Meriti e limiti della rivoluzione basagliana


Le voci delle persone fuoriuscite dai manicomi raccolte dall’autore, testimonianze di vite che rinascono, in un testo che offre un’ampia comprensione di un momento cruciale della storia della psichiatria.

 

Negli anni ’70, Peppe dell’Acqua è un giovane psichiatra che collabora con Franco Basaglia. Di quella rivoluzione cui partecipò in prima persona, resta una testimonianza ricca e complessa in “Non ho l’arma che uccide il leone” (il titolo prende spunto dall’opera naive di un paziente del manicomio triestino di San Giovanni), un libro che smentisce recisamente il diffuso luogo comune sull’“incurabilità” della malattia mentale, riportando casi di persone tornate ad una vita dignitosa e socialmente accettabile.

In tal modo, però, dell’Acqua conferma anche i due limiti ancora insuperati della riforma basagliana. Intanto, nessuna “guarigione” è possibile senza un contesto disponibile ad accogliere la persona con problemi psichici, eventualmente uscita da un percorso ospedaliero. Psichiatra, terapia e farmaci possono smussare i sintomi, aiutare il paziente a ritrovare e mantenere l’equilibrio, che però rimane fortemente a rischio senza una famiglia, un gruppo amicale, un ambiente di lavoro, un paese, un quartiere o una città che forniscano un supporto sociale e affettivo adeguato. Proprio sulla carenza di tale sponda si è infranta la piena applicazione della Legge 180, spesso limitatasi “italianamente” a scaricare sulle famiglie il peso di persone talvolta pericolose da un punto di vista della sicurezza, propria e altrui. Un problema reso ancor più drammatico dalla deriva che ci sta portando verso una società sempre più alienante e alienata, priva di senso comunitario e di partecipazione.

L’altro importante aspetto documentato dal libro, riproposto da Stampa Alternativa con una prefazione inedita dello stesso Basaglia, è la situazione manicomiale italiana dell’epoca: lager nei quali si praticavano con indifferenza – a volte con sadica superficialità – elettroshock, lobotomia e pratiche contenitive ai limiti della tortura, specie per gli ‘agitati’. E’ qui però l’altro limite dell’esperienza triestina: superato l’orrore del manicomio coattivo, restituita al malato di mente la sua dignità di persona intangibile nei diritti fondamentali, non sappiamo ancora quale sia la “salute” cui possa essere condotto. Oltre a intervenire sulla sintomatologia e sulla sofferenza, la psichiatria cosa può e deve fare?

Il libro, nel rispondere a questa domanda, risente dell’impostazione pericolosamente ambigua riassunta da una frase di Basaglia: ‘La follia è vita, tragedia, tensione. E’ una cosa seria. La malattia mentale, invece, è il vuoto, è il ridicolo”. La malattia mentale, come e più di ogni malattia, è soprattutto dolore. E cosa sia la follia, probabilmente, ancora non lo sappiamo.

 

Marco Ferrazzoli

 

Peppe dell’Acqua, “Non ho l’arma che uccide il leone” (Stampa Alternativa, 2007)

Francesca Blasi

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