Alessandra Arachi, nata a Roma nel 1964, giornalista al Corriere della Sera, con Feltrinelli ha pubblicato: “Briciole. Storia di un’anoressia” (1994), da cui è stato tratto l’omonimo film per tv con la regia di Ilaria Cirino (2004). Ne pubblichiamo un breve stralcio. Le altre sue opere sono: “Leoncavallo blues” (1995), “Unico indizio: la normalità. L’Italia a sud dell’Italia” (1997), “Coriandoli nel deserto” (2012). Ha pubblicato inoltre “Non più briciole” (Longanesi 2015), “Lunatica. Storia di una mente bipolare” (Rizzoli, 2006) e il romanzo “E se incontrassi un uomo perbene?” (Sonzogno, 2007)
« Comincia con tre polpette al sugo questa storia. Tre polpette di carne di vitello vomitate nel bagno di casa con la porta spalancata. “Anoressia mentale”, sarebbe stata la diagnosi psichiatrica. Mio padre non avrebbe mai voluto crederlo. […] Gambe lunghe, ma non magre. Non a sufficienza per me che soltanto scheletrica avrei potuto avere il mondo ai miei piedi. […] È difficile credere all’anoressia mentale. Chi la osserva da fuori non riesce a concepire che il cibo possa diventare un nemico all’improvviso. Chi la vive non capisce più come sia possibile per le persone riuscire a mangiare senza pensieri, senza ansia, senza angoscia. […] E ho scoperto quanto è meravigliosa la vita quando al mattino apri gli occhi e riesci a vedere che fuori dalle finestre c’è la luce. E che è una luce chiara, limpida. Finalmente ho vinto. Ho vinto io. »
Una ricercatrice del Dipartimento di scienze biomediche (Dsb) del Cnr, alla richiesta di identificare un romanzo in risonanza con la sua materia di studio, indica “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano. “Rileggendo qualche passaggio di questa bellissima storia che lessi anni fa, mi sono resa conto di come sia anche perfettamente in simbiosi con il momento particolarmente difficile e sofferente che stiamo vivendo a causa del Covid-19”
Quando mi è stato chiesto di identificare un testo che fosse in risonanza con la materia del Dipartimento di scienze biomediche (Dsb) del Cnr mi è venuto in mente il libro “La solitudine dei numeri primi” (Mondadori) di Paolo Giordano e, rileggendo qualche passaggio di questa bellissima storia che lessi anni fa, mi sono resa conto di come sia anche perfettamente in simbiosi con il momento particolarmente difficile e sofferente che stiamo vivendo a causa del Covid-19. Il libro, pubblicato nel 2008 dall’esordiente Paolo Giordano, ha ricevuto numerosi premi, tra cui lo Strega e il Campiello opera prima. La trama, orchestrata sui due fili paralleli delle vite dei due protagonisti, che con un primo colpo di scena si intrecciano quando Alice e Mattia incrociano i propri sguardi ancora al liceo, descrive l’esistenza dei due giovani torinesi, accompagnandoli dall’infanzia all’età matura. Alice è una bambina obbligata dal padre a frequentare la scuola di sci. E una mattina di nebbia fitta, persa nella nebbia, staccata dai compagni, se la fa addosso. Umiliata, cerca di scendere, ma finisce fuori pista spezzandosi una gamba. Rimane sulla neve credendo che morirà assiderata. Invece si salva, ma resterà zoppa e segnata per sempre. Mattia è un bambino molto intelligente, ma ha una gemella, Michela, ritardata. La presenza di Michela umilia Mattia di fronte ai suoi compagni e, per questo, la prima volta che un compagno di classe li invita entrambi alla sua festa, Mattia abbandona Michela nel parco, con la promessa che lei lo aspetterà. Mattia non ritroverà più Michela. In quel parco, Michela si perde per sempre. Le vite di Alice e di Mattia, due esistenze segnate, si incroceranno. Diventeranno, Alice e Mattia, adolescenti, giovani, adulti. Continueranno a perdersi e ritrovarsi per finire con un’ennesima separazione, senza che riescano veramente a trovarsi e abbiano il coraggio di restare insieme. La trama si dirama in un’alternanza esclusiva tra le storie dei due personaggi principali, parafrasi del rapporto fra Mattia e Alice, due “numeri primi” – a loro fa riferimento il titolo – per la loro unicità rispetto a tutti gli altri, ma anche “numeri primi gemelli”, che, come due numeri primi vicini ma divisi da un solo numero intero che si frappone tra loro, sono sostanzialmente simili ma non arrivano mai a toccarsi. Pertanto, in senso metaforico, i numeri primi rimandano alla solitudine, lo spazio tra l’io e il nulla è lo spazio della solitudine, quello che occupano i protagonisti di questo romanzo. Sono due personaggi che non riescono a incontrarsi, due anime gemelle che si amano ma che non riescono a stare insieme. Questo romanzo tocca in questo modo tematiche molto importanti, come la solitudine insormontabile e le problematiche legate alla socialità, ma anche le difficoltà dei giovani moderni, dalla fuga all’estero per trovare lavoro all’anoressia e alla depressione. Il romanzo riflette in modo amaro sul mondo contemporaneo del benessere, in cui i giovani hanno tutto ciò che è materiale ma sono abbandonati alla loro solitudine. I protagonisti, segnati da traumi che non riescono a superare, si rifugiano in sé stessi, autoescludendosi dal mondo. La solitudine è allora ciò che li accomuna ma che, per definizione, li allontana anche l’uno dall’altra. È una lettura che segna il cuore, che riesce a trasportare nel baratro del silenzio e del dolore insieme ai protagonisti, che fa percepire l’oscurità della solitudine e del male di vivere. Un romanzo d’esordio estremamente maturo per la compiutezza del contenuto e per l’alta tensione emotiva sviluppata; un crescendo di sensazioni avviluppante l’anima del lettore, tra momenti di tenerezza, di tristezza e di speranza. Il tema principale del romanzo riflette la tanta solitudine comparsa durante il confinamento da Covid-19: solitudini latenti ed emerse, solitudini dell’animo nonostante l’interconnessione virtuale con il mondo, solitudini degli anziani senza connessioni, solitudini delle città che rimbombano in un silenzio assordante, solitudine dei morenti… solitudine di chi non si è mai guardato dentro e non ha mai speso il proprio tempo immerso nella gioia della lettura. Ci si può augurare che questo tempo sia stato proficuo per far scoprire la lettura a chi non l’aveva mai considerata, rivelando che la libertà, le emozioni, le sensazioni, i colori, i viaggi, i profumi sono solo una piccola parte di quanto possa procurare la propria immaginazione durante la lettura di un bel libro, trasportando il lettore fuori di casa.
Elsa Fortuna
Libro: Paolo Giordano, “La solitudine dei numeri primi”, Mondadori (2008)
Saverio Costanzo, alla sua terza prova da regista, si cimenta nell’impresa di portare su grande schermo “La solitudine dei numeri primi”. Il libro subisce nella trasposizione cinematografica inevitabili modifiche, peraltro condivise dall’autore, che ha collaborato alla sceneggiatura. Protagonisti del film sono Alice e Mattia, due giovani introversi e solitari. Mattia si ferisce per punirsi della morte della sorella, affetta da problemi psichici, che da bambino aveva abbandonato per partecipare a una festa. Alice è claudicante a causa di una caduta sugli sci, durante una discesa a cui era stata costretta dal padre
Saverio Costanzo, alla sua terza prova da regista, si cimenta nell’impresa di portare su grande schermo il bestseller di Paolo Giordano, ‘La solitudine dei numeri primi’. Vincitore del premio Strega 2008, il libro del fisico torinese subisce nella trasposizione cinematografica inevitabili modifiche, peraltro condivise dall’autore che ha collaborato alla sceneggiatura. Protagonisti del film sono Alice e Mattia, due giovani resi introversi e solitari dalle vicende personali rivelate dai continui flashback. Mattia si ferisce per punirsi della morte della sorella, minorata mentale, che da bambino aveva abbandonato per partecipare a una festa. Alice è zoppa a causa di una caduta con gli sci, durante una discesa a cui l’aveva costretta il padre. Per i due incontrarsi vuol dire sottrarsi all’isolamento, ma il legame si spezza quando il giovane, divenuto un brillante ricercatore, si trasferisce in Germania per lavoro. La separazione accentua i loro disagi portando Mattia all’obesità e Alice all’anoressia. “L’anoressia nervosa fa parte dei disturbi del comportamento alimentare (Dca)”, spiega Gianvincenzo Barba dell’Istituto di scienze dell’alimentazione (Isa) del Cnr di Avellino. “Semplificando, si può dire che in presenza di una predisposizione individuale su base genetica e/o biologica, ne possono scatenare la comparsa fattori psicologici o ambientali: una violenza, traumi familiari, difficoltà a essere accettati. L’adolescente deve allora ‘difendersi'”, prosegue l’esperto del Cnr, “e per mostrare di controllare la situazione concentra la propria attenzione sul corpo, piegandolo alla propria volontà come invece non riesce a fare per l’evento scatenante. Anche nei casi in cui il giovane si sottopone a una dieta eccessiva per adeguarsi a un canone estetico, alla base, esiste un disagio non riconosciuto”.
Quali sono i sintomi del disturbo e quali le conseguenze? “Dapprima si evitano tutti i cibi ritenuti grassi, preferendo alimenti ‘sani’, con attenzione ossessiva alle calorie e alla bilancia, fino a concentrare la propria vita totalmente sul cibo, con riduzione di interesse e entusiasmo verso le normali attività della vita”, spiega Barba. “Nelle ragazze in età fertile, all’aggravarsi dello stato di malnutrizione si associa l’amenorrea, ovvero la perdita del ciclo mestruale. La malnutrizione spinta comporta un rischio di vita, in particolare un danno cardiaco da ipopotassiemia (carenza di potassio). Nel lungo termine, gli effetti della pregressa malnutrizione sono danni a organi e tessuti, soprattutto all’apparato scheletrico. La diagnosi precoceè il presupposto per la guarigione, che passa per il contrasto delle abitudini errate, il recupero funzionale completo, la prevenzione delle recidive e la ricostituzione di un benessere psico-fisico che comunque risulta minato”. Ricco di scenografie suggestive e con una fotografia curata, la pellicola mostra una regia matura, capace di risolvere con abilità situazioni narrative complesse. Bravi tutti gli attori, in particolare i due protagonisti nelle varie età: da adulti a Mattia dà corpo Luca Marinelli mentre Alice è Alba Rohrwacher.
Rita Bugliosi
Film: di Saverio Costanzo, “La solitudine dei numeri primi”, Medusa Film (2010)
Romanzo composto tra il 1938 e il 1941, inizialmente pubblicato a puntate sulla rivista Letteratura, rimase incompiuto a causa dell’imperversare della guerra e venne pubblicato solo nel 1963 dall’editore Einaudi. Nelle opere di Gadda alla contaminazione dei generi (lirico, grottesco, tragico…) si accompagna sempre quella dei linguaggi (termini di uso non comune, espressioni dialettali, linguaggi settoriali). In questo brano si narra l’incontro di Gonzalo Pirobutirro con la madre, dolorosamente consapevole della malattia psichica (il male oscuro) che tormenta il figlio. La donna, anziana e malata, sta cercando di improvvisare una cena per il figlio, reduce da un viaggio di lavoro: ognuno si chiude nel mutismo e si trincera nella propria solitudine
« L’alta figura di lui si disegnò nera nel vano della porta-finestra, di sul terrazzo, come l’ombra d’uno sconosciuto: e, dietro a lui, nel cielo, due stelle parevano averlo assistito fin là. Diòscuri splendidi sopra una fascia d’amaranto, lontana, nel quadrante di bellezza e di conoscenza: fraternità salva! La madre lo scorse, ma non poté vederne il viso contro il rettangolo di luce. Egli allora entrò, e recava una piccola valigia, la solita, quella di cartone giallo da quaranta centavos, come d’un venditore ambulante di fazzoletti. Nella stessa mano, arrotolato, il vecchio ombrello. La madre disse “oh! Gonzalo, come stai? Oh! guarda!” e proferì con un singhiozzo di gioia i nomi delle due stelle, a mani giunte, a guisa di saluto. Ma pensò che la prima sola valeva, nella correlazione di fortuna e d’astri per simbolo di una presenza terrena; poiché l’altra, così fulgida, così pura, non era se non un pensiero lontano della notte. Il figlio la salutò appena, come ogni volta, stanco. Neppure le sorrise. Ella non insisté a cercarne lo sguardo, non chiese del viaggio, né dell’uragano. […] Le sue mani rigide, quasi inerti, non arrivavano a prendere con esattezza; le riuscì difficile d’insinuare il cilindro di cristallo nella sua ghiera precisa, di ottone lucido, come una trina dei costumi desueti: e questa invece lo doveva ritenere alla base. Si sarebbe seduta, tremava… ma bisognò pensare al figliolo… Quando la lampada poté rischiarare la stanza, al fine, le parve di dover cadere… L’ultimo sguardo del crepuscolo, già lontanissimo, abbandonava il mobilio, con riflessi radenti e freddi sulla credenza, su qualche vassoio di metallo. Quel pallore della lucerna, invero, non ci aveva aggiunto di molto. Richiuse i vetri come le riuscì; ch’era molto alta finestra, sul terrazzo; abbrividendo. […] Andò in cucina a preparargli qualcosa da cenare. Era assolutamente necessario, anche a dimostrazione della validità funzionale della villa: tanto più, poi, che la villa era sprovveduta di cuoca o d’una qualunque fante. Altrimenti egli avrebbe colto quel pretesto ad accendersi circa la inanità della campagna: e sarebbe incorso nelle peggiori bizze ed ubbìe: (la cosa, oramai, un triste rito: la povera madre lo sapeva bene). Avrebbe ripetutamente scorbacchiato e rimaledetto la villa, insieme col mobilio, coi candelieri, con la memoria del padre che l’aveva costruita; incoronando di vituperî osceni tutti i padri e tutte le madri che lo avevano preceduto nella serie, su, su, su, fino al fabbricatore di Adamo. Sarebbe trasceso alle bestemmie, ch’ella non poteva udire: ad accuse troppo vere, forse, per essere udibili: coinvolgendo nella turpitudine pazza che lo animalava in quei momenti financo il sacro nome di Pastrufacio (il Garibaldi del Maradagàl). […] La madre, viceversa, fin da quando i muratori ci accudivano nel ’99, aveva incorporato in sé, subito, – avvampante splendore di giovinezza – il trionfo serpentesco della “sua” villa sopra le rivali keltikesi che non credevano alla possibilità di una villa: (degli spelacchiatissimi Pirobutirro). E quell’orgoglio, quel tirso di brace che le era venuto fatto, in un giorno lontano, di potersi infilare a metà dell’anima alla facciazza delle pseudo-cognate e delle pseudo-nipoti, quello poi era cresciuto ad ebbrezza e ad onnipotenza raggiante, dentro un evo fulgido, allucinato, senza più misura né termine: l’idea del possesso e della supposta vittoria tracannata come un cognac di fuoco e di vita a ogni nuovo mattino, a ogni giorno splendido. Quello le era bastato, durante quarant’anni, a scongiurare la disperazione, ad acculare al di là d’ogni strazio e d’ogni miseria, d’ogni sdrucita maglia de’ suoi bimbi, d’ogni scampanìo, d’ogni gloria, d’ogni tenca, lo sporco sogghigno della morte. […] in cucina non v’era quasi nulla, da potergli preparare nemmeno un ovo. Lo stentòreo deretano delle galline del Giuseppe ci perveniva piuttosto raramente, a una così gloriosa estromissione. Ne teneva più d’una, ma facevan l’ovo a turno: e spesso, poi, marinavano il turno. Il figlio si sarebbe imbestialito anche di ciò: e allora bisognava sorvolare, sulle ova. Già altra volta era accaduto che s’infuriasse, per quella inadempienza dei polli del Serruchón porco: e aveva accusato il gallo di morosità genetica e di perversione, le galline d’esser lesbiche, e tr…; poi la furia s’era schiarita in una reminiscenza di Livio “gallinam in marem, gallum in foeminam se se vertisse…”. E, atrocemente, sghignazzando, aveva brindato alla salute del gallo! ma non disse affatto alla salute, disse una parte del corpo: aveva inneggiato, (irridendo lei, la mamma), al gallo bardassa […] Carlo Emilio Gadda
Sigmund Freud, Vienna, con Charcot a Parigi, la scuola ipnotica, l’inconscio, i tabù, la psicanalisi… Difficile dire che la vita e l’opera di Freud non siano un romanzo, in senso figurato ma anche letterale. Irving Stone in questo libro le racconta entrambe. Dalla famiglia al lavoro, dal successo agli incontri con Carl Gustav Jung e Albert Einstein. Il celebre critico letterario Harold Bloom, nel “Canone occidentale”, ha inserito Freud nel suo elenco degli scrittori più importanti di ogni tempo. A “Leggere Freud” ci invita Sergio Benvenuto
La pretesa di leggere Freud con occhi e orecchi vergini cercando di intendere l’essenziale della sua scrittura, può muovere all’ilarità più di un lettore, in particolare chi si rifà al relativismo ermeneutico. Non esistono letture trasparenti di un testo, tanto più di un autore morto che non può più puntualizzare o correggere. Ogni autore, ogni epoca, legge “il classico” (possiamo considerare Freud un classico moderno) secondo proprie griglie date dai propri interessi, priorità, saperi, domande, pregiudizi, giudizi previ, del proprio tempo. Insomma, anche se possiamo leggere un testo con maggiore o minore rigore filologico, non possiamo leggere un testo del passato obiettivamente. La questione del “come leggere” un testo è una delle più complesse. Inoltre questa questione è interna alla psicoanalisi stessa, nella misura in cui l’analisi è una certa lettura della parola dei soggetti. La questione di come leggere oggi i testi psicoanalitici si embrica quindi alla questione di capire su quale tipo di lettura – o ascolto – la psicoanalisi si basa.
Paolo Milone racconta i suoi quarant’anni di lavoro in Psichiatria d’urgenza; un diario di incontri e scontri, di appunti brevi, di pensieri nudi e crudi, che diventano poesie da rileggere, da assaporare, da mandare giù.
Avendo fuggito ogni altro lavoro per paura, mi ritrovo a fare il lavoro che fa piú paura a tutti. […]
L’euforia è solo uno dei tanti disturbi mentali: in altri il paziente è indifferente allo spazio, in altri ancora, impensabile ma vero, è angosciato dallo spazio. Il mondo è pieno di depressi che dormono su un divano senza neanche mettersi il pigiama,
o sul bordo del letto senza neanche tirare su il lenzuolo, molti dormono su una sedia. Se gli dai un letto matrimoniale, dopo un mese è intatto. Preferiscono cosí. Non è di spazio esterno che hanno bisogno. […]
C’è chi ritiene che il ricovero in Psichiatria sia la cosa piú brutta al mondo. Talvolta la vita è ancora piú brutta. Gli animali feriti si nascondono in una tana e si leccano le ferite: Psichiatria è una tana. […]
Il bene e il male che facciamo a un’altra persona si riverbera e si propaga in mille modi
tra i suoi parenti, amici e conoscenti e, nel tempo, si trasmette a tutti i discendenti. Sarà qualcosa di infinitesimo, un movimento atomico, un’ombra, un fremito, ma esiste e si diffonde nell’universo. Vedi, Giulia, noi contribuiamo a migliorare o peggiorare l’universo, e, su questo, abbiamo una responsabilità. […]
È triste Lucrezia scoprirti un giorno mentre stai litigando a voce alta con nessuno. Con che foga protesti, ribatti, chiedi scusa, insulti. Sola nella stanza. Sei l’accusatrice che ingiuria e minaccia battendo i piedi per terra, con i capelli scompigliati, poi sei la vittima che allarga le braccia piangendo e singhiozza. […]
Il sarto vede tutti mal vestiti, il parrucchiere, tutti spettinati, il cappellaio, tutti senza cappello, il fisioterapista, tutti sciancati, e io, psichiatra, vedo tutti matti. […]
Una notte insonne è breve per consolarsi del giorno prima. Una notte insonne è breve per prepararsi al giorno dopo. Aspra è la mattina: si riaprono i cassetti e riaffiorano i coltelli. […]
Ignorare la morte non rende immortali. Neanche pensarci di continuo rende immortali. Forse pensarci ogni tanto? […]
Non ci si uccide per una sofferenza quantitativamente piú grande – il suicidio avviene in uno stato mentale qualitativamente diverso. Nessuna fantasia o esperienza dei viventi può aiutare a capire.[…]
Temi che le medicine si impossessino della tua mente e per questo le rifiuti. Sbagli, Livia: è la depressione che si impossessa della mente, le medicine restituiscono la chiave al proprietario. […]
Noi veniamo al mondo non quando usciamo dal corpo della madre, ma quando la madre ci abbraccia e ci riconosce e, senza parole, ci contiene ancora in sé: in questa matrice noi ci costruiamo. La sacralità di questo abbraccio primigenio si riverbera e balugina in alcune contenzioni che noi facciamo. […]
L’arte di legare le persone. Legare le persone al letto. Legare le persone a te. Legare le persone alla realtà
Legare le persone a se stesse. Legare le persone è un’arte. Inconoscibile.
Paolo Milone
Paolo Milone, “L’arte di legare le persone”, Einaudi, Torino, 2021
Ida Bauer è – nello pseudonimo assunto nella letteratura freudiana – Dora, il più noto caso di cui Freud si occupa a Vienna. Raccoglie molteplici vite in una sola, condotta a cavallo tra l’illusione ovattata della luccicante “belle époque” e il secondo conflitto mondiale. Katharina Adler, la pronipote, ne raccoglie la storia nel suo primo romanzo
“Lei, lei solo avrebbe d’ora in avanti deciso della sua vita”. Questa è la decisione che Ida Bauer prende all’inizio del nuovo anno e del nuovo secolo, nel 1901, quando, camminando lungo la Berggasse di Vienna, torna a casa sua dallo studio del dottor Sigmund Freud. Che, ha deciso, non vuole più rivedere. Ida è la prima paziente ed è il primo grande fallimento del padre della psicoanalisi, che non ha ancora fatto i conti con il controtransfert ma è costretto a farli con il netto rifiuto che la giovane oppone alla spiegazione fornitale per la sua isteria. Ida Bauer è – nello pseudonimo assunto nella letteratura freudiana – Dora, il più noto caso di cui Freud si occupa a Vienna. Raccoglie molteplici vite in una sola, condotta a cavallo tra l’illusione ovattata della luccicante “belle époque” e il secondo conflitto mondiale. Ed è Katharina Adler, la pronipote di Ida, a raccoglierne la storia nel suo primo romanzo, nominato per il Klaus-Michael Küne Prize e il Zdf Aspekte literatupreis e pubblicato in traduzione italiana da Sellerio. Nelle pagine del romanzo ripercorriamo la storia di una donna divisa tra la consapevolezza di sé e una società ancora troppo patriarcale, stretta nella dinamica familiare e sociale della Vienna ebraica altoborghese, con le sue ipocrisie e i suoi occultamenti. Incluso quello dell’abuso subito da parte di Hanns Zellenka, la cui moglie è anche l’amante di suo padre. Questi intrecci complicano la situazione sanitaria della paziente di Freud, che comprende come il contesto che la circonda sia talmente soffocante da ammalarla, emettendo la diagnosi di “isteria”: ma Ida-Dora non accetta. “Lei sapeva bene quali conclusioni trarre, aveva detto. Tanto più che, come se non bastasse, se l’era voluta filare”. Adler traccia un ritratto preciso della Dora-Ida che impara a camminare sulle sue gambe, prendendo man mano coscienza di sé, di quello che è stata e di ciò che vuole essere, nonostante una lunga serie di rinunce: in primis, quella agli studi che avrebbe prediletto. Seguiamo l’evolversi della vita di questa donna tra salti in avanti e indietro e gli stralci freudiani del “Frammento di un’analisi d’isteria” e – con la sua – seguiamo le esistenze di moltissime donne, perché in Ida vivono la bambina molestata, la figlia ribelle e acuta, la sorella devota, la sposa delusa, la madre apprensiva e la vedova rassegnata. Non solo un racconto biografico, dunque, bensì lo sguardo che solitamente non viene considerato né riconosciuto, la versione dei fatti al femminile che assume anche la valenza di rivincita su un mondo maschile che pretende di chiudere in una sola parola, isteria, un universo complesso e sconosciuto ai più. Tutto viene filtrato attraverso la lente della tenacia che anima Ida Bauer, fino a “quando con calma attenderai che la luce in sala si spenga. Quando il buio calerà e si alzerà il sipario”.
Di esperienze, tra cui quelle sanremesi, ne ha collezionate molte. Abbina collaborazioni, ispirazioni e modalità sempre nuove, dalla canzone al “teatro civile”, dalla musica ai libri, dai video ai fumetti: il suo primo maestro è stato Jacovitti. Temi centrali: la poesia, la follia, la memoria storica
Si è svolto di recente un Sanremo anomalo, unico, per la mancanza di pubblico e la carenza di ospiti dovute alla pandemia, che si sono riflesse anche in un pesante calo di ascolti. In passato, però, il Festival è stato l’occasione per la scoperta, il rilancio o l’esplosione di molti artisti italiani: tra questi, Simone Cristicchi, che di esperienze sanremesi ne ha collezionate diverse. In particolare nel 2007 quando, con “Ti regalerò una rosa”, ha vinto il Festival e i premi della Critica e Radio Tv, aggiungendoci un disco d’oro e un tour con più di 100 eventi live. Difficile comunque ricordarne tutti i riconoscimenti, dai premi Gaber ed Endrigo al Cilindro d’argento dedicato a Rino Gaetano; e poi la Targa Tenco, i premi Musicultura, Mogol, Giancarlo Bigazzi, Anna Magnani, Tomizza, Dante musica e parole (assegnato dall’Accademia della Crusca), Amnesty Italia, Nassiriya per la pace, la cittadinanza onoraria di Trieste. A colpire di questo artista è soprattutto l’eclettismo, che lo porta ad abbinare collaborazioni, ispirazioni e modalità espressive sempre diverse, tra cui quella del “teatro civile” legato a temi sociali e storici spinosi. “In tutte le mie esperienze – spiega – ho però cercato di portare un tratto di originalità: ogni allievo, a un certo punto, deve recidere il nastro che lo lega al maestro. È stato questo il più grande insegnamento che ho ricevuto da Jacovitti”.
Partiamo da questa sua origine artistica, che forse non tutti conoscono Sono stato sin da piccolo un appassionato di disegno e fumetto e Jacovitti, all’epoca in cui i miei coetanei stravedevano per Silvester Stallone, Rambo e Rocky, era lui il mio idolo. Così sono stato suo allievo. Quando andai a imparare da lui conobbi da un lato un uomo burbero, come lo immaginavo, dall’altro una figura tenera, quasi paterna. Agli inizi mi limitavo a imitarlo come una fotocopiatrice umana, lui mi rimproverò ma mi prese sotto la sua ala protettrice con grande pazienza.
Tempo dopo sono arrivati il teatro civile, o “teatro canzone” L’innamoramento per questa forma d’arte straordinaria, un’invenzione tutta italiana. Di Giorgio Gaber mi colpì particolare la capacità, con le sue invettive inarrivabili, di non distaccarsi mai dai fatti storici. Ma ricordiamo anche Ascanio Celestini, il “Vajont” di Marco Paolini. E poi Gigi Proietti: lo vidi e teatro quando avevo 16 anni, stette tre ore da solo sul palco, uno sforzo incredibile, davvero “uno contro tutti”. Nella mia formazione e ispirazione ha avuto un ruolo importante anche mio nonno, che era un grande narratore. Il mio è un percorso con molte tappe, fino a un certo punto fatto solo di musica e concerti, poi ho avvertito il bisogno di misurarmi con il monologo, che è stato un po’ come cimentarmi nelle Olimpiadi, considerando che non ho mai frequentato una scuola di teatro.
Si è cimentato anche con temi storici non sempre “pacificati”: come mai in Italia fatichiamo a condividere la nostra memoria? Io credo che la memoria condivisa sia possibile, la parte che la rifiuta è una minoranza infinitesimale. Chi ha criticato “Magazzino 18”, il musical che ho dedicato al dramma delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, appartiene a un’area estremistica. Inizialmente ho provato a dialogare con queste persone poi, quando la contestazione si è fatta più dura, come per una rappresentazione a Scandicci, ho capito che non era possibile. In quell’occasione mi sono sentito sia imbarazzato per loro sia divertito, visto che così hanno dato allo spettacolo una pubblicità enorme, che ha contribuito a realizzare 300 repliche sold out.
A proposito di memoria dolorosa, è stato anche direttore artistico del Teatro dell’Aquila. Che ricordo ne porta? Durante l’incarico ho avvertito la responsabilità di rappresentare una città sofferente, ancora in piena rinascita e ricostruzione, con una ferita non rimarginata. Io ho provato a farla vedere da un’altra prospettiva, producendo con il Teatro Stabile d’Abruzzo lo spettacolo “Manuale di volo per uomo”. Una favola in musica e poesia su un quarantenne bambino, che trova stupefacente qualunque cosa guardi e che non sappiamo se considerare un “ritardato” o un genio. Io lo definisco un “super-sensibile”, capace di mettere a fuoco particolari che nascondono un’infinita bellezza, apparentemente insignificanti ma che non dovremmo lasciarci sfuggire.
Un tema, quello delle sensibilità sbrigativamente classificate come malattia mentale, che torna in molte sue opere. Come mai? Il mio mondo è stato molto abitato dalla malattia mentale, io stesso ho camminato sul filo della follia. Ero bambino quando morì mio padre e quel dolore mi spinse al rifiuto della realtà: per anni mi sono rinchiuso nella mia stanza, creando un mondo tutto mio, di fantasia, fumetti, poesia, un mondo perfetto in cui nulla poteva ferirmi. Poi arrivò l’interesse per i “matti” del quartiere dove vivevo. Ho avuto anche un amico con problemi di dipendenza che finì in ospedale per un Tso, il Trattamento sanitario obbligatorio: andando a trovarlo scoprii una realtà che ignoravo completamente, quella dei “nuovi” manicomi.
Per lei è diventata una sorta di battaglia civile. Lo stigma del malato di mente resta irraccontabile, ma io cerco di rappresentare le storie di queste persone dimenticate, abbandonate in un reparto: con la mia piccola telecamera sono stato nel manicomio calabrese di Girifalco, ho realizzato un viaggio per gli ospedali psichiatrici d’Italia. Sono nati così opere come “I matti de Roma”, “Centro di igiene mentale”, che racconta la mia esperienza di servizio civile, l’album e il documentario “Dall’altra parte del cancello” e, naturalmente, “Ti regalerò una rosa”.
La sofferenza dell’attuale pandemia, il lockdown e la riduzione dei contatti sociali non le ricordano un po’ quell’isolamento? Per noi artisti questo è stato un trauma reale. A me sono state cancellate all’improvviso 60 date, un danno economico enorme, personale e per il mio staff. Ma ho cercato comunque di prendere questo evento come un regalo: da una vita estremamente movimentata mi sono ritrovato a vivere in campagna, a contatto con me stesso, con il tempo di pensare e di scrivere un album e un libro, “Abbi cura di me”. In attesa di tornare a percorrere la mia strada.
Quali altre tappe prevede? Molte, tra cui “Happy next – Alla ricerca della felicità”, uno spettacolo e documentario con canzoni, racconti e video che considero una priorità, la condivisione di una mia scoperta. Attraverso la voce di personaggi dello spettacolo e della cultura, e di gente comune, cerco di rispondere alla domanda che tutti ci poniamo: che cosa è veramente la felicità?
La definizione di “ricercautore” le si adatta bene. Mi considero una sorta di rigattiere, di antiquario, continuo a scandagliare la memoria storica ma anche una geografia sconosciuta, un mondo interiore invisibile.
Alla ricerca scientifica in senso stretto è interessato? Molto. Sono curioso e affascinato soprattutto dalla ricerca che coniuga scienza e spiritualità, come la fisica quantistica. Quelle connessioni che Ervin Laszlo racconta in “Risacralizzare il cosmo”.
Lei unisce il registro ironico di “Vorrei cantare come Biagio”, brano che l’ha lanciata nel 2005, con quello serio. In questo ricorda Sergio Endrigo, con cui ha realizzato il duetto “Questo è amore” e di cui ha cantato una versione di “Io che amo solo te” Nella mia vita privata come pubblica non c’è nulla di progettuale, cerco di fare in modo che l’artista e l’uomo coincidano. Endrigo, è stato un artista equivocato, oltre che una parte del mio percorso. “Biagio” fu un brano di grande successo ma poi il tempo taglia le cose, fa affiorare l’anima autentica dell’artista che, nel mio caso, è quella emersa con “Ti regalerò una rosa”. A un certo punto ho capito che l’artista deve avere un ruolo preciso nella società, un compito, una visione. Non tornerei più a parlare di cose relativamente futili e la corda popolare dell’ironia può descrivermi solo in parte. Ora per me è importante la parola, la poesia.
Secondo Mattia Ferraresi, giornalista del quotidiano “II Foglio” e corrispondente del “New York Times”, è questo “Il male oscuro delle società occidentali”, una patologia del nostro tempo, frutto dell’individualismo e dell’autocompiacimento che si sublima nel selfie. Al punto che l’Inghilterra ha creato un ministero ad hoc
L’autore Mattia Ferraresi – giornalista del quotidiano “II Foglio” e corrispondente del “New York Times” che così ama descriversi: “Nato nella terra di Virgilio e cresciuto in quella di Tassoni, ora vivo nel quartiere di Tony Manero” – nel suo ultimo libro dal titolo “Solitudine” (Einaudi), affronta il tema soffermandosi in particolare sul “nuovo narciso”. Una “figura ben più tragica di quella antica. Il Narciso della mitologia, condannato ad amare solo se stesso, sa che si tratta di una condanna e non di un dono. Il nuovo narciso non ha questa percezione, è così immerso nel suo individualismo che non ha nemmeno gli strumenti per rendersi conto di questa prigione interiore”, sostiene l’autore. “Pensa che concentrarsi su di sé e sulle proprie potenzialità sia una forma di emancipazione, un modo per superare tutto ciò che lo ha oppresso: autorità, gerarchie, partiti, chiese, convenzioni. Ed ecco che si ritrova solo. Il selfie è il meccanismo perfetto per il nuovo narcisista, che interpreta e presenta ogni cosa in relazione a sé”. Al tema della solitudine è stata dedicata un’ampia letteratura. Per esempio, in “Solitudine” di John T. Cacioppo e William Patrick (il Saggiatore), gli autori sostengono che privarsi dello scambio con gli altri provoca uno strappo nel tessuto genetico che si espande nel nostro essere fino a pervadere le emozioni, e propongono al lettore le acquisizioni più avanzate della ricerca per la diagnosi e la cura di quella che ritengono una delle più diffuse “malattie” del nostro tempo. Secondo Ferraresi, invece, la solitudine è frutto di un individualismo, di un autocompiacimento che diventa una prigione. La scrittrice francese nota con lo pseudonimo di Colette scrisse: “Ci sono giorni in cui la solitudine è un vino inebriante che ti ispira libertà, altri in cui è un tonico amaro, e altri ancora in cui è un veleno che ti fa sbattere la testa contro il muro”. Negli ultimi 400 anni l’ideale di liberazione dell’uomo, nello sviluppo delle società occidentali, si è affermato come indipendenza dall’altro, liberazione del singolo da tutte le costrizioni, siano esse leggi, autorità, gerarchia sociale. Questo processo di scardinamento delle relazioni profonde con l’altro è riuscito, ma ci si è resi conto che il tipo di società che ne è derivato non è garanzia di felicità, generando così – aggiunge l’autore – un paradosso: “I governi oggi cercano di combattere quello che essi stessi hanno generato e approvato”. O cercano, diciamo meglio, di correre ai ripari per curare questa sorta di epidemia che abbiamo deliberatamente diffuso, e da cui ci siamo fatti volontariamente contagiare. L’Inghilterra è arrivata a creare il primo “ministero per la Solitudine” in Europa, nella consapevolezza che questa condizione è correlata ad altri disagi, patologie, disabilità croniche dagli effetti preoccupanti. Secondo una ricerca condotta della Brigham Young University nello Utah (Usa), l’isolamento ha un impatto così forte sull’organismo da aumentare del 30% la predisposizione dell’individuo ad ammalarsi.
È quanto avviene nelle opere di Venedikt Erofeev, scrittore russo dedito all’alcol e al vagabondaggio, autore tra l’altro, del diario ‘Memorie di uno psicopatico’. Scritto nel 1956, il volume offre un inedito ritratto della Russia del tempo, raccontata con uno stile dall’andamento bipolare
Venedikt Erofeev (1938-1990) è stato uno scrittore-simbolo per intere generazioni, oltre che un autore tra i più controversi del post-modernismo russo. La sua vita al limite tra dipendenza da alcool e vagabondaggio ha fortemente contribuito sia alla sua immagine di reietto, sia alla crudezza della sua scrittura, che trova la massima espressione nel suo bestseller clandestino ‘Mosca-Petuska’. Un’opera grottesca, visionaria, tragicomica, che parte da Mosca per un viaggio forse mai compiuto.
‘Memorie di uno psicopatico’, scritta nel 1956 e ora riproposta da Miraggi, è una rarità. Si tratta infatti del primo libro di Erofeev, caratterizzato da un insieme di memorie scritte su pagine di un diario di cui non si conosceva l’esistenza. Pubblicato in Russia solo nel 2000, il libro è una costellazione di riferimenti e contestazioni furiose sui totem e i tabù della società sovietica. Protagonista di questi racconti è Venedikt, alter-ego dell’autore che, ancora giovanissimo, esprime la sua disperata ribellione verso il mondo.
Il libro mostra la psichedelica visione del mondo dell’autore: questi diari giovanili seguono il giovane Venedikt nel periodo che va dall’ottobre 1956 al novembre 1957. Tredici mesi cruciali, dall’ammissione con lode all’Università di Mosca alla successiva espulsione, dal primo impiego al successivo licenziamento. Il racconto delle esperienze autobiografiche si accavalla e si interseca con riflessioni di carattere filosofico, pseudoscientifico, spesso assurdo. Ciò che colpisce immediatamente è l’andamento bipolare della scrittura tra rabbia incontrollabile a paura, tra odio e bisogno di affetto; lo spazio e il tempo non hanno confini e la metrica del linguaggio di Venedikt richiama le figure cinematografiche dello sterminatore di scarafaggi William Lee nel film ‘Pasto nudo’ (David Cronenberg, 1991) o di Michael Anderson, il nano immaginario del telefilm ‘I segreti di Twin Peaks’ (David Lynch, 1991).
La violenza narrativa con cui Venedikt fa sentire la sua psicopatologia ci ricorda che ancora oggi, a oltre 60 anni dall’uscita di questo libro, esistono milioni di persone che come lui vagano perse per il mondo alle quali nessuno sa indicare loro la via del ritorno a casa. Anche se negli ultimi 40 anni, la scienza della malattia mentale è diventata capace di fornire diagnosi sempre più accurate.
Antonio Cerasa
Venedikt Erofeev, “Memorie di uno psicopatico” (Miraggi, 2017)