Un punto nero nell’immenso azzurro del mare

I malati di cancro che hanno vinto la malattia sono dei sopravvissuti. Quelli, invece, che ancora non l’hanno sconfitto si sentono come foglie al vento.

<<Cancro = morte. Era davvero proprio così? Non poteva essere, non lo accettvo. Io avevo ancora troppo da fare, da vedere, da amare, da odiare, da rimpiangere, da rimordere perché tutto finisse così. Proprio allora, agli inizi di tutto, sentii dentro una voce che mi diceva “Tu ce la farai, tu non morirai, tu lo sconfiggi il bastardo”. E anche nei momenti di malinconia e di tristezza che non tardarono ad arrivare, chiudevo gli occhi e ripetevo “io ce la faccio. Io vinco”>>

[…] Lo so siamo sovraffollati di pazienti oncologici o ex tali, che solo per il fatto di essere sopravvisuti si sentono graziati ed investiti del potere quasi paranormale di curare gli altri perché loro “ci sono passati e solo loro possono capire”. Io invece parto da un punto di vista leggermente diverso: io non sono nessuno per dire a voi che sfogliate queste poche pagine sincere come condurre la vostra vita. Sono solo qualcuno che ogni giorno siete e cammina in mezzo ad altri esseri umani con una pena enorme nel cuore, che niente e nessuno potrà cancellare ma prova ogni giorno con difficoltà e coraggio a vivere. Esattamente come molti di voi. Questa sono io.

Marina Neri

Scheda

Marina Neri, “Un punto nero nell’immenso azzurro del mare” (2011, UR Editore)

L’uomo della pioggia

Donny Ray è malato di leucemia acuta, ma non ha un’assicurazione tale da permettergli di affrontare ulteriori cicli di chemioterapia e/o ricevere il trapianto di midollo osseo.

<<Peso un po’ meno di cinquanta chili. Undici mesi fa ne pesavo settantadue. Hanno scoperto la leucemia in tempo per curarla. Ho un gemello identico, e il midollo osseo è compatibile. Il trapianto mi avrebbe salvato la vita, ma non abbiamo potuto permettercelo. Avevamo l’assicurazione, ma il resto lo sa. (…) >>

[…] Poco dopo che a Donny Ray era stata diagnosticata la leucemia acuta, è stato fatto un modesto tentativo di raccogliere fondi per la terapia. Dot ha attivato diversi amici, che hanno sstampato la faccia di Donny Ray sui cartoni per il latto in vendita nei caffè e nei supermercati di tutta North Memphis. Però non hanno tirato su molto, mi ha detto. Allora hanno affittato un Circolo Ricreativo locale e hanno organizzato una grande festa a base di pescigatto e insalate aromatiche e hanno addirittura chiamato un disc jockey di musica country. Come risultato, ci hanno rimesso ventotto dollari.

Il primo ciclo di chemioterapia è costato quattromila dollari; due terzi li ha assorbiti il St.Peter’s, il resto l’hanno messo insieme alla meglio. Cinque mesi dopo, la leucemia si è manifestata di nuovo.

[…] se i trapianti di midollo osseo non fossero tanto costosi, forse avremmo potuto fare qualcosa. Ero disposto a lavorare gratis, ma è un intervento che viene a costare duecentomila dollari. Nessun ospedale, nessuna clinica del nostro paese può permettersi di sorvolare su una somma simile>>

<<C’è da odiare le società di assicurazione, no?>>

John Grisham

Treccani Enciclopedia Online

John Grisham, L’uomo della pioggia (1995)

I dolori del Giovane Werther

Il brano antologizzato è tratto dall’ultima pagina de I Dolori del Giovane Werther. Werther non sopporta più la propria esistenza a causa anche di un’importante delusione d’amore. Le righe che riportiamo sono dotate di una precisione anatomica notevole: il suicidio non è cosi semplice come si possa immaginare; Werther non riesce infatti ad uccidersi.

Un vicino vide il lampo e udì il colpo; ma poiché, dopo, tutto rimase tranquillo, non vi badò oltre.

La mattina alle sei entrò il servitore col lume. Vide il suo padrone per terra, le pistole, il sangue. Lo chiamò, lo scosse: nessuna risposta, solo un rantolo. Corse dal medico, da Alberto. Carlotta udì suonare il campanello e un tremito le corse per tutte le membra. Svegliò il marito, si alzarono, e il servitore, balbettando e piangendo, diede loro la notizia. Carlotta cadde svenuta ai piedi di Alberto.

Quando il medico giunse presso l’infelice, lo trovò che non c’era più niente da fare; il polso batteva, le membra erano del tutto paralizzate. S’era sparato alla testa, sopra l’occhio destro, il cervello gli era saltato. Per precauzione gli fu praticato un salasso; il sangue uscì, respirava ancora.

Dal sangue che era sulla spalliera della seggiola, si poté arguire che si era colpito mentre sedeva alla scrivania; poi era caduto e si era rotolato convulsamente intorno alla seggiola. Giaceva supino presso la finestra, immobile; era completamente vestito, con gli stivali, la giacca e il panciotto giallo.

La casa, il vicinato, la città erano in subbuglio. Giunse Alberto. Werther era stato trasportato sul letto, con la fronte fasciata; il viso era mortalmente pallido, non faceva alcun movimento. Il rantolo era orribile a udirsi, ora debole, ora più forte; si attendeva la fine.

Non aveva bevuto che un bicchiere di vino. Sulla sua scrivania stava aperto il dramma Emilia Galotti. La costernazione di Alberto, il dolore di Carlotta erano indicibili.

Il vecchio borgomastro accorse a briglia sciolta alla notizia, e baciò il morente versando lacrime cocenti. I suoi figli più grandi lo raggiunsero presto, si gettarono accanto al letto, esternando il loro acerbo dolore, gli baciarono le mani e la bocca e il maggiore, che era stato sempre il suo prediletto, non si staccò dalle sue labbra fino all’ultimo respiro, e bisognò strapparlo via con la forza. Werther morì verso mezzogiorno. La presenza del borgomastro e le misure da lui prese valsero ad arginare lo scandalo. Verso le undici di sera lo fece seppellire nel luogo da lui designato. Il vecchio seguì il feretro coi suoi figli; Alberto non ne ebbe la forza; si temeva per la vita di Carlotta. Alcuni artigiani lo trasportarono, e nessun prete lo accompagnò.

Johann Wolfgang von Goethe

fonte: goethe_werther

Ippolito

L’Ippolito del tragediografo greco Euripide fu rappresentato nel 428 a.C ad Atene. La tragedia narra la storia dell’amore proibito tra Fedra e il suo figliastro Ippolito. Fedra è sconvolta nella sua intera persona dalla potenza dell’amore. Il brano antologizzato è tratto dalla prima apparizione del coro: è preoccupato dal male che affligge Fedra e ne descrive i sintomi.

CORO
str. a
C’è una roccia, raccontano, che stilla
acqua d’oceano: dalle rupi
erompe una sorgiva,
vi attingono con brocche.
Là c’era una mia amica,
lavava nella corrente vesti purpuree
le distendeva sopra
una calda, assolata pietra.
Le prime voci sulla mia padrona
mi giunsero di là.

ant. a
Giace in casa, stremata,
sul suo letto di inferma,
veli leggeri le ombrano
il biondo capo.
Da due giorni, mi dicono,
rifiuta di nutrirsi,
tiene puro il suo corpo
del cibo di Cerere: vuole
approdare al termine funesto di morte
spinta da un male segreto.

str. b
† Forse, † figlia, sei in potere
di Pan, oppure di Ecate o
dei venerandi Coribanti
o della Madre dei monti.
O ti tormenti per qualche tua colpa
contro Dictinna, la dea della caccia:
l’hai offesa con libagioni non offerte?
Oltre i laghi essa incede,
oltre la terra, sui vortici d’acque
del salso mare.

ant. b
O il tuo consorte, il capo
degli Eretteidi, nobile di stirpe,
lo signoreggia un amore segreto,
lo sottrae al tuo letto, nel palazzo?
o un navigante salpato da Creta
è giunto al nostro
porto ospitale
con notizie per la regina:
e l’anima è inchiodata al letto
per il dolore e l’angoscia?

ep.
Convive, di solito, con la difficile natura
delle donne una triste infelice debolezza
di travagli e vaneggiamenti.
Ha attraversato anche me, il mio grembo
questa tempesta. E invocavo
Artemide celeste, signora dell’arco, protettrice
dei parti; io la venero, tanto,
ed essa, grazie a Dio, accorre da me, sempre.
Ma guarda lì davanti alla porta la vecchia nutrice: sta accompagnando fuori dal palazzo la padrona. Che volto tetro,
rannuvolato ha la regina. E io desidero sapere, con tutta l’anima, che cosa l’abbia distrutta, perché sia così pallida.

Euripide

Da Euripide, Ippolito, ed. digitale a cura di Patrizio Sanasi. Liberamente disponibile presso il sito web https://spazioinwind.libero.it/latinovivo/Testintegrali/Ippolito.htm

La lettera scarlatta

I due brani antologizzati dalla Lettera Scarlatta di Nathaniel Hawthorne presentano sul proscenio della narrazione due figure intrecciate e profondamente diverse: Hester Prynne ed il reverendo Dimmesdale. Lo sfondo è quello di una civiltà ipocritamente e fanaticamente religiosa, pronta a mettere al patibolo Hester per essere stata trovata incinta durante una prolungata assenza del marito: il padre della nascitura Perla è proprio il reverendo. Nel primo brano si comincia ad intravedere il disordine psicologico che nel secondo brano porterà il reverendo alla morte, dopo aver sofferto sino alla fine del romanzo di un senso di colpa profondo per la propria codardia.

Nel suo ultimo singolare incontro con Mr Dimmesdale Hester Prynne era rimasta turbata nel vedere in che  stato fosse il pastore. I suoi nervi sembravano assolutamente a pezzi. La forza d’animo era avvilita a debolezza infantile. Strisciava inerme sulla terra, mentre le sue facoltà intellettuali conservavano la pristina forza; anzi avevano forse  acquistato una energia morbosa, che soltanto la malattia avrebbe potuto conferire loro. Conoscendo una sequenza di  circostanze ignote a tutti gli altri, Hester poteva facilmente intuire che, accanto alla legittima azione della coscienza, sul  benessere e sulla tranquillità di Mr Dimmesdale operava e tuttora era in azione un terribile meccanismo. Memore di ciò  che era stato una volta quel povero peccatore, la sua anima si commosse davanti al brivido di terrore con cui si era  appellato a lei – la donna esclusa – invocando aiuto contro il nemico scoperto per istinto. Hester decise che egli aveva  diritto a tutto il suo aiuto. Poco abituata, nel suo lungo esilio dalla società umana, a misurare i principi di giusto e  ingiusto in base a criteri esterni a se stessa, Hester ritenne – o parve ritenere – di avere nei confronti del pastore una  responsabilità che non aveva verso nessun altro, neppure verso l’intero mondo. I legami che la univano al resto  dell’umanità – legami di fiori, sete, oro o chissà quale altro materiale – erano stati spezzati tutti […]

«Popolo della Nuova Inghilterra!», esclamò con una voce che si levò sopra gli astanti alta, solenne, maestosa –  eppure pervasa dal tremore e, a tratti, possente come un urlo che scaturisse dagli insondabili abissi del rimorso e della pena – «voi che mi avete amato! Voi che mi avete considerato santo! Guardatemi qui, il peggior peccatore! Finalmente!  Finalmente! Sono nel luogo dove avrei dovuto ergermi sette anni fa, con questa donna, il cui braccio – più di quel po’ di  forza che mi ha trascinato qui – mi sostiene in questo terribile momento, impedendomi di prostrarmi con la faccia a  terra! Ecco la lettera scarlatta che Hester porta! Avete tremato tutti vedendola! Ovunque la portassero i suoi passi –  ovunque lei cercasse di trovare riposo, sotto quel terribile fardello – dappertutto il simbolo ha gettato intorno a lei un  bagliore sinistro di ripugnanza e di orrore. Ma ecco in mezzo a voi un uomo davanti al cui marchio di infamia e di  peccato voi non avete tremato».

Parve a questo punto che il ministro non dovesse rivelare il resto del suo segreto. Ma combatté contro la  debolezza del corpo – e ancora di più contro la codardia del cuore – che tentava di sopraffarlo. Respingendo ogni aiuto,  avanzò di un passo avanti alla donna e alla bambina.

«Il marchio era su di lui!», continuò quasi con accanimento, tanto era deciso a rivelare tutto. «L’occhio di Dio  lo vedeva! Gli angeli lo additavano! Il demonio lo conosceva bene e lo affliggeva con il tocco delle sue dita di fiamma!  Ma egli lo nascondeva agli uomini con scaltrezza e si aggirava fra voi con il portamento di uno spirito addolorato,  perché puro in un mondo di peccato! Triste, perché lontano dai suoi congiunti in cielo! Ora, nel momento della morte,  sta davanti a voi! Vi incita a guardare ancora la lettera scarlatta di Hester! Vi dice che, pur con tutto il suo arcano orrore, è soltanto l’ombra di quello che egli porta sul petto e che anche questo, il suo marchio rosso, è soltanto il segno di ciò  che l’ha inaridito nel profondo del cuore! C’è qualcuno qui che mette in dubbio il castigo di Dio su un peccatore?  Guardate! Guardate la terribile testimonianza!»

Con un gesto convulso strappò il paramento sacro dal petto. Ecco la rivelazione! Ma sarebbe irriverente  descriverla. Per un attimo lo sguardo della moltitudine inorridita si concentrò sullo spaventoso miracolo, mentre il  ministro si ergeva con il volto avvampante di trionfo, come chi, nello spasimo di un dolore acutissimo, abbia conseguito la vittoria. Poi si abbatté sul palco! Hester lo sollevò un poco e gli sostenne la testa contro il proprio petto. Il vecchio  Roger Chillingworth si inginocchiò al suo fianco, con un volto vuoto e vacuo, che sembrava privo di vita. «Mi sei sfuggito!», ripeté più di una volta. «Mi sei sfuggito!»

[…]

Perla gli baciò le labbra. Si spezzò l’incantesimo. La grande scena di dolore, nella quale la bimba selvaggia  aveva avuto la sua parte, aveva risvegliato tutta la sua tenerezza, e, mentre cadevano sulle guance del padre, le lacrime  erano il pegno che sarebbe cresciuta in mezzo alla gioia e al dolore umano, non per combattere contro il mondo, ma per  essere donna nel mondo. Anche verso sua madre si era compiuta la missione di Perla, quale messaggera di angoscia. «Hester», disse il pastore, «addio!»

«Non ci incontreremo più?», sussurrò lei piegando il volto sul suo. «Non trascorreremo insieme la nostra vita  immortale? Sì, sì, ci siamo riscattati a vicenda con tanto dolore! Guardi lontano nell’eternità con quei luminosi occhi  morenti. Dimmi quello che vedi».

«Silenzio, Hester, silenzio!», disse con tremula solennità. «La legge che abbiamo infranto! Il peccato rivelato  in modo così orribile! Che soltanto questo sia nei tuoi pensieri! Ho paura! Ho paura! Forse, quando abbiamo  dimenticato il nostro Dio – quando abbiamo violato la deferenza reciproca per l’anima dell’altro – da quel momento è  stato vano sperare di poterci incontrare nell’aldilà in una unione eterna e pura. Dio sa ed è misericordioso! Ha  dimostrato misericordia soprattutto nella mia afflizione. Infliggendomi questa tortura da portare sul cuore! Mandando  quel terribile vecchio tenebroso a tenerla sempre incandescente! Portandomi a questa morte di ignominia davanti a tutti! Se una sola di queste agonie fosse mancata, sarei stato perduto per sempre! Sia lodato il suo nome! Sia fatta la sua  volontà! Addio!»

Quest’ultima parola accompagnò l’estremo respiro del ministro. La moltitudine, in silenzio fino a quel  momento, proruppe in uno strano, profondo clamore di smarrimento e di stupore, incapace di esprimersi se non con quel mormorio che rimbombava sordo dietro lo spirito dipartito.

Nathaniel Hawthorne

Fonte: hawtorne_lettera scarlatta

Gustave Flaubert – Tre racconti

 

Tre racconti è l’ultima produzione narrativa compiuta di Gustave Flaubert. Un cuore semplice, La leggenda di San Giuliano Ospitaliere e Erodiade, costituiscono questa piccola antologia che ben riassume le sfumature e le capacità dell’autore francese. Infatti, nonostante le tre storie differiscono l’una dall’altra per ambientazione geografica e storica, riescono ad esprimere a pieno lo stile dello scrittore francese, capace di descrivere e dar vita a realtà e personaggi tra loro così lontani.

 

Era la prima volta della loro vita, la signora Aubain non aveva una natura espansiva. Felicita gliene fu riconoscente come di un favore, e da allora in poi la amò con una devozione animale e una venerazione religiosa.

La bontà del suo cuore si espanse.

Quando udiva nella strada i tamburi di un reggimento in marcia, si metteva sulla porta con una brocca di sidro, e offriva da bere ai soldati. Curò alcuni colerosi. Proteggeva i polacchi; e ce ne fu perfino uno che dichiarava di volerla sposare. Ma litigarono; perché una mattina, di ritorno dall’angelus, lo trovò in cucina, dove si era introdotto, e servito una salsa che stava tranquillamente mangiando.

Dopo i polacchi, fu la volta del vecchio Colmiche, di cui si diceva che avesse commesso delle atrocità nell’83. Viveva sulla riva del fiume, nei ruderi di un porcile. I ragazzini lo guardavano attraverso le fessure del muro, e gli gettavano i sassi che cadevano sul pagliericcio, dove se ne stava coricato, continuamente scosso dal catarro, con i capelli lunghissimi, le palpebre infiammate, e su un braccio un tumore più grosso della testa. Lei gli procurò un po’ di biancheria, cercò di pulirgli il tugurio, sperava di sistemarlo nello stanzino del forno, senza che desse fastidio alla signora. Quando il cancro scoppiò lei glielo medicò tutti i giorni, ogni tanto gli portava un po’ di focaccia, lo sistemava al sole su un fascio di paglia; e il povero vecchio, sbavando e tremando, la ringraziava con voce spenta, temeva di non vederla più, tendeva le mani appena la vedeva allontanarsi. Morì; lei fece dire una messa per la pace della sua anima. In quello stesso giorno, le capitò una grande felicita: all’ora di cena, il negro della signora di Larsonniere si presento, portando il pappagallo, con il trespolo, la catenella e il lucchetto. Un biglietto della baronessa annunziava alla signora Aubain che, siccome suo marito era stato promosso prefetto, partivano la sera stessa; e la pregava di accettare quell’uccello, come un ricordo, e in segno della sua deferenza.

 

Gustave Flaubert

 

http://www.writingshome.com/ebook_files/10.pdf

 

Gustave Flaubert, Tre racconti (1877)

Pinocchio

Il povero Pinocchio è vivo o morto? Tre medici si susseguono per accertarsi delle condizioni del burattino, ma solo la Fata riuscirà a trovare la chiave per la sua guarigione.

[…] I medici arrivarono subito, uno dopo l’altro: arrivò, cioè, un Corvo, una Civetta e un Grillo-parlante.

-vorrei sapere da lor signori,- disse la Fata, rivolgendosi ai tre medici riuniti intorno al letto di Pinocchio- vorrei sapere da lor signori se questo disgraziato burattino sia morto o vivo!…

A quest’invito, il Corvo, facendosi avanti per il primo, tastò il polso a Pinocchio: poi gli tastò il naso, poi il dito mignolo dei piedi: e quando ebbe tastato ben bene, pronunziò solennemente queste parole:

-a mio credere il burattino è bell’e morto: ma se per disgrazie non fosse morto, allora sarebbe indizio sicuro che è sempre vivo!

-Mi dispiace- disse la Civetta- di dover contraddire il Corvo, mio illustre amico e collega: per me, invece, il burattino è sempre vivo: ma se per disgrazia non fosse vivo, allora sarebbe segno che è morto davvero!

[…] A questo punto si sentì nella camera un suono soffocato di pianti e di singhiozzi. Figuratevi come rimasero tutti, allorché, sollevati un poco i lenzuoli, si accorsero che quello che piangeva e singhiozzava era il povero Pinocchio.

-Quando il morto piange, è segno che è n via di guarigione—disse sollenemente il Corvo.

-Mi duole di contraddire il mio illustre amico e collega,-soggiunse la Civetta – ma per me, quando il morto piange è segno che gli dispiace a morire.

Appena i tre medici furono usciti di camera, la Fata si accostò a Pinocchio, e, dopo averlo toccato sulla fronte, si accorse che era travagliato da un febbrone da non si dire.

Allora sciolse una certa polverina bianca in mezzo al bicchier d’acqua, e porgendolo al burattino gli disse amorosamente:

-Bevila, e in pochi giorni sarai guarito.

Pinocchio guardò il biacchiere, storse un po’ la bocca, e poi domandò con voce di piagnisteo:

-è dolce o amara?

Carlo Collodi

Treccani Enciclopedia Online

Carlo Lorenzini, Pinocchio (1883)

Agamennone

Il brano antologizzato è tratto dalle ultime pagine dell’Agamennone di Eschilo, una tragedia greca rappresentata nel 458 a.C, insieme ad altre due tragedie (che, insieme con la prima, compongono la trilogia dell’Orestea) e ad un dramma satiresco. Cassandra ha previsto la morte propria e del re “pastore dei popoli” Agamennone per mano della regina Clitemnestra (o Clitennestra), con la complicità dell’amante Egisto. La morte dei due si consuma fuori scena, secondo la consuetudine del teatro tragico attico.

CASSANDRA

Ahi, ahi, la fiamma, eccola! Mi assale! Apollo Liceo, a me, a me! Leonessa a due gambe, a letto col lupo, mentre il  leone gagliardo è lontano. Lei mi abbatterà: ah, mio tormento. Come preparando filtro di morte, mischierà alla vendetta  la mia parte di paga. Affila la lama per lui, il suo uomo. La morte – di questo si vanta – sarà giusto compenso per avermi  condotta sin qui. Perché vi ho ancora indosso, scettro, fasce profetiche sulle spalle? Perché si rida di me? Vi spezzo, io  stessa prima dell’ora fatale. Distrutte vi voglio. Nella polvere, ecco come io vi ripago. Un’altra al mio posto fate ricca di  strazio. Guardate, la mano stessa di Apollo mi strappa il velo oracolare. Prima posava l’occhio superbo su me che così  abbigliata ero esposta alle beffe di tutti: amici, nemici, perfetto equilibrio di scherno… “E mi adattavo al nome ormai  consueto: Ciarlatana!” rifiuto umano, in giro ad accattare, miserabile morta di fame. Per finire, il mago che m’ha fatta  maga, lui m’ha trascinata a questa vicenda di morte. Non l’altare – nella casa paterna – ma il tronco del boia mi aspetta,  scarlatto di tiepido sangue dal mio capo reciso. Cadremo, ma non senza castigo di mano divina. Sarà qui uno a  vendicare, germoglio matricida, esigerà il saldo per l’assassinio del padre. Lui, fuggitivo, cacciato lontano in esilio, è  ormai di ritorno: pronto a incorniciare con l’ultimo fregio l’avito edificio di colpe. Saldo patto hanno giurato gli dèi. Lo  spingerà il gesto implorante del padre steso al suolo. Perché questo abisso di pianto? Ho forse pietà di me stessa? Ho  visto, all’inizio, compiersi il fato di Troia. Ho visto i suoi vincitori uscire in questo stato dal divino giudizio. Perciò mi  avvio, voglio il mio destino: patire la morte! Cassandra volge lo sguardo al portale del palazzo. E ora a te, mia porta  dell’Ade: ti saluto. Mi tocchi un colpo preciso, lo supplico. Senza scarti d’agonia – fiotti, torrenti di sangue per una morte soave. Così possa chiudere gli occhi.

CORO

Quanto devi patire, donna di alto sapere! Hai detto molto. Ma se realmente conosci la tua fine fatale, perché questo  strano coraggio, questi passi verso l’altare, come vittima rapita dal dio?

CASSANDRA

No, ospiti, non c’è salvezza neppure tardando.

CORO

È impagabile l’ultimo istante.

CASSANDRA

La mia ora è qui: fuggendo guadagno ben poco.

CORO

Attingi coraggio dal tuo animo prode. Sappilo.

CASSANDRA

Chi ha sorte felice non ode simili frasi.

CORO

Una morte illustre affascina gli uomini.

CASSANDRA

O padre! Te, e i tuoi nobili figli!

CORO

Cos’hai? Quale spavento ti strappa indietro?

CASSANDRA

Ahimè!

CORO

Perché questo “ahimè”? Brivido d’orrore, dentro?

CASSANDRA

Sfiata assassinio la casa, gronda cruenta.

CORO

Come può? È aroma di offerte votive, dai focolari.

CASSANDRA

Si distingue come un respiro di tomba.

CORO

Non c’è incenso d’Oriente là dentro, a tuo dire!

CASSANDRA

Parto. Ululerò ai trapassati il mio fato e quello di Agamennone. Sia finita qui. Ah stranieri! Grido: non di spavento –  uccello a un’ombra di fronda – ma perché di tutto questo, dopo la fine, mi siate testi fedeli, nell’ora che una donna, a  saldare la mia morte di donna, cadrà, e un uomo dovrà morire, in cambio di un uomo cui fu fatale la sposa. Pensate che  sto per morire. Fatemi questo dono ospitale.

CORO

O tu che soffri, ho pena del fato che tu stessa t’annunci.

CASSANDRA

Ancora una volta voglio dire parole distese, non cantilene di lutto, per la mia morte. Davanti a quest’ultima luce di sole,  io chiedo ai vendicatori del re che facciano scontare ai nemici anche la mia uccisione, di me morta schiava, vittima  disarmata. Vicende terrene! Prospere, e basta un’ombra a travolgerle: se la sorte è ostile, una passata di spugna stillante,  e il disegno è perduto. Questo mi fa piangere, molto più di tutto il resto. Cassandra entra nella reggia. 

CORO

Hanno nel sangue gli uomini

fame implacabile di felicità.

Nessuno di quelli che la gente

già mostra col dito, vuole

vietarle l’entrata, scacciarla

dal proprio palazzo, gridando

“Non avvicinarti, mai più.”

A quest’uomo i beati donarono

di vincere la terra di Priamo,

e torna alla patria

pieno di onori divini.

Ma ora, se deve saldare il sangue

di chi l’ha preceduto,

se per quelle morti antiche

morendo lui stesso compie

espiazione di altri assassinii,

quale uomo, che sappia la storia,

può dire di essere nato

all’ombra di un destino innocente?

Dall’interno della reggia, laceranti, esplodono voci di dolore. 

AGAMENNONE

Aaah! Ho dentro, m’inchioda colpo preciso.

CORO

Silenzio. Chi grida, trapassato da colpo preciso?

AGAMENNONE

Altra fitta, orrenda! Due colpi ho in corpo.

CORO

L’azione è conclusa: quest’ululo del re me lo fa sospettare. Amici, scambiamoci i pareri sicuri. Vi dico quel che penso:  far gridare in città che si corra alla rocca.

Per me, scattare subito dentro, smascherare il delitto con evidenza di lama appena estratta. Ecco il mio voto, su cosa decidere: mi associo a questo consiglio. Non è ora d’indugi.

Apriamo gli occhi. Queste sono le prime battute, indizi di tirannide, di ciò che stanno preparando allo stato. Troppo tardi: loro schiacciano sotto i piedi il decantato “pensaci bene”! Intanto la mano è ben sveglia. Non so quale miglior consiglio dare: l’agire esige riflessione attenta, …

Sono dalla stessa parte: non ho il mezzo di far risorgere l’ucciso a parole.

Dunque, salvare la vita. E per questo, chinarsi ai padroni che sono infamia alla casa?

No, non si può tollerarlo. Meglio la morte, è più dolce che subire i tiranni.

Come indizio c’è l’urlo del re. Ci basta per crederlo ucciso?

Vediamoci chiaro, poi venga pure lo sdegno. Indovinare, ed essere certi: c’è differenza.

Per me, prevale questo parere, e l’approvo: sapere con certezza la fine dell’Atride.

Lento, si spalanca il portale della reggia. Dentro, tre figure. Riverso in una conca lucente, avvolto in un largo drappo  chiazzato di sangue, il corpo di Agamennone. Accanto, abbattuta, Cassandra. Li sovrasta – l’arma è ancora in mano –  Clitennestra, superba. 

CLITENNESTRA

In passato molte parole ho detto sfruttando un’occasione: ora, non avrò scupoli a smentirle. Come può, uno, tramando  ostili colpi a gente ostile che si presenta con la faccia amica, gettare rete di sventura, altezza che nessun balzo varca? Da troppo tempo non mi usciva dalla mente questa gara di morte. Ora il premio della lotta, la vittoria: tardi, ma alla fine è  giunta! Qui mi ergo, dove vibrai l’arma, dove ho saldato il mio impegno. Ho agito, ho avuto successo, non voglio  celarlo: né scampo per lui, né riparo al colpo fatale. Un volo di rete, inestricabile – come a una mattanza – e lo ingabbio,  sfarzo doloroso di stoffe. Io due squarci. Due rantoli, lui, fascio di membra snervate, lì al suolo. È steso. Un terzo colpo  gli assesto. Grato ossequio a Zeus dell’abisso, patrono dei morti. Sfoga l’anima crollando – una boccata precipitosa di  sangue e spira. Mi schizza di fosche stille – velo di rugiada scarlatta che mi fa lieta, come la semente del grano, quando  nel pieno sbocciare dei chicchi s’ingemma del rorido dono del cielo. Questi gli eventi, degna nobiltà di Argo. Esultate se vi piace. Io me ne glorio. Se mai fosse buon momento per libare su un ucciso, ora sarebbe giusto, legittimo, anzi.  Quest’uomo ha colmato il calice di troppi crimini, qui nella reggia: al suo ritorno gli è toccato svuotarlo.

CORO

Ci scuote la tua lingua sfacciata, questa voce superba contro lo sposo.

CLITENNESTRA

Mi state saggiando: quella donna insensata, pensate. Io però con cuore immoto mi rivolgo a gente che intende. Tu mi  assecondi, sei disposto? Mi critichi? È lo stesso. Ecco Agamennone, sì mio marito. Morto. Colpo di questa abile mano,  autrice di vendetta. Questi i fatti.

CORO

str. I 

Regina, che tossico frutto della zolla

inghiottisti, che filtro stillato

dall’onda salmastra

per commettere l’assassinio?

Per spezzare, troncare

l’imprecazione che sale dal paese?

Sarai fuorilegge, sotto un carico d’astio

ti schiaccerà la tua gente.

CLITENNESTRA

Adesso tocca a me fuggire il paese, affrontare l’astio, la pubblica esecrazione: così tu ora sentenzi. Non facesti contrasto in passato a quest’uomo. Lui, senza scrupolo – non conta la morte di un’agnella, quando il pascolo trabocca di mandrie  ricciute – immolò la sua figlia, frutto doloroso e adorato del mio parto. Doveva affascinare, in Tracia, il calo di vento. A  lui no, non toccava l’espulsione da questo paese, a fargli scontare il crimine osceno. Alle mie azioni, invece, tendi le  orecchie, e ti fai giudice senza pietà. Ora ascolta. Limita le minacce, potrai darmi ordini, ma solo piegandomi con le tue  mani: io, per me, sono pronta, da pari a pari. Régolati. Certo, se dio decide l’opposto, apprenderai la dura lezione di un  tardivo equilibrio di mente.

CORO

ant. I 

Sei spavalda di cuore

e alzi la voce arrogante.

Delira il tuo spirito

per il cruento colpo di fortuna.

Ombra fosca di sangue

– la vedo – ti scintilla negli occhi.

Hai vuoto d’amore, intorno:

devi espiare il colpo con colpo di risarcimento.

CLITENNESTRA

E tu considera la santa base dei miei giuramenti: su Equità che rese giustizia a mia figlia, su Perdizione punitrice divina, su Erinni, cui dedico quest’uomo scannato, mai varcherà la mia soglia il brivido della paura, finché attizzi il fuoco nel  mio braciere Egisto, pieno d’affetto, come sempre in passato, per me. È lui scudo non piccolo del mio franco ardire.  Eccolo, steso, colui che schizzò fango su questa donna, l’incanto delle Criseidi, laggiù sotto Troia. E guarda, ecco la  preda di guerra, la veggente, la profetessa d’oracoli che spartì il letto con lui. Che amica fedele di letto, ora, guardali!  Come quando si stendevano insieme sul ponte delle navi! Non è salato il conto, di quei due. Lui, giace così come vedi.  Lei, modulò la nenia estrema dell’agonia – un cigno, pareva. Eccola stesa con lui, a fare l’amore. Me la porse lui, il mio  uomo, ghiotto contorno al mio godere!

Eschilo

Fonte: eschilo_agamennone

Le Carré John-Chiamata per il morto

Nella narrativa di genere e/o di maniera che spopola nelle classifiche dei best-seller, le scene ospedaliere abbondano. In questo romanzo di Le Carré ritroviamo, per esempio, un classico arrivo all’ospedale:

 

“Mendel lo guardò e si chiese se fosse morto. Vuotò le tasche del suo soprabito e lo posò delicatamente sulle spalle di Smiley. Poi corse, corse come un pazzo all’ospedale, si precipitò fragorosamente attraverso la porta a vento del reparto esterni ed entrò nella parte illuminata riservata ai degenti. Era di servizio un giovane medico di colore. Mendel gli fece vedere la sua tessera, gli gridò qualcosa, lo afferrò per un braccio e tentò di trascinarlo sulla strada. Il medico sorrise paziente, scosse la testa e telefonò per chiamare un’ambulanza”.

 

John Le Carré, Chiamata per il morto, Garzanti, Milano, 1978-79 (1961)

Il piccolo malato di Cronin

Il destino di Yu era segnato: sotto lo sguardo di tre medici barbuti, lo attendevano dolore e ferite. L’estratto dell’opera “Le chiavi del regno” di Archibald Joseph Cronin evidenziano la missione della cura del malato.

[…] La camera del piccolo malato era immersa nella penombra. Cià Yu era coricato sopra una Kang riscaldato, sotto gli sguardi di tre medici barbuti avvolti in lunghi roboni, e seduti su stuoie di vimini. Di quando in quando uno dei medici si piegava sul busto e lasciava cadere un pezzo di carbone nel kang scatoliforme. A un angolo della stanza un prete taoista avvolto in una veste color lavagna borbottava preghiere ed esorcismi, con accompagnamento di flauti dietro la tramezza di bambù.

Yu era un grazioso bambino di sei anni, dalla carnagione morbida e giallina e occhi d’antracite. Allevato secondo le più strette tradizioni del rispetto filiale, era adorato, ma non viziato. Adesso, consumato da una febbre divorante e dalla terribile novità del dolore, giaceva sul dorso con le ossa che sembravano dovergli bucare la pelle. Il braccio destro, livido, mostruosamente enfiato e tumefatto, era incasellato in un orribile plastico di sporcizia mista a frammenti di carta.

[…] Curvo sul bambino privo ormai di conoscenza, Francesco valutò nel suo giusto valore quella marmorea immobilità sacerdotale. I suoi guai attuali sarebbero stati meno che niente, a petto della persecuzione che sarebbe seguita se il suo intervento falliva. Ma le disperate condizioni del ragazzo, e quell’insolente pretesa di cura agirono ugualmente su di lui come una frustata, con gesti rapidi e delicati tolse dal braccio infetto lo Hao kao, il lurido bendaggio che aveva così spesso visto nei poveri che accorrevano al suo dispensario; poi, liberato il braccio, lo lavò in acqua calda. Nella bacinella l’arto quasi galleggiava, vescica gonfia di pus che dava alla pelle un colore verdognolo. A Francesco il cuore faceva ora un gran battere, ma senza esitare cavò dalla tasca l’astuccio di cuoio ricevuto dall’amico Tulloch, e ne trasse un bisturi. Non si illudeva sulle sue capacità, ma sapeva anche che se non incideva profondamente nel braccio del bambino giù moribondo, il destino del poveretto era segnato.

[…] Un gran fiotto di materia putrida sgorgò dalla ferita e colò denso nel vaso di coccio pronto a riceverlo. Un puzzo orribile riempì l’aria. Mai tuttavia Francesco aveva sentito odore con maggiore letizia.

Archibald Joseph Cronin

Adattamento radiofonico in cinque puntate del romanzo “Le Chiavi del Regno” di Archibald Joseph Cronin 

Archibald Joseph Cronin, “Le chiavi del regno” (1941, Bompiani)