Tutti i racconti di Berto. L’alter Zeno della letteratura italiana





Giuseppe Berto: scrittore, drammaturgo e sceneggiatore. Una notevole vita tra onorificenze, opere letterarie e molto altro


Noto soprattutto per “Il male oscuro”, che su queste pagine abbiamo definito come il più importante romanzo italiano sulla psicanalisi insieme con “La coscienza di Zeno”, Giuseppe Berto fu anche un prolifico autore di racconti, che raccolti a suo tempo dallo scrittore stesso e ora nuovamente usciti in volume con la Bur. Al tema del male di vivere, qui, si accompagnano molti altri spunti, in particolare i ricordi militari dell’autore che formano in titoli quali: “La colonna Feletti”, “Avvenimento a Hereford”, “Sosta a Cassino”, “La vita militare”.
La scrittura tracima spesso nell’autobiografia vera e propria. Né vi è alcuna distinzione, in fondo nella narrativa bertiana, tra questi due aspetti, l’introspezione e la memoria. Tutte le scelte compiute dall’autore furono infatti improntate a una continua ‘uccisione del padre’: la scelta di arruolarsi, di combattere, di vestire la divisa fascista e rifiutarsi di collaborare con gli alleati, e poi quelle di ingaggiare contro la consorteria intellettuale a lui coeva una guerra polemica inesausta e dagli accenti talvolta eccessivamente acrimoniosi.
Lo scrittore di Mogliano Veneto, pure, ebbe ammiratori del calibro di Hemingway, ottenne un notevole riscontro anche all’estero e agguantò tra l’altro con ‘Il male oscuro’, nel 1964, una straordinaria doppietta: premio Viareggio e Campiello. Ma nemmeno il successo poté lenire un’insoddisfazione esistenziale che affondava in un rapporto così intimo e compromesso, che ebbe il suo climax con l’agonia paterna.

Giuseppe Berto fu “ostracizzato con livore oppure trascurato con simulata indifferenza quando era in vita” ed “è tuttora celato dalla cortina della rimozione letteraria”. L’affermazione di Paola Culicelli può essere difficilmente smentita. “Per qualche motivo sull’autore grava una damnatio memoriae”, prosegue l’autrice del saggio “La coscienza di Berto” sullo scrittore di Mogliano Veneto che, pure, ebbe ammiratori del calibro di Hemingway, ottenne un notevole riscontro anche all’estero e agguantò tra l’altro con ‘Il male oscuro’, nel 1964, una straordinaria doppietta: premio Viareggio e Campiello.
Proprio il successo, anzi, fu probabilmente una delle ragioni dell’ostilità dell’establishment culturale, insieme con un ‘eccesso’ di fascino che lo scrittore non mancò di usare con le donne, e con la scorrettezza politica: “Dando alle stampe prima Il Brigante e poi Guerra in camicia nera“, ricorda l’autrice, egli “si inimicò” sia gli anticomunisti sia gli antifascisti. Un attacco effettivamente malmostoso a Dacia Maraini, poi, non migliorò certo i rapporti di Berto con i colleghi.
Dopo il pregevole lavoro di Dario Biagi di qualche anno fa, arriva adesso a recuperare almeno parte della distrazione dei critici questo volume che però non si configura tanto come una biografia quanto come un saggio mirato all’aspetto centrale dell’opera più famosa dell’autore, assunta quale segnavia di tutta la sua produzione. In effetti, dopo ‘La coscienza di Zeno’, come la crasi del titolo del saggio di Cucinelli vuol far intendere, ‘Il male oscuro’ rimane il più importante romanzo italiano dedicato alla psicanalisi.
“Aver coscienza di troppe cose è una malattia, una vera e propria malattia. Eppure sono convinto che non soltanto una coscienza eccessiva, ma la coscienza stessa è una malattia”, scrive Berto, il cui senso di colpa gli viene trasmesso, secondo la diagnosi piuttosto classica della studiosa, dal padre, che in effetti fu sul piano storico un tipico Super-Io, perennemente insoddisfatto del figlio, per il quale ebbe solo espressioni denigratorie e sfiduciate. Un rapporto che conobbe il suo momento topico proprio “nel frangente estremo dell’agonia paterna” e che lo scrittore tentò di risolvere con tre anni di terapia, incapaci però di liberarlo del tutto da imprinting, fobie e cicatrici caratteriali quali l’ipocondria (“la fissazione maniacale di essere ormai segnato, condannato a essere ghermito dal cancro”), le dimostrazioni di coraggio come quella esibita con l’arruolamento volontario e soprattutto uno stato depressivo cronico, a quei tempi si parlava di “esaurimento” che lo portarono a una continua “spola da un medico all’altro”, alternata alle più varie auto-prescrizioni.

Marco Ferrazzoli


Giuseppe Berto, “Tutti i racconti”, Rizzoli (2012)
Paola Culicelli, “La coscienza di Berto”, Le Lettere (2012)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni – Tutti i racconti di Berto
Fonte: Almanacco CNR – Recensioni – L’alter Zeno della letteratura italiana


Giuseppe Berto – Biografia

Maledetto Malaparte

Ecco una serie di stralci da “La pelle”, il romanzo di Curzio Malaparte che racconta l’arrivo dei soldati americani a Napoli sotto la metafora di una “peste” morale


« È certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra tutti son buoni, non tutti son capaci di perderla.
[…]
Nessun popolo sulla terra ha mai tanto sofferto quanto il popolo napoletano. Soffre la fame e la schiavitù da venti secoli, e non si lamenta. Non maledice nessuno, non odia nessuno: neppure la miseria. Cristo era napoletano.
[…]
Voglio bene agli americani, qualunque sia il colore della loro pelle, e l’ho provato cento volte, durante la guerra. Bianchi o neri, hanno l’anima chiara, molto più chiara della nostra. Voglio bene agli americani perché sono buoni cristiani, sinceramente cristiani. Perché credono che Cristo sia sempre dalla parte di coloro che hanno ragione. Perché credono che è una colpa grave aver torto, che è una cosa immorale aver torto. Perché credono che essi soli son galantuomini, e che tutti i popoli d’Europa sono, più o meno, disonesti. Perché credono che un popolo vinto è un popolo di colpevoli, che la sconfitta è una condanna morale, è un atto di giustizia divina.
[…]
Il 1 ottobre 1943 è una data memorabile nella storia di Napoli: perché segna l’inizio della liberazione dell’Italia e dell’Europa dall’angoscia, dalla vergogna, e dalle sofferenze della schiavitù e della guerra, e perché proprio in quel giorno scoppiò la terribile peste, che da quell’infelice città si sparse a poco a poco per tutta l’Italia e per tutta l’Europa.
[…]
Ma le zone più frequentate dai liberatori erano proprio quelle Off limits, cioè quelle più infette e perciò più vietate, poiché è nella natura dell’uomo, specie dei soldati di tutti i tempi e di qualunque esercito, preferire le cose proibite a quelle permesse.
[…]
Ma quel che più commuoveva il popolo napoletano era la gentilezza di modi dei liberatori, specie degli americani, la loro disinvolta urbanità, il loro senso di umanità, il loro sorriso innocente e cordiale di onesti, buoni, ingenui ragazzoni. Se è mai stato un onore perdere la guerra, era certamente un grande onore, per i napoletani, e per tutti gli altri popoli vinti dell’Europa, aver perduto la guerra di fronte a soldati così cortesi, eleganti, lindi, così buoni e generosi.
[…]
La fame umana ha una voce meravigliosamente dolce e pura. Non v’è nulla di umano nella voce della fame.
[…]
Napoli […] è la più misteriosa città d’Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell’immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta. Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto intatto alla superficie del mondo moderno. […] Non potete capire Napoli, non capirete mai Napoli.
[…]
Erano i giorni della «peste» di Napoli. Ogni pomeriggio alle cinque, dopo mezz’ora di punching-ball e una doccia calda nella palestra della P.B.S., Peninsular Base Section, il Colonnello Jack Hamilton ed io scendevamo a piedi verso San Ferdinando, aprendoci il varco a gomitate nella folla che, dall’alba all’ora del coprifuoco, si accalcava tumultuando in via Toledo.
Eravamo puliti, lavati, ben nutriti, Jack ed io, in mezzo alla terribile folla napoletana squallida, sporca, affamata, vestita di stracci, che torme di soldati degli eserciti liberatori, composti di tutte le razze della terra, urtavano e ingiuriavano in tutte le lingue e in tutti i dialetti del mondo.
L’onore di essere liberato per primo era toccato in sorte, fra tutti i popoli d’Europa, al popolo napoletano: e per festeggiare un così meritato premio, i miei poveri napoletani, dopo tre anni di fame, di epidemie, di feroci bombardamenti, avevano accettato di buona grazia, per carità di patria, l’agognata e invidiata gloria di recitare la parte di un popolo vinto, di cantare, di battere le mani, saltare di gioia tra le rovine delle loro case, sventolare bandiere straniere, fino al giorno innanzi nemiche, e gettar dalle finestre fiori sui vincitori.
Ma nonostante l’universale e sincero entusiasmo, non v’era un solo napoletano, in tutta Napoli, che si sentisse un vinto. Non saprei dire come questo strano sentimento fosse nato nell’animo del popolo. »

Curzio Malaparte


Il panico di Frascella e Valenti

Il panico quotidiano” di Christian Frascella (Einaudi) si presenta come un vero e proprio diario di un malato, sin dall’incipit: “La prima volta che ho avuto una crisi di panico non lo sapevo mica che era una crisi di panico”. Ne ‘La fabbrica del panico’ Stefano Valenti fonde sin dal titolo, con semplicità, i suoi due spunti letterari, quello della alienazione operaia e quello del malessere esistenziale postmoderno. Tra i precedenti che vengono richiamati alla mente, Paolo Volponi


Si presenta come un vero e proprio diario di un malato più che come un romanzo, ‘Il panico quotidiano’ di Christian Frascella (Einaudi). Sin dall’incipit, “La prima volta che ho avuto una crisi di panico non lo sapevo mica che era una crisi di panico”, fino al finale, uno dei punti più sinceri e sorprendenti del libro.
Nel mezzo, la narrazione lineare e cronologica di un’esistenza segnata da una ‘media’ ma profonda insoddisfazione: per le ambizioni di scrittore fino ad allora frustrate; per il lavoro alla catena di montaggio, in un settore industriale come l’indotto dell’auto piemontese, che nel corso degli anni descritti conosce una grave crisi; per una famiglia d’origine divisa da contrasti profondi quanto inespressi, soprattutto per una serie di relazioni amicali e per un rapporto d’amore che proprio le crisi di panico metteranno in luce nella loro superficialità.
La parte più efficace del libro è quella che descrive – man mano che la malattia avanza – la sensazione di progressivo abbandono, la distanza che si crea con le persone più care, l’impossibilità di condividere un dolore tanto profondo, personale e particolare. Come nel confronto illuminante con l’amico del cuore: “Preoccupato? Io al momento non lo ero. Ma mi resi conto che lui si lo era. E capii che non era preoccupato per me. Era preoccupato per sé. Per se stesso, che ora doveva interagire con un tizio che non ci stava più di tanto con la testa. Fu la prima volta che ebbi a che fare con quella sensazione. Dopo di allora mi è capitato di continuo”.
Del resto, l’ineffabilità delle crisi è reale e il libro stesso si limita, nel descriverle, a espressioni che non riescono a renderne nemmeno una pallida idea: “attacchi feroci, continui”, “non ci sono parole per raccontare agli altri”, “Oddio pensai. Non un’altra volta, non davanti a tutti. Oddio. E più pensavo così più la paura risaliva”.
Analoghe incomprensioni e incertezze, peraltro, il protagonista le incontra tra affidamenti speranzosi, disillusioni e auto prescrizioni, anche a livello sanitario, sperimentando randomicamente, il medico di base, vari psicofarmaci, un Centro di salute mentale, fino a incontrare uno psichiatra ospedaliero che gli farà comprendere, ma ci vorranno anni, come il panico si possa controllare e ci si possa convivere, senza però l’illusione di “guarire”. Un aiuto importante, anche se sporadico, gli arriverà invece dal rapporto stretto con un anziano operaio malato, Tonino Mascia detto “Sissignuri”.
A indebolire il testo è la sciatteria lambita sia nel plot sia soprattutto nello stile, infarcito di espressioni che paiono tratte dalle “emozioni adolescenziali” oggetto delle precedenti opere di Frascella. “Signore, pensai sui gradini della chiesa, non ci frequentiamo più molto ma ci conosciamo da tanto”, “con la passione dov’era andata a finire? Dove se ne va il desiderio quando poi se ne va?”, “Nasconderle le cose? E come avrei potuto fare altrimenti? Non facevamo che nascondercele le cose. Non parlavamo mai, almeno non di noi”. L’editore definisce però ‘Il panico quotidiano’ una prova di “maturità” dell’autore.


Ne “La fabbrica del panico” Stefano Valenti fonde sin dal titolo, con una semplicità encomiabile, due spunti letterari che hanno dato seguito a filoni cospicui, quello della alienazione operaia e quello del malessere esistenziale postmoderno. I precedenti che vengono richiamati alla mente sono diversi, oltre a Paolo Volponi che viene esplicitamente richiamato nella nota editoriale: da ‘Acciaio’ di Silvia Avallone a ‘Il panico quotidiano’ di Christian Frascella. Il protagonista racconta in modo asciutto, quasi cronachistico, lasciando ai fatti il compito di sgomentare il lettore, la realtà dei “morti d’amianto” attraverso la vicenda del padre operaio e pittore: “La pittura non esisteva senza la fabbrica, la fabbrica non esisteva senza la pittura. Se non fosse stato per la fabbrica non avrebbe avuto la necessità di evadere nella pittura. Se non fosse stato per la pittura, non avrebbe avuto la necessità di guadagnarsi da vivere in fabbrica. Invece di morire ogni giorno dentro quello stabilimento, sarebbe potuto tornare in montagna nei boschi a raccogliere funghi, a coltivare l’orto”.
La morte arriva qualche giorno dopo l’inizio della chemioterapia e dopo anni di un lavoro con cui l’uomo “guadagnava appena il necessario a non morire di fame. Non di più, non di meno” e per il quale “faceva cose che non avrebbe mai fatto in vita sua. Obbediva a ordini a cui non avrebbe mai obbedito”. La fabbrica è, per l’operaio assunto quale simbolo, la causa di un malessere mortale, fatto di “crisi d’ansia… una colite ulcerosa… stanchezza e inappetenza”, che il cronometrista e il caposquadra catalogano “traducendolo in numeri”. Un Fantozzi davvero tragico, che ritiene legittimo perdere o non avere quella salute che non considera un proprio diritto.
Tra il padre e il figlio, che ne eredita le crisi di panico, si interpone però la coscienza sindacale di Cesare, delle riunioni, del “Comitato”, delle manifestazioni, come quella in cui vengono lanciate “decine di palloncini colorati. Ogni palloncino porta il nome di un compagno di lavoro morto”. Nonostante l’ingenuità e la parzialità ideologica di questa coscienza, che si muove sulle note dell’Internazionale e di ‘Bandiera rossa’, non si può non rileggerne la storia con un moto di paradossale rimpianto, accentuato dalla constatazione che la conflittualità della fabbrica contro proprietà e dirigenza, la drammaticità delle sue storie di infortuni, mutilazioni volontarie, “movimenti uguali senza sosta” e tempi di lavoro insostenibili, appaiono quasi un lusso rispetto al nulla occupazionale e civile dello scenario odierno.
In mezzo, tra ieri e oggi, c’è il solco inaccettabile dell’amianto omicida, anzi stragista, delle morti “a catena” – “Cento operai su cento soffrono di disturbi alle prime vie respiratorie… Sessanta operai su cento soffrono d’ansia… Ventidue operai su cento soffrono di silicosi” – della teoria terribile di diagnosi cliniche, dall’asbestosi al carcinoma bilaterale ai polmoni, delle vertenze e delle sentenze.
Il romanzo, conclude l’autore, “deve essere pertanto inteso come un’opera di fantasia basata su fatti realmente accaduti”.

Marco Ferrazzoli


Stefano Valenti, “La fabbrica del panico”, La Feltrinelli (2013)
Christian Frascella, “Il panico quotidiano”, Einaudi (2013)


Fonti:
Almanacco CNR – Diario di una malattia ineffabile
Almanacco CNR – Il tragico “Fantozzi” delle morti d’amianto


Treccani: Volponi, Paolo

Fondazione Bo, per la letteratura europea moderna e contemporanea – Paolo Volponi
“Urbino, i nostri ieri” di Paolo Volponi (Fondazione Bo) (pdf)

Il Nudo e il complesso edipico in Corporale di Paolo Volponi (word)


Un’epidemia che colpisce lo spirito

In questa pagina, un breve saggio critico su “La pelle” di Curzio Malaparte. Come contributi aggiuntivi, suggeriamo un’intervista con Rita Monaldi e Francesco Sorti, autori di un giallo storico ispirato a Malaparte, “Morte come me”, e un contributo dalla rivista Domus su “Casa come me”, villa-icona del Novecento, perfetta espressione della visione architettonica di Malaparte


Il gruppo di lettura Casa d’altri, insieme a Nicola Lagioia, si è riunito in un nuovo incontro online per confrontarsi sul controverso romanzo di Curzio Malaparte, “La pelle”. Nel delineare i tratti salienti della vita di un personaggio discutibile e ambiguo, Nicola ha sottolineato come in Italia la parabola biografica di Malaparte abbia influenzato la valutazione della sua opera, proiettando un’ombra sulla sua attività letteraria, mentre all’estero sia considerato uno dei protagonisti del Novecento europeo.
Curzio Malaparte è il nome d’arte di Kurt Suckert, nato a Prato e soprannominato l’Arcitaliano perché avrebbe incarnato qualità e difetti del popolo italiano, primo fra tutti il trasformismo, che era una scelta dettata da ragioni di convenienza, ma anche un tratto distintivo del suo temperamento. Fascista della prima ora, Malaparte entrò più avanti in contrasto con il regime: venne mandato al confino, dove continuò comunque a godere della protezione di alcuni gerarchi. Dopo l’8 settembre 1943 si unì come ufficiale di collegamento alle truppe americane, per cambiare ancora orientamento nel dopoguerra, avvicinandosi a Togliatti. Nel ’57, dopo una diagnosi di tumore ai polmoni, lasciò in eredità la propria casa al Partito comunista cinese e in punto di morte si convertì alla religione cattolica.

Pubblicato a puntate in Francia tra il ’47 e il ’48, uscito in Italia nel ’49, al centro di una trilogia sulla decadenza dell’Europa iniziata con Kaputt e proseguita con Il ballo al Kremlino, “La pelle” racconta l’esperienza di Malaparte al seguito degli alleati a partire dalla liberazione di Napoli.
Nicola ha osservato come il libro possa essere considerato una non-fiction novel, una forma ibrida tra romanzo, reportage letterario e giornalismo, una rielaborazione letteraria della realtà più intensa e complessa di una semplice cronaca. L’altro genere letterario anticipato dalla Pelle è quello dell’autofiction: l’io narrante è Malaparte stesso, senza nemmeno un alter ego a fargli da schermo.
All’inizio il titolo avrebbe dovuto essere La peste, cambiato a causa della pubblicazione nel ’47 del libro di Albert Camus; mentre però la peste di Camus è una metafora del nazifascismo, quella di Malaparte è la corruzione, una malattia morale portata dagli eserciti alleati a Napoli, e da lì diffusa per l’Europa: i napoletani, che durante la guerra avevano combattuto con dignità, dopo la liberazione si vendevano per salvare la propria pelle.
La Napoli della Pelle non è una città ma un continente letterario, un luogo di immaginario potentissimo e al tempo stesso immobile: è il centro della paralisi, della tragedia e dell’abiezione, e proprio per questo luogo ideale per la letteratura.

Un tema ricorrente nel libro è il rapporto tra la civiltà degli europei vinti – verticale, profonda, consapevole dell’abisso in cui è precipitata, e per questo perduta – e la civiltà orizzontale, ingenua e inconsapevole, degli americani vincitori, che in quanto tali non hanno bisogno di interrogarsi. Alla riflessione sulle macerie di un’idea di Europa amata da Malaparte si accompagna una sorta di elegia su una tradizione letteraria.
Il dialogo che si è intrecciato dopo l’introduzione di Nicola ha messo in rilievo diversi aspetti, a partire dalla profonda e struggente pietas, espressa con accenti lirici, che prevale sui momenti in cui viene raccontata l’abiezione, l’uomo che perde la sua humanitas: Malaparte riesce a darci una lezione di umanità lì dove l’umanità sembra essere negata, anche se scrive in un secolo in cui l’idea di uomo – frammentata, disgregata – è molto diversa rispetto all’epoca in cui il sentimento della pietas nasce e viene elaborato, anche dal punto di vista letterario.
Alcune lettrici hanno sottolineato la sua sofferenza davanti a un processo storico, sentito come ineluttabile, che evolve grazie alla violenza, il suo amore per i vinti accanto alla ripugnanza per l’uomo nel suo miserabile trionfo.
Qui Nicola ha collegato “La pelle” con un libro apparentemente molto distante, La Storia di Elsa Morante, mettendo in luce come entrambi scelgano di scrivere la storia dal punto di vista delle vittime e non dei vincitori, perché solo coloro sui quali la storia ha inciso più a fondo il proprio marchio ne sono i veri testimoni. Lo stesso ragionamento, ma più vertiginoso, lo fa Primo Levi nei Sommersi e i salvati, dove sostiene di non essere lui il vero testimone: i testimoni integrali sono quelli che non sono tornati, o che sono tornati muti, totalmente annichiliti.

Anche per quanto riguarda il potere, l’oggetto privilegiato della narrazione nella letteratura moderna sono quasi sempre le persone che ne subiscono le conseguenze, come se chi detiene il potere fosse il centro di una tromba d’aria, che è l’unico luogo immobile, dove non succede niente.
È stato ricordato anche come Malaparte nel capitolo ambientato a Firenze non ponga l’accento sulla liberazione, sulla rinascita di un paese distrutto: analogamente a Fenoglio, racconta una guerra civile in cui, dal punto di vista narrativo e umano, c’erano dei ragazzi, con le loro complessità e fragilità, che si uccidevano tra loro.
Il rapporto tra civiltà europea e americana è stato ripreso nella conversazione, evidenziando come il candore degli americani, più che nel loro pudore, consista nella loro incapacità di concepire il male come qualcosa di irrimediabile, nel loro incrollabile ottimismo: convinti che tutto si può combattere, che si può guarir della miseria, della fame, del dolore, che v’è rimedio a ogni male, mancano del senso del tragico, che è il grande bagaglio – ma anche la grande zavorra – degli europei, dotati invece di una consapevolezza innata dovuta ad alcuni millenni di civiltà alle spalle e al trauma della guerra vissuta sul proprio suolo.

Tra le lettrici e i lettori c’è chi ha considerato “La pelle” un libro ancora più disperato di Addio alle armi perché, anche se non ha un finale tragico, racconta un mondo perduto, e chi ha visto un momento non proprio di catarsi, ma comunque di speranza, nella morte di un ufficiale alleato: io sentii, per la prima volta nella mia vita, che un essere umano era morto per me.
L’appuntamento, partecipato e coinvolgente, con Casa d’altri è stato l’occasione per riscoprire la forza linguistica e immaginativa di uno scrittore capace di raccontare una malattia dello spirito paurosamente attuale.

Alessandra Sirotti

Curzio Malaparte, “La pelle”, Adelphi (2010, 6ªediz)

Fonte: MinimumLab


Almanacco CNR – Faccia a faccia

DomusWeb – Curzio Malaparte: la storia e i retroscena di Casa come me

“La cognizione del dolore”, Carlo Emilio Gadda

Romanzo composto tra il 1938 e il 1941, inizialmente pubblicato a puntate sulla rivista Letteratura, rimase incompiuto a causa dell’imperversare della guerra e venne pubblicato solo nel 1963 dall’editore Einaudi. Nelle opere di Gadda alla contaminazione dei generi (lirico, grottesco, tragico…) si accompagna sempre quella dei linguaggi (termini di uso non comune, espressioni dialettali, linguaggi settoriali). In questo brano si narra l’incontro di Gonzalo Pirobutirro con la madre, dolorosamente consapevole della malattia psichica (il male oscuro) che tormenta il figlio. La donna, anziana e malata, sta cercando di improvvisare una cena per il figlio, reduce da un viaggio di lavoro: ognuno si chiude nel mutismo e si trincera nella propria solitudine


« L’alta figura di lui si disegnò nera nel vano della porta-finestra, di sul terrazzo, come l’ombra d’uno sconosciuto: e, dietro a lui, nel cielo, due stelle parevano averlo assistito fin là. Diòscuri splendidi sopra una fascia d’amaranto, lontana, nel quadrante di bellezza e di conoscenza: fraternità salva! La madre lo scorse, ma non poté vederne il viso contro il rettangolo di luce. Egli allora entrò, e recava una piccola valigia, la solita, quella di cartone giallo da quaranta centavos, come d’un venditore ambulante di fazzoletti. Nella stessa mano, arrotolato, il vecchio ombrello. La madre disse “oh! Gonzalo, come stai? Oh! guarda!” e proferì con un singhiozzo di gioia i nomi delle due stelle, a mani giunte, a guisa di saluto. Ma pensò che la prima sola valeva, nella correlazione di fortuna e d’astri per simbolo di una presenza terrena; poiché l’altra, così fulgida, così pura, non era se non un pensiero lontano della notte.
Il figlio la salutò appena, come ogni volta, stanco. Neppure le sorrise. Ella non insisté a cercarne lo sguardo, non chiese del viaggio, né dell’uragano.
[…]
Le sue mani rigide, quasi inerti, non arrivavano a prendere con esattezza; le riuscì difficile d’insinuare il cilindro di cristallo nella sua ghiera precisa, di ottone lucido, come una trina dei costumi desueti: e questa invece lo doveva ritenere alla base. Si sarebbe seduta, tremava… ma bisognò pensare al figliolo… Quando la lampada poté rischiarare la stanza, al fine, le parve di dover cadere… L’ultimo sguardo del crepuscolo, già lontanissimo, abbandonava il mobilio, con riflessi radenti e freddi sulla credenza, su qualche vassoio di metallo. Quel pallore della lucerna, invero, non ci aveva aggiunto di molto. Richiuse i vetri come le riuscì; ch’era molto alta finestra, sul terrazzo; abbrividendo.
[…]
Andò in cucina a preparargli qualcosa da cenare. Era assolutamente necessario, anche a dimostrazione della validità funzionale della villa: tanto più, poi, che la villa era sprovveduta di cuoca o d’una qualunque fante. Altrimenti egli avrebbe colto quel pretesto ad accendersi circa la inanità della campagna: e sarebbe incorso nelle peggiori bizze ed ubbìe: (la cosa, oramai, un triste rito: la povera madre lo sapeva bene). Avrebbe ripetutamente scorbacchiato e rimaledetto la villa, insieme col mobilio, coi candelieri, con la memoria del padre che l’aveva costruita; incoronando di vituperî osceni tutti i padri e tutte le madri che lo avevano preceduto nella serie, su, su, su, fino al fabbricatore di Adamo. Sarebbe trasceso alle bestemmie, ch’ella non poteva udire: ad accuse troppo vere, forse, per essere udibili: coinvolgendo nella turpitudine pazza che lo animalava in quei momenti financo il sacro nome di Pastrufacio (il Garibaldi del Maradagàl).
[…]
La madre, viceversa, fin da quando i muratori ci accudivano nel ’99, aveva incorporato in sé, subito, – avvampante splendore di giovinezza – il trionfo serpentesco della “sua” villa sopra le rivali keltikesi che non credevano alla possibilità di una villa: (degli spelacchiatissimi Pirobutirro).
E quell’orgoglio, quel tirso di brace che le era venuto fatto, in un giorno lontano, di potersi infilare a metà dell’anima alla facciazza delle pseudo-cognate e delle pseudo-nipoti, quello poi era cresciuto ad ebbrezza e ad onnipotenza raggiante, dentro un evo fulgido, allucinato, senza più misura né termine: l’idea del possesso e della supposta vittoria tracannata come un cognac di fuoco e di vita a ogni nuovo mattino, a ogni giorno splendido. Quello le era bastato, durante quarant’anni, a scongiurare la disperazione, ad acculare al di là d’ogni strazio e d’ogni miseria, d’ogni sdrucita maglia de’ suoi bimbi, d’ogni scampanìo, d’ogni gloria, d’ogni tenca, lo sporco sogghigno della morte.
[…]
in cucina non v’era quasi nulla, da potergli preparare nemmeno un ovo. Lo stentòreo deretano delle galline del Giuseppe ci perveniva piuttosto raramente, a una così gloriosa estromissione. Ne teneva più d’una, ma facevan l’ovo a turno: e spesso, poi, marinavano il turno. Il figlio si sarebbe imbestialito anche di ciò: e allora bisognava sorvolare, sulle ova. Già altra volta era accaduto che s’infuriasse, per quella inadempienza dei polli del Serruchón porco: e aveva accusato il gallo di morosità genetica e di perversione, le galline d’esser lesbiche, e tr…; poi la furia s’era schiarita in una reminiscenza di Livio “gallinam in marem, gallum in foeminam se se vertisse…”. E, atrocemente, sghignazzando, aveva brindato alla salute del gallo! ma non disse affatto alla salute, disse una parte del corpo: aveva inneggiato, (irridendo lei, la mamma), al gallo bardassa
[…]
Carlo Emilio Gadda

Fonte:
“La cognizione del dolore”: Gonzalo torna a casa – citazioni
Citazioni e frasi celebri

Leggere Freud

Sigmund Freud, Vienna, con Charcot a Parigi, la scuola ipnotica, l’inconscio, i tabù, la psicanalisi… Difficile dire che la vita e l’opera di Freud non siano un romanzo, in senso figurato ma anche letterale. Irving Stone in questo libro le racconta entrambe. Dalla famiglia al lavoro, dal successo agli incontri con Carl Gustav Jung e Albert Einstein. Il celebre critico letterario Harold Bloom, nel “Canone occidentale”, ha inserito Freud nel suo elenco degli scrittori più importanti di ogni tempo. A “Leggere Freud” ci invita Sergio Benvenuto


La pretesa di leggere Freud con occhi e orecchi vergini cercando di intendere l’essenziale della sua scrittura, può muovere all’ilarità più di un lettore, in particolare chi si rifà al relativismo ermeneutico. Non esistono letture trasparenti di un testo, tanto più di un autore morto che non può più puntualizzare o correggere. Ogni autore, ogni epoca, legge “il classico” (possiamo considerare Freud un classico moderno) secondo proprie griglie date dai propri interessi, priorità, saperi, domande, pregiudizi, giudizi previ, del proprio tempo. Insomma, anche se possiamo leggere un testo con maggiore o minore rigore filologico, non possiamo leggere un testo del passato obiettivamente. La questione del “come leggere” un testo è una delle più complesse. Inoltre questa questione è interna alla psicoanalisi stessa, nella misura in cui l’analisi è una certa lettura della parola dei soggetti. La questione di come leggere oggi i testi psicoanalitici si embrica quindi alla questione di capire su quale tipo di lettura – o ascolto – la psicoanalisi si basa.

Sergio Benvenuto


Sergio Benvenuto, “Leggere Freud. Dall’isteria alla fine dell’analisi”, Orthotes (2017)


Irving Stone, “Le passioni della mente: il romanzo di Sigmund Freud”, Corbaccio Editore (ediz.2012)


Edizione originale:
Irving Stone, “Le passioni della mente: il romanzo sulla vita di Sigmund Freud”, Dall’Oglio Editore (1971)



Ida, la donna che rifiutò l’isteria

Ida Bauer è – nello pseudonimo assunto nella letteratura freudiana – Dora, il più noto caso di cui Freud si occupa a Vienna. Raccoglie molteplici vite in una sola, condotta a cavallo tra l’illusione ovattata della luccicante “belle époque” e il secondo conflitto mondiale. Katharina Adler, la pronipote, ne raccoglie la storia nel suo primo romanzo


“Lei, lei solo avrebbe d’ora in avanti deciso della sua vita”. Questa è la decisione che Ida Bauer prende all’inizio del nuovo anno e del nuovo secolo, nel 1901, quando, camminando lungo la Berggasse di Vienna, torna a casa sua dallo studio del dottor Sigmund Freud. Che, ha deciso, non vuole più rivedere. Ida è la prima paziente ed è il primo grande fallimento del padre della psicoanalisi, che non ha ancora fatto i conti con il controtransfert ma è costretto a farli con il netto rifiuto che la giovane oppone alla spiegazione fornitale per la sua isteria.
Ida Bauer è – nello pseudonimo assunto nella letteratura freudiana – Dora, il più noto caso di cui Freud si occupa a Vienna. Raccoglie molteplici vite in una sola, condotta a cavallo tra l’illusione ovattata della luccicante “belle époque” e il secondo conflitto mondiale. Ed è Katharina Adler, la pronipote di Ida, a raccoglierne la storia nel suo primo romanzo, nominato per il Klaus-Michael Küne Prize e il Zdf Aspekte literatupreis e pubblicato in traduzione italiana da Sellerio. Nelle pagine del romanzo ripercorriamo la storia di una donna divisa tra la consapevolezza di sé e una società ancora troppo patriarcale, stretta nella dinamica familiare e sociale della Vienna ebraica altoborghese, con le sue ipocrisie e i suoi occultamenti. Incluso quello dell’abuso subito da parte di Hanns Zellenka, la cui moglie è anche l’amante di suo padre. Questi intrecci complicano la situazione sanitaria della paziente di Freud, che comprende come il contesto che la circonda sia talmente soffocante da ammalarla, emettendo la diagnosi di “isteria”: ma Ida-Dora non accetta. “Lei sapeva bene quali conclusioni trarre, aveva detto. Tanto più che, come se non bastasse, se l’era voluta filare”.
Adler traccia un ritratto preciso della Dora-Ida che impara a camminare sulle sue gambe, prendendo man mano coscienza di sé, di quello che è stata e di ciò che vuole essere, nonostante una lunga serie di rinunce: in primis, quella agli studi che avrebbe prediletto. Seguiamo l’evolversi della vita di questa donna tra salti in avanti e indietro e gli stralci freudiani del “Frammento di un’analisi d’isteria” e – con la sua – seguiamo le esistenze di moltissime donne, perché in Ida vivono la bambina molestata, la figlia ribelle e acuta, la sorella devota, la sposa delusa, la madre apprensiva e la vedova rassegnata.
Non solo un racconto biografico, dunque, bensì lo sguardo che solitamente non viene considerato né riconosciuto, la versione dei fatti al femminile che assume anche la valenza di rivincita su un mondo maschile che pretende di chiudere in una sola parola, isteria, un universo complesso e sconosciuto ai più. Tutto viene filtrato attraverso la lente della tenacia che anima Ida Bauer, fino a “quando con calma attenderai che la luce in sala si spenga. Quando il buio calerà e si alzerà il sipario”.

Manuela Discenza


Katharina Adler, “Ida”, Sellerio (2019)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Sciascia e gli untori

Leonardo Sciascia, in un saggio scritto per la “Storia della colonna infame”, individua con grande acutezza alcuni meccanismi psicologici e sociali, soggiacenti alle dicerie in merito alla diffusione del contagio. Lo scrittore siciliano mette qui in campo la sua capacità di analisi non solo da “collega” di Manzoni ma anche da osservatore dei fatti della sua epoca e della storia della sua terra d’origine


La credenza che peste e colera venissero artatamente sparsi tra le popolazioni è antica. La registra Livio per, come ricorda Pietro Verri nelle sue “Osservazioni sulla tortura” che, appunto muovono dai funesto casi cui la credenza dette luogo nel 1630. “Veggiano i saggi Romani stessi al tempo in cui erano rozzi cioè l’anno di Roma 428 sotto Claudio Marcello e Cajo Valerio attribuire la pestilenza che gli afflisse a’ veleni apprestati da una troppo inverosimile congiura di marrone romane”. Al tempo in cui erano rozzi: perché pare che meno rozzi tra loro più non sia insorta quella credenza. E c’è da credere si fosse del tutto spenta nei secoli successivi e fino al XIII e XIV. Non ne troviamo traccia, infatti, nei cronisti che pure abbondano di notizie sulle epidemie pestifere del due e del trecento. Nelle loro pagine le tremende epidemie non trovano altra causa che il volere di Dio o l’influsso degli astri; e la propagazione del morbo ad altro non è attribuita che agli scambi e ai viaggi. Per tutti Giovanni Boccaccio
[…]
Quel che sappiamo quasi con certezza qui ed ora è che nel secolo XIV nessuno avanza il sospetto di una peste manufatta e diffusa da persone convenientemente immunizzate per decisione del potere (visibile o invisibile) o di una associazione cospirativa contro il potere o di un gruppo delinquenziale che si propone nella calamità più facile depredazione; mentre nel secolo XVII un tale sospetto non solo viene formulato ma arriva alla certezza medica e giuridica, tramandandosi – non più per fortuna sul piano della scienza medica e leguleia – fino a un tempo cui arrivano i nostri ricordi. Del colera del 1885-86 e della “spagnola”, ultima mortale epidemia che si è avuta in Italia subito dopo la guerra del ’15-18, abbiamo infatti sentito favoleggiare come di provvedimenti per così dire malthusiani; e della “spagnola” venuta dopo il grande macello della guerra si diceva fosse effetto di un conto da cui ancora risultava eccedenza di popolazione, essendo la guerra per errato calcolo finita un po’ prima di quanto doveva: e dunque la correzione da parte dei governi per quel tanto né più né meno che ci voleva a far tornare il conto.
[…]
Che si potesse come oggi, in un laboratorio batteriologico, manufare la peste e diffonderla, intanto era questione controversa. Il Tadino medico ci credeva: ma allora non c’era differenza tra uno che si diceva o dicevano medico e una qualsiasi persona colta. Le conoscenze del Tadino in fatto di medicina non erano né diverse né superiori a quelle di un don Ferrante: il quale risulta personaggio comico, caricatura nelle pagine dei Promessi Sposi, con senno di poi ma è in effetti il ritratto del Tadino tal quale. Anzi: il Tadino vedeva la peste scendere dalle stelle e andare a finire nelle ampolle degli untori; don Ferrante invece si fermava alle stelle e morì prendendosela con le stelle e non con gli untori.

Leonardo Sciascia



Alessandro Manzoni, “Storia della colonna infame”, Bompiani (1985)

Alessandro Manzoni o l’ipotesi di un realismo cattolico

Alberto Moravia si sofferma, in un saggio su Manzoni, sulla funzione simbolica che la peste assume nei “Promessi sposi”. Il contributo è pubblicato in premessa alla “Storia della colonna infame”, nell’edizione Bompiani del 1985


[…]
…. la peste è la corruzione per eccellenza per antonomasia; con i suoi bubboni, le sue febbri, il suo sfacelo fisico, essa è il simbolo di tutto ciò che non è sano né integro: con il suo diffondersi misterioso e inarrestabile essa è l’immagine stessa del male morale, contro il quale è impossibile difendersi. A sua volta, per aver fatto della peste, unico tra gli scrittori di tutto il mondo e di tutti i tempi, uno degli argomenti principali del suo romanzo, il Manzoni è per antonomasia il dipintore dell’epidemia, ossia della corruzione. Ma c’è peste e peste; la celebrità della peste de ‘I promessi sposi’, al contrario delle analoghe descrizioni del Boccaccio e del Defoe, si deve al fatto che essa è realmente sentita dal Manzoni come un fenomeno anzitutto morale; un po’ come le sette piaghe d’Egitto nell’Antico Testamento.
Così descrivendo la peste, il Manzoni si trova per così dire nel suo elemento, quello di una corruzione metafisica e universale che non risparmia niente e nessuno. Anche in questa parte della peste, come già in quella della Monaca di Monza, il Manzoni tocca i punti più alti della sua arte, come per esempio nel celebre episodio della madre che consegna ai monatti la sua bambina morta.


Alberto Moravia



Alessandro Manzoni, “Storia della colonna infame”, Bompiani Milano (1985)

La parabola dei ciechi

Racconto breve ispirato al quadro “La parabola dei ciechi” dell’artista fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio. L’opera è in Italia, esposta nel museo di Capodimonte.

Parabola dei ciechi, Pieter Bruegel il Vecchio. 1568

Sullo sfondo della campagna della Fiandra (…) sei medicanti cenciosi. (…)

Devono rispondere alla convocazione di un pittore che vuole ritrarli (…)

Finalmente raggiungono l’artista, cui vorrebbero soprattutto chiedere perché egli voglia ritrarli mentre cadono e si umiliano di fronte a lui (…)

L’esito del lungo viaggio (…) quel dipinto che William Carlos Williams definì “orribile e insieme superbo (…)

Ehi, tu, chiediamo procedendo, ci sono uomini qui?

Sì, dice il bambino.

Quanti?

Devo contarli?

No. Press’a poco.

Forse dieci.

Dove?

Davanti alle loro case.

E che cosa vogliono?

Vedervi.

Allora ci guardano?

Sì.

Adesso?

Sì, adesso.

Ah, va bene, diciamo. E, come sempre quando ci osservano, a fatica ci avviciniamo l’uno all’altro, e volgiamo lo sguardo ostentatamente verso l’alto, e ci rendiamo conto di essere guardati, sia da vicini che da lontano. Un mostro marino noi siamo, quando passiamo così per i villaggi, un insieme che si muove con difficoltà, silenzioso e indistinto. Quando si espone alla vista, s’imbatte nella paura, nel disgusto e nella pietà. (…)

Ecco il cibo, dice il bambino, è tutto per voi.

E prende le nostre mani e le posa sul pane e sulle pentole e ci spinge intorno al tavolo. Cerchiamo tastoni il cibo per sapere cosa c’è. Mettiamo persino le mani nel latte che sta vicino al mangiare, tiepido ci scorre addosso. Ma questo lo conosciamo. Di continuo prendiamo cose che non abbiamo previsto. Se addirittura non afferriamo qualcosa che non esiste. (…)

Ehi, gridiamo, che c’è da guardare così a bocca aperta?

Non guardano a bocca aperta, dice chi-ha-bussato.

E noi sentiamo che guardano a bocca apert??

Non guardano a bocca aperta, dice lui.

Ah, diciamo, che facciano pure. E prendiamo prima da questa poi da quella scodella, prima cibi freddi, poi bollenti e poi ancora tiepidi. Arriva un venticello e siamo contenti di avere i nostri camiciotti.

Con il cucchiaio prendiamo anche la broda, che è dolce, non salata, e la infiliamo in bocca.

Guarda come si sbrodolano, dicono.

Sì, diciamo, ci sbrodoliamo.

Allora ridono e dicono: Continuate così, A sudare e a ingozzarvi. (…) Il bambino affinché si ricordi più facilmente. Perché sappiamo che il pittore vuole dipingerci, ma ancora non ci crediamo ancora. (Non siamo mai stati dipinti finora!) Altrimenti non ha nessuno da dipingere? (…)

Gert Hofmann. La Parabola dei ciechi. (Trans, 1985)