Ricominciare a vivere dopo un grave ictus che tra l’altro gli ha tolto l’uso della voce, il suo strumento di lavoro. Il giornalista radio-televisivo – ora recuperato grazie a un intervento e a una lunga riabilitazione – sente la “responsabilità di mobilitarmi perché ci siano più prevenzione e attenzione verso questa patologia”. Ha cominciato a farlo confortando gli altri pazienti durante le cure e scrivendo un libro. Ma ha anche scoperto un mondo di operatori adiacente alla medicina che non è normato adeguatamente e come scienza e conoscenza siano spesso considerate alla pari di una posizione qualsiasi. “Con il Coronavirus abbiamo imparato ad affidarci agli esperti, speriamo non si torni al precedente clima antiscientista”
Rialzarsi dopo una scivolata con lo scooter. Ricominciare a vivere dopo una grave malattia ed essere giunti in punto di morte. Ripartire verso l’obiettivo della normalità, dopo il lockdown e con una pandemia ancora tutt’altro che sconfitta. Andrea Vianello conosce tutte e tre queste esperienze. La prima è la più banale e la citiamo solo perché diede a intervistatore e intervistato l’occasione di conoscersi. L’ultima la sta cominciando in questo periodo, assieme a tutti gli altri italiani. Sulla seconda ha scritto un libro, “Ogni parola che sapevo” (Mondadori), dove descrive un incidente terribile e paradossale per un giornalista radiofonico e televisivo, conduttore di programmi come “Radio anch’io”, “Agorà” e “Mi manda Rai Tre”: un ictus che tra l’altro gli toglie l’uso della parola, il suo strumento di lavoro.
“L’ictus, l’operazione condotta da un medico coraggioso, conscio che sotto i ferri rischiavo la morte, la lunga riabilitazione al Santa Lucia di Roma… Ho pensato spesso a come sarebbero andate le cose se l’incidente fosse successo oggi, quando tutta la Sanità è comprensibilmente concentrata sul Covid-19. Sono in contatto con medici, soprattutto lombardi, che mi hanno spiegato come abbiano dovuto quasi monopolizzare il loro lavoro nella battaglia contro questo nemico misterioso, aggressivo e letale”.
Le cose – per l’ictus – sono andate benissimo, lei si è ripreso in modo eccellente. Durante le cure non ha mai avvertito un surplus di attenzione dovuto alla sua notorietà?
No, sinceramente no. Il mio ruolo pubblico è emerso in un altro modo, che chiamerei di responsabilità. Durante la mia permanenza all’ospedale Santa Lucia, durata più di un anno, si è creato un clima amicale e i pazienti man mano mi hanno preso come punto di riferimento. Conoscendomi come giornalista, mi chiedevano consigli o anche solo conforto, magari dicendo ‘Andre’, che dici, ce la faccio?’. E io cercavo di rispondere infondendo coraggio, fiducia, prima di tutto sorridendo. Da lì è nata in me una nuova consapevolezza: vorrei spendere la mia relativa notorietà mobilitandomi perché ci siano più prevenzione e attenzione verso l’ictus, una patologia a mio avviso sottovalutata nella comunicazione pubblica e che apporta invece invalidazioni terribili, anche se spesso recuperabili.
Il libro è stato un passo in questa direzione?
Senz’altro, anche se rilevo – da parte dei personaggi pubblici, e non solo – una sempre più diffusa tendenza a raccontare le proprie malattie, in contrasto con la riservatezza su questo tema, che un tempo sfiorava persino l’omertà. Credo che tale trasparenza sia positiva, poiché la malattia non è una colpa di cui vergognarsi.
In “Ogni parola che sapevo” lei però azzarda una causa precisa per quanto le è accaduto…
Non posso e voglio muovere accuse a nessuno, ma il mio ictus – per la precisione ho subito un’ischemia con versamento di sangue nella parte destra del cervello, quella che tra l’altro comanda la parola – è avvenuto dopo che mi ero sottoposto a una manipolazione per la cervicale. E la causa accertata è stata la disseccazione della carotide. Ho poi scoperto, studiando la letteratura scientifica, che questa coincidenza è frequente. A questo punto, obietto solo che questo mondo di operatori adiacente alla medicina, e sempre più frequentato dai pazienti, non è normato adeguatamente: a danno dei malati, che rischiano di finire letteralmente tra le mani di persone impreparate, e degli operatori qualificati, che non hanno modo di distinguersi. Queste pratiche possono essere utili come supporto della medicina che chiamiamo ufficiale, ma solo se sono affidate a professionisti riconosciuti, anche a livello di ordine: oggi invece, senza saperlo, ci potrebbe capitare di rivolgerci a persone che non hanno titoli adeguati per esercitare la loro attività. Una proposta di legge al riguardo c’è, ma come spesso succede si è persa nei meandri parlamentari”.
Lei lambisce così il tema delle cosiddette “medicine alternative”, spesso seguite con atteggiamento polemico contro la scienza, la sanità e la medicina, e talvolta purtroppo consistenti in mera cialtroneria. In questi tempi, è un tema particolarmente caldo.
Intanto credo che la questione non riguardi soltanto la scienza ma tutta la conoscenza, cioè che ci sia una progressiva crisi delle competenze, che in alcuni ambiti, come i social network, sono sovente considerate alla pari di una qualsiasi posizione. Tanto più in questi tempi di Coronavirus, penso si debba fare e credo si stia facendo un grande sforzo per comunicare le conoscenze scientifiche corrette, purtroppo ancora insufficienti per debellare la pandemia. Lo ravviso da parte delle istituzioni scientifiche e pubbliche e di molti media: per esempio la mia azienda – io sono un uomo Rai al cento per cento – sta facendo un buon lavoro. Certo, si può e si deve sempre migliorare.
Potrebbe essere questo un suo futuro ruolo?
Sono rientrato al lavoro da poco e per ora preferisco restare dietro le quinte, anche perché le difficoltà nell’uso della parola non sono del tutto scomparse. E poi nella mia carriera ho alternato i ruoli di conduzione alla direzione di Rai Tre, mi sento di poter stare sia dietro sia davanti alla telecamera. Per quanto riguarda la necessità di una corretta informazione sul riconoscimento delle competenze nel dibattito mediatico, volevo però aggiungere che il tema ci investe anche come cittadini: temo che, passata la attuale paura, che ci ha spinto ad affidarci agli esperti per chiedere soluzioni, si torni al precedente clima antiscientista, che pervade anche alcuni ambiti istituzionali.
A giudicare da questa conversazione, le sue leggere incespicature la rendono un oratore ancora più accattivante. Forse potrebbe proprio dedicarsi a un programma dedicato alle disabilità, vista la consapevolezza che ha acquisito?
Questa sua considerazione sul mio modo di parlare me l’hanno già fatta altri, dopo l’intervista rilasciata nel programma di Massimo Gramellini e la presentazione del libro tenuta al Maxxi di Roma. Comunque sul mio futuro professionale ho tempo di riflettere, assieme alla Rai. Per quanto riguarda la mia sensibilità ai problemi sociali, è precedente all’ictus e nei miei programmi ho cercato di coltivarla. Tra l’altro l’Italia conta una ricchezza da record, la sua longevità e quindi la sua popolazione anziana, pertanto parlare di disabilità significa allargare il discorso all’assistenza di una quota molto ampia di persone. La questione si è posta anche rispetto al Covid-19, com’è noto: la spending review nel sistema socio-sanitario può trasformarsi in una sorta di cinica selezione anagrafica.
Il suo presente è stato condizionato, come quello di tutti, dalle norme di isolamento contro la pandemia. Come lo ha vissuto?
Come tutti, appunto. Da un lato recuperando alcune gioie della vita domestica e famigliare, dall’altro adattandomi all’intensificarsi dei rapporti tramite dispositivi e sistemi tecnologici, che a mio avviso non termineranno con il Covid-19: ci dovremo abituare a lavorare, studiare, confrontarci di più da remoto. Certo, un po’ di stress, di angoscia, di noia, le ho sofferte.
E come vede il futuro, in generale?
Non nascondiamocelo, la coperta è corta. Non sarà semplice compensare le indispensabili cautele sanitarie, che richiederanno tempi lunghi, con la necessità di riprendere prima possibile le attività produttive, i servizi e di dare impulso a un’economia che già prima di questa catastrofe non brillava. In Italia in modo particolare.
Andrea Vianello
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