La parabola dei ciechi

Hofmann mostra cosa i più provano davanti alla disabilità:paura, disgusto e pietà.

[…] Non ti vediamo affatto, guardiamo solo nella direzione da cui proviene la tua voce, sciocchino.

Comunque, dice il bambino a chi-ha-bussato, non sono tutti ciechi.

Tutti, dice chi-ha-bussato, altrimenti non verrebbero dipinti. Una sera d’estate, in cui faceva molto caldo ed essi sedevano sotto un ciliegio, sono arrivati degli uccelli. Si sono appollaiati sulle loro spalle e con il becco gli hanno cavato gli occhi.

Che tipo di uccelli?

Cornacchie o corvi.

Ed essi non hanno reagito?

Accadde tutto molto rapidamente, dice chi-ha-bussato.

È vero?, chiede il bambino e si gira di nuovo verso noi.

Si, vero, diciamo, e annuiamo.

E perché vi hanno cavato gli occhi?

Perché abbiamo ucciso i loro piccoli.

E perché avete ucciso i loro piccoli? 

Non potevamo più sentire lo schiamazzo, o comunque pensavamo di non esserne capaci.

Solo che alcuni sostengono che non si è trattato di corvi o di cornacchie, ma di taccole, dice chi-ha-bussato.

[…] Hei, tu, chiediamo procedendo, ci sono uomini qui?

Si, dice il bambino.

Quanti?

Devo contarli?

No. Press’a poco.

Forse dieci.

Dove?

Davanti alle loro case.

E che cosa vogliono?

Vedervi.

Allora ci guardano?

Sì.

Adesso?

Sì, adesso.

Ah, va bene, diciamo. E, come sempre quando ci osservano, a fatica ci avviciniamo l’uno all’altro, e volgiamo lo sguardo ostentatamente verso l’alto, e ci rendiamo conto di essere guardati, sia da vicino che da lontano. Un mostro marino noi siamo, quando passiamo così per i villaggi, un insieme che si muove con difficoltà, silenzioso e indistinto. Quando si espone alla vista, s’imbatte nella paura, nel disgusto e nella pietà.

[…] Pietà per i ciechi, gridiamo e agitiamo i bastoni affinchè ci scansino. (se poi non temono più i nostri bastoni, gli mostreremo gli occhi.) Chiediamo allora dei corvi, e chiediamo anche della stagione, perché non siamo mai sicuri. Di certo è una giornata fredda, ma che significa in una regione con un inverno così lungo? Chiediamo: primavera? Primavera, dicono loro. Chiediamo : fra breve? Sì, fra breve. E allora primavera, pensiamo e cerchiamo di annusare nel vento un po’ di tepore, mentre rinfrancati avanziamo lentamente. Forse è la piazza del villaggio, quella per la quale ci trasciniamo, ma forse non lo è.

Devo guidarvi?, chiede il bambino, ma noi non rispondiamo. Gridiamo : pietà per i ciechi.

Sì, prendili per mano e portali al tavolo con il cibo, dice chi-ha-bussato, saranno affamati.

Sempre affamati, diciamo.

[…] ecco il cibo, dice il bambino, è tutto per voi. E prende le nostre mani e le posa sul pane e sulle pentole e ci spinge intorno al tavolo. Cerchiamo tastoni il cibo per sapere che cosa c’è. Mettiamo persino le mani nel latte che sta vicino al mangiare, tiepido ci scorre addosso. Ma questo lo conosciamo. Di continuo prendiamo cose che non abbiamo previsto. Se addirittura non afferriamo qualcosa che non esiste.

[…] Ehi, gridiamo, che c’è da guardare così a bocca aperta?

Non guardano a bocca aperta, dice chi-ha-bussato.

E se noi sentiamo che guardano a bocca aperta?

Non guardano a bocca aperta, dice lui.

Ah, diciamo, che facciano pure. E prendiamo prima da questa poi da quella scodella, prima cibi freddi, poi bollenti e poi ancora tiepidi. Arriva un venticello e siamo contenti di avere i nostri camiciotti. Con il cucchiaio prendiamo anche la broda, che è dolce, non salata, e la infiliamo in bocca. Guarda come si sbrodolano, dicono.

Sì, diciamo, ci sbrodoliamo.

Allora ridono e dicono: continuate così. A sudare e a ingozzarvi.

Grazie, diciamo.

[…] strano che egli voglia dipingere proprio noi, pensiamo. Perché la gente non ci vede volentieri neanche non dipinti, cioè così come siamo. Già da lontano, quando ci vede arrivare, ci scansa, si appiattisce passandoci accanto. Perché al contrario dei nostri compari, gli storpi, noi non portiamo fortuna. Se dipendesse dalla gente, ci scaverebbe una profonda buca nella terra, ci getterebbe dentro e la ricoprirebbe per bene, per eliminarci, altro che dipingerci. Altro che fissarci dipingendoci, duplicarci attraverso la pittura.

[…] Va bene, diciamo. Allora, chiediamo, hai il tuo bastone?

Sì, dice Ripolus, il mio bastone è qui. E con questo cammina tastoni sul terreno, affinché noi lo si possa sentire. 

Bene, diciamo, e ora tendilo, perché tu sappia dove metti i piedi. Perché anche noi si sappia dove mettiamo i piedi, quando ti seguiamo. Tendilo, Ripolus, tendilo, gridiamo.

Sì, dice Ripolus, ora lo tendo. E dove andiamo? Chiede, dopo che abbiamo camminato per un po’. Perché la terra del signore, che per tutti è infinita per noi è ancora più grande. E tuttavia siamo sempre in grado di andare avanti, solo ci si chiede per dove. Perché è certo che non andiamo solo diritto, ma anche qua e là, e non solo in avanti, ma anche indietro o in tondo. Ben presto il villaggio pi piccolo si fa interminabilmente lungo, e uno di noi si attacca all’altro o si appoggia al bastone e deve prendere per bene fiato se vuole continuare. Una gruccia non sarebbe male. Con il suo aiuto voleremmo a bassa quota, teste insaccate, sopra la terra. Ma questo significa essere zoppi, non solo ciechi come noi. Accontentiamoci dunque di ciò che abbiamo, avanziamo strisciando con i nostri bastoni! O brandiamoli contro ciò che ci sbarra il passo, gli uomini, il loro bestiame, i loro carri.

Gert Hofmann

Treccani Enciclopedia Online

Gert Hofmann, “La parabola dei ciechi” (1985)

Cecità

Non vede solo chi non vuole vedere.

A mio parere, non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono.

[…]“Posso diventare tuo discepolo?”

“Sei un discepolo solo perché i tuoi occhi sono chiusi. Il giorno che li aprirai vedrai che non c’è niente che tu possa imparare da me o da chiunque altro.”

“A che serve, allora, avere un maestro?”

“A farti capire l’inutilità di averne uno.”

[…] Essere un fantasma dev’essere questo, avere la certezza che la vita esiste, perché ce lo dicono quattro sensi, e non poterla vedere.

[…] Se vuoi vedere, guarda.

Se vuoi guardare, osserva.

Josè Saramago

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Josè Saramago, “Cecità” (1995)

Il paese dei ciechi

Lo scrittore inglese George Wells Herbert mostra come la vita da ciechi sia possibile grazie alla compensazione degli altri sensi.

Le loro bestie vi si trovarono bene, e si moltiplicarono. Una sola cosa offuscava la loro contentezza; ma bastava ad offuscarla gravemente. Un male strano li aveva assaliti, colpendo di cecità tutti i figli che avevano avuto lassù, ed anzi colpendo anche alcuni dei maggiori.

Egli aveva ridisceso le gole, a prezzo di fatica, difficoltà e pericoli, appunto per cercare un antidoto o un talismano contro quella cecità. A quei tempi, in casi del genere, gli uomini non pensavano a bacilli e infezioni, bensì a peccati, e a lui era sembrato che il motivo di quella piaga dovesse risiedere nella negligenza di quegli immigrati senza prete, che non avevano costruito una cappelletta appena penetrati nella valle.

[…] E tra la sparuta popolazione di quella valle ormai isolata e dimenticata, la malattia seguì il suo corso. I vecchi, diventati mezzi ciechi, andarono a tastoni, i giovani ci videro appena, e i figli che misero al mondo non ci videro affatto. Ma la vita era molto facile in quella conca orlata di nevi, ignota al mondo intero, priva di spine e rovi, senza insetti nocivi n‚ animali all’infuori dei miti lama delle mandrie ch’essi avevano tirato, spinto, seguito su per il letto angusto dei corsi d’acqua, in fondo alle gole attraverso le quali erano saliti. A quelli che ci vedevano, la vista si era abbassata per gradi, tanto che quasi non si accorsero della perdita. Avevano guidato i ragazzi privi della vista, qua, là, ovunque, tanto che questi conobbero tutta la valle a meraviglia; e quando l’ultimo residuo di vista si spense, tra loro, la razza sopravvisse. Avevano persino fatto in tempo ad adattarsi per adoperare il fuoco alla cieca, accendendolo cautamente in forni di pietra. All’inizio erano una stirpe di gente semplice, analfabeta, appena sfiorata dalla civiltà spagnola, ma nella quale sussisteva ancora un poco la tradizione artistica e la filosofia perduta dell’antico Perù. Una generazione seguì l’altra. Essi dimenticarono parecchie cose, altre ne escogitarono. La tradizione dell’esistenza d’un più vasto mondo, dal quale erano venuti, si fece vaga, prese il colore del mito. Tranne che nella vista, erano, in tutto il resto, forti ed abili, e non tardò che, al caso delle nascite e dell’ereditarietà, comparve tra loro un individuo d’intelletto originale, dotato di parola persuasiva, poi un altro ancora.

[…]”Tra i ciechi l’orbo d’un occhio è re, tra i ciechi l’orbo d’un occhio è re”

[…]Erano ciechi da quattordici generazioni, completamente segregati dal mondo dotato di vista, e il nome di ogni cosa attinente al senso ottico si era cancellato o trasformato, la storia del mondo esterno si era cancellata, trasformata in una fiaba, ed essi avevano perso ogni interesse per tutto ciò che stava al di là dei pendii rocciosi, incombenti sul loro muro di cinta. Erano sorti, tra loro, ciechi geniali, che avevano messo in discussione gli ultimi brandelli delle credenze e delle tradizioni di un tempo in cui possedevano ancora la vista, negandole come vane bubbole e sostituendole con altre e più assennate spiegazioni. Buona parte della loro immaginazione si era disseccata come i loro occhi, ed essi si erano procurati altre immaginazioni in base alla sensibilità sempre maggiore delle orecchie e dei polpastrelli

[…]Un poco seccato, Núñez gli tenne dietro. “Verrà il mio momento”, disse. “Imparerai”, disse il cieco. “C’è tanto da imparare al mondo”. “Nessuno ti ha mai detto che tra i ciechi l’orbo è re?. “Ciechi? cosa vuol dire?”, domandò con indifferenza il cieco senza girare la testa

[…] loro sensi avevano acquistato un’acutezza meravigliosa: erano in grado di udire e valutare il minimo gesto di un uomo da dodici passi di distanza; di sentirne persino il battito del cuore. Da un pezzo, per loro, le intonazioni della voce avevano sostituito le espressioni del viso, il tatto aveva sostituito i gesti; e lavoravano di zappa, vanga o forcone con la stessa facilità e sicurezza che se si fosse trattato di giardinaggio. Possedevano un senso dell’odorato finissimo, straordinario, tale da poter distinguere Prontamente le diversità individuali, come fanno i cani. E badavano al bestiame (i lama, che vivevano tra le rocce in alto e venivano a cercar cibo e ricovero presso il muro) con disinvoltura e tranquillità.

George Wells Herbert 

Treccani Enciclopedia Online

George Wells Herbert, “Il paese dei ciechi” 

Cieca di Sorrento

Vicenda tormentata e avventurosa, piena di colpi di scena, nella Napoli dell’Ottocento.

Il marchese Rionero, giovane diplomatico napoletano, durante un viaggio governativo a Parigi conosce e s’innamora di Albina, vaga e nobile fanciulla, che poi sposa a Napoli. Una bambina, Beatrice è il primo ed unico frutto del loro amore.

Durante un viaggio diplomatico del marchese, Albina e Beatrice restano sole nella loro villa di Portici dove una notte avviene un fatto atroce. Un ladro penetra nella camera dove dormono madre e bambina per involare un cassettino contenente gioielli d’immenso valore. Albina si sveglia al rumore del ladro e si sveglia pure Beatrice che comincia a piangere per lo spavento, il ladro per farla tacere la sta per pugnalare, ma la madre le fa da scudo e un colpo di coltello al cuore la finisce; il ladro omicida s’invola con il cassettino dei gioielli e Beatrice in preda alle convulsione e allo spavento, la mattina la trovano semiviva. Ma la bambina però non era morta, ma una orrenda convulsione nervosa le aveva strappato la parte più cara della vita. Beatrice era cieca.

Il ladro omicida era un giovane calabrese, Nunzio Pisani, che aveva lasciato il suolo nativo per cercare fortuna a Napoli; suo complice fu il notaio Tommaso Basileo, che grazie alla sua attività notarile aveva saputo delle ricchezze che si trovavano nella casa di Portici ed era anche riuscito a conoscere il giorno opportuno per compiere il furto, appunto durane l’assenza del marchese. Dopo il furto i due complici si dividono e il cassetto delle gioie rimane nella mani del calabrese che lo mette al sicuro, sotterrandolo sotto una quercia, e né a notizie al notaio tramite una lettera, raccomandandogli di far pervenire la sua parte alla famiglia in Calabria nel caso in cui fosse stato scoperto catturato. Evento che avviene; il Pisani viene catturato, processato, e ritenuto colpevole di furto e omicidio viene condannato a morte e afforcato, senza rilevare il nome del complice né dove ha nascosto i gioielli.

Il notaio recupera in seguito il tesoro, ma si guarda bene di far recapitare la parte spettante al suo complice, 10.000 ducati, alla sua famiglia. Diciassette anni più tardi Gaetano, figlio di Nunzio, decide di trasferirsi anch’egli, insieme ad una sorella e un’anziana nonna, a Napoli, per avere notizie del padre, ma soprattutto per continuare i suoi studi in medicina. Scopre che il padre è morto giustiziato per furto e omicidio, ma ignora il nome della vittima Albina, il cui consorte Rionero, insieme alla piccola cieca, dopo il tragico avvenimento, si è ritirato in una villa nella quiete Sorrento, dove conducono una vita molto ritirata. Il marchese si dedica completamente a sua figlia, e non manca di consultare i migliori specialisti, nella speranza di veder un giorno guarita la figlia dalla cecità.

Gaetano per pura combinazione diventa commesso nella curia del notaio Tommaso Basileo, e sempre per una felicissima combinazione gli viene tra le mani la lettera che Nunzio Pisani inviò al notaio dove invitava il complice a dare metà del furto dei gioielli alla sua famiglia nel caso fosse caduto nelle mani della giustizia. Grazie a questa lettera Gaetano entra in possesso della parte del bottino che gli spetta, aumentato dagli interessi maturati in 17 anni, e riesce a carpire la somma di 20.000 ducati all’avaro notaio che il seguito muore di crepacuore. Gaetano è diventato ricco e siccome la sorella prima e la nonna poi erano morte, libero di sé, comincia un viaggio di studio, prima in Italia e poi in Europa, e alla fine si ferma in Inghilterra dove diventa ricco e famoso grazie alla sua arte.

In questa nazione cambia pure i connotati e diventa Oliviero Blackman, ricco di sostanze e di doti mediche, ma con un carattere schivo e cinico, dovuto in parte anche dalle sue sembianze fisiche decisamente brutte: è gobbo, deforme e strabico.

Un nobile napoletano, in viaggio di piacere a Londra lo convince a venire in Italia, a Sorrento da un suo amico, il marchese Rionero che ha una figlia cieca, ed è in cerca di un abile specialista per far guarire la figlia. Oliviero accetta l’invito del nobile e fa il viaggio in Italia e arriva a Sorrento, dove conosce Rionero e Beatrice, e qui succede una cosa che Oliviero non avrebbe mai pensato: s’innamora della vaga Beatrice. Dopo averla visitata, capisce che la ragazza può guarire in seguito ad un suo intervento. Così pone al marchese una condizione terribile, ridare la vista alla figlia, ma in cambio la ragazza deve essere sua! Il marchese si trova in una posizione estremamente imbarazzante, anche perché la ragazza è promessa sposa di un tal cav. Amedeo Santoni, un opportunista, che non ama la bella cieca, ma ambisce alle sue ricchezze e a suo titolo nobiliare, ed anche il Marchese non è attratto dalle brutte fattezze del medico inglese.

L’indecisione di Rionero si risolve dopo che scopre che la figlia non ama Amedeo, e soprattutto dopo che riesce a scoprire le ambigue mire del Santoni. Così il marchese, dopo aver avuto il consenso dalla figlia, che brama riacquistare la vista, anche se deve poi sposare un deforme, accetta le condizioni di Oliviero. Beatrice, grazie all’intervento agli occhi riacquista la vista. Per lei si riapre un mondo nuovo dopo 17 anni di buio. Oliviero dal canto suo subisce una trasformazione morale notevole, anche grazie all’esempio del marchese Rionero, persona esemplare, e diventa devoto e sociale.

Arriva il giorno delle sospirate nozze, tutto sembra procedere per il meglio, ma pochi momenti prima che i due sposi si devono recare nella stanza nuziale e quando il padre abbraccia per l’ultima volta la figlia, scopre che sul suo dito Oliviero ci ha posto lo stesso anello che egli aveva messo al dito della moglie Albina. Si viene così a scoprire che sua figlia Beatrice ha sposato Gaetano Pisani, il figlio dell’assassino di sua madre. Infatti l’anello che Oliviero Blackman, alias Gaetano Pisani, faceva parte dei gioielli involati da suo padre 17 anni prima alla misera Albina. Beatrice che ha assistito alla scena sviene e cade in deliquio. Nel corso della notte, Gaetano sta per suicidarsi con del veleno, ma viene fermato in tempo dal marchese che ha bisogno ancora di lui: Beatrice sta morendo. Il marchese comunque perdona a Gaetano di esser figlio dell’assassino di sua moglie, per lui è sempre Oliviero Blackman, lo sposo di sua figlia. Beatrice sembra riprendersi, «ma la scena dell’anello avea gettato nel seno di Beatrice il germe dell’atroce morbo che la troncava lo stame di vita».

Infatti dopo pochi mesi la vaga Beatrice muore lasciando pieni di cordoglio Rionero e Gaetano che otto giorni dopo la morte di Beatrice, lasciano Napoli a bordo di un vapore che li porta nelle Americhe avendo deciso di onorare la memoria di Beatrice amando e consolando i loro fratelli che piangono.

Treccani Enciclopedia Online

Francesco Mastriani, “La cieca di Sorrento” (1952)

‘E cecate a Caravaggio

Il poeta napoletano Salvatore Di Giacomo descrive teneramente la cecità in una poesia degli anni ’20 del Novecento.

Dimme na cosa. T’ allicuorde tu
e quacche faccia ca p”o munno e’ vista,
mo ca pe’ sempe nun ce vide cchiù?

Sì, m’ allicordo; e tu?-No, frato mio;
io so’ nato cecato. Accussì ncielo,
pe mme murtificà, vulette Dio…

Lassa sta’ Dio!…Quant’ io ll’ aggio priato,
frato, nun t”o puo’ manco mmaggenà,
e dio m’ ha fatto addeventà cecato. (…)

E se stettero zitte. E attuorno a lloro
addurava ‘o ciardino, e ncielo ‘o sole
luceva, ‘o sole bello, ‘o sole d’ oro…

Salvatore Di Giacomo

Raccolta completa

Salvatore di Giacomo, “Poesie” (Riccardo Ricciardi editore, 1920)

Il grillo del focolare

La novella di Charles Dickens si svolge intorno alle vicende di una famiglia umile e, soprattutto, all’amore di un padre per sua figlia cieca.

Ho detto che Caleb e la sua povera figliuola cieca vivevano l’; ma avrei dovuto dire invece che Caleb ci viveva, ma la sua povera figliuola cieca viveva in un altro posto, in una casa incantata[…] […] Caleb non era uno stregone; ma possedeva soltanto l’unica arte magica che ancora ci rimane: la magia di un amore devoto e immortale.

[…] la fanciulla cieca non seppe mai che il soffitto era scolorito, le pareti coperte di macchie e qua e là prive di intonaco; che vi erano grandi crepature mai otturate […] non seppe mai che il ferro era rugginoso, il legno marcio […] che i pochi capelli di Caleb incanutivano ogni giorno di più […] non seppe mai che essi avevano un padrone freddo, esigente ed egoista; non seppe mai, per dirla breve, che Tackleton era Tackleton. Viveva credendo nell’esistenza di un umorista eccentrico, il quale si divertiva a scherzare con loro, era l’angelo custode delle loro vita, ma sdegnava di ricevere anche una sola parola di ringraziamento.

[…] <<Io non posso permettermi di cantare>>, disse Tackleton. <<sono felice che voi lo possiate, e spero che possiate anche permettervi di lavorare. Non mi pare che si possa avere il tempo per l’una e l’altra cosa.>>

<<Se tu potessi soltanto vederlo, Berta, come mi sta strizzando l’occhio>> mormorò Caleb. <<Gli piacciono tanto gli scherzi! Se tu non lo conoscessi, potresti quasi credere che parli sul serio, no?>>

La fanciulla cieca sorrise e accennò di sì col capo.

[…] <<è sempre così allegro e scherzoso con noi!>> gridò Berta sorridendo.

<< Oh, ci siete anche voi>>, risposte Tackleton. << Povera idiota!>>

Era realmente convinto che fosse un’idiota, e fondava questa sua convinzione, non so se consciamente o inconsciamente, sul fatto che essa gli era affezionata.

[…] << Cara Mary, un momento, un momento! Ancora un’altra cosa, Parlami con dolcezza. So che dici la verità; non vuoi certo ingannarmi adesso, non è vero?>> […] <<Mary quarda dall’altra parte della stanza, là dove eraamo poco prima, e dove ora è mio padre, mio padre così compassionevole e così affettuoso verso di me, e dimmi che cosa vedi.>>

<<Vedo>> disse Dot, che l’aveva compresa perfettamente, <<un vecchio seduto su una sedia e appoggiato dolorosamente alla spalliera, con la faccia che riposa su una mano come se attendesse di esser confortato dalla sua figliuola>>

[…] << è un vecchio logorato dalle preoccupazioni e dal lavoro; è un uomo misero, umiliato, preoccupato, canuto. Lo vedo in questo momento, completamente abbattuto, lottare contro non so che cosa.[…] […] La cieca si allontanò da lei e, cadendo in ginocchio davanti a lui, prese quella testa canuta e se la attirò al seno.

<< ho ritrovato la vista. Questa è la mia vista>>, grido. <<Sono stata cieca e ora ho gli occhi aperti. Non l’avevo mai conosciuto! E pensare che avrei potuto morire, senza aver mai veduto veramente il padre che mi ha voluto tanto bene!>>

<< […] quanto più sei canuto e logoro, tanto più mi sei caro papà. Nessuno deve mai più dire che sono cieca. Non c’è una ruga nel suo viso, non c’è capello sulla sua testa che sarà dimenticato nelle mie preghiere e nei miei ringraziamenti al Cielo!>>

Charles Dickens

Treccani Enciclopedia Online

Charles Dickens, “Il grillo del focolare” (1845)

La cecità in Pascoli

“Il cieco” 

Chi  l’udi prima piangere? Fu l’alba.

Egli piangeva; e, per udirlo, ascese

Qualche ramarro per una vitalba.

E strettero, per breve ora, sospese

Su quel capo due grandi aquile fosche.

Presso era un cane, con le zampe tese 

All’aria, morto; tra un ronzio di mosche.

“Donde venni non so; nè dove io vada
saper m’è dato. Il filo del pensiero
che mi reggeva, per la cieca strada,
da voci a voci, dal dì nero al nero
tacer notturno (m’addormii; sognai:
vedevo in sogno che vedevo il vero:
desto, più non lo so, nè saprò mai…);

nel chiaro sonno, in mezzo a un rombo d’api,
si ruppe il tenue filo. E poi che gli occhi
apersi, cerco i due penduli capi
in vano. Mi levai sopra i ginocchi,
mi levai su’ due piedi. E l’aria invano
nera palpo, e la terra anche, s’io tocchi
pure il guinzaglio, cui lasciò la mano

addormentata. Oh! non credo io che dorma
la mia guida, e con lieve squittir segua
nel chiaro sonno il lieve odor d’un’orma!
Egli è fuggito; è vano che l’insegua
per l’ombra il suono delle mie parole!
Oh! la lunga ombra che non mai dilegua
per la sempre aspettata alba d’un sole,

che di là brilla! Vano il grido,

vano il pianto. Io sono il solo dei viventi,

lontano a tutti ed anche a me lontano.

Io so che in alto scivolano i venti, 

e vanno e vanno senza trovar l’eco,

a cui frangere al fine i miei lamenti;

a cui portare il murmore del cieco…

[…] Chi che tu sia, che non vedo io, che vedi
me, parla dunque: dove sono? Io voglio
scansar l’abisso che mi sento ai piedi…

di fronte? a tergo? Parlami. Il gorgoglio
n’odo incessante; e d’ogni intorno pare
che venga; ed io qui sto, come uno scoglio,

tra un nero immenso fluttuar di mare,

Così piangeva: e l’aurea sera nelle
rughe gli ardea del viso; e la rugiada
sopra il suo capo piovvero le stelle.

Ed egli stava, irresoluto, a bada
del nullo abisso, e gli occhi intorno, pieni
d’oblio, volgeva; fin ch’— io so la strada —

una, la Morte, gli sussurrò ― vieni! —

“Il fringuello cieco” 

Finch… finché nel cielo volai,
finch… finch’ebbi il nido sul moro,
c’era un lume lassù, in ma’ mai,
un gran lume di fuoco e d’oro,
che andava sul cielo canoro,
spariva in un tacito oblìo…

Il sole!… Ogni alba nella macchia,
ogni mattina per il brolo,
– Ci sarà? – chiedea la cornacchia;
– Non c’è più! – gemea l’assiuolo;
e cantava già l’usignolo:
– Addio, addio dio dio dio dio… –
Ma la lodola su dal grano
saliva a vedere ove fosse.
Lo vedeva lontan lontano
con le belle nuvole rosse.
E, scesa al solco donde mosse,
trillava: – C’è, c’è, lode a Dio! –

“Finch… finché non vedo, non credo”
però dicevo a quando a quando.
Il merlo fischiava – Io lo vedo -;
l’usignolo zittìa spiando.
Poi cantava gracile e blando:
– Anch’io anch’io chio chio chio chio… –

Ma il dì ch’io persi cieli e nidi,
ahimè che fu vero, e s’è spento!
Sentii gli occhi pungermi, e vidi
che s’annerava lento lento.
Ed ora perciò mi risento:
– O sol sol sol sol… sole mio? –

Giovanni Pascoli

Treccani Enciclopedia Online

Giovanni Pascoli, “Il cieco” (poemetti)

Giovanni Pascoli, “Il fringuello cieco” (Canti di Castelvecchio)

Tiresia

Odisseo discende negli inferi e l’indovino Tiresia gli predice il tormentato ritorno in patria a causa di Poseidone.

Dicevo: ‹Circe, mantieni la promessa che mi facesti, di lasciarmi andare a casa. Ormai lo desidero anch’io, e sono impazienti gli altri compagni: mi rodono l’anima di continuo, sospirando intorno a me quando tu sei lontana.› «Così dicevo. E lei subito mi rispondeva, la divina tra le dee: ‹Sì, Odisseo, non rimanete più ormai contro voglia nella mia casa. Ma voi dovete prima compiere un altro viaggio e andare alle case di Ade e della terribile Persefone per consultare l’anima del tebano Tiresia, l’indovino cieco. Hai da sapere che il suo spirito vitale è immutato: a lui, anche dopo la morte, Persefone concesse la mente. Lui solo ha sentimento e intelligenza. Gli altri invece svolazzano laggiù come ombre.›

[…] «E venne avanti l’anima della madre morta: sì, Anticlea, la figlia del magnanimo Autolico, che lasciavo viva partendo per Ilio. E io a vederla piansi ed ebbi compassione: tuttavia neppure così, sebbene fossi profondamente addolorato, la lasciavo accostarsi al sangue prima d’interrogare Tiresia.

«E venne avanti l’anima del tebano Tiresia. Aveva in mano lo scettro d’oro: mi riconobbe e disse: ‹O figlio di Laerte, discendente di Zeus, Odisseo versatile e scaltro, perché mai, infelice, hai lasciato la luce del sole, e giungesti qui a vedere i morti e la regione che non ha gioia? Ma scostati dalla fossa, tieni lontano la spada: voglio bere del sangue e dirti poi la verità.›

«Così parlava. Ed io mi trassi indietro e cacciai giù nella guaina la spada.

«E lui, quando ebbe bevuto il sangue nero, allora mi rivolgeva parole, l’indovino irreprensibile. Diceva: ‹Il ritorno tu cerchi di conoscere, glorioso Odisseo, il dolce ritorno in patria, che un dio ti renderà doloroso. Non riuscirai, io penso, a sfuggire all’Enosigeo che ti serba rancore in fondo all’animo. Egli è adirato perché gli accecasti il caro figlio. Ma anche così tornerete pur sopportando sventure, se vorrai frenare la voglia tua e dei compagni, non appena accosterai la nave all’isola Trinacria  scampando al mare.

Omero

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Omero, Odissea

Senso di libertà

Tiziano Terzani riceve la diagnosi di cancro e, gradualmente, conquista una sensazione di libertà e felicità.

Si sa, capita a tanta gente, ma non si pensa mai che potrebbe capitare a noi. Questo era sempre stato anche il mio atteggiamento. Cos’ quando capitò a me, ero impreparato come tutti e in un primo momento fu come se davvero succedesse a qualcun altro. <<Signor Terzani, lei ha un cancro>>, disse il medico, ma era come non parlasse a me, tanto è vero – e me ne accorsi subito, meravigliandomi- che non mi disperai, non mi commossi: come se in fondo la cosa non mi riguardasse.

Forse quella prima indifferenza fu solo un’istintiva forma di difesa, un modo per mantenere un contegno, per prendere le distanze, ma mi aiutò. Riuscire a guardarsi con gli occhi di un sé fuori da sé serve sempre. Ed è un esercizio, questo, che si può imparare. Passai ancora una notte in ospedale, da solo, a riflettere, pensai a quanti altri prima di me, in quelle stesse stanze, avevano avuto simili notizie e trovai quella compagnia in qualche modo incoraggiante. Ero a Bologna. C’ero arrivato attraverso la solita trafila di piccoli passi, ognuno di per sé insignificante, ma nell’insieme decisivi, come tante cose nella vita: una persistente diarrea incominciata a Calcutta, vari esami all’Istituto delle Malattie tropicali a Parigi, atri esami per scoprire la causa di un’inspiegabile anemia, finchè un accorto medico italiano, non accontentandosi delle spiegazioni più ovvie, s’era messo con un suo strano strumento, un penetrante serpentaccio di gomma dall’occhio luminoso, a guardare nei recessi più reconditi del mio corpo e, per coltivata esperienza, aveva immediatamente riconosciuto quel che conosceva.

[…] il cancro mi offriva una buona occasione: quella di non ripetermi. Non era la sola. Lentamente mi accorsi che il cncro era diventato anche una sorta di scudo dietro il quale mi proteggevo, una difesa contro tutto quel che prima mi aggrediva, una sorta di baluardo contro la banalità del quotidiano, gli impegni sociali, contro il fare conversazione. Col cancro omi ero conquistato il diritto di non sentirmi più in dovere di nulla, di non avere più sensi di colpa. Finalmente ero libero. Totalmente libero. Parrà strano, e a volte pareva stranissimo anche a me, ma ero felice.

Tiziano Terzani

Scheda dell’editore

Tiziano Terzani, “Un altro giro di giostra”, (2004, Longanesi)

Colpa delle stelle

John Green affronta il tema del cancro dando voce a due adolescenti: Hazel, una granata sul punto di esplodere, e Augustus che sembra essersi lasciato alle spalle un osteosarcoma.

“Io non esco” ho detto. “Non voglio uscire con nessuno. È un’idea terribile e un enorme spreco di tempo e…”
“Tesoro” ha detto la mamma. “Cosa c’è che non va?”
“Sono una… una… una granata, mamma. Sono una granata e a un certo punto esploderò e vorrei minimizzare le vittime, okay?”
Mio padre ha piegato la testa come un cucciolo rimproverato.
“Sono una granata” ho detto di nuovo. “Voglio starmene lontana dalla gente e leggere libri e riflettere e stare con voi, perché non c’è niente che possa fare per non ferire voi, siete troppo coinvolti, quindi per favore lasciatemi stare, okay? Non sono depressa. Non ho bisogno di uscire di più. E non posso essere un’adolescente normale, perché sono una granata.”
“Hazel” ha detto papà, e poi ha singhiozzato. Piange un sacco, il mio papà.
“Vado in camera mia a leggere un po’, okay? Sto bene. Sto bene sul serio; voglio solo andare un po’ a leggere.”

[…] A volte vorrei solo che non fosse accaduto. Il cancro, dico.

[…] Quando è venuto il suo turno ha sorriso un po’. Aveva una voce bassa, fumosa, eccitante da morire. “Mi chiamo Augustus Waters” ha detto. “Ho diciassette anni. Ho avuto un lieve osteosarcoma un anno e mezzo fa, ma oggi sono qui solo su richiesta di Isaac.”
“E come ti senti?” ha chiesto Patrick.
“Oh, a meraviglia.” Augustus Waters ha sorriso con un angolo della bocca. “Sono su una montagna russa che va solo in salita, amico mio.”

John Green

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John Green, “Colpa delle stelle” (2012, Rizzoli)