Sigmund Freud, Vienna, con Charcot a Parigi, la scuola ipnotica, l’inconscio, i tabù, la psicanalisi… Difficile dire che la vita e l’opera di Freud non siano un romanzo, in senso figurato ma anche letterale. Irving Stone in questo libro le racconta entrambe. Dalla famiglia al lavoro, dal successo agli incontri con Carl Gustav Jung e Albert Einstein. Il celebre critico letterario Harold Bloom, nel “Canone occidentale”, ha inserito Freud nel suo elenco degli scrittori più importanti di ogni tempo. A “Leggere Freud” ci invita Sergio Benvenuto
La pretesa di leggere Freud con occhi e orecchi vergini cercando di intendere l’essenziale della sua scrittura, può muovere all’ilarità più di un lettore, in particolare chi si rifà al relativismo ermeneutico. Non esistono letture trasparenti di un testo, tanto più di un autore morto che non può più puntualizzare o correggere. Ogni autore, ogni epoca, legge “il classico” (possiamo considerare Freud un classico moderno) secondo proprie griglie date dai propri interessi, priorità, saperi, domande, pregiudizi, giudizi previ, del proprio tempo. Insomma, anche se possiamo leggere un testo con maggiore o minore rigore filologico, non possiamo leggere un testo del passato obiettivamente. La questione del “come leggere” un testo è una delle più complesse. Inoltre questa questione è interna alla psicoanalisi stessa, nella misura in cui l’analisi è una certa lettura della parola dei soggetti. La questione di come leggere oggi i testi psicoanalitici si embrica quindi alla questione di capire su quale tipo di lettura – o ascolto – la psicoanalisi si basa.
Maurizio Bettini dedica il suo volume ‘Viaggio nella terra dei sogni’ ai tanti pittori, registi, fotografi che si sono cimentati con quest’oggetto inafferrabile, grazie anche a un corredo di immagini ricco e di ottima qualità, per quanto non si debba ridurre a mero catalogo un libro che è un saggio in piena regola
(copywrite immagine: mulino.it)
Curiosamente, nel cospicuo elenco di fonti citate da Maurizio Bettini in calce al suo ‘Viaggio nella terra dei sogni’, manca Akira Kurosawa. Eppure il cineasta giapponese in una delle sue ultime fatiche si impegnò nel tentativo estremamente arduo, e solo in parte riuscito, di trasformare in film il liquido mondo onirico: impalpabile, fragile, evanescente, come giustamente lo definisce il volume. Anche chi non avesse visto quella pellicola del 1990, ‘Sogni’, avrà però sperimentato l’inefficacia del racconto, proprio o di qualcuno, quando si prova a tradurre in parole quell’esperienza così unica. Nonostante ciò, o forse proprio per questo, la traduzione verbale del sogno è un topos centrale della psicanalisi, Freud è citatissimo, così come quella figurativa è un luogo non meno frequentato dell’arte. Bettini dedica il suo volume proprio ai tanti pittori, registi, fotografi che si sono cimentati con quest’oggetto inafferrabile, grazie anche a un corredo di immagini ricco e di ottima qualità, per quanto non si debba ridurre a mero catalogo un libro che è un saggio in piena regola. Per restare al cinema, si pensi a ‘Le notti bianche’, ‘Il terzo uomo’, ‘Otto e mezzo’, ‘Inception’, ‘Matrix’ e ‘Io ti salverò’ di Hitchcock, con scene di Salvador Dalì. Anche per le arti si apre una galleria amplissima dove ovviamente predominano le correnti più vocate, a partire dal surrealismo e da nomi e opere come ‘La chiave dei sogni’ di Magritte, i fratelli De Chirico e Savinio, il Dalì di ‘Sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melagrana’ e de ‘Il ponte dei sogni’, ‘Foto questo è il colore dei miei sogni’ di Mirò. Non meno cospicua la presenza della mitologia della quale l’autore, in quanto classicista, è un esperto: l’eponimo Oneiros, Hypnos il dio del sonno, indicativamente e inquietantemente gemello di Thanatos, Endimione, Penelope… Ma l’iconografia e la letteratura incluse in questo ‘Viaggio’ sono davvero ampie e abbracciano da Igor Mitoraj al pupazzetto Lego, interprete di un’esilarante vignetta (È sempre lo stesso sogno, cerco di correre ma i piedi mi rimangono attaccati al pavimento); dalle citazioni più note come le shakespeariane “La sostanza di cui sono fatti i sogni” e ‘Sogno di una notte di mezza estate’ e ‘Il sonno della ragione genera mostri’ di Goya, ai meno scontati fumetti e manga; dall’Ermafrodito dormiente su un materasso in marmo di Carrara realizzato dal Bernini fino alla smorfia napoletana e alle foto di Maplethorpe. Si viaggia tra sogni erotici, premonizioni, incubi (da evidenziare il ruolo del diavolo incubo e succubo secondo la ‘Summa Theologiae’ di San Tommaso), insonnia; tra i sogni biblici e cristiani di Costantino, della Vergine, di Giuseppe, Giacobbe, e anche islamici (il viaggio notturno di Maometto nell’aldilà). Tanto interesse nell’immaginario è accentuato dalla conoscenza razionale del sogno, che resta un po’ a margine del volume. I progressi delle neuroscienze e delle neuro-immagini ci consentono di capire sempre meglio cosa avvenga nel nostro cervello mentre dormiamo e persino di cercare di guidarlo: app, elettrodi, sonno polifasico, ipotermia indotta, ausilii, sogno lucido e riposo vigile, braccialetti smart, conservazione della qualità del sonno, tecniche per pilotare le visioni… Le frontiere sulle quali la ricerca è impegnata sono affascinanti, non meno delle immagini e delle parole che l’arte continua a regalarci.
Marco Ferrazzoli
Maurizio Bettini, “Viaggio nella terra dei sogni”, Il Mulino (2017)
Down: una parola straniera? Una notizia travolgente? Un’etichetta? Una sindrome?
Una persona, un fratello, una questione di sguardo.
Abbiamo una cosa da dirvi… Riguarda vostro fratello.
Papà le strinse la mano.
– Vostro fratello… – disse, e fece una pausa. – Ecco, vostro fratello sarà… speciale.
Io e Chiara ci scrutammo l’un l’altra muovendo solo gli occhi.
– Speciale? – disse lei.
– In che senso speciale? – chiesi io.
– Nel senso, – disse papà, – che sarà… diverso. Affettuoso, anzitutto. Molto. Moltissimo. E poi sorridente e gentile. E tranquillo. E con i suoi, ecco, diciamo con i suoi tempi.
Sollevai un sopracciglio: – I suoi tempi?
– E altre cose sue speciali che ancora non sappiamo, – sorrise mamma.
– Quindi è una buona notizia? – chiese Chiara.
– Non è solo una buona notizia, – disse papà serio. Aggrottò la fronte in un modo buffo e la macchina cominciò a gonfiarsi e a sgonfiarsi come se stesse respirando con noi. – È molto di piú, – disse. – È una notizia travolgente –. Poi si girò e accese la radio. […]
– In che senso da dove arriva?
– Non è di questo pianeta. È evidente.
– Te l’avevamo detto, – disse lui, stringendomi la spalla con una mano cosí calda e ferma che con quella mano sulla spalla, giuro, sarei stato capace di andare ovunque nel mondo, affrontare qualunque cosa. – L’avevamo detto che era speciale.
Annuii.
Anzitutto gli occhi. Gli occhi erano cinesi, o venusiani forse, non sapevo decidermi; o di qualche altro pianeta con cristalli luminosi che sbucavano dalla sabbia e dieci lune viola nel cielo. Anch’io ho un taglio degli occhi un po’ orientale, in questo si vede che siamo fratelli, ma i suoi erano proprio tanto orientali. E poi la nuca. La nuca era piatta come una pista di atterraggio per microscopiche navicelle spaziali; se si fosse messo a quattro zampe potevi usarla come vassoio. Ma nulla mi colpí come le dita del piede che era scivolato fuori dalle coperte e che muoveva con scatti elettrici. Perché di dita, Giovanni, in quel piede, ne aveva quattro. O meglio, s’intuiva che potenzialmente erano cinque, ma il quarto e il quinto – il minolo e il pondolo – erano fusi insieme. Come due Kit Kat. […]
Aveva la copertina blu, un blu mogio e polveroso, e l’avevo intercettato già diverse volte, in camera da letto o sulla poltrona in salotto. Cosí, un giorno che stavo ciondolando per casa, finii per avvicinarmi e prenderlo in mano. Lessi l’autore, uno straniero, e il titolo, che conteneva anch’esso una parola straniera, e che quella parola era straniera lo sapevo perché c’era la lettera w. Noi non abbiamo tante lettere w o x nella lingua italiana, pensai. La parola era Down. La lessi pronunciandola: dovn. Prima di quella c’era la parola sindrome. Non sapevo cosa volesse dire sindrome, non sapevo cosa volesse dire Down. Lo aprii e, come sempre accade quando ci sono delle pagine piú spesse, il libro si spalancò su una fotografia. Sgranai gli occhi. È Giovanni, pensai. […]
Ecco, allo stesso modo, interrogavo i miei genitori sui problemi di Gio. Sui suoi limiti, evidenti come il panino alla Nutella che mangiavo a merenda. E interrogavo soprattutto me stesso. Non mi interessavano piú le cause, quelle ormai erano cose passate. Pensavo piú che altro al suo futuro. Lui che non riusciva a imparare i numeri, come avrebbe fatto a pagare dal panettiere? Lui che aveva impiegato anni per parlare – e avrebbe sempre parlato male – come avrebbe fatto a scrivere? Se non sapeva né contare né scrivere, non avrebbe mai trovato un lavoro. Mi chiedevo perché avesse messo gli occhiali cosí presto: nessun altro bambino li portava. Mi chiedevo perché non ascoltasse niente, perché non capisse niente. Addirittura – fu la cosa che mi sconvolse di piú – non avrebbe mai potuto fare le capriole. […]
Prima di quel giorno pensavo che il silenzio fosse assenza di rumore. Invece il silenzio è un suono, e c’è silenzio e silenzio. In quella mezz’ora, il silenzio mi parlò: mi disse che Gio aveva bisogno di me, costante bisogno di me; e io capii che ormai, senza Gio, non ci volevo piú stare a questo mondo. I suoi problemi erano i miei. E i miei problemi? A quelli ci avrei pensato da solo, senza disturbare; avrei trovato una soluzione. O almeno ci speravo. […]
Fu come il sole di mattina, quando filtra attraverso la tapparella che cerca di chiuderlo fuori e lui no, liquido e imprescindibile non si lascia imbrigliare, s’infila in ogni buco, in ogni fessura. Pensai ad Alice, alla sua reazione di fronte al bambino con il fucile. Pensai a Chiara, a quando aveva detto lascialo fare, che non è detto che le storie debbano sempre finire come sono state scritte. Ecco. Chi è che aveva scritto la nostra storia? Chi è che aveva sceneggiato la relazione tra me e Giovanni, e tra me, lui e il mondo, chi? Nessuno. Eravamo noi gli scrittori. Mia poi era la responsabilità di decidere come sarebbe finita la nostra storia. Nessuno instillava la paura del giudizio nel mio cuore, ero io a nutrirla.
Giacomo Mazzariol
Giacomo Mazzariol, “Mio fratello rincorre i dinosauri”, Einaudi, Torino, 2016
Paolo Milone racconta i suoi quarant’anni di lavoro in Psichiatria d’urgenza; un diario di incontri e scontri, di appunti brevi, di pensieri nudi e crudi, che diventano poesie da rileggere, da assaporare, da mandare giù.
Avendo fuggito ogni altro lavoro per paura, mi ritrovo a fare il lavoro che fa piú paura a tutti. […]
L’euforia è solo uno dei tanti disturbi mentali: in altri il paziente è indifferente allo spazio, in altri ancora, impensabile ma vero, è angosciato dallo spazio. Il mondo è pieno di depressi che dormono su un divano senza neanche mettersi il pigiama,
o sul bordo del letto senza neanche tirare su il lenzuolo, molti dormono su una sedia. Se gli dai un letto matrimoniale, dopo un mese è intatto. Preferiscono cosí. Non è di spazio esterno che hanno bisogno. […]
C’è chi ritiene che il ricovero in Psichiatria sia la cosa piú brutta al mondo. Talvolta la vita è ancora piú brutta. Gli animali feriti si nascondono in una tana e si leccano le ferite: Psichiatria è una tana. […]
Il bene e il male che facciamo a un’altra persona si riverbera e si propaga in mille modi
tra i suoi parenti, amici e conoscenti e, nel tempo, si trasmette a tutti i discendenti. Sarà qualcosa di infinitesimo, un movimento atomico, un’ombra, un fremito, ma esiste e si diffonde nell’universo. Vedi, Giulia, noi contribuiamo a migliorare o peggiorare l’universo, e, su questo, abbiamo una responsabilità. […]
È triste Lucrezia scoprirti un giorno mentre stai litigando a voce alta con nessuno. Con che foga protesti, ribatti, chiedi scusa, insulti. Sola nella stanza. Sei l’accusatrice che ingiuria e minaccia battendo i piedi per terra, con i capelli scompigliati, poi sei la vittima che allarga le braccia piangendo e singhiozza. […]
Il sarto vede tutti mal vestiti, il parrucchiere, tutti spettinati, il cappellaio, tutti senza cappello, il fisioterapista, tutti sciancati, e io, psichiatra, vedo tutti matti. […]
Una notte insonne è breve per consolarsi del giorno prima. Una notte insonne è breve per prepararsi al giorno dopo. Aspra è la mattina: si riaprono i cassetti e riaffiorano i coltelli. […]
Ignorare la morte non rende immortali. Neanche pensarci di continuo rende immortali. Forse pensarci ogni tanto? […]
Non ci si uccide per una sofferenza quantitativamente piú grande – il suicidio avviene in uno stato mentale qualitativamente diverso. Nessuna fantasia o esperienza dei viventi può aiutare a capire.[…]
Temi che le medicine si impossessino della tua mente e per questo le rifiuti. Sbagli, Livia: è la depressione che si impossessa della mente, le medicine restituiscono la chiave al proprietario. […]
Noi veniamo al mondo non quando usciamo dal corpo della madre, ma quando la madre ci abbraccia e ci riconosce e, senza parole, ci contiene ancora in sé: in questa matrice noi ci costruiamo. La sacralità di questo abbraccio primigenio si riverbera e balugina in alcune contenzioni che noi facciamo. […]
L’arte di legare le persone. Legare le persone al letto. Legare le persone a te. Legare le persone alla realtà
Legare le persone a se stesse. Legare le persone è un’arte. Inconoscibile.
Paolo Milone
Paolo Milone, “L’arte di legare le persone”, Einaudi, Torino, 2021
È la settimana dei mondiali del ’94, cinque uomini la passano nel reparto di psichiatria a seguito di un trattamento sanitario obbligatorio, meglio conosciuto come TSO. Daniele, appena ventenne, è la voce narrante, che racconta l’emarginazione, la paura, il dolore, ma anche la tenerezza, il conforto e la saggezza di uomini che implorano solo salvezza.
Ho paura, vorrei vicino a me la mia famiglia, la mia casa, la mia stanza. So perché mi trovo qui, so quello che è successo. La vergogna, i sensi di colpa, il ricordo di ieri sera mi travolge, vorrebbe tramutarsi in pianto. Ma non ce la faccio. […]
Mi piacerebbe dire a mia madre ciò che mi serve veramente, sempre la stessa cosa, da quando ho urlato il primo vagito al mondo. Quello che voglio per tanto tempo non è stato semplice da dire, tentavo di spiegarlo con concetti complicati, ho trascorso questi primi vent’anni di vita a studiare le parole migliori per descriverlo. E di parole ne ho usate tante, troppe, poi ho capito che dovevo procedere in senso contrario, così, di giorno in giorno, ho iniziato a sfilarne una, la meno necessaria, superflua. Un poco alla volta ho accorciato, potato, sino ad arrivare a una parola sola. Una parola per dire quello che voglio veramente, questa cosa che mi porto dalla nascita, prima della nascita, che mi segue come un’ombra, stesa sempre al mio fianco. Salvezza. Questa parola non la dico a nessuno oltre me. Ma la parola eccola, e con lei il suo significato più grande della morte. Salvezza. Per me. Per mia madre all’altro capo del telefono. Per tutti i figli e tutte le madri. E i padri. E tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri. La mia malattia si chiama salvezza, ma come? A chi dirlo? […]
“Che cura può esiste per come è fatta la vita, voglio di’, è tutto senza senso, e se ti metti a parla’ di senso ti guardano male, ma è sbagliato cerca’ un significato? Perché devo avere bisogno di un significato? Sennò come spieghi tutto, come spieghi la morte? Come se fa ad affrontare la morte di chi ami? Se è tutto senza senso non lo accetto, allora vojo mori’.” […]
“Lei prima ha detto che il mio problema potrebbe essere semplicemente chimico, magari fosse così, se fosse solo una questione di chimica basterebbe aggiungere, o diminuire, io sarei il ragazzo più felice del mondo, ma per ora tutto quello che ho provato non ha cambiato niente.” […]
“Lo stregone è arrivato» mi fa Mario, guardando in direzione della porta. La sua definizione mi fa sorridere. «Perché stregone?» «Perché dalla punta dei piedi sino al collo la scienza qualcosa ha capito, ma di qui sopra» e si indica la testa, «ancora niente, stiamo ancora al tempo della stregoneria, sono mutati i riti, le formule magiche, le erbe sono diventate pasticche, ma la verità è che la medicina brancola nel buio, magari domani si svegliano e ci dicono che la malattia che ci avevano affibbiato non è così certa, che il meccanismo d’azione di questa o quella cosa non è come avevano sempre pensato.” […]
“Questi sono posti che non vanno tanto a braccetto con la ragione, ma il rispetto verso gli altri è il primo comandamento, tanto ci pensiamo noi a farci del male.” […]
“Qui dentro la condanna non è il TSO, magari fosse quello, la vera pena affibbiata dal destino sta nella reiterazione del vissuto, come le repliche di uno spettacolo, un’eterna prima teatrale.” […]
“A te dico più o meno la stessa cosa: fidati pure dei farmaci, dei medici, ma non smettere di lavorare su te stesso, di fare di tutto per conoscerti meglio.” […]
“Per esempio ho capito che l’intelligenza è sopravvalutata, come la stupidità sottovalutata, che bene e male esistono veramente, che l’uomo può perdere tempo prezioso in mille modi stupidi, il più stupido di tutti è giudicare gli altri, perché è troppo facile, perché non serve né a noi né agli altri” […]
“Un uomo che contempla i limiti della propria esistenza non è malato, è semplicemente vivo. Semmai è da pazzi pensare che un uomo non debba mai andare in crisi.” […]
Forse, questi uomini con cui sto condividendo la stanza e una settimana della mia vita, nella loro apparenza dimessa, le povere cose di cui dispongono, forse loro, malgrado tutte le differenze visibili e invisibili, sono la cosa più somigliante alla mia vera natura che mi sia mai capitato d’incontrare. […]
La vera pazzia è non cedere mai. Non inginocchiarsi mai.
Ida Bauer è – nello pseudonimo assunto nella letteratura freudiana – Dora, il più noto caso di cui Freud si occupa a Vienna. Raccoglie molteplici vite in una sola, condotta a cavallo tra l’illusione ovattata della luccicante “belle époque” e il secondo conflitto mondiale. Katharina Adler, la pronipote, ne raccoglie la storia nel suo primo romanzo
“Lei, lei solo avrebbe d’ora in avanti deciso della sua vita”. Questa è la decisione che Ida Bauer prende all’inizio del nuovo anno e del nuovo secolo, nel 1901, quando, camminando lungo la Berggasse di Vienna, torna a casa sua dallo studio del dottor Sigmund Freud. Che, ha deciso, non vuole più rivedere. Ida è la prima paziente ed è il primo grande fallimento del padre della psicoanalisi, che non ha ancora fatto i conti con il controtransfert ma è costretto a farli con il netto rifiuto che la giovane oppone alla spiegazione fornitale per la sua isteria. Ida Bauer è – nello pseudonimo assunto nella letteratura freudiana – Dora, il più noto caso di cui Freud si occupa a Vienna. Raccoglie molteplici vite in una sola, condotta a cavallo tra l’illusione ovattata della luccicante “belle époque” e il secondo conflitto mondiale. Ed è Katharina Adler, la pronipote di Ida, a raccoglierne la storia nel suo primo romanzo, nominato per il Klaus-Michael Küne Prize e il Zdf Aspekte literatupreis e pubblicato in traduzione italiana da Sellerio. Nelle pagine del romanzo ripercorriamo la storia di una donna divisa tra la consapevolezza di sé e una società ancora troppo patriarcale, stretta nella dinamica familiare e sociale della Vienna ebraica altoborghese, con le sue ipocrisie e i suoi occultamenti. Incluso quello dell’abuso subito da parte di Hanns Zellenka, la cui moglie è anche l’amante di suo padre. Questi intrecci complicano la situazione sanitaria della paziente di Freud, che comprende come il contesto che la circonda sia talmente soffocante da ammalarla, emettendo la diagnosi di “isteria”: ma Ida-Dora non accetta. “Lei sapeva bene quali conclusioni trarre, aveva detto. Tanto più che, come se non bastasse, se l’era voluta filare”. Adler traccia un ritratto preciso della Dora-Ida che impara a camminare sulle sue gambe, prendendo man mano coscienza di sé, di quello che è stata e di ciò che vuole essere, nonostante una lunga serie di rinunce: in primis, quella agli studi che avrebbe prediletto. Seguiamo l’evolversi della vita di questa donna tra salti in avanti e indietro e gli stralci freudiani del “Frammento di un’analisi d’isteria” e – con la sua – seguiamo le esistenze di moltissime donne, perché in Ida vivono la bambina molestata, la figlia ribelle e acuta, la sorella devota, la sposa delusa, la madre apprensiva e la vedova rassegnata. Non solo un racconto biografico, dunque, bensì lo sguardo che solitamente non viene considerato né riconosciuto, la versione dei fatti al femminile che assume anche la valenza di rivincita su un mondo maschile che pretende di chiudere in una sola parola, isteria, un universo complesso e sconosciuto ai più. Tutto viene filtrato attraverso la lente della tenacia che anima Ida Bauer, fino a “quando con calma attenderai che la luce in sala si spenga. Quando il buio calerà e si alzerà il sipario”.
Di esperienze, tra cui quelle sanremesi, ne ha collezionate molte. Abbina collaborazioni, ispirazioni e modalità sempre nuove, dalla canzone al “teatro civile”, dalla musica ai libri, dai video ai fumetti: il suo primo maestro è stato Jacovitti. Temi centrali: la poesia, la follia, la memoria storica
Si è svolto di recente un Sanremo anomalo, unico, per la mancanza di pubblico e la carenza di ospiti dovute alla pandemia, che si sono riflesse anche in un pesante calo di ascolti. In passato, però, il Festival è stato l’occasione per la scoperta, il rilancio o l’esplosione di molti artisti italiani: tra questi, Simone Cristicchi, che di esperienze sanremesi ne ha collezionate diverse. In particolare nel 2007 quando, con “Ti regalerò una rosa”, ha vinto il Festival e i premi della Critica e Radio Tv, aggiungendoci un disco d’oro e un tour con più di 100 eventi live. Difficile comunque ricordarne tutti i riconoscimenti, dai premi Gaber ed Endrigo al Cilindro d’argento dedicato a Rino Gaetano; e poi la Targa Tenco, i premi Musicultura, Mogol, Giancarlo Bigazzi, Anna Magnani, Tomizza, Dante musica e parole (assegnato dall’Accademia della Crusca), Amnesty Italia, Nassiriya per la pace, la cittadinanza onoraria di Trieste. A colpire di questo artista è soprattutto l’eclettismo, che lo porta ad abbinare collaborazioni, ispirazioni e modalità espressive sempre diverse, tra cui quella del “teatro civile” legato a temi sociali e storici spinosi. “In tutte le mie esperienze – spiega – ho però cercato di portare un tratto di originalità: ogni allievo, a un certo punto, deve recidere il nastro che lo lega al maestro. È stato questo il più grande insegnamento che ho ricevuto da Jacovitti”.
Partiamo da questa sua origine artistica, che forse non tutti conoscono Sono stato sin da piccolo un appassionato di disegno e fumetto e Jacovitti, all’epoca in cui i miei coetanei stravedevano per Silvester Stallone, Rambo e Rocky, era lui il mio idolo. Così sono stato suo allievo. Quando andai a imparare da lui conobbi da un lato un uomo burbero, come lo immaginavo, dall’altro una figura tenera, quasi paterna. Agli inizi mi limitavo a imitarlo come una fotocopiatrice umana, lui mi rimproverò ma mi prese sotto la sua ala protettrice con grande pazienza.
Tempo dopo sono arrivati il teatro civile, o “teatro canzone” L’innamoramento per questa forma d’arte straordinaria, un’invenzione tutta italiana. Di Giorgio Gaber mi colpì particolare la capacità, con le sue invettive inarrivabili, di non distaccarsi mai dai fatti storici. Ma ricordiamo anche Ascanio Celestini, il “Vajont” di Marco Paolini. E poi Gigi Proietti: lo vidi e teatro quando avevo 16 anni, stette tre ore da solo sul palco, uno sforzo incredibile, davvero “uno contro tutti”. Nella mia formazione e ispirazione ha avuto un ruolo importante anche mio nonno, che era un grande narratore. Il mio è un percorso con molte tappe, fino a un certo punto fatto solo di musica e concerti, poi ho avvertito il bisogno di misurarmi con il monologo, che è stato un po’ come cimentarmi nelle Olimpiadi, considerando che non ho mai frequentato una scuola di teatro.
Si è cimentato anche con temi storici non sempre “pacificati”: come mai in Italia fatichiamo a condividere la nostra memoria? Io credo che la memoria condivisa sia possibile, la parte che la rifiuta è una minoranza infinitesimale. Chi ha criticato “Magazzino 18”, il musical che ho dedicato al dramma delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, appartiene a un’area estremistica. Inizialmente ho provato a dialogare con queste persone poi, quando la contestazione si è fatta più dura, come per una rappresentazione a Scandicci, ho capito che non era possibile. In quell’occasione mi sono sentito sia imbarazzato per loro sia divertito, visto che così hanno dato allo spettacolo una pubblicità enorme, che ha contribuito a realizzare 300 repliche sold out.
A proposito di memoria dolorosa, è stato anche direttore artistico del Teatro dell’Aquila. Che ricordo ne porta? Durante l’incarico ho avvertito la responsabilità di rappresentare una città sofferente, ancora in piena rinascita e ricostruzione, con una ferita non rimarginata. Io ho provato a farla vedere da un’altra prospettiva, producendo con il Teatro Stabile d’Abruzzo lo spettacolo “Manuale di volo per uomo”. Una favola in musica e poesia su un quarantenne bambino, che trova stupefacente qualunque cosa guardi e che non sappiamo se considerare un “ritardato” o un genio. Io lo definisco un “super-sensibile”, capace di mettere a fuoco particolari che nascondono un’infinita bellezza, apparentemente insignificanti ma che non dovremmo lasciarci sfuggire.
Un tema, quello delle sensibilità sbrigativamente classificate come malattia mentale, che torna in molte sue opere. Come mai? Il mio mondo è stato molto abitato dalla malattia mentale, io stesso ho camminato sul filo della follia. Ero bambino quando morì mio padre e quel dolore mi spinse al rifiuto della realtà: per anni mi sono rinchiuso nella mia stanza, creando un mondo tutto mio, di fantasia, fumetti, poesia, un mondo perfetto in cui nulla poteva ferirmi. Poi arrivò l’interesse per i “matti” del quartiere dove vivevo. Ho avuto anche un amico con problemi di dipendenza che finì in ospedale per un Tso, il Trattamento sanitario obbligatorio: andando a trovarlo scoprii una realtà che ignoravo completamente, quella dei “nuovi” manicomi.
Per lei è diventata una sorta di battaglia civile. Lo stigma del malato di mente resta irraccontabile, ma io cerco di rappresentare le storie di queste persone dimenticate, abbandonate in un reparto: con la mia piccola telecamera sono stato nel manicomio calabrese di Girifalco, ho realizzato un viaggio per gli ospedali psichiatrici d’Italia. Sono nati così opere come “I matti de Roma”, “Centro di igiene mentale”, che racconta la mia esperienza di servizio civile, l’album e il documentario “Dall’altra parte del cancello” e, naturalmente, “Ti regalerò una rosa”.
La sofferenza dell’attuale pandemia, il lockdown e la riduzione dei contatti sociali non le ricordano un po’ quell’isolamento? Per noi artisti questo è stato un trauma reale. A me sono state cancellate all’improvviso 60 date, un danno economico enorme, personale e per il mio staff. Ma ho cercato comunque di prendere questo evento come un regalo: da una vita estremamente movimentata mi sono ritrovato a vivere in campagna, a contatto con me stesso, con il tempo di pensare e di scrivere un album e un libro, “Abbi cura di me”. In attesa di tornare a percorrere la mia strada.
Quali altre tappe prevede? Molte, tra cui “Happy next – Alla ricerca della felicità”, uno spettacolo e documentario con canzoni, racconti e video che considero una priorità, la condivisione di una mia scoperta. Attraverso la voce di personaggi dello spettacolo e della cultura, e di gente comune, cerco di rispondere alla domanda che tutti ci poniamo: che cosa è veramente la felicità?
La definizione di “ricercautore” le si adatta bene. Mi considero una sorta di rigattiere, di antiquario, continuo a scandagliare la memoria storica ma anche una geografia sconosciuta, un mondo interiore invisibile.
Alla ricerca scientifica in senso stretto è interessato? Molto. Sono curioso e affascinato soprattutto dalla ricerca che coniuga scienza e spiritualità, come la fisica quantistica. Quelle connessioni che Ervin Laszlo racconta in “Risacralizzare il cosmo”.
Lei unisce il registro ironico di “Vorrei cantare come Biagio”, brano che l’ha lanciata nel 2005, con quello serio. In questo ricorda Sergio Endrigo, con cui ha realizzato il duetto “Questo è amore” e di cui ha cantato una versione di “Io che amo solo te” Nella mia vita privata come pubblica non c’è nulla di progettuale, cerco di fare in modo che l’artista e l’uomo coincidano. Endrigo, è stato un artista equivocato, oltre che una parte del mio percorso. “Biagio” fu un brano di grande successo ma poi il tempo taglia le cose, fa affiorare l’anima autentica dell’artista che, nel mio caso, è quella emersa con “Ti regalerò una rosa”. A un certo punto ho capito che l’artista deve avere un ruolo preciso nella società, un compito, una visione. Non tornerei più a parlare di cose relativamente futili e la corda popolare dell’ironia può descrivermi solo in parte. Ora per me è importante la parola, la poesia.
In una sorta di psicobiografia, Annamaria Andreoli dettaglia la vicenda pirandelliana identificandovi una costante caratteriale che combina egocentrismo, depressione, ambizione. Lo scrittore novecentesco che meglio indagò contraddizioni, profondità, abissi dell’animo umano fu segnato dalle stesse caratteristiche di incertezza e insensatezza dei suoi personaggi e delle sue storie
Si potrebbe definire a buon titolo una psicobiografia, “Diventare Pirandello” di Annamaria Andreoli, un saggio monumentale che abbina uno stile narrativo molto coinvolto e coinvolgente a una precisione minuziosa nel dettagliare la vicenda pirandelliana. Il focus non è però meramente cronologico ma identifica, nelle vicende personali e professionali, private e famigliari, letterarie ed economiche, una costante caratteriale precisa, decisa, che potremmo definire un misto di egocentrismo, depressione, ambizione. Il successo per Luigi Pirandello giunse alle soglie della vecchiaia, coronato nel 1934 dal premio Nobel per la letteratura, travolgente e improvviso quanto planetario, forse tardivo. Arrivò dopo centinaia di novelle, racconti, romanzi, saggi e opere teatrali. Ma la vita dello scrittore novecentesco che meglio indagò le contraddizioni, le profondità, gli abissi dell’animo umano (assieme a diversi altri colleghi, Italo Svevo in primis) fu segnata dalle stesse caratteristiche di incertezza e insensatezza che diedero la gloria ai suoi personaggi e alle sue storie. Le “maschere” della tragicomica condizione umana sembrano insomma calzare alla perfezione anche allo stesso Pirandello uomo e scrittore: divorato dall’ansia, votato maniacalmente al proprio talento e alla propria arte, affetto per decenni da sofferenze e frustrazioni.
Il libro di Andreoli ne dà conto producendo innumerevoli spunti e riferimenti, innnanzitutto poggiando sulle lettere ai famigliari, che rivelano un coacervo di affetti, interessi, dipendenze e ricatti, finzioni e menzogne, desideri e fantasmi, realtà e invenzioni della mente. È davvero difficile leggere i documenti qui indagati – molti dei quali per la prima volta – dall’autrice senza avere l’impressione di trovarsi nel backstage teatrale o nel cantiere letterario di un’opera pirandelliana. La formazione, i viaggi e le permanenze a Palermo, Roma e Bonn, la vita intima e sentimentale, la durezza del carattere, i malesseri, i tormenti si intrecciano agli avvenimenti letterari ed editoriali in modo indissolubile. La scrittura e il bisogno assillante di denaro; il matrimonio, l’insegnamento, i contatti e i contratti patiti come ragioni di sofferenza; la rivalità con Gabriele d’Annunzio (del quale, pure, Annamaria Andreoli è una studiosa di grande esperienza): lo scrittore del Caos – come artista e come autore – fu davvero “uno, nessuno e centomila”.
L’antologia che raccoglie poesie di autori distribuite in otto secoli, facendo scoprire scrittori che non sono letterati di professione, come il fisico-matematico Sergio Doplicher, Francesco Redi, primo medico del granduca di Toscana Ferdinando II, il matematico-astronomo Eustachio Manfredi
L’antologia curata da Luca Serianni “Il verso giusto” raccoglie cento poesie di sessantatré autori, distribuite in otto secoli, una selezione “dipesa in una certa misura dal gusto personale” dell’autore con l’auspicio di assicurare una discreta rappresentanza della lirica femminile o di abbinare classici celeberrimi e poeti meno conosciuti come Giovanni Antonio de Petruciis, che, nei quattro mesi passati in carcere prima della decapitazione, scrive un’ottantina di sonetti conservati da un solo manoscritto non autografo scoperto fortunosamente nell’Ottocento. Poeti che talvolta non sono letterati di professione, quali l’insegnante valdostano Bruno Germano, l’economista Franco Tutino, il fisico e matematico Sergio Doplicher che firma con lo pseudonimo di Sergio Doraldi. Ovviamente il rasoio ha dovuto essere inflessibile, escludendo per esempio la poesia dialettale e le traduzioni, limitando anche autori particolarmente significativi a solo una poesia (tranne eccezioni al di sopra di qualunque sospetto, quali Dante e Petrarca), ricorrendo per i testi più lunghi a tagli che non hanno risparmiato neppure i Sepolcri foscoliani e “La Signorina Felicita” di Gozzano, e riducendo al minimo o sopprimendo quando superflue le notizie biografiche. Il commento invece rimane e diciamo pure che prevale, come senso dell’operazione editoriale, pur nella consapevolezza che nelle antologie poetiche le note sono state spesso guardate con sospetto perché “più adatte a fomentar la pigrizia che ad aiutare la intelligenza dei giovani” (come recitava una relazione ministeriale del 1883). Oggi però sarebbe impensabile non spiegare chi sono Dite e Sardanapalo o cosa vogliono dire “invidierà l’illusion” e “insultar de’ nembi”.
Le antologie scolastiche sono uno strumento di alfabetizzazione fondamentale, capace di lasciare nello studente un imprinting indelebile. D’altra parte, spesso si tratta di “libri concepiti più per essere adottati dagli insegnanti che non funzionali alle esigenze degli alunni”, lamenta Serianni. Nel caso specifico della poesia, poi, l’evoluzione stilistica e contenutistica recente è stata tale che, anche solo per distinguere il genere dalla prosa, il lavoro del curatore antologico è e resta fondamentale. “Nel corso del Novecento” è “tramontato il tradizionale lessico poetico”, nel contempo però quando si affronta un contemporaneo “molte cose semplicemente non possono e non devono essere spiegate”. Non pochi gli autori antologizzati che rimandano alla cultura scientifica. Francesco Redi fu in primo luogo uno scienziato di fama, primo medico del granduca di Toscana Ferdinando II, sfatò tra l’altro la leggenda della generazione spontanea degli insetti dalla carne putrefatta. Eustachio Manfredi fu matematico, astronomo ed esperto di idraulica, oltre che letterato. Giuseppe Parini nelle Odi tocca un tema di grande attualità come la necessità di vaccinarsi ne “L’innesto del vaiuolo” del 1765.
Marco Annoni, ricercatore presso l’Istituto di tecnologie biomediche (Itb), nel libro “Etica dei vaccini” (Donzelli), riflette con altri scienziati sulla campagna vaccinale in corso contro il virus SarsCoV2. Chiama così a dialogare tra loro voci provenienti da diversi ambiti scientifici
Il libro “Etica dei vaccini” (Donzelli) curato da Marco Annoni, ricercatore presso l’Istituto di tecnologie biomediche (Itb-Cnr), propone una serie di approfondimenti e riflessioni di diversi autori sulla campagna di vaccinazione contro il Covid-19. “Le malattie infettive sono parte integrante della storia dell’umanità e le continue interazioni dell’uomo con i diversi microrganismi hanno modellato, in un processo di co-evoluzione e di selezione naturale, sia il genoma degli esseri umani sia quello dei patogeni” afferma Angela Santoni, professoressa ordinaria di immunologia e immunopatologia all’Università di Roma La Sapienza. Grazie a vaccini e antibiotici, nel corso degli anni 60-70 del’900, viene dichiarata vinta la battaglia contro le malattie infettive però le illusioni vengono presto rese vane dalla comparsa di altre patologie collegate a virus infettivi, come quelle provocate dall’Hiv fino alle recenti Sars e Mers: “Un fattore determinante per la comparsa e persistenza delle malattie infettive soprattutto virali, essendo i virus incapaci di vita autonoma, è la capacità dei microrganismi di mutare velocemente il loro genoma per sopravvivere in ambienti cellulari nuovi e diversi (nicchie ecologiche) ed eludere le difese immunitarie dell’ospite”. La vaccinazione tramite inoculazione, un’arma importantissima in questa lotta, è stata introdotta in Europa “nel 1721 da Lady Wortley Montagu, moglie dell’ambasciatore inglese a Costantinopoli, dopo aver osservato tale pratica in Turchia e con straordinaria lungimiranza fatto inoculare suo figlio”. I brillanti risultati ottenuti con le vaccinazioni hanno bloccato quella che è stata definita “esitazione vaccinale”, le cui prime avvisagli affondano le radici nella seconda metà dell’800, quando venne dichiarata obbligatoria entro i tre mesi di vita la vaccinazione contro il vaiolo. Questo fenomeno di “esitazione vaccinale”, così definito dal gruppo di esperti Sage (Strategic Advisory Group of Experts on immunization) nominato nel 2012 dall’Oms, si è osservato soprattutto in Occidente. In particolare in Italia, ha determinato una forte riduzione delle vaccinazioni obbligatorie, facendo precipitare il nostro Paese nel 2013 ben al di sotto dell’asticella di sicurezza del 95% raccomandata dall’Oms. Questo non ha in alcun modo fermato l’azione salva vita dei vaccini: “Si è calcolato che i vaccini salvano circa due milioni e mezzo di vite umane ogni anno, circa cinque vite al minuto, e mai nella storia come in questo momento di pandemia da Covid-19 il destino della salute e dell’economia del nostro pianeta è stato (e presumibilmente sarà) così dipendente dai vaccini”. Quando il virus SarsCoV2, a fine dicembre 2019, fa la sua comparsa in Cina, l’umanità sembra del tutto impreparata di fronte a questa nuova realtà. Convinto che i virus pandemici fossero eventi confinati nella storia passata, il mondo si è ritrovato completamente impreparato, obbligato a ripensare le tradizionali modalità di incontro e di lavoro, con le strutture sanitarie sul punto di collassare e con le persone confinate in una sorta di isolamento sociale. Rispetto ad altre pandemie del passato, come quella dell’influenza spagnola che provocò circa 50 milioni di morti e oltre 500.000 casi di contagio, le cose sono andate molto diversamente. In brevissimo tempo, la comunità scientifica ha saputo isolare e sequenziare il virus, mettere a punto cure diverse e produrre vaccini efficaci. Tuttavia i risultati ottenuti non hanno posto fine alla crisi del SarsCoV2. Negli Stati Uniti e nel resto del mondo, quando “il 12 aprile del 1955 fu pubblicamente dichiarato che il vaccino Salk per la poliomielite si era dimostrato sicuro, efficace e potente” ci fu un tripudio di gioia collettiva. Mentre il 9 novembre 2020, “quando fu annunciato che il vaccino a mRna Pfizer-BionTech si era dimostrato efficace e sicuro, le reazioni sono state positive ma decisamente meno eclatanti”. A causa di una comunicazione scientifica spesso caotica e disordinata, dell’aggravarsi della crisi e della sfida rappresentata dalla distribuzione del siero vaccinale in tutte le parti del mondo, la notizia non è stata accolta come una liberazione. Coinvolgendo voci provenienti da ambiti diversi tra loro (immunologia, biologia, etica pubblica, diritto, filosofia della scienza, bioetica), il contributo di Evandro Agazzi, Marco Annoni, Enrico M. Bucci, Carlo Casonato, Lorenzo d’Avack, Alberto Giubilini, Manuela Monti, Telmo Pievani, Carlo Alberto Redi, Angela Santoni, Marta Tomasi, cerca di rispondere a una serie di domande: quali ragioni permettono di giustificare o contrastare l’imposizione di un obbligo vaccinale a tutta la popolazione? Come dovremmo ripensare la nostra coesistenza con altre forme di vita biologica e con gli ecosistemi per ridurre il rischio di nuove pandemie? È giusto permettere agli operatori sanitari di non vaccinarsi o ciò rientra, invece, tra i loro obblighi morali, deontologici e professionali? Quale mondo dovremmo immaginare, progettare e costruire una volta che l‘attuale emergenza sarà finalmente passata? Sono solo alcuni degli interrogativi a cui gli autori del volume hanno cercato di dare una risposta per “aiutarci a capire come dovremmo vivere e decidere in situazioni morali difficili e complesse”.