abbondano di notizie sulle epidemie pestifere del due e del trecento. Nelle loro pagine le tremende epidemie non trovano altra causa che il volere di Dio o l’influsso degli astri; e la propagazione del morbo ad altro non è attribuita che agli scambi e ai viaggi. Per tutti Giovanni Boccaccio
[…]
Quel che sappiamo quasi con certezza qui ed ora è che nel secolo XIV nessuno avanza il sospetto di una peste manufatta e diffusa da persone convenientemente immunizzate per decisione del potere (visibile o invisibile) o di una associazione cospirativa contro il potere o di un gruppo delinquenziale che si propone nella calamità più facile depredazione; mentre nel secolo XVII un tale sospetto non solo viene formulato ma arriva alla certezza medica e giuridica, tramandandosi – non più per fortuna sul piano della scienza medica e leguleia – fino a un tempo cui arrivano i nostri ricordi. Del colera del 1885-86 e della “spagnola”, ultima mortale epidemia che si è avuta in Italia subito dopo la guerra del ’15-18, abbiamo infatti sentito favoleggiare come di provvedimenti per così dire malthusiani; e della “spagnola” venuta dopo il grande macello della guerra si diceva fosse effetto di un conto da cui ancora risultava eccedenza di popolazione, essendo la guerra per errato calcolo finita un po’ prima di quanto doveva: e dunque la correzione da parte dei governi per quel tanto né più né meno che ci voleva a far tornare il conto.
[…]
Che si potesse come oggi, in un laboratorio batteriologico, manufare la peste e diffonderla, intanto era questione controversa. Il Tadino medico ci credeva: ma allora non c’era differenza tra uno che si diceva o dicevano medico e una qualsiasi persona colta. Le conoscenze del Tadino in fatto di medicina non erano né diverse né superiori a quelle di un don Ferrante: il quale risulta personaggio comico, caricatura nelle pagine dei Promessi Sposi, con senno di poi ma è in effetti il ritratto del Tadino tal quale. Anzi: il Tadino vedeva la peste scendere dalle stelle e andare a finire nelle ampolle degli untori; don Ferrante invece si fermava alle stelle e morì prendendosela con le stelle e non con gli untori.

Leonardo Sciascia



Alessandro Manzoni, “Storia della colonna infame”, Bompiani (1985)

Alessandro Manzoni o l’ipotesi di un realismo cattolico

Alberto Moravia si sofferma, in un saggio su Manzoni, sulla funzione simbolica che la peste assume nei “Promessi sposi”. Il contributo è pubblicato in premessa alla “Storia della colonna infame”, nell’edizione Bompiani del 1985


[…]
…. la peste è la corruzione per eccellenza per antonomasia; con i suoi bubboni, le sue febbri, il suo sfacelo fisico, essa è il simbolo di tutto ciò che non è sano né integro: con il suo diffondersi misterioso e inarrestabile essa è l’immagine stessa del male morale, contro il quale è impossibile difendersi. A sua volta, per aver fatto della peste, unico tra gli scrittori di tutto il mondo e di tutti i tempi, uno degli argomenti principali del suo romanzo, il Manzoni è per antonomasia il dipintore dell’epidemia, ossia della corruzione. Ma c’è peste e peste; la celebrità della peste de ‘I promessi sposi’, al contrario delle analoghe descrizioni del Boccaccio e del Defoe, si deve al fatto che essa è realmente sentita dal Manzoni come un fenomeno anzitutto morale; un po’ come le sette piaghe d’Egitto nell’Antico Testamento.
Così descrivendo la peste, il Manzoni si trova per così dire nel suo elemento, quello di una corruzione metafisica e universale che non risparmia niente e nessuno. Anche in questa parte della peste, come già in quella della Monaca di Monza, il Manzoni tocca i punti più alti della sua arte, come per esempio nel celebre episodio della madre che consegna ai monatti la sua bambina morta.


Alberto Moravia



Alessandro Manzoni, “Storia della colonna infame”, Bompiani Milano (1985)

Quando la malattia mentale diventa letteratura

È quanto avviene nelle opere di Venedikt Erofeev, scrittore russo dedito all’alcol e al vagabondaggio, autore tra l’altro, del diario ‘Memorie di uno psicopatico’. Scritto nel 1956, il volume offre un inedito ritratto della Russia del tempo, raccontata con uno stile dall’andamento bipolare

Venedikt Erofeev (1938-1990) è stato uno scrittore-simbolo per intere generazioni, oltre che un autore tra i più controversi del post-modernismo russo. La sua vita al limite tra dipendenza da alcool e vagabondaggio ha fortemente contribuito sia alla sua immagine di reietto, sia alla crudezza della sua scrittura, che trova la massima espressione nel suo bestseller clandestino ‘Mosca-Petuska’. Un’opera grottesca, visionaria, tragicomica, che parte da Mosca per un viaggio forse mai compiuto.

‘Memorie di uno psicopatico’, scritta nel 1956 e ora riproposta da Miraggi, è una rarità. Si tratta infatti del primo libro di Erofeev, caratterizzato da un insieme di memorie scritte su pagine di un diario di cui non si conosceva l’esistenza. Pubblicato in Russia solo nel 2000, il libro è una costellazione di riferimenti e contestazioni furiose sui totem e i tabù della società sovietica. Protagonista di questi racconti è Venedikt, alter-ego dell’autore che, ancora giovanissimo, esprime la sua disperata ribellione verso il mondo.

Il libro mostra la psichedelica visione del mondo dell’autore: questi diari giovanili seguono il giovane Venedikt nel periodo che va dall’ottobre 1956 al novembre 1957. Tredici mesi cruciali, dall’ammissione con lode all’Università di Mosca alla successiva espulsione, dal primo impiego al successivo licenziamento. Il racconto delle esperienze autobiografiche si accavalla e si interseca con riflessioni di carattere filosofico, pseudoscientifico, spesso assurdo. Ciò che colpisce immediatamente è l’andamento bipolare della scrittura tra rabbia incontrollabile a paura, tra odio e bisogno di affetto; lo spazio e il tempo non hanno confini e la metrica del linguaggio di Venedikt richiama le figure cinematografiche dello sterminatore di scarafaggi William Lee nel film ‘Pasto nudo’ (David Cronenberg, 1991) o di Michael Anderson, il nano immaginario del telefilm ‘I segreti di Twin Peaks’ (David Lynch, 1991).

La violenza narrativa con cui Venedikt fa sentire la sua psicopatologia ci ricorda che ancora oggi, a oltre 60 anni dall’uscita di questo libro, esistono milioni di persone che come lui vagano perse per il mondo alle quali nessuno sa indicare loro la via del ritorno a casa. Anche se negli ultimi 40 anni, la scienza della malattia mentale è diventata capace di fornire diagnosi sempre più accurate.

Antonio Cerasa

Venedikt Erofeev, “Memorie di uno psicopatico” (Miraggi, 2017)

erofeev scheda

Almanacco della Scienza CNR

Giuda – Il tumore di una diciottenne

Affidare alla scrittura il racconto di un percorso di malattia è un’esperienza sempre più diffusa e frequente. Nel caso di “Giuda” (Edizioni della Meridiana), all’autrice, giovanissima, viene diagnosticato un raro linfoma. Il diario, spiega, “serviva a me, al mio bisogno di fare sapere al mondo che avevo un cancro”


Marina Massone ha solo 18 anni quando le viene diagnosticato un raro tumore maligno del sangue, un linfoma T gamma delta, patologia che colpisce più frequentemente il genere maschile in età superiore ai sessant’anni, con solo il 10% di probabilità di sopravvivenza.
Fino a quel momento, la sua vita è quella di una ragazza solare e sportiva, pattinatrice su ghiaccio a ottimi livelli, nata e cresciuta ad Aosta tra famiglia e amici, diplomata in Canada per poi intraprendere un percorso di studi internazionali presso un ateneo olandese. Poi, dopo una serie di inspiegabili febbri e una crescente anemia, l’incontro con “Giuda” – così lei battezza la malattia – e l’inizio di una nuova realtà fatta di ospedali, esami, chemioterapia, fino al trapianto di midollo da parte del fratello Federico, operazione che la salverà.
Un percorso in cui Marina utilizza la scrittura come mezzo per mantenere un equilibrio e una direzione: “Scrivere è stato meglio di una seduta dallo psicologo, di un bicchiere di vino, di una corsa all’aria aperta. Ho scritto per digerire le informazioni che ricevevo, capirle, rielaborarle e farle mie. Ho scritto per prendere distanza da quello che mi capitava e vedere come il personaggio che avevo creato – che ero in realtà io stessa – trovava sempre un modo per andare avanti. Così mi si disegnava davanti agli occhi la strada da seguire e riuscivo a vivere un presente intenso come mai prima”.
Nel libro si piange e si ride: Marina racconta la sua storia senza filtri, guardandosi dentro lucidamente, alternando la disperazione alla consolazione, abissi di malessere e slanci di ritrovata energia, fiducia – nei medici ma anche nella sua “capacità di farcela”- rabbia e pensieri “da grande“, come la consapevolezza di non poter avere figli, fino alla serenità ritrovata nelle piccole cose, come il semplice ricominciare a fare ginnastica all’aria aperta dopo quattro cicli di terapia.
La decisione di rendere pubbliche le sue pagine arriva solo dopo il centesimo giorno dal trapianto di midollo osseo, data che segna il superamento del rischio di andare incontro a gravi complicazioni dopo l’operazione e, quindi, simbolicamente, la guarigione. In questo lungo percorso, il diario – nato “egoista”- (“serviva a me, al mio bisogno di fare sapere al mondo che avevo un cancro”), diventa una testimonianza di altruismo e uno strumento di sensibilizzazione al tema della donazione del midollo osseo. “È un’operazione sicura e non invasiva, nel nostro Paese esiste un Registro dei donatori: più persone sono iscritte, maggiori possibilità si avranno di trovare un donatore compatibile con il paziente che ha bisogno del trapianto”.
Nelle ultime pagine, Marina si congeda da Giuda con una lettera dalla quale traspare tutta la forza dei suoi 22 anni: “Non ho cambiato il mio approccio alla vita, come spesso si pensa che possa accadere dopo una malattia: io amavo la vita prima di Giuda, l’ho amata durante e la amo anche adesso”.

F.G.


Marina Massone, “Giuda”, Edizioni della Meridiana (2021)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

La parabola dei ciechi

Racconto breve ispirato al quadro “La parabola dei ciechi” dell’artista fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio. L’opera è in Italia, esposta nel museo di Capodimonte.

Parabola dei ciechi, Pieter Bruegel il Vecchio. 1568

Sullo sfondo della campagna della Fiandra (…) sei medicanti cenciosi. (…)

Devono rispondere alla convocazione di un pittore che vuole ritrarli (…)

Finalmente raggiungono l’artista, cui vorrebbero soprattutto chiedere perché egli voglia ritrarli mentre cadono e si umiliano di fronte a lui (…)

L’esito del lungo viaggio (…) quel dipinto che William Carlos Williams definì “orribile e insieme superbo (…)

Ehi, tu, chiediamo procedendo, ci sono uomini qui?

Sì, dice il bambino.

Quanti?

Devo contarli?

No. Press’a poco.

Forse dieci.

Dove?

Davanti alle loro case.

E che cosa vogliono?

Vedervi.

Allora ci guardano?

Sì.

Adesso?

Sì, adesso.

Ah, va bene, diciamo. E, come sempre quando ci osservano, a fatica ci avviciniamo l’uno all’altro, e volgiamo lo sguardo ostentatamente verso l’alto, e ci rendiamo conto di essere guardati, sia da vicini che da lontano. Un mostro marino noi siamo, quando passiamo così per i villaggi, un insieme che si muove con difficoltà, silenzioso e indistinto. Quando si espone alla vista, s’imbatte nella paura, nel disgusto e nella pietà. (…)

Ecco il cibo, dice il bambino, è tutto per voi.

E prende le nostre mani e le posa sul pane e sulle pentole e ci spinge intorno al tavolo. Cerchiamo tastoni il cibo per sapere cosa c’è. Mettiamo persino le mani nel latte che sta vicino al mangiare, tiepido ci scorre addosso. Ma questo lo conosciamo. Di continuo prendiamo cose che non abbiamo previsto. Se addirittura non afferriamo qualcosa che non esiste. (…)

Ehi, gridiamo, che c’è da guardare così a bocca aperta?

Non guardano a bocca aperta, dice chi-ha-bussato.

E noi sentiamo che guardano a bocca apert??

Non guardano a bocca aperta, dice lui.

Ah, diciamo, che facciano pure. E prendiamo prima da questa poi da quella scodella, prima cibi freddi, poi bollenti e poi ancora tiepidi. Arriva un venticello e siamo contenti di avere i nostri camiciotti.

Con il cucchiaio prendiamo anche la broda, che è dolce, non salata, e la infiliamo in bocca.

Guarda come si sbrodolano, dicono.

Sì, diciamo, ci sbrodoliamo.

Allora ridono e dicono: Continuate così, A sudare e a ingozzarvi. (…) Il bambino affinché si ricordi più facilmente. Perché sappiamo che il pittore vuole dipingerci, ma ancora non ci crediamo ancora. (Non siamo mai stati dipinti finora!) Altrimenti non ha nessuno da dipingere? (…)

Gert Hofmann. La Parabola dei ciechi. (Trans, 1985)