La parabola dei ciechi

Hofmann mostra cosa i più provano davanti alla disabilità:paura, disgusto e pietà.

[…] Non ti vediamo affatto, guardiamo solo nella direzione da cui proviene la tua voce, sciocchino.

Comunque, dice il bambino a chi-ha-bussato, non sono tutti ciechi.

Tutti, dice chi-ha-bussato, altrimenti non verrebbero dipinti. Una sera d’estate, in cui faceva molto caldo ed essi sedevano sotto un ciliegio, sono arrivati degli uccelli. Si sono appollaiati sulle loro spalle e con il becco gli hanno cavato gli occhi.

Che tipo di uccelli?

Cornacchie o corvi.

Ed essi non hanno reagito?

Accadde tutto molto rapidamente, dice chi-ha-bussato.

È vero?, chiede il bambino e si gira di nuovo verso noi.

Si, vero, diciamo, e annuiamo.

E perché vi hanno cavato gli occhi?

Perché abbiamo ucciso i loro piccoli.

E perché avete ucciso i loro piccoli? 

Non potevamo più sentire lo schiamazzo, o comunque pensavamo di non esserne capaci.

Solo che alcuni sostengono che non si è trattato di corvi o di cornacchie, ma di taccole, dice chi-ha-bussato.

[…] Hei, tu, chiediamo procedendo, ci sono uomini qui?

Si, dice il bambino.

Quanti?

Devo contarli?

No. Press’a poco.

Forse dieci.

Dove?

Davanti alle loro case.

E che cosa vogliono?

Vedervi.

Allora ci guardano?

Sì.

Adesso?

Sì, adesso.

Ah, va bene, diciamo. E, come sempre quando ci osservano, a fatica ci avviciniamo l’uno all’altro, e volgiamo lo sguardo ostentatamente verso l’alto, e ci rendiamo conto di essere guardati, sia da vicino che da lontano. Un mostro marino noi siamo, quando passiamo così per i villaggi, un insieme che si muove con difficoltà, silenzioso e indistinto. Quando si espone alla vista, s’imbatte nella paura, nel disgusto e nella pietà.

[…] Pietà per i ciechi, gridiamo e agitiamo i bastoni affinchè ci scansino. (se poi non temono più i nostri bastoni, gli mostreremo gli occhi.) Chiediamo allora dei corvi, e chiediamo anche della stagione, perché non siamo mai sicuri. Di certo è una giornata fredda, ma che significa in una regione con un inverno così lungo? Chiediamo: primavera? Primavera, dicono loro. Chiediamo : fra breve? Sì, fra breve. E allora primavera, pensiamo e cerchiamo di annusare nel vento un po’ di tepore, mentre rinfrancati avanziamo lentamente. Forse è la piazza del villaggio, quella per la quale ci trasciniamo, ma forse non lo è.

Devo guidarvi?, chiede il bambino, ma noi non rispondiamo. Gridiamo : pietà per i ciechi.

Sì, prendili per mano e portali al tavolo con il cibo, dice chi-ha-bussato, saranno affamati.

Sempre affamati, diciamo.

[…] ecco il cibo, dice il bambino, è tutto per voi. E prende le nostre mani e le posa sul pane e sulle pentole e ci spinge intorno al tavolo. Cerchiamo tastoni il cibo per sapere che cosa c’è. Mettiamo persino le mani nel latte che sta vicino al mangiare, tiepido ci scorre addosso. Ma questo lo conosciamo. Di continuo prendiamo cose che non abbiamo previsto. Se addirittura non afferriamo qualcosa che non esiste.

[…] Ehi, gridiamo, che c’è da guardare così a bocca aperta?

Non guardano a bocca aperta, dice chi-ha-bussato.

E se noi sentiamo che guardano a bocca aperta?

Non guardano a bocca aperta, dice lui.

Ah, diciamo, che facciano pure. E prendiamo prima da questa poi da quella scodella, prima cibi freddi, poi bollenti e poi ancora tiepidi. Arriva un venticello e siamo contenti di avere i nostri camiciotti. Con il cucchiaio prendiamo anche la broda, che è dolce, non salata, e la infiliamo in bocca. Guarda come si sbrodolano, dicono.

Sì, diciamo, ci sbrodoliamo.

Allora ridono e dicono: continuate così. A sudare e a ingozzarvi.

Grazie, diciamo.

[…] strano che egli voglia dipingere proprio noi, pensiamo. Perché la gente non ci vede volentieri neanche non dipinti, cioè così come siamo. Già da lontano, quando ci vede arrivare, ci scansa, si appiattisce passandoci accanto. Perché al contrario dei nostri compari, gli storpi, noi non portiamo fortuna. Se dipendesse dalla gente, ci scaverebbe una profonda buca nella terra, ci getterebbe dentro e la ricoprirebbe per bene, per eliminarci, altro che dipingerci. Altro che fissarci dipingendoci, duplicarci attraverso la pittura.

[…] Va bene, diciamo. Allora, chiediamo, hai il tuo bastone?

Sì, dice Ripolus, il mio bastone è qui. E con questo cammina tastoni sul terreno, affinché noi lo si possa sentire. 

Bene, diciamo, e ora tendilo, perché tu sappia dove metti i piedi. Perché anche noi si sappia dove mettiamo i piedi, quando ti seguiamo. Tendilo, Ripolus, tendilo, gridiamo.

Sì, dice Ripolus, ora lo tendo. E dove andiamo? Chiede, dopo che abbiamo camminato per un po’. Perché la terra del signore, che per tutti è infinita per noi è ancora più grande. E tuttavia siamo sempre in grado di andare avanti, solo ci si chiede per dove. Perché è certo che non andiamo solo diritto, ma anche qua e là, e non solo in avanti, ma anche indietro o in tondo. Ben presto il villaggio pi piccolo si fa interminabilmente lungo, e uno di noi si attacca all’altro o si appoggia al bastone e deve prendere per bene fiato se vuole continuare. Una gruccia non sarebbe male. Con il suo aiuto voleremmo a bassa quota, teste insaccate, sopra la terra. Ma questo significa essere zoppi, non solo ciechi come noi. Accontentiamoci dunque di ciò che abbiamo, avanziamo strisciando con i nostri bastoni! O brandiamoli contro ciò che ci sbarra il passo, gli uomini, il loro bestiame, i loro carri.

Gert Hofmann

Treccani Enciclopedia Online

Gert Hofmann, “La parabola dei ciechi” (1985)

Carmen Troiano

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