Un ictus che ricorda qualcosa…

È quasi scontato leggere il libro di Andrea Vianello condizionati dallo scenario del Covid-19. Ma la comparazione è giustificata: l’ischemia che colpisce il giornalista e conduttore Tv viene da lui vissuta come l’invasione di un male improvviso, misterioso e incomprensibile. Esattamente come sta capitando a tutti noi


In questi tempi è facile, fin troppo facile, quasi scontato, ma anche inevitabile, leggere qualunque vicenda – di malattia ma non solo – nello scenario, nell’ottica, nella chiave del Coronavirus. Il libro di Andrea Vianello però si presta a questa comparazione, pur distorsiva, in modo particolare. Il giornalista e conduttore televisivo si è deciso a raccontare la storia dell’ictus, per la precisione dell’ischemia cerebrale che ha colpito il lato sinistro del suo cervello, causata da una dissecazione della carotide.
Rispetto all’antico ma oggi particolarmente diffuso genere della medicina letteraria, dei diari di malattia, degli outing clinici e sanitari, in questa vicenda c’è infatti un aspetto più specifico: Vianello viene colpito in modo violento, rischia la vita, deve subire una fortunatamente riuscitissima operazione d’urgenza, segnata però da una complicanza non banale: la lesione della parola, che è il suo strumento di lavoro. Chi lo abbia visto di recente in una delle presentazioni del libro ha potuto constatare che il trauma è stato quasi completamente recuperato, non a caso un capitolo è dedicato alla struttura che l’ha curato e riabilitato, ma rimane intatto il senso di invasione da parte di un male improvviso e – almeno all’inizio – del tutto misterioso e quindi incomprensibile. Esattamente come è capitato a tutti noi con il Covid-19: siamo malati asintomatici, parenti, residenti in zone rosse e arancioni, cambia la misura, non lo sgomento.
Il merito di farci cogliere questa somiglianza, verrebbe da dire di affratellarci in questo comune destino, è ovviamente della impeccabile, lucidissima scrittura dell’autore. Basti citare il passo che giustamente è stato valorizzato dall’editore Mondadori nella bandella di – questo il titolo del diario – “Ogni parola che sapevo”. “Mia moglie arriva trafelata. Mi sembra un gigante sopra di me, un gigante buono che mi aiuterà, io sono inciampato in un buco nero del bosco ma lei mi tirerà fuori da lì. Ha gli occhi sgranati. ‘Che succede? Che succede?’ mi chiede. La mia risposta è chiara: ‘Megpdeiigrhiaa!’ le dico concitato, ‘mrlaiofoourhdka uhfe giumhu’. Non si capisce niente, lei non capisce niente, nemmeno io capisco niente, parlo una lingua nuova, eppure lo so cosa voglio dire, ma un demone si è intrufolato nella mia bocca. ‘Ceritturgra, mathra, titdiiiadotaio.’ Sono infuriato con me, sono infuriato con lei perché non capisce. ‘Stai calmo’ la sento dire, ma sono alle prese con questa follia, non riesco a dire una parola, maledizione, una vera parola, mi sento imprigionato, imbavagliato, sperduto, nel buco nero del bosco non ci sono parole, le mie amatissime parole, solo versi infantili, muggiti incomprensibili, rantoli disperati”.
La vulnerabilità fisica, l’insufficienza del nostro vocabolario, la necessità per se stessi e per gli altri di dare testimonianza della propria debolezza e anche della propria sofferenza, dei calvari personali e collettivi, la consapevolezza che possiamo passare in poche ore – o in qualche settimana, cambia poco – dalla vita “normale”, anche se non brillante come quella di chi vive illuminato dai riflettori di un studio tv, ai meandri inestricabili della sanità pubblica… Sì, le analogie tra la vicenda di Vianello e quella di noi tutti ci sono, e non sono poche.

Marco Ferrazzoli


Andrea Vianello, “Ogni parola che sapevo”, Mondadori (2020)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Denise De Santana

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