Un ictus che ricorda qualcosa…

È quasi scontato leggere il libro di Andrea Vianello condizionati dallo scenario del Covid-19. Ma la comparazione è giustificata: l’ischemia che colpisce il giornalista e conduttore Tv viene da lui vissuta come l’invasione di un male improvviso, misterioso e incomprensibile. Esattamente come sta capitando a tutti noi


In questi tempi è facile, fin troppo facile, quasi scontato, ma anche inevitabile, leggere qualunque vicenda – di malattia ma non solo – nello scenario, nell’ottica, nella chiave del Coronavirus. Il libro di Andrea Vianello però si presta a questa comparazione, pur distorsiva, in modo particolare. Il giornalista e conduttore televisivo si è deciso a raccontare la storia dell’ictus, per la precisione dell’ischemia cerebrale che ha colpito il lato sinistro del suo cervello, causata da una dissecazione della carotide.
Rispetto all’antico ma oggi particolarmente diffuso genere della medicina letteraria, dei diari di malattia, degli outing clinici e sanitari, in questa vicenda c’è infatti un aspetto più specifico: Vianello viene colpito in modo violento, rischia la vita, deve subire una fortunatamente riuscitissima operazione d’urgenza, segnata però da una complicanza non banale: la lesione della parola, che è il suo strumento di lavoro. Chi lo abbia visto di recente in una delle presentazioni del libro ha potuto constatare che il trauma è stato quasi completamente recuperato, non a caso un capitolo è dedicato alla struttura che l’ha curato e riabilitato, ma rimane intatto il senso di invasione da parte di un male improvviso e – almeno all’inizio – del tutto misterioso e quindi incomprensibile. Esattamente come è capitato a tutti noi con il Covid-19: siamo malati asintomatici, parenti, residenti in zone rosse e arancioni, cambia la misura, non lo sgomento.
Il merito di farci cogliere questa somiglianza, verrebbe da dire di affratellarci in questo comune destino, è ovviamente della impeccabile, lucidissima scrittura dell’autore. Basti citare il passo che giustamente è stato valorizzato dall’editore Mondadori nella bandella di – questo il titolo del diario – “Ogni parola che sapevo”. “Mia moglie arriva trafelata. Mi sembra un gigante sopra di me, un gigante buono che mi aiuterà, io sono inciampato in un buco nero del bosco ma lei mi tirerà fuori da lì. Ha gli occhi sgranati. ‘Che succede? Che succede?’ mi chiede. La mia risposta è chiara: ‘Megpdeiigrhiaa!’ le dico concitato, ‘mrlaiofoourhdka uhfe giumhu’. Non si capisce niente, lei non capisce niente, nemmeno io capisco niente, parlo una lingua nuova, eppure lo so cosa voglio dire, ma un demone si è intrufolato nella mia bocca. ‘Ceritturgra, mathra, titdiiiadotaio.’ Sono infuriato con me, sono infuriato con lei perché non capisce. ‘Stai calmo’ la sento dire, ma sono alle prese con questa follia, non riesco a dire una parola, maledizione, una vera parola, mi sento imprigionato, imbavagliato, sperduto, nel buco nero del bosco non ci sono parole, le mie amatissime parole, solo versi infantili, muggiti incomprensibili, rantoli disperati”.
La vulnerabilità fisica, l’insufficienza del nostro vocabolario, la necessità per se stessi e per gli altri di dare testimonianza della propria debolezza e anche della propria sofferenza, dei calvari personali e collettivi, la consapevolezza che possiamo passare in poche ore – o in qualche settimana, cambia poco – dalla vita “normale”, anche se non brillante come quella di chi vive illuminato dai riflettori di un studio tv, ai meandri inestricabili della sanità pubblica… Sì, le analogie tra la vicenda di Vianello e quella di noi tutti ci sono, e non sono poche.

Marco Ferrazzoli


Andrea Vianello, “Ogni parola che sapevo”, Mondadori (2020)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Le Humanities per la pratica medica

Attraverso l’arte e le discipline umanistiche è possibile conoscere lo sviluppo dei metodi di cura e i ruoli degli operatori sanitari nel corso dei secoli. Tale bagaglio è un prezioso patrimonio per la professione medico e sanitaria, perché crea empatia e una corretta relazione con il paziente. Il volume di Vincenza Ferrara, docente presso l”Università Sapienza di Roma, illustra la storia di questa complessa materia e le sue applicazioni


Le Medical humanities cosa sono e a cosa servono? Lo spiega il volume “L’arte come strumento per la formazione in area medica e sanitaria” (Aracne editore), scritto da Vincenza Ferrara, docente presso l”Università Sapienza di Roma e pioniera nell’insegnamento di questa disciplina che è una “sinergia” di materie di studio assai differenti. “La definizione, utilizzata in un campo interdisciplinare della medicina e in generale della cura, include la letteratura, filosofia, storia e religione, le scienze sociali (antropologia, psicologia e sociologia), le arti (letteratura, teatro, film e arti visive) e la loro applicazione sia nell’educazione medica che nella pratica clinica”, spiega l’autrice. Già nel 1994, in un articolo scientifico apparso negli Stati Uniti, veniva sottolineato che l’assistenza infermieristica non può svilupparsi da un background basato esclusivamente sulle scienze fisiche e sociali. Il personale sanitario, grazie a questi studi, può ridurre il gap nel rapporto con i pazienti e “umanizzare” la cura, superando una visione esclusivamente biomedica della professione. Dal 2014 è stata istituito presso l’Università di Roma un gruppo di ricerca per applicare il metodo nell’ambito della Medical education, cui è dedicato un laboratorio diretto dalla stessa Ferrara; è stata attivata una sperimentazione nei corsi di laurea in Medicina, Scienze infermieristiche e nella formazione specifica in Medicina generale.
Nello scorrere le pagine del libro sorprende rilevare quanto resti archeologici, sculture, dipinti, possano testimoniare lo sviluppo della scienza medica e l’affinarsi dello sguardo dell’artista nel ritrarre anche le imperfezioni del corpo umano, elementi che consentono di comprendere la diffusione di alcune patologie nel passato, campo di indagine dell’icodiagnostica. Basta andare nell’antica Grecia, dove gli anatomisti chiedevano aiuto agli artisti, “la dissezione era praticata sui corpi degli animali, mentre era vietato esplorare l’anatomia umana per motivi sociali e religiosi… Solo due medici ellenistici, che hanno operato ad Alessandria d’Egitto circa tra il 330 e il 240 a.C., sono noti non solo per l’uso della dissezione sistematica dei cadaveri, ma anche per la pratica della vivisezione sperimentale condotta sui condannati a morte: Erofilo ed Erasistrato”.
Nel Discobolo (copia del secolo II d.C. da originale greco del V secolo a.C.), conservato al Museo nazionale romano in Palazzo Massimo, ammiriamo i gruppi muscolari dell’atleta ritratti nell’atto di partecipare al movimento. Nei corso dei secoli, molti pittori – da Leonardo da Vinci a Michelangelo a Raffaello – hanno approfondito l’esame delle parti del corpo. Nel XVI secolo Bartolomeo Passarotti realizzò il dipinto “Lezione di anatomia per artisti” (Galleria Borghese, Roma) e Rembrandt nel 1632 raffigurò il dottor Tulp mentre mostra l’anatomia del braccio di un condannato a morte (Mauritshuis, L’Aia). L’autrice cita altri esempi di legame tra arte e medicina, che si traducono nelle modalità di riprodurre e conservare i corpi, quali la ceroplastica anatomica e la recente plastinazione, messa a punto da Gunther von Hagens. La rappresentazione della cura nell’arte, conclude Ferrara, è stimolante anche per lo sviluppo dell’empatia e della relazione tra personale di cura e paziente.

Sandra Fiore


Vincenza Ferrara, “L’arte come strumento per la formazione in area medica e sanitaria”, Aracne Editrice (2020)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Buona medicina, buoni medici, buona Sanità

Il saggio di Domenico Ribatti affronta il tema dell’etica in medicina in un’accezione molto ampia, che include il rapporto tra sanitari e paziente, i ruoli della politica e dell’industria farmaceutica, l’evoluzione scientifico-tecnologica, il significato stesso del termine “malattia”


Il tema dell’etica in medicina vanta una tradizione di studi e riflessioni ampia e autorevole, che va da Hans Jonas a Hugo Tristram Engelhardt, Martin Heidegger, Umberto Galimberti, Giorgio Cosmacini… Il saggio di Domenico Ribatti “La buona medicina”, però, affronta la problematica in un’accezione molto ampia, che include il rapporto medico-paziente, le politiche sanitarie, il ruolo dell’industria farmaceutica, l’evoluzione scientifica e tecnologica, il significato stesso del termine “malattia” che – nota l’autore – ne assume almeno tre diversi: concetto patologico, condizione esistenziale vissuta e condizione percepita dagli altri, tanto che in inglese esistono tre termini specifici: disease, illness e sickness.
Per lungo tempo la medicina ha posto l’accento più sulla patogenesi, cioè sugli aspetti meccanicistici che caratterizzano l’insorgenza della malattia, che su quelli eziologici che investono i rapporti tra l’individuo e l’ambiente. L’evoluzione successiva, dai postulati di Koch nello studio della tubercolosi  all’introduzione tra Ottocento e Novecento di numerosi strumenti medici, farmaci e vaccini, dall’epidemiologia clinica alla Evidence Based Medicine (Ebm) basata sulle prove sperimentali effettuate su grandi numeri, ha ovviamente spostato l’interesse molto sul secondo aspetto e sulle sue intersezioni con il “programma genetico” e con l’evoluzione, un combinato disposto che rende ogni individuo un “prodotto” unico.
“Non più del 2 per cento delle malattie umane” devono “la loro insorgenza a un chiaro meccanismo monogenetico”, mentre il 98 “si conforma a un modello complesso”. Si è così passati da un’idea deterministica della causalità a un’idea probabilistica. Il saggio ricorda il caso dell’attrice Angeline Jolie, che si sottopose a una doppia mastectomia preventiva dopo avere saputo di essere portatrice di una mutazione del gene Brca1 che le dava l’87 per cento di probabilità di sviluppare un tumore della mammella. Il problema della “cultura della scienza” diviene quindi nodale quanto quello della salute. L’Oms alla sua fondazione nel 1948 l’aveva definita “uno stato di completo benessere fisico mentale e sociale” e non soltanto “un’assenza di malattia o di infermità”, ma lo storico della medicina Mirko Grmek notava come questa definizione rischiasse di attribuire alla medicina una sorta di impossibile scopo “di assicurare l’agiatezza e la felicità”.
Se secondo Umberto Veronesi “la medicina è insieme scienza arte e magia”, tanta è l’importanza della capacità del medico (e non solo) “di influenzare psicologicamente il paziente”, secondo molte fonti – tra le quali il saggio cita un editoriale degli “Annals of Internal Medicine” – una significativa quota dei test di diagnostica per immagini non sono necessari. In Italia l’incremento delle radiazioni assorbite in tal modo è stato del 600 per cento negli ultimi venticinque anni. “Colpa” di una medicina troppo cautelativa, di medici che sono ormai ridotti a prescrittori di farmaci, analisi ed esami? Certamente un recupero del contatto professionale e umano è auspicabile, già nel 1984 Howard B. Beckman e Richard N. Frankel rilevarono “che solo nel 23 per cento dei casi al paziente era consentito di completare la presentazione dei suoi sintomi e che nel 63 per cento dei casi il medico interrompeva il paziente mediamente diciotto secondi dopo che questi aveva iniziato a parlare”. Un processo che in qualche misura si accentua dopo il Settecento, quando gli ospedali diventano il luogo in cui l’ammalato viene curato ma anche separato dalla comunità, tema sul quale ha molto scritto Michel Foucault. D’altronde gli eccessi diagnostico-terapeutici sono l’altra faccia di una medaglia che si chiama prevenzione, sulla quale è necessario insistere soprattutto nella lotta contro malattie particolarmente dure da sconfiggere come il cancro, nel quale la percentuale dei casi maligni che può essere attribuita a fattori ambientali varia tra il 70 e il 90 per cento.
La parte del saggio dedicata alla cronaca politico-istituzionale recente è utile soprattutto per capire quante acquisizioni della Sanità odierna siano nate solo dalla seconda metà del secolo scorso. Nel 1954 la Federazione nazionale degli Ordini dei medici introduce il principio del consenso informato, nel 1958 nasce il ministero della Salute e solo vent’anni dopo il Servizio sanitario nazionale, con la nascita delle Unità sanitarie locali (Usl) e un significativo incremento della spesa pubblica, mentre ci vuole l’intero decennio 1992-2001 per la definizione dei Livelli essenziali di assistenza (Lea), subordinati però alla disponibilità finanziaria. Ci avviciniamo così alla attuale gestione della Sanità, al frequente dissidio tra sanitari, amministrativi e politici nella stessa, e all’indebolimento progressivo del coordinamento nazionale a favore delle autonomie regionali, che anche in tempo di Covid-19 ha mostrato alcune lacune e contraddizioni. Questo non deve però farci dimenticare che la Sanità pubblica italiana resta un modello tutto sommato virtuoso, a paragone di altri, pensiamo agli Stati Uniti con il loro sistema assicurativo ancora sostanzialmente privatistico.

Marco Ferrazzoli


Domenico Ribatti, “La buona medicina” (La nave di Teseo, 2020)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Quando la malattia mentale diventa letteratura

È quanto avviene nelle opere di Venedikt Erofeev, scrittore russo dedito all’alcol e al vagabondaggio, autore tra l’altro, del diario ‘Memorie di uno psicopatico’. Scritto nel 1956, il volume offre un inedito ritratto della Russia del tempo, raccontata con uno stile dall’andamento bipolare

Venedikt Erofeev (1938-1990) è stato uno scrittore-simbolo per intere generazioni, oltre che un autore tra i più controversi del post-modernismo russo. La sua vita al limite tra dipendenza da alcool e vagabondaggio ha fortemente contribuito sia alla sua immagine di reietto, sia alla crudezza della sua scrittura, che trova la massima espressione nel suo bestseller clandestino ‘Mosca-Petuska’. Un’opera grottesca, visionaria, tragicomica, che parte da Mosca per un viaggio forse mai compiuto.

‘Memorie di uno psicopatico’, scritta nel 1956 e ora riproposta da Miraggi, è una rarità. Si tratta infatti del primo libro di Erofeev, caratterizzato da un insieme di memorie scritte su pagine di un diario di cui non si conosceva l’esistenza. Pubblicato in Russia solo nel 2000, il libro è una costellazione di riferimenti e contestazioni furiose sui totem e i tabù della società sovietica. Protagonista di questi racconti è Venedikt, alter-ego dell’autore che, ancora giovanissimo, esprime la sua disperata ribellione verso il mondo.

Il libro mostra la psichedelica visione del mondo dell’autore: questi diari giovanili seguono il giovane Venedikt nel periodo che va dall’ottobre 1956 al novembre 1957. Tredici mesi cruciali, dall’ammissione con lode all’Università di Mosca alla successiva espulsione, dal primo impiego al successivo licenziamento. Il racconto delle esperienze autobiografiche si accavalla e si interseca con riflessioni di carattere filosofico, pseudoscientifico, spesso assurdo. Ciò che colpisce immediatamente è l’andamento bipolare della scrittura tra rabbia incontrollabile a paura, tra odio e bisogno di affetto; lo spazio e il tempo non hanno confini e la metrica del linguaggio di Venedikt richiama le figure cinematografiche dello sterminatore di scarafaggi William Lee nel film ‘Pasto nudo’ (David Cronenberg, 1991) o di Michael Anderson, il nano immaginario del telefilm ‘I segreti di Twin Peaks’ (David Lynch, 1991).

La violenza narrativa con cui Venedikt fa sentire la sua psicopatologia ci ricorda che ancora oggi, a oltre 60 anni dall’uscita di questo libro, esistono milioni di persone che come lui vagano perse per il mondo alle quali nessuno sa indicare loro la via del ritorno a casa. Anche se negli ultimi 40 anni, la scienza della malattia mentale è diventata capace di fornire diagnosi sempre più accurate.

Antonio Cerasa

Venedikt Erofeev, “Memorie di uno psicopatico” (Miraggi, 2017)

erofeev scheda

Almanacco della Scienza CNR

Giuda – Il tumore di una diciottenne

Affidare alla scrittura il racconto di un percorso di malattia è un’esperienza sempre più diffusa e frequente. Nel caso di “Giuda” (Edizioni della Meridiana), all’autrice, giovanissima, viene diagnosticato un raro linfoma. Il diario, spiega, “serviva a me, al mio bisogno di fare sapere al mondo che avevo un cancro”


Marina Massone ha solo 18 anni quando le viene diagnosticato un raro tumore maligno del sangue, un linfoma T gamma delta, patologia che colpisce più frequentemente il genere maschile in età superiore ai sessant’anni, con solo il 10% di probabilità di sopravvivenza.
Fino a quel momento, la sua vita è quella di una ragazza solare e sportiva, pattinatrice su ghiaccio a ottimi livelli, nata e cresciuta ad Aosta tra famiglia e amici, diplomata in Canada per poi intraprendere un percorso di studi internazionali presso un ateneo olandese. Poi, dopo una serie di inspiegabili febbri e una crescente anemia, l’incontro con “Giuda” – così lei battezza la malattia – e l’inizio di una nuova realtà fatta di ospedali, esami, chemioterapia, fino al trapianto di midollo da parte del fratello Federico, operazione che la salverà.
Un percorso in cui Marina utilizza la scrittura come mezzo per mantenere un equilibrio e una direzione: “Scrivere è stato meglio di una seduta dallo psicologo, di un bicchiere di vino, di una corsa all’aria aperta. Ho scritto per digerire le informazioni che ricevevo, capirle, rielaborarle e farle mie. Ho scritto per prendere distanza da quello che mi capitava e vedere come il personaggio che avevo creato – che ero in realtà io stessa – trovava sempre un modo per andare avanti. Così mi si disegnava davanti agli occhi la strada da seguire e riuscivo a vivere un presente intenso come mai prima”.
Nel libro si piange e si ride: Marina racconta la sua storia senza filtri, guardandosi dentro lucidamente, alternando la disperazione alla consolazione, abissi di malessere e slanci di ritrovata energia, fiducia – nei medici ma anche nella sua “capacità di farcela”- rabbia e pensieri “da grande“, come la consapevolezza di non poter avere figli, fino alla serenità ritrovata nelle piccole cose, come il semplice ricominciare a fare ginnastica all’aria aperta dopo quattro cicli di terapia.
La decisione di rendere pubbliche le sue pagine arriva solo dopo il centesimo giorno dal trapianto di midollo osseo, data che segna il superamento del rischio di andare incontro a gravi complicazioni dopo l’operazione e, quindi, simbolicamente, la guarigione. In questo lungo percorso, il diario – nato “egoista”- (“serviva a me, al mio bisogno di fare sapere al mondo che avevo un cancro”), diventa una testimonianza di altruismo e uno strumento di sensibilizzazione al tema della donazione del midollo osseo. “È un’operazione sicura e non invasiva, nel nostro Paese esiste un Registro dei donatori: più persone sono iscritte, maggiori possibilità si avranno di trovare un donatore compatibile con il paziente che ha bisogno del trapianto”.
Nelle ultime pagine, Marina si congeda da Giuda con una lettera dalla quale traspare tutta la forza dei suoi 22 anni: “Non ho cambiato il mio approccio alla vita, come spesso si pensa che possa accadere dopo una malattia: io amavo la vita prima di Giuda, l’ho amata durante e la amo anche adesso”.

F.G.


Marina Massone, “Giuda”, Edizioni della Meridiana (2021)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Henrietta Lacks, questione di cellule

Nella sua ‘Vita immortale’, Rebecca Skloot racconta le vicende straordinarie dell’afroamericana che, ammalatasi di cancro, regalò inconsapevolmente alla scienza le cellule ‘immortali’ ancora oggi utilizzate nella ricerca su molte malattie


Unisce il meglio di diversi generi letterari, come accade sempre più frequentemente nelle opere recenti di maggiore successo, questa ‘Vita immortale di Henrietta Lacks’. Rebecca Skloot vi ha dedicato l’impegno di una biografa appassionata, rendendo la vita della protagonista con uno stile narrativo avvincente ma che non fa alcuno sconto, anzi, agli aspetti scientifici della vicenda.
Henrietta Lacks è una donna di colore vissuta negli Stati Uniti degli anni ’40 tra razzismo esplicito, infedeltà coniugali, gelosie immotivate e una fede fortissima. Avvenente, quasi analfabeta, passa la sua breve esistenza tra le piantagioni di tabacco di Baltimora, quasi a rammentarle le origini di schiavitù che la segnano.
La sua storia sarebbe già di per sé umanamente ricca e interessante, ma a renderla straordinaria è purtroppo l’esito post mortem. Henrietta si ammala di cancro della cervice uterina a poco più di 30 anni e viene curata in modo approssimativo, a causa delle conoscenze mediche ancora imperfette e dei molti pregiudizi vigenti contro le donne e gli afroamericani: una mancanza di rispetto che porta i sanitari a utilizzare un campione delle sue cellule per verificare un’ipotesi sulla proliferazione tumorale, senza preoccuparsi più di tanto di chiedere il consenso alla donna.
Accade a questo punto qualcosa di straordinario: per la prima volta, le cellule cominciano a riprodursi senza più morire, all’infinito, eternamente, dischiudendo alla ricerca scientifica possibilità fino ad allora precluse. Queste cellule vengono battezzate come HeLa, dalle iniziali della donna, e questo sarà l’unico riconoscimento che lei e la sua famiglia otterranno, nonostante l’enorme importanza, anche economica, della scoperta di cui Henrietta è stata l’inconsapevole protagonista.
Questo, per lo meno, fino agli anni 2000, quando un’altra donna bianca, ebrea e di buona famiglia, dunque – come lei stessa spiega nel libro – quanto di più distante dalla Lacks si possa immaginare, non resta prima incuriosita dalla mancanza di informazioni su questa persona vissuta sessant’anni prima, poi folgorata dalle notizie di cui viene man mano a conoscenza. La storia dell’indagine condotta da Rebecca Skloot si incrocia con quella della sua eroina e l’incontro-scontro tra due culture così lontane come quella dell’autrice e della famiglia Lacks è un altro elemento di grande interesse del libro.
La biografia, insomma, è prima di tutto un risarcimento a Henrietta e agli esseri umani che fanno la storia ma non la scrivono, cadendo così nell’oblio. E poi è una finestra aperta su uno dei maggiori progressi conseguiti dalla ricerca scientifica del ‘900, base delle ricerche sul cancro, sul Parkinson, sul Dna: anche questi risultati scientifici spesso restano sconosciuti alla stragrande maggioranza di noi, nonostante l’enorme incidenza che hanno nella nostra vita. Anche all’autrice di questo libro, del resto, era ignota l’origine delle cellule HeLa, finché non le è capitato di imbattervisi da studentessa, chiedendosi da dove venisse quell’acronimo curioso.

Marco Ferrazzoli


Rebecca Skloot, “La vita immortale di Henrietta Lacks”, Adelphi (2011)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

La buona cura, da Seneca alla medicina narrativa





Dai suggerimenti del filosofo spagnolo all’attuale “Medicina narrativa”, su cui arriva ora in traduzione italiana il manuale di Rita Charon, si ravvisa un’analogia: la considerazione del malato come persona, il rischio di ridurre il paziente a “cliente”. Sensibilità, dialogo, competenze psico-pedagogiche sono fondamentali per percorsi terapeutici più efficaci


È ovviamente la nostra lettura a posteriori che induce a ravvisare nelle parole di Lucio Anneo Seneca così tante e strette analogie con le questioni odierne della medicina e della sua comunicazione. Detratto però questo bias dobbiamo riconoscere un indubitabile interesse e una notevole attualità ai “Consigli ai medici” del filosofo spagnolo, precettore di Nerone, ora ripubblicati da EDB in un’edizione curata dal classicista Lucio Coco.

Seneca ci appare per esempio, data l’insistenza sull’analogia tra la metafora medica e la cura delle anime propria del filosofo, una sorta di antesignano del counceling: “Chi è un vero medico è anche filosofo” scriveva del resto anche Galeno. Non meno moderna l’attenzione prestata dallo scrittore latino al medico e al malato come persona (in un passaggio del dialogo “Sui benefici” afferma che “malato e malattia non sono la stessa cosa”), legate da uno spirito umanitario, amicale, in cui oltre alla cura contano i consigli, soprattutto scevro dall’approccio venale che riduce il paziente a “cliente”, anche perché per medico e insegnante la ricompensa sta nel loro stesso lavoro. Un concetto molto condiviso all’epoca, anche Celso nel “De medicina” afferma che “a parità di scienza è più utile che il medico sia amico che estraneo”.
E poi l’apprezzamento per la capacità professionale: “Il malato non domanda un medico eloquente ma esperto” ricorda a Lucilio, con un’affermazione tutt’altro che banale in tempi di improvvisazione e ciarlataneria dilaganti, che peraltro proseguono ben oltre l’epoca classica fino ai giorni nostri, come tanta cronaca insegna. Come nel “Giuramento” di Ippocrate, Seneca insiste insomma sui plus etici inscindibili dalla pratica clinica e sanitaria: temperanza, equilibrio, riservatezza sono chiaramente affermati come doveri ben prima che entrassero in vigore le norme sulla privacy.
Molto vicino ai nostri giorni anche l’accostamento di tre settori di ricerca come chirurgia, dietetica e farmaceutica (già nel “Corpus hippocraticum” leggiamo che è “Nel cibo il farmaco migliore, nel cibo il farmaco peggiore”), altra anticipazione plurisecolare rispetto alla odierna, talvolta maniacale o fobica, attenzione all’impatto della dieta e dell’alimentazione sulla salute. Peraltro, secondo il filosofo stoico, in passato i mali erano meno virulenti perché l’uomo “non aveva ancora inventato cibi elaborati che, invece di calmare la fame, stimolano l’appetito e il desiderio”: sembra di ascoltare una campagna contro il junk food!

Quando poi Seneca scrive che il medico deve materialmente “sentire il polso” del malato, non può curare “di passaggio” e non può decidere “per lettera” ci sembra davvero di leggere, mutatis mutandis, dei nostri rapporti digitali e tecnologici con una Sanità che raramente concede (e può permettersi) una palpazione o auscultazione del paziente.
Facendo poi un salto di parecchi secoli, ravvisiamo un’altra e fondamentale analogia, quella cioè di una “buona cura” che passi non solo per le competenze scientifiche del medico e per il supporto tecnologico ma anche per un rapporto umano autentico tra sanitari e pazienti, che consenta la necessaria comprensione, comunicazione e condivisione. Il concetto che oggi passa sotto il nome di “Medicina narrativa”. L’omonimo volume di Rita Charon è ora tradotto e pubblicato in Italia da Raffaello Cortina, a tredici anni dalla sua uscita negli Stati Uniti. Un omaggio all’opera su cui si fonda la disciplina della quale l’autrice – medico internista e docente alla Columbia University – è considerata tra i massimi rappresentanti. Senza dubbio la Medicina narrativa è ormai un modello di formazione irrinunciabile, anche nel contesto italiano, per chi operi a qualunque livello nel servizio sanitario, dove la sensibilità, la capacità di dialogo, le competenze in ambito psicologico e pedagogico sono considerati di fondamentale importanza, all’interno della complessiva ricucitura tra scienze umane e naturali.

“La medicina può trarre vantaggio da quello che gli studiosi di letteratura, gli psicologi e gli antropologi sanno già da un po’: come funzionano le narrazioni, come trasmettono conoscenze sul mondo, come organizzano l’esistenza permettendo di coglierne il significato”, scriveva Rita Charon rivolgendosi a un sapere medico all’epoca ancora “sordo verso tutto ciò” e “basato quasi esclusivamente sulla componente biologica della malattia e sullo sviluppo di competenze tecniche”, preoccupato soltanto di “spiegare” e “protocollare” su larga scala. Certo la situazione non è risolta definitivamente, di sicuro non nel contesto italiano, poiché le pur numerose esperienze e pratiche attivate sono ancora frammentarie, scarsamente visibili, conosciute e documentate. Sta però crescendo la consapevolezza etico-politica della cura, la coscienza che la fragilità che connota la malattia si interseca con la emarginazione sociale, con il disagio interiore: deficit su cui la narrativa ha indubbiamente un ruolo di cura, non nel senso generico di creare un ”immaginario clinico” ma nella capacità di “scendere verso” chi sta vivendo una situazione patologica prima di tutto per riconoscere, recepire e interpretare l’anamnesi (“ascoltare la storia del paziente”), quindi per meglio identificare la patologia e collaborare tra colleghi medici e con la famiglia al fine, molto concreto, di indirizzare e accompagnare lungo percorsi terapeutici più efficaci. “Una visita di otto minuti non basta a dire tutto quello che si deve […] è fondamentale costruire una fiducia longitudinale”.

Non è un obiettivo banale, poiché richiede “uno studio disciplinato e rigoroso” che confligge con le logiche di efficienza e redditività cui il sistema sanitario e anche l’atteggiamento di molti operatori sembrano guardare come al loro principale obiettivo, “un sistema di mercato burocratizzato e attento soprattutto ai costi”. Nel suo dipartimento universitario, una delle esperienze di Medicina narrativa più rilevanti a livello internazionale assieme alla rivista Literature and Medicine, Rita Charon ha creato un modello formativo preciso: “Noi insegniamo ad analizzare i testi con cura e a scrivere in maniera riflessiva disciplinata e ponderata […] Facciamo conoscere le grandi opere letterarie”. Ma – ammette l’autrice – questo modello confligge con una interpretazione molto diversa della medicina: “Siamo diventati molto bravi a diagnosticare e curare le malattie […] nonostante un progresso così impressionante, manca spesso la capacità umana di provare empatia per gli ammalati”. E non solo: “Le competenze narrative non riguardano solo il singolo incontro ma tutta la pratica clinica […] sembra che i dottori si tengano a distanza anche dagli studenti dai colleghi dagli altri operatori e dalla società”. In effetti, le università e le scuole di specializzazione non possono “insegnare il rispetto, l’altruismo e la responsabilità” se questi tratti non si sviluppano e coltivano fin dall’infanzia, nella formazione famigliare, scolastica e sociale.

Marco Ferrazzoli


Rita Charon, “Medicina narrativa. Onorare le storie dei pazienti” (Raffaello Cortina, 2019)
Lucio Anneo Seneca, “Consigli ai medici” (Dehoniani, 2019)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Se Josef Mengele bussa alla porta

L’inquietante fascinazione iconica e narrativa esercitata dal nazismo trova nel medico di Auschwitz una figura di rilievo particolarmente sinistro, che alla follia ideologica aggiunge quella “scientifica”. Un po’ come nel film “I ragazzi venuti dal Brasile”, la biografia romanzata “L’ospite” di Margherita Nani mescola realtà storica e finzione letteraria


La fascinazione iconica e narrativa esercitata dal nazismo non è certo una novità, basti pensare alla collana video con le opere della regista di regime Leni Riefensthal che già decenni or sono L’Espresso, certo non sospettabile di nostalgie o simpatie verso il Terzo Reich, allegò al settimanale. Le dittature esercitano su di noi una contraddittoria fascinazione forse proprio perché rappresentano in forme e misure diverse l’abiezione umana, di chi comanda ma anche di chi obbedisce, in un’ambiguità che Hannah Arendt scolpì in modo indelebile ne “La banalità del male”. In questo contesto, il nazismo ha però assunto un inquietante primato: fotografia, filmografia, narrativa e saggistica sul devastante corso che Hitler impresse alla storia della Germania e del mondo intero sono, non a caso, sterminate.

In questo filone, la figura di Joseph Mengele assume un rilievo ancor più sinistro, poiché alla follia politica aggiunge quella “scientifica”. Mengele si erge, nelle gerarchie svasticate, come l’artefice più spietato degli esperimenti che dovevano tradurre in prove i teoremi razziali, utilizzando come cavie i deportati nei lager, bambini e gemelli in primis. La fuga in Sudamerica compiuta dopo il crollo del regime, la caccia inesausta compiuta per ritrovarlo e consegnarlo alla giustizia hanno ispirato “I ragazzi venuti dal Brasile”, film memorabile soprattutto per la sfida attorale tra Gregory Peck e Laurence Olivier, che vestono rispettivamente i panni di Mengele – impegnato nella creazione di 95 cloni del Fuhrer – e di Ezra Lieberman, personaggio ispirato a Simon Wiesenthal.
Il medico di Auschwitz è ora protagonista de “L’ospite. Le anatomie di Josef Mengele” di Margherita Nani: una biografia romanzata che, come la pellicola, prescinde molto dalla reale e misteriosa esistenza post-nazista di Mengele. Nel libro lo incontriamo nel 1955 a Candido Godoi, nel cuore del Brasile, dove si presenta come un misterioso tedesco in cerca di una stanza. Una famiglia di affittacamere lo accoglie ma Pia Souza, la figlia adolescente dei gestori, resta subito colpita da quello straniero riservato e imperscrutabile, il quale ricambia l’attrazione per la ragazza, molto lontana dai canoni ariani ma tanto pura e vitale da ispirargli emozioni fino ad allora sconosciute. Flashback e attualità, realtà storica e finzione letteraria si alternano nel libro, facendo emergere la diabolica malvagità dell’uomo, che non sarà mai sfiorato dal pentimento o almeno dal ripensamento per gli orrori compiuti.
Escamotage narrativo fondamentale del testo è però l’analisi psicologica che l’autrice compie sul protagonista, disegnato attraverso i rapporti con la famiglia di origine, con la moglie Irene e con Teresa, una ebrea assoldata quale collaboratrice ad Auschwitz come una personalità contraddittoria e fortemente complessata. Mengele non sembra avere davvero un’anima e l’esperienza brasiliana gli confermerà che non potrà mai trovare pace. Del resto non troverà mai nemmeno la punizione terrena.

Marco Ferrazzoli


Margherita Nani, “L’ospite. Le anatomie di Josef Mengele” (Brioschi, 2019)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Una donna tra amore e malattia

Scritto dall’editor e critica letteraria, Giovanna De Angelis, stroncata prematuramente nel 2013 da un male che ha voluto raccontare in questo unico e postumo romanzo, il cui tema centrale è proprio la malattia della protagonista, Francesca, in lotta contro un ‘mostro’ incurabile


La giovane protagonista vive a Roma e fa la traduttrice, è sposata con Cosimo, ha una madre assente, un’amica attenta e frequenta il vecchio professore dell’università a cui la lega la passione per la traduzione. Un giorno incontra Diego, un ricercatore universitario, con il quale inizia una storia, fatta di poche parole e incontri sessuali che si consumano su un “divano letto tappezzato di velluto a coste verde scuro”.
Di colpo, arriva la malattia, il dolore, che “è solo di chi lo prova e di nessun altro”, e l’ospedale con la sua routine, “la terapia, il reparto che riapre le porte, una mascella di ferro, plastica e vetro pronta a masticarla e a risputarla fuori barcollante e col sangue pulito”. Francesca vive da ammalata senza rinunciare a combattere per mantenere la sua identità e per ottenere un’altra possibilità.
La narrazione in terza persona del libro, diviso in due parti – ‘Il vento’ e ‘Lo schianto’ – si alterna a brevi pagine di diario dove la malattia non viene esibita, ma diventa un osservatorio da cui scrutare la vita degli altri. Una lettura che propone la sofferenza della protagonista in modo delicato e aiuta a guardare oltre, per dare il giusto peso alle cose.

Marina Landolfi


Giovanna De Angelis, “La frattura”, Elliot (2015 )



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Robert Walser, la costruzione dell’invisibilità

Nel suo ‘Verso il bianco’, lo psicologo e psicoterapeuta Paolo Miorandi racconta la vicenda umana e letteraria dello scrittore svizzero a partire dalla foto che ne ritrae il corpo esanime nella neve. Una morte che lo stesso Walser aveva anticipato alcuni decenni prima in un proprio romanzo. E che giunge dopo ventitré anni di ricovero in manicomio


Lo psicologo e psicoterapeuta Paolo Miorandi racconta nel suo ‘Verso il bianco’ la vicenda umana e letteraria di Robert Walser. Lo fa analizzando alcune foto, a partire da quella scattata dalla polizia che ritrae lo scrittore svizzero morto, riverso nella neve, a breve distanza dalle orme della sua ultima passeggiata (percorso che oggi fa parte del Robert Walser Pfad, sentiero letterario inaugurato nel 1986). La cosa incredibile è che alcuni decenni prima Walser aveva descritto questa stessa scena, con precisione quasi assoluta, nel suo ‘I fratelli Tanner’: il giovane Simon, protagonista del romanzo, “sale verso il monte, la neve scricchiola sotto la suola delle sue scarpe […] A metà della salita, Simon vede un uomo sdraiato sulla neve in mezzo al sentiero […] Il corpo è rigido e senza vita […] Simon riconosce l’uomo: è Sebastian, il poeta […] Un riposo splendido – continua Simon rivolgendosi al poeta sdraiato nella luce bianca – questo giacere e irrigidirsi sotto i rami degli abeti nella neve. È il meglio che tu potessi fare”.

La morte che Walser aveva in qualche modo vaticinato giunge dopo ventitré anni di ricovero nel manicomio di Herisau, dove lo scrittore è stato condotto dalla maggiore delle due sorelle, Lisa, che si dichiara impossibilitata ad accudirlo e che è impaurita da certi comportamenti sessuali del fratello. Robert la ricambierà rifiutandosi di incontrarla quando lei, gravemente malata, esprimerà il desiderio di vederlo. A completare lo scenario della disgraziata famiglia, il fratello Ernest, anch’egli internato e morto in manicomio per dementia praecox: finito “dalla parte in cui non c’è più il sole”, scrive Robert. Se si aggiunge che “probabilmente Walser è morto vergine” a causa “di una forma nervosa di impotenza”, coltivando – come il suo collega Gottfried Keller, anima che sente particolarmente affine – la convinzione che “la favola del corteggiamento è sempre la stessa: comincia soave e piacevole e finisce penosamente”, il quadro di un’assoluta desolazione sentimentale ed emotiva è completo.
Ma l’internamento e la scomparsa di Walser si inquadrano in qualche modo anche in quella Svizzera che la scrittrice Fleur Jaeggy ha definito “un’arcadia della malattia”, dove “qualcosa di malato e torbido” si agita “dietro ai giardini curati e alle finestre dai davanzali perennemente fioriti”. Il libro è il resoconto di una sorta di pellegrinaggio che Miorandi conduce a Herisau e nei luoghi walseriani, attratto dalla capacità dello scrittore di “trasformare la sconfitta in qualcosa che non so nominare ma che ha il chiarore di una disarmante conclusiva bellezza”. Pur essendo un paziente calmo, Walser in manicomio rifiuta qualunque privilegio e, in particolare, l’opportunità che gli viene offerta di scrivere, dicendo di trovarsi lì “per fare il matto”. Al giovane medico che se lo prende a cuore, risponde: “In clinica ho quel che mi occorre, la pace”. Una pace “semplice e ben scandita” da ritmi lenti e regolari in cui si alternano la sveglia, il lavoro, i pasti, il riposo. “A Herisau lavora alla costruzione della propria invisibilità” e di questa silente sofferenza restano solo “i microgrammi”, cioè “cinquecentoventisei piccoli fogli contenuti in una scatola da scarpe” e scritti in una grafia minutissima, quasi illeggibile.
“Walter Benjamin ha scritto che le storie di Walser iniziano laddove terminano le fiabe”, ricorda Miorandi: “Il lampo di inquietante felicità che ci trasmettono è dovuto al fatto che sono guariti e poco importa che si tratti di una guarigione temporanea e che in ogni momento possano precipitare nuovamente nella follia”.

Marco Ferrazzoli


Paolo Miorandi, “Verso il bianco” (Exorma, 2019)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni