La cecità in Pascoli

“Il cieco” 

Chi  l’udi prima piangere? Fu l’alba.

Egli piangeva; e, per udirlo, ascese

Qualche ramarro per una vitalba.

E strettero, per breve ora, sospese

Su quel capo due grandi aquile fosche.

Presso era un cane, con le zampe tese 

All’aria, morto; tra un ronzio di mosche.

“Donde venni non so; nè dove io vada
saper m’è dato. Il filo del pensiero
che mi reggeva, per la cieca strada,
da voci a voci, dal dì nero al nero
tacer notturno (m’addormii; sognai:
vedevo in sogno che vedevo il vero:
desto, più non lo so, nè saprò mai…);

nel chiaro sonno, in mezzo a un rombo d’api,
si ruppe il tenue filo. E poi che gli occhi
apersi, cerco i due penduli capi
in vano. Mi levai sopra i ginocchi,
mi levai su’ due piedi. E l’aria invano
nera palpo, e la terra anche, s’io tocchi
pure il guinzaglio, cui lasciò la mano

addormentata. Oh! non credo io che dorma
la mia guida, e con lieve squittir segua
nel chiaro sonno il lieve odor d’un’orma!
Egli è fuggito; è vano che l’insegua
per l’ombra il suono delle mie parole!
Oh! la lunga ombra che non mai dilegua
per la sempre aspettata alba d’un sole,

che di là brilla! Vano il grido,

vano il pianto. Io sono il solo dei viventi,

lontano a tutti ed anche a me lontano.

Io so che in alto scivolano i venti, 

e vanno e vanno senza trovar l’eco,

a cui frangere al fine i miei lamenti;

a cui portare il murmore del cieco…

[…] Chi che tu sia, che non vedo io, che vedi
me, parla dunque: dove sono? Io voglio
scansar l’abisso che mi sento ai piedi…

di fronte? a tergo? Parlami. Il gorgoglio
n’odo incessante; e d’ogni intorno pare
che venga; ed io qui sto, come uno scoglio,

tra un nero immenso fluttuar di mare,

Così piangeva: e l’aurea sera nelle
rughe gli ardea del viso; e la rugiada
sopra il suo capo piovvero le stelle.

Ed egli stava, irresoluto, a bada
del nullo abisso, e gli occhi intorno, pieni
d’oblio, volgeva; fin ch’— io so la strada —

una, la Morte, gli sussurrò ― vieni! —

“Il fringuello cieco” 

Finch… finché nel cielo volai,
finch… finch’ebbi il nido sul moro,
c’era un lume lassù, in ma’ mai,
un gran lume di fuoco e d’oro,
che andava sul cielo canoro,
spariva in un tacito oblìo…

Il sole!… Ogni alba nella macchia,
ogni mattina per il brolo,
– Ci sarà? – chiedea la cornacchia;
– Non c’è più! – gemea l’assiuolo;
e cantava già l’usignolo:
– Addio, addio dio dio dio dio… –
Ma la lodola su dal grano
saliva a vedere ove fosse.
Lo vedeva lontan lontano
con le belle nuvole rosse.
E, scesa al solco donde mosse,
trillava: – C’è, c’è, lode a Dio! –

“Finch… finché non vedo, non credo”
però dicevo a quando a quando.
Il merlo fischiava – Io lo vedo -;
l’usignolo zittìa spiando.
Poi cantava gracile e blando:
– Anch’io anch’io chio chio chio chio… –

Ma il dì ch’io persi cieli e nidi,
ahimè che fu vero, e s’è spento!
Sentii gli occhi pungermi, e vidi
che s’annerava lento lento.
Ed ora perciò mi risento:
– O sol sol sol sol… sole mio? –

Giovanni Pascoli

Treccani Enciclopedia Online

Giovanni Pascoli, “Il cieco” (poemetti)

Giovanni Pascoli, “Il fringuello cieco” (Canti di Castelvecchio)

Tiresia

Odisseo discende negli inferi e l’indovino Tiresia gli predice il tormentato ritorno in patria a causa di Poseidone.

Dicevo: ‹Circe, mantieni la promessa che mi facesti, di lasciarmi andare a casa. Ormai lo desidero anch’io, e sono impazienti gli altri compagni: mi rodono l’anima di continuo, sospirando intorno a me quando tu sei lontana.› «Così dicevo. E lei subito mi rispondeva, la divina tra le dee: ‹Sì, Odisseo, non rimanete più ormai contro voglia nella mia casa. Ma voi dovete prima compiere un altro viaggio e andare alle case di Ade e della terribile Persefone per consultare l’anima del tebano Tiresia, l’indovino cieco. Hai da sapere che il suo spirito vitale è immutato: a lui, anche dopo la morte, Persefone concesse la mente. Lui solo ha sentimento e intelligenza. Gli altri invece svolazzano laggiù come ombre.›

[…] «E venne avanti l’anima della madre morta: sì, Anticlea, la figlia del magnanimo Autolico, che lasciavo viva partendo per Ilio. E io a vederla piansi ed ebbi compassione: tuttavia neppure così, sebbene fossi profondamente addolorato, la lasciavo accostarsi al sangue prima d’interrogare Tiresia.

«E venne avanti l’anima del tebano Tiresia. Aveva in mano lo scettro d’oro: mi riconobbe e disse: ‹O figlio di Laerte, discendente di Zeus, Odisseo versatile e scaltro, perché mai, infelice, hai lasciato la luce del sole, e giungesti qui a vedere i morti e la regione che non ha gioia? Ma scostati dalla fossa, tieni lontano la spada: voglio bere del sangue e dirti poi la verità.›

«Così parlava. Ed io mi trassi indietro e cacciai giù nella guaina la spada.

«E lui, quando ebbe bevuto il sangue nero, allora mi rivolgeva parole, l’indovino irreprensibile. Diceva: ‹Il ritorno tu cerchi di conoscere, glorioso Odisseo, il dolce ritorno in patria, che un dio ti renderà doloroso. Non riuscirai, io penso, a sfuggire all’Enosigeo che ti serba rancore in fondo all’animo. Egli è adirato perché gli accecasti il caro figlio. Ma anche così tornerete pur sopportando sventure, se vorrai frenare la voglia tua e dei compagni, non appena accosterai la nave all’isola Trinacria  scampando al mare.

Omero

Treccani Enciclopedia Online

Omero, Odissea

Senso di libertà

Tiziano Terzani riceve la diagnosi di cancro e, gradualmente, conquista una sensazione di libertà e felicità.

Si sa, capita a tanta gente, ma non si pensa mai che potrebbe capitare a noi. Questo era sempre stato anche il mio atteggiamento. Cos’ quando capitò a me, ero impreparato come tutti e in un primo momento fu come se davvero succedesse a qualcun altro. <<Signor Terzani, lei ha un cancro>>, disse il medico, ma era come non parlasse a me, tanto è vero – e me ne accorsi subito, meravigliandomi- che non mi disperai, non mi commossi: come se in fondo la cosa non mi riguardasse.

Forse quella prima indifferenza fu solo un’istintiva forma di difesa, un modo per mantenere un contegno, per prendere le distanze, ma mi aiutò. Riuscire a guardarsi con gli occhi di un sé fuori da sé serve sempre. Ed è un esercizio, questo, che si può imparare. Passai ancora una notte in ospedale, da solo, a riflettere, pensai a quanti altri prima di me, in quelle stesse stanze, avevano avuto simili notizie e trovai quella compagnia in qualche modo incoraggiante. Ero a Bologna. C’ero arrivato attraverso la solita trafila di piccoli passi, ognuno di per sé insignificante, ma nell’insieme decisivi, come tante cose nella vita: una persistente diarrea incominciata a Calcutta, vari esami all’Istituto delle Malattie tropicali a Parigi, atri esami per scoprire la causa di un’inspiegabile anemia, finchè un accorto medico italiano, non accontentandosi delle spiegazioni più ovvie, s’era messo con un suo strano strumento, un penetrante serpentaccio di gomma dall’occhio luminoso, a guardare nei recessi più reconditi del mio corpo e, per coltivata esperienza, aveva immediatamente riconosciuto quel che conosceva.

[…] il cancro mi offriva una buona occasione: quella di non ripetermi. Non era la sola. Lentamente mi accorsi che il cncro era diventato anche una sorta di scudo dietro il quale mi proteggevo, una difesa contro tutto quel che prima mi aggrediva, una sorta di baluardo contro la banalità del quotidiano, gli impegni sociali, contro il fare conversazione. Col cancro omi ero conquistato il diritto di non sentirmi più in dovere di nulla, di non avere più sensi di colpa. Finalmente ero libero. Totalmente libero. Parrà strano, e a volte pareva stranissimo anche a me, ma ero felice.

Tiziano Terzani

Scheda dell’editore

Tiziano Terzani, “Un altro giro di giostra”, (2004, Longanesi)

Colpa delle stelle

John Green affronta il tema del cancro dando voce a due adolescenti: Hazel, una granata sul punto di esplodere, e Augustus che sembra essersi lasciato alle spalle un osteosarcoma.

“Io non esco” ho detto. “Non voglio uscire con nessuno. È un’idea terribile e un enorme spreco di tempo e…”
“Tesoro” ha detto la mamma. “Cosa c’è che non va?”
“Sono una… una… una granata, mamma. Sono una granata e a un certo punto esploderò e vorrei minimizzare le vittime, okay?”
Mio padre ha piegato la testa come un cucciolo rimproverato.
“Sono una granata” ho detto di nuovo. “Voglio starmene lontana dalla gente e leggere libri e riflettere e stare con voi, perché non c’è niente che possa fare per non ferire voi, siete troppo coinvolti, quindi per favore lasciatemi stare, okay? Non sono depressa. Non ho bisogno di uscire di più. E non posso essere un’adolescente normale, perché sono una granata.”
“Hazel” ha detto papà, e poi ha singhiozzato. Piange un sacco, il mio papà.
“Vado in camera mia a leggere un po’, okay? Sto bene. Sto bene sul serio; voglio solo andare un po’ a leggere.”

[…] A volte vorrei solo che non fosse accaduto. Il cancro, dico.

[…] Quando è venuto il suo turno ha sorriso un po’. Aveva una voce bassa, fumosa, eccitante da morire. “Mi chiamo Augustus Waters” ha detto. “Ho diciassette anni. Ho avuto un lieve osteosarcoma un anno e mezzo fa, ma oggi sono qui solo su richiesta di Isaac.”
“E come ti senti?” ha chiesto Patrick.
“Oh, a meraviglia.” Augustus Waters ha sorriso con un angolo della bocca. “Sono su una montagna russa che va solo in salita, amico mio.”

John Green

Google Libri

John Green, “Colpa delle stelle” (2012, Rizzoli)

Un punto nero nell’immenso azzurro del mare

I malati di cancro che hanno vinto la malattia sono dei sopravvissuti. Quelli, invece, che ancora non l’hanno sconfitto si sentono come foglie al vento.

<<Cancro = morte. Era davvero proprio così? Non poteva essere, non lo accettvo. Io avevo ancora troppo da fare, da vedere, da amare, da odiare, da rimpiangere, da rimordere perché tutto finisse così. Proprio allora, agli inizi di tutto, sentii dentro una voce che mi diceva “Tu ce la farai, tu non morirai, tu lo sconfiggi il bastardo”. E anche nei momenti di malinconia e di tristezza che non tardarono ad arrivare, chiudevo gli occhi e ripetevo “io ce la faccio. Io vinco”>>

[…] Lo so siamo sovraffollati di pazienti oncologici o ex tali, che solo per il fatto di essere sopravvisuti si sentono graziati ed investiti del potere quasi paranormale di curare gli altri perché loro “ci sono passati e solo loro possono capire”. Io invece parto da un punto di vista leggermente diverso: io non sono nessuno per dire a voi che sfogliate queste poche pagine sincere come condurre la vostra vita. Sono solo qualcuno che ogni giorno siete e cammina in mezzo ad altri esseri umani con una pena enorme nel cuore, che niente e nessuno potrà cancellare ma prova ogni giorno con difficoltà e coraggio a vivere. Esattamente come molti di voi. Questa sono io.

Marina Neri

Scheda

Marina Neri, “Un punto nero nell’immenso azzurro del mare” (2011, UR Editore)

Con molta cura

La vita ha valore anche quando subentra una malattia e si ha bisogno dell’altro, che con amore e disponibilità lenisce le difficoltà.

Io sono nient’altro che la cura che faccio. E non sono solo nel farla. La cura presuppone l’esercizio quotidiano dell’amore. Non c’è altra vita che questa, adesso, questa vita meravigliosa che permette altra vita. In una ghirlanda magica, un rimandarsi continuo. Mi travolge un’onda di gratitudine senza fine. Curarsi, praticare con metodo ed efficienza la cura che devi obbligatoriamente fare, vuol dire star bene, in linea di massima.

L’esercizio quotidiano dell’amore, questo infine auguro a tutti, a tutte. Non c’è altro, credete. Se non avete sottomano l’opportunità di una cura da fare -scherzo, ma fino a un certo punto! -potete sempre però prendervi cura. Prendervi cura di voi stessi, e di quelli cui volete bene. E magari anche degli altri. Non c’è davvero altro, credete. 

Questo è davvero importante, penso allora: non è vita minore questa mia, che adesso mi è data, è vita e capacità e voglia di sorridere alla vita”.

Una lettura capace di donare a qualsiasi lettore un’angolazione diversa per vedere e vivere la propria vita. Perché in fondo, abbiamo tutti bisogno di “abituarci a sentire quanto è prezioso e unico il momento in cui ti accade di vivere.

Severino Cesari

“Severino Cesari, cinquanta scrittori raccontano il «Maestro Severino»”, Il Sole 24 ore, 25 ottobre 2018

Severino Cesari, Con molta cura (2017, Einaudi)

L’uomo della pioggia

Donny Ray è malato di leucemia acuta, ma non ha un’assicurazione tale da permettergli di affrontare ulteriori cicli di chemioterapia e/o ricevere il trapianto di midollo osseo.

<<Peso un po’ meno di cinquanta chili. Undici mesi fa ne pesavo settantadue. Hanno scoperto la leucemia in tempo per curarla. Ho un gemello identico, e il midollo osseo è compatibile. Il trapianto mi avrebbe salvato la vita, ma non abbiamo potuto permettercelo. Avevamo l’assicurazione, ma il resto lo sa. (…) >>

[…] Poco dopo che a Donny Ray era stata diagnosticata la leucemia acuta, è stato fatto un modesto tentativo di raccogliere fondi per la terapia. Dot ha attivato diversi amici, che hanno sstampato la faccia di Donny Ray sui cartoni per il latto in vendita nei caffè e nei supermercati di tutta North Memphis. Però non hanno tirato su molto, mi ha detto. Allora hanno affittato un Circolo Ricreativo locale e hanno organizzato una grande festa a base di pescigatto e insalate aromatiche e hanno addirittura chiamato un disc jockey di musica country. Come risultato, ci hanno rimesso ventotto dollari.

Il primo ciclo di chemioterapia è costato quattromila dollari; due terzi li ha assorbiti il St.Peter’s, il resto l’hanno messo insieme alla meglio. Cinque mesi dopo, la leucemia si è manifestata di nuovo.

[…] se i trapianti di midollo osseo non fossero tanto costosi, forse avremmo potuto fare qualcosa. Ero disposto a lavorare gratis, ma è un intervento che viene a costare duecentomila dollari. Nessun ospedale, nessuna clinica del nostro paese può permettersi di sorvolare su una somma simile>>

<<C’è da odiare le società di assicurazione, no?>>

John Grisham

Treccani Enciclopedia Online

John Grisham, L’uomo della pioggia (1995)

I dolori del Giovane Werther

Il brano antologizzato è tratto dall’ultima pagina de I Dolori del Giovane Werther. Werther non sopporta più la propria esistenza a causa anche di un’importante delusione d’amore. Le righe che riportiamo sono dotate di una precisione anatomica notevole: il suicidio non è cosi semplice come si possa immaginare; Werther non riesce infatti ad uccidersi.

Un vicino vide il lampo e udì il colpo; ma poiché, dopo, tutto rimase tranquillo, non vi badò oltre.

La mattina alle sei entrò il servitore col lume. Vide il suo padrone per terra, le pistole, il sangue. Lo chiamò, lo scosse: nessuna risposta, solo un rantolo. Corse dal medico, da Alberto. Carlotta udì suonare il campanello e un tremito le corse per tutte le membra. Svegliò il marito, si alzarono, e il servitore, balbettando e piangendo, diede loro la notizia. Carlotta cadde svenuta ai piedi di Alberto.

Quando il medico giunse presso l’infelice, lo trovò che non c’era più niente da fare; il polso batteva, le membra erano del tutto paralizzate. S’era sparato alla testa, sopra l’occhio destro, il cervello gli era saltato. Per precauzione gli fu praticato un salasso; il sangue uscì, respirava ancora.

Dal sangue che era sulla spalliera della seggiola, si poté arguire che si era colpito mentre sedeva alla scrivania; poi era caduto e si era rotolato convulsamente intorno alla seggiola. Giaceva supino presso la finestra, immobile; era completamente vestito, con gli stivali, la giacca e il panciotto giallo.

La casa, il vicinato, la città erano in subbuglio. Giunse Alberto. Werther era stato trasportato sul letto, con la fronte fasciata; il viso era mortalmente pallido, non faceva alcun movimento. Il rantolo era orribile a udirsi, ora debole, ora più forte; si attendeva la fine.

Non aveva bevuto che un bicchiere di vino. Sulla sua scrivania stava aperto il dramma Emilia Galotti. La costernazione di Alberto, il dolore di Carlotta erano indicibili.

Il vecchio borgomastro accorse a briglia sciolta alla notizia, e baciò il morente versando lacrime cocenti. I suoi figli più grandi lo raggiunsero presto, si gettarono accanto al letto, esternando il loro acerbo dolore, gli baciarono le mani e la bocca e il maggiore, che era stato sempre il suo prediletto, non si staccò dalle sue labbra fino all’ultimo respiro, e bisognò strapparlo via con la forza. Werther morì verso mezzogiorno. La presenza del borgomastro e le misure da lui prese valsero ad arginare lo scandalo. Verso le undici di sera lo fece seppellire nel luogo da lui designato. Il vecchio seguì il feretro coi suoi figli; Alberto non ne ebbe la forza; si temeva per la vita di Carlotta. Alcuni artigiani lo trasportarono, e nessun prete lo accompagnò.

Johann Wolfgang von Goethe

fonte: goethe_werther

Ippolito

L’Ippolito del tragediografo greco Euripide fu rappresentato nel 428 a.C ad Atene. La tragedia narra la storia dell’amore proibito tra Fedra e il suo figliastro Ippolito. Fedra è sconvolta nella sua intera persona dalla potenza dell’amore. Il brano antologizzato è tratto dalla prima apparizione del coro: è preoccupato dal male che affligge Fedra e ne descrive i sintomi.

CORO
str. a
C’è una roccia, raccontano, che stilla
acqua d’oceano: dalle rupi
erompe una sorgiva,
vi attingono con brocche.
Là c’era una mia amica,
lavava nella corrente vesti purpuree
le distendeva sopra
una calda, assolata pietra.
Le prime voci sulla mia padrona
mi giunsero di là.

ant. a
Giace in casa, stremata,
sul suo letto di inferma,
veli leggeri le ombrano
il biondo capo.
Da due giorni, mi dicono,
rifiuta di nutrirsi,
tiene puro il suo corpo
del cibo di Cerere: vuole
approdare al termine funesto di morte
spinta da un male segreto.

str. b
† Forse, † figlia, sei in potere
di Pan, oppure di Ecate o
dei venerandi Coribanti
o della Madre dei monti.
O ti tormenti per qualche tua colpa
contro Dictinna, la dea della caccia:
l’hai offesa con libagioni non offerte?
Oltre i laghi essa incede,
oltre la terra, sui vortici d’acque
del salso mare.

ant. b
O il tuo consorte, il capo
degli Eretteidi, nobile di stirpe,
lo signoreggia un amore segreto,
lo sottrae al tuo letto, nel palazzo?
o un navigante salpato da Creta
è giunto al nostro
porto ospitale
con notizie per la regina:
e l’anima è inchiodata al letto
per il dolore e l’angoscia?

ep.
Convive, di solito, con la difficile natura
delle donne una triste infelice debolezza
di travagli e vaneggiamenti.
Ha attraversato anche me, il mio grembo
questa tempesta. E invocavo
Artemide celeste, signora dell’arco, protettrice
dei parti; io la venero, tanto,
ed essa, grazie a Dio, accorre da me, sempre.
Ma guarda lì davanti alla porta la vecchia nutrice: sta accompagnando fuori dal palazzo la padrona. Che volto tetro,
rannuvolato ha la regina. E io desidero sapere, con tutta l’anima, che cosa l’abbia distrutta, perché sia così pallida.

Euripide

Da Euripide, Ippolito, ed. digitale a cura di Patrizio Sanasi. Liberamente disponibile presso il sito web https://spazioinwind.libero.it/latinovivo/Testintegrali/Ippolito.htm

La lettera scarlatta

I due brani antologizzati dalla Lettera Scarlatta di Nathaniel Hawthorne presentano sul proscenio della narrazione due figure intrecciate e profondamente diverse: Hester Prynne ed il reverendo Dimmesdale. Lo sfondo è quello di una civiltà ipocritamente e fanaticamente religiosa, pronta a mettere al patibolo Hester per essere stata trovata incinta durante una prolungata assenza del marito: il padre della nascitura Perla è proprio il reverendo. Nel primo brano si comincia ad intravedere il disordine psicologico che nel secondo brano porterà il reverendo alla morte, dopo aver sofferto sino alla fine del romanzo di un senso di colpa profondo per la propria codardia.

Nel suo ultimo singolare incontro con Mr Dimmesdale Hester Prynne era rimasta turbata nel vedere in che  stato fosse il pastore. I suoi nervi sembravano assolutamente a pezzi. La forza d’animo era avvilita a debolezza infantile. Strisciava inerme sulla terra, mentre le sue facoltà intellettuali conservavano la pristina forza; anzi avevano forse  acquistato una energia morbosa, che soltanto la malattia avrebbe potuto conferire loro. Conoscendo una sequenza di  circostanze ignote a tutti gli altri, Hester poteva facilmente intuire che, accanto alla legittima azione della coscienza, sul  benessere e sulla tranquillità di Mr Dimmesdale operava e tuttora era in azione un terribile meccanismo. Memore di ciò  che era stato una volta quel povero peccatore, la sua anima si commosse davanti al brivido di terrore con cui si era  appellato a lei – la donna esclusa – invocando aiuto contro il nemico scoperto per istinto. Hester decise che egli aveva  diritto a tutto il suo aiuto. Poco abituata, nel suo lungo esilio dalla società umana, a misurare i principi di giusto e  ingiusto in base a criteri esterni a se stessa, Hester ritenne – o parve ritenere – di avere nei confronti del pastore una  responsabilità che non aveva verso nessun altro, neppure verso l’intero mondo. I legami che la univano al resto  dell’umanità – legami di fiori, sete, oro o chissà quale altro materiale – erano stati spezzati tutti […]

«Popolo della Nuova Inghilterra!», esclamò con una voce che si levò sopra gli astanti alta, solenne, maestosa –  eppure pervasa dal tremore e, a tratti, possente come un urlo che scaturisse dagli insondabili abissi del rimorso e della pena – «voi che mi avete amato! Voi che mi avete considerato santo! Guardatemi qui, il peggior peccatore! Finalmente!  Finalmente! Sono nel luogo dove avrei dovuto ergermi sette anni fa, con questa donna, il cui braccio – più di quel po’ di  forza che mi ha trascinato qui – mi sostiene in questo terribile momento, impedendomi di prostrarmi con la faccia a  terra! Ecco la lettera scarlatta che Hester porta! Avete tremato tutti vedendola! Ovunque la portassero i suoi passi –  ovunque lei cercasse di trovare riposo, sotto quel terribile fardello – dappertutto il simbolo ha gettato intorno a lei un  bagliore sinistro di ripugnanza e di orrore. Ma ecco in mezzo a voi un uomo davanti al cui marchio di infamia e di  peccato voi non avete tremato».

Parve a questo punto che il ministro non dovesse rivelare il resto del suo segreto. Ma combatté contro la  debolezza del corpo – e ancora di più contro la codardia del cuore – che tentava di sopraffarlo. Respingendo ogni aiuto,  avanzò di un passo avanti alla donna e alla bambina.

«Il marchio era su di lui!», continuò quasi con accanimento, tanto era deciso a rivelare tutto. «L’occhio di Dio  lo vedeva! Gli angeli lo additavano! Il demonio lo conosceva bene e lo affliggeva con il tocco delle sue dita di fiamma!  Ma egli lo nascondeva agli uomini con scaltrezza e si aggirava fra voi con il portamento di uno spirito addolorato,  perché puro in un mondo di peccato! Triste, perché lontano dai suoi congiunti in cielo! Ora, nel momento della morte,  sta davanti a voi! Vi incita a guardare ancora la lettera scarlatta di Hester! Vi dice che, pur con tutto il suo arcano orrore, è soltanto l’ombra di quello che egli porta sul petto e che anche questo, il suo marchio rosso, è soltanto il segno di ciò  che l’ha inaridito nel profondo del cuore! C’è qualcuno qui che mette in dubbio il castigo di Dio su un peccatore?  Guardate! Guardate la terribile testimonianza!»

Con un gesto convulso strappò il paramento sacro dal petto. Ecco la rivelazione! Ma sarebbe irriverente  descriverla. Per un attimo lo sguardo della moltitudine inorridita si concentrò sullo spaventoso miracolo, mentre il  ministro si ergeva con il volto avvampante di trionfo, come chi, nello spasimo di un dolore acutissimo, abbia conseguito la vittoria. Poi si abbatté sul palco! Hester lo sollevò un poco e gli sostenne la testa contro il proprio petto. Il vecchio  Roger Chillingworth si inginocchiò al suo fianco, con un volto vuoto e vacuo, che sembrava privo di vita. «Mi sei sfuggito!», ripeté più di una volta. «Mi sei sfuggito!»

[…]

Perla gli baciò le labbra. Si spezzò l’incantesimo. La grande scena di dolore, nella quale la bimba selvaggia  aveva avuto la sua parte, aveva risvegliato tutta la sua tenerezza, e, mentre cadevano sulle guance del padre, le lacrime  erano il pegno che sarebbe cresciuta in mezzo alla gioia e al dolore umano, non per combattere contro il mondo, ma per  essere donna nel mondo. Anche verso sua madre si era compiuta la missione di Perla, quale messaggera di angoscia. «Hester», disse il pastore, «addio!»

«Non ci incontreremo più?», sussurrò lei piegando il volto sul suo. «Non trascorreremo insieme la nostra vita  immortale? Sì, sì, ci siamo riscattati a vicenda con tanto dolore! Guardi lontano nell’eternità con quei luminosi occhi  morenti. Dimmi quello che vedi».

«Silenzio, Hester, silenzio!», disse con tremula solennità. «La legge che abbiamo infranto! Il peccato rivelato  in modo così orribile! Che soltanto questo sia nei tuoi pensieri! Ho paura! Ho paura! Forse, quando abbiamo  dimenticato il nostro Dio – quando abbiamo violato la deferenza reciproca per l’anima dell’altro – da quel momento è  stato vano sperare di poterci incontrare nell’aldilà in una unione eterna e pura. Dio sa ed è misericordioso! Ha  dimostrato misericordia soprattutto nella mia afflizione. Infliggendomi questa tortura da portare sul cuore! Mandando  quel terribile vecchio tenebroso a tenerla sempre incandescente! Portandomi a questa morte di ignominia davanti a tutti! Se una sola di queste agonie fosse mancata, sarei stato perduto per sempre! Sia lodato il suo nome! Sia fatta la sua  volontà! Addio!»

Quest’ultima parola accompagnò l’estremo respiro del ministro. La moltitudine, in silenzio fino a quel  momento, proruppe in uno strano, profondo clamore di smarrimento e di stupore, incapace di esprimersi se non con quel mormorio che rimbombava sordo dietro lo spirito dipartito.

Nathaniel Hawthorne

Fonte: hawtorne_lettera scarlatta