“La cognizione del dolore”, Carlo Emilio Gadda

Romanzo composto tra il 1938 e il 1941, inizialmente pubblicato a puntate sulla rivista Letteratura, rimase incompiuto a causa dell’imperversare della guerra e venne pubblicato solo nel 1963 dall’editore Einaudi. Nelle opere di Gadda alla contaminazione dei generi (lirico, grottesco, tragico…) si accompagna sempre quella dei linguaggi (termini di uso non comune, espressioni dialettali, linguaggi settoriali). In questo brano si narra l’incontro di Gonzalo Pirobutirro con la madre, dolorosamente consapevole della malattia psichica (il male oscuro) che tormenta il figlio. La donna, anziana e malata, sta cercando di improvvisare una cena per il figlio, reduce da un viaggio di lavoro: ognuno si chiude nel mutismo e si trincera nella propria solitudine


« L’alta figura di lui si disegnò nera nel vano della porta-finestra, di sul terrazzo, come l’ombra d’uno sconosciuto: e, dietro a lui, nel cielo, due stelle parevano averlo assistito fin là. Diòscuri splendidi sopra una fascia d’amaranto, lontana, nel quadrante di bellezza e di conoscenza: fraternità salva! La madre lo scorse, ma non poté vederne il viso contro il rettangolo di luce. Egli allora entrò, e recava una piccola valigia, la solita, quella di cartone giallo da quaranta centavos, come d’un venditore ambulante di fazzoletti. Nella stessa mano, arrotolato, il vecchio ombrello. La madre disse “oh! Gonzalo, come stai? Oh! guarda!” e proferì con un singhiozzo di gioia i nomi delle due stelle, a mani giunte, a guisa di saluto. Ma pensò che la prima sola valeva, nella correlazione di fortuna e d’astri per simbolo di una presenza terrena; poiché l’altra, così fulgida, così pura, non era se non un pensiero lontano della notte.
Il figlio la salutò appena, come ogni volta, stanco. Neppure le sorrise. Ella non insisté a cercarne lo sguardo, non chiese del viaggio, né dell’uragano.
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Le sue mani rigide, quasi inerti, non arrivavano a prendere con esattezza; le riuscì difficile d’insinuare il cilindro di cristallo nella sua ghiera precisa, di ottone lucido, come una trina dei costumi desueti: e questa invece lo doveva ritenere alla base. Si sarebbe seduta, tremava… ma bisognò pensare al figliolo… Quando la lampada poté rischiarare la stanza, al fine, le parve di dover cadere… L’ultimo sguardo del crepuscolo, già lontanissimo, abbandonava il mobilio, con riflessi radenti e freddi sulla credenza, su qualche vassoio di metallo. Quel pallore della lucerna, invero, non ci aveva aggiunto di molto. Richiuse i vetri come le riuscì; ch’era molto alta finestra, sul terrazzo; abbrividendo.
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Andò in cucina a preparargli qualcosa da cenare. Era assolutamente necessario, anche a dimostrazione della validità funzionale della villa: tanto più, poi, che la villa era sprovveduta di cuoca o d’una qualunque fante. Altrimenti egli avrebbe colto quel pretesto ad accendersi circa la inanità della campagna: e sarebbe incorso nelle peggiori bizze ed ubbìe: (la cosa, oramai, un triste rito: la povera madre lo sapeva bene). Avrebbe ripetutamente scorbacchiato e rimaledetto la villa, insieme col mobilio, coi candelieri, con la memoria del padre che l’aveva costruita; incoronando di vituperî osceni tutti i padri e tutte le madri che lo avevano preceduto nella serie, su, su, su, fino al fabbricatore di Adamo. Sarebbe trasceso alle bestemmie, ch’ella non poteva udire: ad accuse troppo vere, forse, per essere udibili: coinvolgendo nella turpitudine pazza che lo animalava in quei momenti financo il sacro nome di Pastrufacio (il Garibaldi del Maradagàl).
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La madre, viceversa, fin da quando i muratori ci accudivano nel ’99, aveva incorporato in sé, subito, – avvampante splendore di giovinezza – il trionfo serpentesco della “sua” villa sopra le rivali keltikesi che non credevano alla possibilità di una villa: (degli spelacchiatissimi Pirobutirro).
E quell’orgoglio, quel tirso di brace che le era venuto fatto, in un giorno lontano, di potersi infilare a metà dell’anima alla facciazza delle pseudo-cognate e delle pseudo-nipoti, quello poi era cresciuto ad ebbrezza e ad onnipotenza raggiante, dentro un evo fulgido, allucinato, senza più misura né termine: l’idea del possesso e della supposta vittoria tracannata come un cognac di fuoco e di vita a ogni nuovo mattino, a ogni giorno splendido. Quello le era bastato, durante quarant’anni, a scongiurare la disperazione, ad acculare al di là d’ogni strazio e d’ogni miseria, d’ogni sdrucita maglia de’ suoi bimbi, d’ogni scampanìo, d’ogni gloria, d’ogni tenca, lo sporco sogghigno della morte.
[…]
in cucina non v’era quasi nulla, da potergli preparare nemmeno un ovo. Lo stentòreo deretano delle galline del Giuseppe ci perveniva piuttosto raramente, a una così gloriosa estromissione. Ne teneva più d’una, ma facevan l’ovo a turno: e spesso, poi, marinavano il turno. Il figlio si sarebbe imbestialito anche di ciò: e allora bisognava sorvolare, sulle ova. Già altra volta era accaduto che s’infuriasse, per quella inadempienza dei polli del Serruchón porco: e aveva accusato il gallo di morosità genetica e di perversione, le galline d’esser lesbiche, e tr…; poi la furia s’era schiarita in una reminiscenza di Livio “gallinam in marem, gallum in foeminam se se vertisse…”. E, atrocemente, sghignazzando, aveva brindato alla salute del gallo! ma non disse affatto alla salute, disse una parte del corpo: aveva inneggiato, (irridendo lei, la mamma), al gallo bardassa
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Carlo Emilio Gadda

Fonte:
“La cognizione del dolore”: Gonzalo torna a casa – citazioni
Citazioni e frasi celebri

Denise De Santana

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