L’Uomo della Sabbia

Il brano riportato da uno dei più celebri racconti di Hoffmann racconta la pazzia di Nathanael dopo aver visto l’orrorifica figura di Coppelius strappare gli occhi e rapire quella che il protagonista crede essere la moglie di Spalanzani. In realtà quest’ultima non è che un automa: tuttavia, il gesto di strappare gli occhi si ricollega alla paura dell’Orco Insabbia; questo porta ad uno stato di terribile follia il protagonista.

Spallanzani si dimenava per terra, schegge di vetro gli avevano tagliuzzato il capo, il petto e le braccia e il sangue gli scorreva fuori come da una polla d’acqua. Ma raccolte tutte le sue forze gridò: «Corrigli dietro… corrigli dietro cosa aspetti?… Coppelius… Coppelius mi ha rubato il mio miglior automa… ci ho lavorato vent’anni… ci ho messo anima e corpo… l’orologeria… la parola… i passi… mio, tutto mio… gli occhi… gli occhi rubati a te… dannato… maledetto, corrigli dietro… va’ a prendergli Olimpia… prenditi i tuoi occhi».

E Nataniele vide un paio di occhi sanguinanti sul pavimento che lo fissavano; Spallanzani li afferrò con la mano illesa e glieli scagliò contro colpendolo sul petto.

La follia allora lo attanagliò con artigli roventi e gli penetrò profondamente nell’anima, dilaniandogli la mente e il pensiero.

«Hu, hu, hu… cerchio di fuoco… cerchio di fuoco… gira, cerchio di fuoco… allegro… allegro… bambola di legno, hu, bella bambola di legno, gira…» E si scagliò contro il professore e lo strinse alla gola. Lo avrebbe strangolato se tutto quel fracasso non avesse richiamato molta gente che afferrò l’impazzito Nataniele, sottraendogli il professore che fu subito medicato. Sigismondo per quanto forte non riusciva a tener fermo il forsennato che continuava a gridare con voce orribile: «Bambola di legno, gira, gira» e roteava i pugni.

Infine, unite tutte le forze, riuscirono a sopraffarlo e, gettatolo a terra, a legarlo. Le sue parole si trasformarono in mugolii bestiali. E così pazzo furioso fu portato al manicomio.

Ernst T. A. Hoffmann

Fonte: Ernst T. A. Hoffmann, L’uomo della sabbia e altri racconti, Mondadori, 2019.

La poetica follia di Celestini

Ascanio Celestini è l’autore de “La pecora nera”. Lo potremmo definire un multimediale dedicato alla follia. Uno spettacolo culto che per anni è stato portato in tournée nei teatri di tutta Italia, un’edizione in Dvd, un libro, un taccuino, un film del 2010 scritto, diretto ed interpretato da  Celestini, con Giorgio Tirabassi e Maya Sansa. “La pecora nera” raccoglie frammenti di diario, racconti inediti e testimonianze: Nicola, con i suoi 35 anni di degenza in manicomio, mescola realtà e fantasia, comico e tragico; Adriano Pallotta è stato infermiere al Santa Maria della Pietà di Roma, uno tra i più grandi manicomi d’Europa; Alberto Paolini, entrato a quindici anni al Santa Maria della Pietà, ci è rimasto per quarantadue anni


Il manicomio è un condominio di santi. So’ santi i poveri matti asini sotto le lenzuola cinesi, sudari di fabbricazione industriale, santa la suora che accanto alla lucetta sul comodino suo si illumina come un ex- voto. E il dottore è il più santo di tutti, è il capo dei santi, è Gesucristo». Così ci racconta Nicola i suoi 35 anni di «manicomio elettrico», e nella sua testa scompaginata realtà e fantasia si scontrano producendo imprevedibili illuminazioni. Nicola è nato negli anni Sessanta, «i favolosi anni Sessanta», e il mondo che lui vede dentro l’istituto non è poi così diverso da quello che sta correndo là fuori – un mondo sempre più vorace, dove l’unica cosa che sembra non potersi consumare è la paura.
[…]
Raccolgo memorie di chi ha conosciuto il manicomio un po’ come facevano i geografi del passato. Questi antichi scienziati chiedevano ai marinai di raccontargli com’era fatta un’isola, chiedevano a un commerciante di spezie o di tappeti com’era una strada verso l’Oriente o attraverso l’Africa. Dai racconti che ascoltavano cercavano di disegnare delle carte geografiche. Ne venivano fuori carte che spesso erano inesatte, ma erano anche piene dello sguardo di chi i luoghi li aveva conosciuti attraversandoli. Così io ascolto le storie di chi ha viaggiato attraverso il manicomio non per costruire una storia oggettiva, ma per restituire la freschezza del racconto e l’imprecisione dello sguardo soggettivo, la meraviglia dell’immaginazione e la concretezza delle paure che accompagnano un viaggio.
[…]
Il manicomio è un condominio di santi. So’ santi i poveri matti asini sotto le lenzuola cinesi, sudari di fabbricazione industriale, santa la suora che accanto alla lucetta sul comodino suo si illumina come un ex voto. E il dottore è il più santo di tutti, è il capo dei santi, è Gesucristo.


Andrea Vianello, la parola ritrovata

Ricominciare a vivere dopo un grave ictus che tra l’altro gli ha tolto l’uso della voce, il suo strumento di lavoro. Il giornalista radio-televisivo – ora recuperato grazie a un intervento e a una lunga riabilitazione – sente la “responsabilità di mobilitarmi perché ci siano più prevenzione e attenzione verso questa patologia”. Ha cominciato a farlo confortando gli altri pazienti durante le cure e scrivendo un libro. Ma ha anche scoperto un mondo di operatori adiacente alla medicina che non è normato adeguatamente e come scienza e conoscenza siano spesso considerate alla pari di una posizione qualsiasi. “Con il Coronavirus abbiamo imparato ad affidarci agli esperti, speriamo non si torni al precedente clima antiscientista”

Rialzarsi dopo una scivolata con lo scooter. Ricominciare a vivere dopo una grave malattia ed essere giunti in punto di morte. Ripartire verso l’obiettivo della normalità, dopo il lockdown e con una pandemia ancora tutt’altro che sconfitta. Andrea Vianello conosce tutte e tre queste esperienze. La prima è la più banale e la citiamo solo perché diede a intervistatore e intervistato l’occasione di conoscersi. L’ultima la sta cominciando in questo periodo, assieme a tutti gli altri italiani. Sulla seconda ha scritto un libro, “Ogni parola che sapevo” (Mondadori), dove descrive un incidente terribile e paradossale per un giornalista radiofonico e televisivo, conduttore di programmi come “Radio anch’io”, “Agorà” e “Mi manda Rai Tre”: un ictus che tra l’altro gli toglie l’uso della parola, il suo strumento di lavoro.

“L’ictus, l’operazione condotta da un medico coraggioso, conscio che sotto i ferri rischiavo la morte, la lunga riabilitazione al Santa Lucia di Roma… Ho pensato spesso a come sarebbero andate le cose se l’incidente fosse successo oggi, quando tutta la Sanità è comprensibilmente concentrata sul Covid-19. Sono in contatto con medici, soprattutto lombardi, che mi hanno spiegato come abbiano dovuto quasi monopolizzare il loro lavoro nella battaglia contro questo nemico misterioso, aggressivo e letale”.

Le cose – per l’ictus – sono andate benissimo, lei si è ripreso in modo eccellente. Durante le cure non ha mai avvertito un surplus di attenzione dovuto alla sua notorietà?

No, sinceramente no. Il mio ruolo pubblico è emerso in un altro modo, che chiamerei di responsabilità. Durante la mia permanenza all’ospedale Santa Lucia, durata più di un anno, si è creato un clima amicale e i pazienti man mano mi hanno preso come punto di riferimento. Conoscendomi come giornalista, mi chiedevano consigli o anche solo conforto, magari dicendo ‘Andre’, che dici, ce la faccio?’. E io cercavo di rispondere infondendo coraggio, fiducia, prima di tutto sorridendo. Da lì è nata in me una nuova consapevolezza: vorrei spendere la mia relativa notorietà mobilitandomi perché ci siano più prevenzione e attenzione verso l’ictus, una patologia a mio avviso sottovalutata nella comunicazione pubblica e che apporta invece invalidazioni terribili, anche se spesso recuperabili.

Il libro è stato un passo in questa direzione?

Senz’altro, anche se rilevo – da parte dei personaggi pubblici, e non solo – una sempre più diffusa tendenza a raccontare le proprie malattie, in contrasto con la riservatezza su questo tema, che un tempo sfiorava persino l’omertà. Credo che tale trasparenza sia positiva, poiché la malattia non è una colpa di cui vergognarsi.

 In “Ogni parola che sapevo” lei però azzarda una causa precisa per quanto le è accaduto…

Non posso e voglio muovere accuse a nessuno, ma il mio ictus – per la precisione ho subito un’ischemia con versamento di sangue nella parte destra del cervello, quella che tra l’altro comanda la parola – è avvenuto dopo che mi ero sottoposto a una manipolazione per la cervicale. E la causa accertata è stata la disseccazione della carotide. Ho poi scoperto, studiando la letteratura scientifica, che questa coincidenza è frequente. A questo punto, obietto solo che questo mondo di operatori adiacente alla medicina, e sempre più frequentato dai pazienti, non è normato adeguatamente: a danno dei malati, che rischiano di finire letteralmente tra le mani di persone impreparate, e degli operatori qualificati, che non hanno modo di distinguersi. Queste pratiche possono essere utili come supporto della medicina che chiamiamo ufficiale, ma solo se sono affidate a professionisti riconosciuti, anche a livello di ordine: oggi invece, senza saperlo, ci potrebbe capitare di rivolgerci a persone che non hanno titoli adeguati per esercitare la loro attività. Una proposta di legge al riguardo c’è, ma come spesso succede si è persa nei meandri parlamentari”.

Lei lambisce così il tema delle cosiddette “medicine alternative”, spesso seguite con atteggiamento polemico contro la scienza, la sanità e la medicina, e talvolta purtroppo consistenti in mera cialtroneria. In questi tempi, è un tema particolarmente caldo.

Intanto credo che la questione non riguardi soltanto la scienza ma tutta la conoscenza, cioè che ci sia una progressiva crisi delle competenze, che in alcuni ambiti, come i social network, sono sovente considerate alla pari di una qualsiasi posizione. Tanto più in questi tempi di Coronavirus, penso si debba fare e credo si stia facendo un grande sforzo per comunicare le conoscenze scientifiche corrette, purtroppo ancora insufficienti per debellare la pandemia. Lo ravviso da parte delle istituzioni scientifiche e pubbliche e di molti media: per esempio la mia azienda – io sono un uomo Rai al cento per cento – sta facendo un buon lavoro. Certo, si può e si deve sempre migliorare.

Potrebbe essere questo un suo futuro ruolo? 

Sono rientrato al lavoro da poco e per ora preferisco restare dietro le quinte, anche perché le difficoltà nell’uso della parola non sono del tutto scomparse. E poi nella mia carriera ho alternato i ruoli di conduzione alla direzione di Rai Tre, mi sento di poter stare sia dietro sia davanti alla telecamera. Per quanto riguarda la necessità di una corretta informazione sul riconoscimento delle competenze nel dibattito mediatico, volevo però aggiungere che il tema ci investe anche come cittadini: temo che, passata la attuale paura, che ci ha spinto ad affidarci agli esperti per chiedere soluzioni, si torni al precedente clima antiscientista, che pervade anche alcuni ambiti istituzionali.

A giudicare da questa conversazione, le sue leggere incespicature la rendono un oratore ancora più accattivante. Forse potrebbe proprio dedicarsi a un programma dedicato alle disabilità, vista la consapevolezza che ha acquisito?

Questa sua considerazione sul mio modo di parlare me l’hanno già fatta altri, dopo l’intervista rilasciata nel programma di Massimo Gramellini e la presentazione del libro tenuta al Maxxi di Roma. Comunque sul mio futuro professionale ho tempo di riflettere, assieme alla Rai. Per quanto riguarda la mia sensibilità ai problemi sociali, è precedente all’ictus e nei miei programmi ho cercato di coltivarla. Tra l’altro l’Italia conta una ricchezza da record, la sua longevità e quindi la sua popolazione anziana, pertanto parlare di disabilità significa allargare il discorso all’assistenza di una quota molto ampia di persone. La questione si è posta anche rispetto al Covid-19, com’è noto: la spending review nel sistema socio-sanitario può trasformarsi in una sorta di cinica selezione anagrafica.

Il suo presente è stato condizionato, come quello di tutti, dalle norme di isolamento contro la pandemia. Come lo ha vissuto?

Come tutti, appunto. Da un lato recuperando alcune gioie della vita domestica e famigliare, dall’altro adattandomi all’intensificarsi dei rapporti tramite dispositivi e sistemi tecnologici, che a mio avviso non termineranno con il Covid-19: ci dovremo abituare a lavorare, studiare, confrontarci di più da remoto. Certo, un po’ di stress, di angoscia, di noia, le ho sofferte.

E come vede il futuro, in generale?

Non nascondiamocelo, la coperta è corta. Non sarà semplice compensare le indispensabili cautele sanitarie, che richiederanno tempi lunghi, con la necessità di riprendere prima possibile le attività produttive, i servizi e di dare impulso a un’economia che già prima di questa catastrofe non brillava. In Italia in modo particolare.

Andrea Vianello

https://almanacco.cnr.it/articolo/689/andrea-vianello-la-parola-ritrovata

L’arte di legare le persone

Paolo Milone racconta i suoi quarant’anni di lavoro in Psichiatria d’urgenza; un diario di incontri e scontri, di appunti brevi, di pensieri nudi e crudi, che diventano poesie da rileggere, da assaporare, da mandare giù.

Avendo fuggito ogni altro lavoro per paura,
mi ritrovo a fare il lavoro che fa piú paura a tutti. […]

L’euforia è solo uno dei tanti disturbi mentali:
in altri il paziente è indifferente allo spazio,
in altri ancora, impensabile ma vero, è angosciato dallo spazio.
Il mondo è pieno di depressi che dormono su un divano senza neanche mettersi il pigiama,

o sul bordo del letto senza neanche tirare su il lenzuolo,
molti dormono su una sedia.
Se gli dai un letto matrimoniale, dopo un mese è intatto.
Preferiscono cosí. Non è di spazio esterno che hanno bisogno. […]

C’è chi ritiene che il ricovero in Psichiatria sia la cosa piú brutta al mondo. Talvolta la vita è ancora piú brutta.
Gli animali feriti si nascondono in una tana e si leccano le ferite:
Psichiatria è una tana. […]

Il bene e il male che facciamo a un’altra persona si riverbera
e si propaga in mille modi

tra i suoi parenti, amici e conoscenti
e, nel tempo, si trasmette a tutti i discendenti.
Sarà qualcosa di infinitesimo, un movimento atomico,
un’ombra, un fremito, ma esiste e si diffonde nell’universo.
Vedi, Giulia, noi contribuiamo a migliorare o peggiorare l’universo,
e, su questo, abbiamo una responsabilità. […]

È triste Lucrezia scoprirti un giorno mentre stai litigando a voce alta con nessuno.
Con che foga protesti, ribatti, chiedi scusa, insulti.
Sola nella stanza.
Sei l’accusatrice che ingiuria e minaccia
battendo i piedi per terra, con i capelli scompigliati,
poi sei la vittima che allarga le braccia piangendo e singhiozza. […]

Il sarto vede tutti mal vestiti,
il parrucchiere, tutti spettinati,
il cappellaio, tutti senza cappello,
il fisioterapista, tutti sciancati,
e io, psichiatra, vedo tutti matti. […]

Una notte insonne è breve per consolarsi del giorno prima.
Una notte insonne è breve per prepararsi al giorno dopo.
Aspra è la mattina: si riaprono i cassetti e riaffiorano i coltelli. […]

Ignorare la morte non rende immortali.
Neanche pensarci di continuo rende immortali.
Forse pensarci ogni tanto? […]

Non ci si uccide per una sofferenza quantitativamente piú grande – il suicidio avviene in uno stato mentale qualitativamente diverso.
Nessuna fantasia o esperienza dei viventi può aiutare a capire.[…]

Temi che le medicine si impossessino della tua mente e per questo le rifiuti.
Sbagli, Livia: è la depressione che si impossessa della mente,
le medicine restituiscono la chiave al proprietario. […]

Noi veniamo al mondo
non quando usciamo dal corpo della madre,
ma quando la madre ci abbraccia e ci riconosce
e, senza parole, ci contiene ancora in sé:
in questa matrice noi ci costruiamo.
La sacralità di questo abbraccio primigenio
si riverbera e balugina
in alcune contenzioni che noi facciamo. […]

L’arte di legare le persone.
Legare le persone al letto.
Legare le persone a te.
Legare le persone alla realtà

Legare le persone a se stesse.
Legare le persone è un’arte.
Inconoscibile.

Paolo Milone

Paolo Milone, “L’arte di legare le persone”, Einaudi, Torino, 2021

www.einaudi.it/catalogo-libri/narrativa-italiana/narrativa-italiana-contemporanea/larte-di-legare-le-persone-paolo-milone-9788806246372/

Tutto chiede salvezza

È la settimana dei mondiali del ’94, cinque uomini la passano nel reparto di psichiatria a seguito di un trattamento sanitario obbligatorio, meglio conosciuto come TSO. Daniele, appena ventenne, è la voce narrante, che racconta l’emarginazione, la paura, il dolore, ma anche la tenerezza, il conforto e la saggezza di uomini che implorano solo salvezza.

Ho paura, vorrei vicino a me la mia famiglia, la mia casa, la mia stanza. So perché mi trovo qui, so quello che è successo. La vergogna, i sensi di colpa, il ricordo di ieri sera mi travolge, vorrebbe tramutarsi in pianto. Ma non ce la faccio. […]

Mi piacerebbe dire a mia madre ciò che mi serve veramente, sempre la stessa cosa, da quando ho urlato il primo vagito al mondo. Quello che voglio per tanto tempo non è stato semplice da dire, tentavo di spiegarlo con concetti complicati, ho trascorso questi primi vent’anni di vita a studiare le parole migliori per descriverlo. E di parole ne ho usate tante, troppe, poi ho capito che dovevo procedere in senso contrario, così, di giorno in giorno, ho iniziato a sfilarne una, la meno necessaria, superflua. Un poco alla volta ho accorciato, potato, sino ad arrivare a una parola sola. Una parola per dire quello che voglio veramente, questa cosa che mi porto dalla nascita, prima della nascita, che mi segue come un’ombra, stesa sempre al mio fianco. Salvezza. Questa parola non la dico a nessuno oltre me. Ma la parola eccola, e con lei il suo significato più grande della morte.
Salvezza. Per me. Per mia madre all’altro capo del telefono. Per tutti i figli e tutte le madri. E i padri. E tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri. La mia malattia si chiama salvezza, ma come? A chi dirlo? […]

“Che cura può esiste per come è fatta la vita, voglio di’, è tutto senza senso, e se ti metti a parla’ di senso ti guardano male, ma è sbagliato cerca’ un significato? Perché devo avere bisogno di un significato? Sennò come spieghi tutto, come spieghi la morte? Come se fa ad affrontare la morte di chi ami? Se è tutto senza senso non lo accetto, allora vojo mori’.” […]

“Lei prima ha detto che il mio problema potrebbe essere semplicemente chimico, magari fosse così, se fosse solo una questione di chimica basterebbe aggiungere, o diminuire, io sarei il ragazzo più felice del mondo, ma per ora tutto quello che ho provato non ha cambiato niente.” […]

“Lo stregone è arrivato» mi fa Mario, guardando in direzione della porta. La sua definizione mi fa sorridere.
«Perché stregone?»
«Perché dalla punta dei piedi sino al collo la scienza qualcosa ha capito, ma di qui sopra» e si indica la testa, «ancora niente, stiamo ancora al tempo della stregoneria, sono mutati i riti, le formule magiche, le erbe sono diventate pasticche, ma la verità è che la medicina brancola nel buio, magari domani si svegliano e ci dicono che la malattia che ci avevano affibbiato non è così certa, che il meccanismo d’azione di questa o quella cosa non è come avevano sempre pensato.” […]

“Questi sono posti che non vanno tanto a braccetto con la ragione, ma il rispetto verso gli altri è il primo comandamento, tanto ci pensiamo noi a farci del male.” […]

“Qui dentro la condanna non è il TSO, magari fosse quello, la vera pena affibbiata dal destino sta nella reiterazione del vissuto, come le repliche di uno spettacolo, un’eterna prima teatrale.” […]

“A te dico più o meno la stessa cosa: fidati pure dei farmaci, dei medici, ma non smettere di lavorare su te stesso, di fare di tutto per conoscerti meglio.” […]

“Per esempio ho capito che l’intelligenza è sopravvalutata, come la stupidità sottovalutata, che bene e male esistono veramente, che l’uomo può perdere tempo prezioso in mille modi stupidi, il più stupido di tutti è giudicare gli altri, perché è troppo facile, perché non serve né a noi né agli altri” […]

“Un uomo che contempla i limiti della propria esistenza non è malato, è semplicemente vivo. Semmai è da pazzi pensare che un uomo non debba mai andare in crisi.” […]

Forse, questi uomini con cui sto condividendo la stanza e una settimana della mia vita, nella loro apparenza dimessa, le povere cose di cui dispongono, forse loro, malgrado tutte le differenze visibili e invisibili, sono la cosa più somigliante alla mia vera natura che mi sia mai capitato d’incontrare. […]

La vera pazzia è non cedere mai. Non inginocchiarsi mai.

Daniele Mencarelli

Daniele Mencarelli, “Tutto chiede salvezza”, Mondadori, Milano, 2020

Giuda – Il tumore di una diciottenne

Affidare alla scrittura il racconto di un percorso di malattia è un’esperienza sempre più diffusa e frequente. Nel caso di “Giuda” (Edizioni della Meridiana), all’autrice, giovanissima, viene diagnosticato un raro linfoma. Il diario, spiega, “serviva a me, al mio bisogno di fare sapere al mondo che avevo un cancro”


Marina Massone ha solo 18 anni quando le viene diagnosticato un raro tumore maligno del sangue, un linfoma T gamma delta, patologia che colpisce più frequentemente il genere maschile in età superiore ai sessant’anni, con solo il 10% di probabilità di sopravvivenza.
Fino a quel momento, la sua vita è quella di una ragazza solare e sportiva, pattinatrice su ghiaccio a ottimi livelli, nata e cresciuta ad Aosta tra famiglia e amici, diplomata in Canada per poi intraprendere un percorso di studi internazionali presso un ateneo olandese. Poi, dopo una serie di inspiegabili febbri e una crescente anemia, l’incontro con “Giuda” – così lei battezza la malattia – e l’inizio di una nuova realtà fatta di ospedali, esami, chemioterapia, fino al trapianto di midollo da parte del fratello Federico, operazione che la salverà.
Un percorso in cui Marina utilizza la scrittura come mezzo per mantenere un equilibrio e una direzione: “Scrivere è stato meglio di una seduta dallo psicologo, di un bicchiere di vino, di una corsa all’aria aperta. Ho scritto per digerire le informazioni che ricevevo, capirle, rielaborarle e farle mie. Ho scritto per prendere distanza da quello che mi capitava e vedere come il personaggio che avevo creato – che ero in realtà io stessa – trovava sempre un modo per andare avanti. Così mi si disegnava davanti agli occhi la strada da seguire e riuscivo a vivere un presente intenso come mai prima”.
Nel libro si piange e si ride: Marina racconta la sua storia senza filtri, guardandosi dentro lucidamente, alternando la disperazione alla consolazione, abissi di malessere e slanci di ritrovata energia, fiducia – nei medici ma anche nella sua “capacità di farcela”- rabbia e pensieri “da grande“, come la consapevolezza di non poter avere figli, fino alla serenità ritrovata nelle piccole cose, come il semplice ricominciare a fare ginnastica all’aria aperta dopo quattro cicli di terapia.
La decisione di rendere pubbliche le sue pagine arriva solo dopo il centesimo giorno dal trapianto di midollo osseo, data che segna il superamento del rischio di andare incontro a gravi complicazioni dopo l’operazione e, quindi, simbolicamente, la guarigione. In questo lungo percorso, il diario – nato “egoista”- (“serviva a me, al mio bisogno di fare sapere al mondo che avevo un cancro”), diventa una testimonianza di altruismo e uno strumento di sensibilizzazione al tema della donazione del midollo osseo. “È un’operazione sicura e non invasiva, nel nostro Paese esiste un Registro dei donatori: più persone sono iscritte, maggiori possibilità si avranno di trovare un donatore compatibile con il paziente che ha bisogno del trapianto”.
Nelle ultime pagine, Marina si congeda da Giuda con una lettera dalla quale traspare tutta la forza dei suoi 22 anni: “Non ho cambiato il mio approccio alla vita, come spesso si pensa che possa accadere dopo una malattia: io amavo la vita prima di Giuda, l’ho amata durante e la amo anche adesso”.

F.G.


Marina Massone, “Giuda”, Edizioni della Meridiana (2021)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Una donna tra amore e malattia

Scritto dall’editor e critica letteraria, Giovanna De Angelis, stroncata prematuramente nel 2013 da un male che ha voluto raccontare in questo unico e postumo romanzo, il cui tema centrale è proprio la malattia della protagonista, Francesca, in lotta contro un ‘mostro’ incurabile


La giovane protagonista vive a Roma e fa la traduttrice, è sposata con Cosimo, ha una madre assente, un’amica attenta e frequenta il vecchio professore dell’università a cui la lega la passione per la traduzione. Un giorno incontra Diego, un ricercatore universitario, con il quale inizia una storia, fatta di poche parole e incontri sessuali che si consumano su un “divano letto tappezzato di velluto a coste verde scuro”.
Di colpo, arriva la malattia, il dolore, che “è solo di chi lo prova e di nessun altro”, e l’ospedale con la sua routine, “la terapia, il reparto che riapre le porte, una mascella di ferro, plastica e vetro pronta a masticarla e a risputarla fuori barcollante e col sangue pulito”. Francesca vive da ammalata senza rinunciare a combattere per mantenere la sua identità e per ottenere un’altra possibilità.
La narrazione in terza persona del libro, diviso in due parti – ‘Il vento’ e ‘Lo schianto’ – si alterna a brevi pagine di diario dove la malattia non viene esibita, ma diventa un osservatorio da cui scrutare la vita degli altri. Una lettura che propone la sofferenza della protagonista in modo delicato e aiuta a guardare oltre, per dare il giusto peso alle cose.

Marina Landolfi


Giovanna De Angelis, “La frattura”, Elliot (2015 )



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Senso di libertà

Tiziano Terzani riceve la diagnosi di cancro e, gradualmente, conquista una sensazione di libertà e felicità.

Si sa, capita a tanta gente, ma non si pensa mai che potrebbe capitare a noi. Questo era sempre stato anche il mio atteggiamento. Cos’ quando capitò a me, ero impreparato come tutti e in un primo momento fu come se davvero succedesse a qualcun altro. <<Signor Terzani, lei ha un cancro>>, disse il medico, ma era come non parlasse a me, tanto è vero – e me ne accorsi subito, meravigliandomi- che non mi disperai, non mi commossi: come se in fondo la cosa non mi riguardasse.

Forse quella prima indifferenza fu solo un’istintiva forma di difesa, un modo per mantenere un contegno, per prendere le distanze, ma mi aiutò. Riuscire a guardarsi con gli occhi di un sé fuori da sé serve sempre. Ed è un esercizio, questo, che si può imparare. Passai ancora una notte in ospedale, da solo, a riflettere, pensai a quanti altri prima di me, in quelle stesse stanze, avevano avuto simili notizie e trovai quella compagnia in qualche modo incoraggiante. Ero a Bologna. C’ero arrivato attraverso la solita trafila di piccoli passi, ognuno di per sé insignificante, ma nell’insieme decisivi, come tante cose nella vita: una persistente diarrea incominciata a Calcutta, vari esami all’Istituto delle Malattie tropicali a Parigi, atri esami per scoprire la causa di un’inspiegabile anemia, finchè un accorto medico italiano, non accontentandosi delle spiegazioni più ovvie, s’era messo con un suo strano strumento, un penetrante serpentaccio di gomma dall’occhio luminoso, a guardare nei recessi più reconditi del mio corpo e, per coltivata esperienza, aveva immediatamente riconosciuto quel che conosceva.

[…] il cancro mi offriva una buona occasione: quella di non ripetermi. Non era la sola. Lentamente mi accorsi che il cncro era diventato anche una sorta di scudo dietro il quale mi proteggevo, una difesa contro tutto quel che prima mi aggrediva, una sorta di baluardo contro la banalità del quotidiano, gli impegni sociali, contro il fare conversazione. Col cancro omi ero conquistato il diritto di non sentirmi più in dovere di nulla, di non avere più sensi di colpa. Finalmente ero libero. Totalmente libero. Parrà strano, e a volte pareva stranissimo anche a me, ma ero felice.

Tiziano Terzani

Scheda dell’editore

Tiziano Terzani, “Un altro giro di giostra”, (2004, Longanesi)

L’uomo della pioggia

Donny Ray è malato di leucemia acuta, ma non ha un’assicurazione tale da permettergli di affrontare ulteriori cicli di chemioterapia e/o ricevere il trapianto di midollo osseo.

<<Peso un po’ meno di cinquanta chili. Undici mesi fa ne pesavo settantadue. Hanno scoperto la leucemia in tempo per curarla. Ho un gemello identico, e il midollo osseo è compatibile. Il trapianto mi avrebbe salvato la vita, ma non abbiamo potuto permettercelo. Avevamo l’assicurazione, ma il resto lo sa. (…) >>

[…] Poco dopo che a Donny Ray era stata diagnosticata la leucemia acuta, è stato fatto un modesto tentativo di raccogliere fondi per la terapia. Dot ha attivato diversi amici, che hanno sstampato la faccia di Donny Ray sui cartoni per il latto in vendita nei caffè e nei supermercati di tutta North Memphis. Però non hanno tirato su molto, mi ha detto. Allora hanno affittato un Circolo Ricreativo locale e hanno organizzato una grande festa a base di pescigatto e insalate aromatiche e hanno addirittura chiamato un disc jockey di musica country. Come risultato, ci hanno rimesso ventotto dollari.

Il primo ciclo di chemioterapia è costato quattromila dollari; due terzi li ha assorbiti il St.Peter’s, il resto l’hanno messo insieme alla meglio. Cinque mesi dopo, la leucemia si è manifestata di nuovo.

[…] se i trapianti di midollo osseo non fossero tanto costosi, forse avremmo potuto fare qualcosa. Ero disposto a lavorare gratis, ma è un intervento che viene a costare duecentomila dollari. Nessun ospedale, nessuna clinica del nostro paese può permettersi di sorvolare su una somma simile>>

<<C’è da odiare le società di assicurazione, no?>>

John Grisham

Treccani Enciclopedia Online

John Grisham, L’uomo della pioggia (1995)

Sette piani

Giuseppe Corte è ricoverato al settimo piano di un celebre sanatorio. Qui vengono ricoverati i pazienti meno gravi. Giuseppe Corte è tranquillo fino a quando, con garbo, non è invitato a spostarsi al sesto piano.

Benché avesse soltanto una leggerissima forma incipiente, Giuseppe Corte era stato consigliato di rivolgersi al celebre sanatorio, dove non si curava che quell’unica malattia. Ciò garantiva un’eccezionale competenza nei medici e la più razionale ed efficace sistemazioni d’impianti.

[…] ebbe un ottima impressione. Il bianco edificio a sette piani era solcato da regolari rientranze che gli davano una fisionomia vaga d’albergo. Tutt’attorno era una cinta di alti alberi. 

Dopo una sommaria visita medica, in attesa di un esame più accurato Giuseppe Corte fu messo in una gaia camera del settimo ed ultimo piano. […] tutto era tranquillo, ospitale e rassicurante.

[…]la sua strana caratteristica di quell’ospedale. I malati erano distribuiti piano per piano a seconda della gravità. Il settimo, cioè l’ultimo, era per le forme leggerissime. Il sesto era destinato ai malati non gravi ma neppure da trascurare. Al quinto si curavano già affezioni serie e così di seguito, di piano in piano. Al secondo erano i malati gravissimi. Al primo quelli per cui era inutile sperare.

Questo singolare sistema, oltre a sveltire grandemente il servizio, impediva che un malato leggero potesse venir turbato dalla vicinanza di un collega in agonia, e garantiva in ogni piano un’atmosfera omogenea. D’altra parte la cura poteva venir così graduata in modo perfetto.

[…] Giuseppe Corte se ne stette ancora immobile alla finestra fissando le persiane abbassate dal primo piano. Le fissava con un’intensità morbosa, cercando di immaginare i funebri segreti di quel terribile primo piano dove gli ammalati venivano confinati a morire, e si sentiva sollevato di sapersene così lontano.

[…] il sanitario gli rivolse parole cordiali e incoraggianti. Un principio di male c’era-gli disse- ma leggerissimo; in due o tre settimane probabilmente tutto sarebbe passato.

<<E allora resto al settimo piano?>> aveva domandato ansiosamente Giuseppe Corte a questo punto. 

<<Ma naturalmente!>> gli aveva risposto il medico battendogli amichevolmente una mano su una spalla. <<E dove pensava di dover andare? Al quarto forse? >> chiese ridendo, come per alludere alla ipotesi più assurda.

<<Meglio così, meglio così>> fece il Corte. <<Sa? Quando si è ammalati si immagina sempre il peggio…>>

[…] erano passati circa dieci giorni, quando a Giuseppe Corte si presentò il capo-infermiere del settimo piano. Aveva da chiedere un favore in via puramente amichevole: il giorno dopo doveva entrare all’ospedale una signora con due bambini; due camere erano libere, proprio di fianco alla sua ma mancava la terza; non avrebbe consentito il signor Corte a trasferirsi in un’altra camera, altrettanto confortevole?

[…] Guardi che bisogna scendere al piano di sotto>> aggiunge con voce attenuata come se si trattasse di un particolare assolutamente trascurabile. <<Purtroppo in questo piano non ci sono altre camere libere. Ma è una sistemazione assolutamente provvisoria>> si affrettò a specificare vedendo che Corte, rialzatosi di colpo a sedere, stava per aprir bocca in atto di protesta.

[…] Mi spiego: l’intensità del male è minima, ma considerevole l’ampiezza; il processo distruttivo delle cellule>> era la prima volta che Giuseppe Corte sentiva là dentro quella sinistra espressione <<il processo distruttivo delle cellule è assolutamente agli inizi, forse non è neppure cominciato, ma tende, dico solo tende, a colpire contemporaneamente vaste porzioni dell’organismo.

[…] si manifestò sulla gamba una specie di eczema, che non accennò a riassorbirsi nei giorni successivi. Era un’affezione -gli disse il medico- che poteva capitare alla persona più sana del mondo. Ci sarebbe voluta, per eliminarlo in pochi giorni, una intensa cura di raggi gamma.

Dino Buzzati

Premio Strega

Dino Buzzati, I sessanta racconti (1958)