L’amore ai tempi del colera

Il colera causò una strage di persone di cui non si conosce l’entità. Nel bel mezzo dell’epidemia, il dottor Marco Aurelio Urbino si trova davanti al dilemma: metodo scientifico o caritatevole?

L’epidemia di colera, le cui prime vittime caddero fulminate nelle pozzanghere del mercato, aveva provocato in undici settimane la più grande mortalità della nostra storia.

Durante le due prime settimane del colera il cimitero traboccava, e non era rimasto un posto libero nelle chiese, nonostante avessero passato nell’ossario comune i resti consunti di parecchi grandi senza nome.

Nella terza settimana il chiostro del convento di Santa Clara si trovò pieno fino ai viali e fu necessario abilitare il cimitero, l’orto della comunità, che era grande il doppio. Lì scavarono fosse profonde per interrare a tre livelli, in fretta e senza precauzioni, ma si dovette desistere dal progetto perché il terreno che era traboccato si trasformo come in un una spugna che trasudava sotto i suoi passi in un sangue marcio e nauseabondo. Allora si dispose di continuare le sepolture alla Mano de Dios, una fattoria di bestiame a meno di una lega dalla città, che poi venne consacrata Cimitero Universale.

Da quando fu proclamato il bando del colera, nella fortezza della guarnigione locale si sparò un colpo di cannone ogni quarto d’ora, di giorno e di notte, d’accordo con la superstizione cittadina che la polvere purificava l’ambiente. Il colera fu molto più feroce con la popolazione negra, che era la più numerosa e la più povera, ma in realtà non fece considerazioni di colore né di lignaggio. Cessò improvvisamente come era iniziato, e non si conobbe mai la quantità dei suoi danni, non perché fosse impossibile stabilirla ma perché una delle nostre virtù più usuali era il pudore delle proprie disgrazie. Il dottor Marco Aurelio Urbino, padre di Juvenal, fu un eroe civile di quelle giornate infauste, e anche la sua vittima più notevole.

Anni dopo rivedendo la cronaca di quei giorni, il dottor Juvenal Urbino verificò che il metodo di suo padre era stato più caritatevole che scientifico e che in molti modi era contrario alla ragione così da aver favorito in gran misura la voracità della peste.

Quando riconobbe in se stesso gli scompigli irreparabili che aveva visto e compatito negli altri, non tentò neanche una battaglia inutile, ma si appartò dal mondo per non contaminare nessuno. Chiuso, da solo, in una stanza di servizio dell’Ospedale della Misericordia, sordo alle chiamate dei colleghi e alle suppliche dei suoi, estraneo all’orrore dei pestiferi che agonizzavano sul pavimento dei corridoi traboccanti, scrisse alla moglie e ai figli una lettera d’amore febbrile, di gratitudine per essere esistiti, nella quale si rivelava quanto e con quanta avidità avesse amato la vita. Fu un addio di venti fogli stracciati nei quali si notavano i progressi della malattia dal deterioramento della scrittura, e non era necessario avere conosciuto chi li avesse scritti per sapere che la firma era stata messa con l’ultimo respiro, d’accordo con le sue disposizioni, il corpo incenerito si confuse nel cimitero comune e non fu visto da nessuno che lo avesse amato.

Gabriel García Marquez

Treccani Enciclopedia Online

Gabriel García Marquez, “L’amore ai tempi del colera” (1985)

Carmen Troiano

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *