Cosa ci insegna la solitudine (dei numeri primi)

Una ricercatrice del Dipartimento di scienze biomediche (Dsb) del Cnr, alla richiesta di identificare un romanzo in risonanza con la sua materia di studio, indica “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano. “Rileggendo qualche passaggio di questa bellissima storia che lessi anni fa, mi sono resa conto di come sia anche perfettamente in simbiosi con il momento particolarmente difficile e sofferente che stiamo vivendo a causa del Covid-19”


Quando mi è stato chiesto di identificare un testo che fosse in risonanza con la materia del Dipartimento di scienze biomediche (Dsb) del Cnr mi è venuto in mente il libro “La solitudine dei numeri primi” (Mondadori) di Paolo Giordano e, rileggendo qualche passaggio di questa bellissima storia che lessi anni fa, mi sono resa conto di come sia anche perfettamente in simbiosi con il momento particolarmente difficile e sofferente che stiamo vivendo a causa del Covid-19.
Il libro, pubblicato nel 2008 dall’esordiente Paolo Giordano, ha ricevuto numerosi premi, tra cui lo Strega e il Campiello opera prima. La trama, orchestrata sui due fili paralleli delle vite dei due protagonisti, che con un primo colpo di scena si intrecciano quando Alice e Mattia incrociano i propri sguardi ancora al liceo, descrive l’esistenza dei due giovani torinesi, accompagnandoli dall’infanzia all’età matura. Alice è una bambina obbligata dal padre a frequentare la scuola di sci. E una mattina di nebbia fitta, persa nella nebbia, staccata dai compagni, se la fa addosso. Umiliata, cerca di scendere, ma finisce fuori pista spezzandosi una gamba. Rimane sulla neve credendo che morirà assiderata. Invece si salva, ma resterà zoppa e segnata per sempre.
Mattia è un bambino molto intelligente, ma ha una gemella, Michela, ritardata. La presenza di Michela umilia Mattia di fronte ai suoi compagni e, per questo, la prima volta che un compagno di classe li invita entrambi alla sua festa, Mattia abbandona Michela nel parco, con la promessa che lei lo aspetterà. Mattia non ritroverà più Michela. In quel parco, Michela si perde per sempre. Le vite di Alice e di Mattia, due esistenze segnate, si incroceranno. Diventeranno, Alice e Mattia, adolescenti, giovani, adulti. Continueranno a perdersi e ritrovarsi per finire con un’ennesima separazione, senza che riescano veramente a trovarsi e abbiano il coraggio di restare insieme.
La trama si dirama in un’alternanza esclusiva tra le storie dei due personaggi principali, parafrasi del rapporto fra Mattia e Alice, due “numeri primi” – a loro fa riferimento il titolo – per la loro unicità rispetto a tutti gli altri, ma anche “numeri primi gemelli”, che, come due numeri primi vicini ma divisi da un solo numero intero che si frappone tra loro, sono sostanzialmente simili ma non arrivano mai a toccarsi. Pertanto, in senso metaforico, i numeri primi rimandano alla solitudine, lo spazio tra l’io e il nulla è lo spazio della solitudine, quello che occupano i protagonisti di questo romanzo.
Sono due personaggi che non riescono a incontrarsi, due anime gemelle che si amano ma che non riescono a stare insieme. Questo romanzo tocca in questo modo tematiche molto importanti, come la solitudine insormontabile e le problematiche legate alla socialità, ma anche le difficoltà dei giovani moderni, dalla fuga all’estero per trovare lavoro all’anoressia e alla depressione. Il romanzo riflette in modo amaro sul mondo contemporaneo del benessere, in cui i giovani hanno tutto ciò che è materiale ma sono abbandonati alla loro solitudine.
I protagonisti, segnati da traumi che non riescono a superare, si rifugiano in sé stessi, autoescludendosi dal mondo. La solitudine è allora ciò che li accomuna ma che, per definizione, li allontana anche l’uno dall’altra.
È una lettura che segna il cuore, che riesce a trasportare nel baratro del silenzio e del dolore insieme ai protagonisti, che fa percepire l’oscurità della solitudine e del male di vivere. Un romanzo d’esordio estremamente maturo per la compiutezza del contenuto e per l’alta tensione emotiva sviluppata; un crescendo di sensazioni avviluppante l’anima del lettore, tra momenti di tenerezza, di tristezza e di speranza.
Il tema principale del romanzo riflette la tanta solitudine comparsa durante il confinamento da Covid-19: solitudini latenti ed emerse, solitudini dell’animo nonostante l’interconnessione virtuale con il mondo, solitudini degli anziani senza connessioni, solitudini delle città che rimbombano in un silenzio assordante, solitudine dei morenti… solitudine di chi non si è mai guardato dentro e non ha mai speso il proprio tempo immerso nella gioia della lettura. Ci si può augurare che questo tempo sia stato proficuo per far scoprire la lettura a chi non l’aveva mai considerata, rivelando che la libertà, le emozioni, le sensazioni, i colori, i viaggi, i profumi sono solo una piccola parte di quanto possa procurare la propria immaginazione durante la lettura di un bel libro, trasportando il lettore fuori di casa.

Elsa Fortuna


Libro: Paolo Giordano, “La solitudine dei numeri primi”, Mondadori (2008)


Fonte: Almanacco CNR – Focus, consigli di lettura

Il bestseller di Paolo Giordano diventa film

Saverio Costanzo, alla sua terza prova da regista, si cimenta nell’impresa di portare su grande schermo “La solitudine dei numeri primi”. Il libro subisce nella trasposizione cinematografica inevitabili modifiche, peraltro condivise dall’autore, che ha collaborato alla sceneggiatura. Protagonisti del film sono Alice e Mattia, due giovani introversi e solitari. Mattia si ferisce per punirsi della morte della sorella, affetta da problemi psichici, che da bambino aveva abbandonato per partecipare a una festa. Alice è claudicante a causa di una caduta sugli sci, durante una discesa a cui era stata costretta dal padre


Saverio Costanzo, alla sua terza prova da regista, si cimenta nell’impresa di portare su grande schermo il bestseller di Paolo Giordano, ‘La solitudine dei numeri primi’. Vincitore del premio Strega 2008, il libro del fisico torinese subisce nella trasposizione cinematografica inevitabili modifiche, peraltro condivise dall’autore che ha collaborato alla sceneggiatura.
Protagonisti del film sono Alice e Mattia, due giovani resi introversi e solitari dalle vicende personali rivelate dai continui flashback. Mattia si ferisce per punirsi della morte della sorella, minorata mentale, che da bambino aveva abbandonato per partecipare a una festa. Alice è zoppa a causa di una caduta con gli sci, durante una discesa a cui l’aveva costretta il padre.
Per i due incontrarsi vuol dire sottrarsi all’isolamento, ma il legame si spezza quando il giovane, divenuto un brillante ricercatore, si trasferisce in Germania per lavoro. La separazione accentua i loro disagi portando Mattia all’obesità e Alice all’anoressia. “L’anoressia nervosa fa parte dei disturbi del comportamento alimentare (Dca)”, spiega Gianvincenzo Barba dell’Istituto di scienze dell’alimentazione (Isa) del Cnr di Avellino. “Semplificando, si può dire che in presenza di una predisposizione individuale su base genetica e/o biologica, ne possono scatenare la comparsa fattori psicologici o ambientali: una violenza, traumi familiari, difficoltà a essere accettati. L’adolescente deve allora ‘difendersi'”, prosegue l’esperto del Cnr, “e per mostrare di controllare la situazione concentra la propria attenzione sul corpo, piegandolo alla propria volontà come invece non riesce a fare per l’evento scatenante. Anche nei casi in cui il giovane si sottopone a una dieta eccessiva per adeguarsi a un canone estetico, alla base, esiste un disagio non riconosciuto”.

Quali sono i sintomi del disturbo e quali le conseguenze? “Dapprima si evitano tutti i cibi ritenuti grassi, preferendo alimenti ‘sani’, con attenzione ossessiva alle calorie e alla bilancia, fino a concentrare la propria vita totalmente sul cibo, con riduzione di interesse e entusiasmo verso le normali attività della vita”, spiega Barba. “Nelle ragazze in età fertile, all’aggravarsi dello stato di malnutrizione si associa l’amenorrea, ovvero la perdita del ciclo mestruale. La malnutrizione spinta comporta un rischio di vita, in particolare un danno cardiaco da ipopotassiemia (carenza di potassio). Nel lungo termine, gli effetti della pregressa malnutrizione sono danni a organi e tessuti, soprattutto all’apparato scheletrico. La diagnosi precoceè il presupposto per la guarigione, che passa per il contrasto delle abitudini errate, il recupero funzionale completo, la prevenzione delle recidive e la ricostituzione di un benessere psico-fisico che comunque risulta minato”.
Ricco di scenografie suggestive e con una fotografia curata, la pellicola mostra una regia matura, capace di risolvere con abilità situazioni narrative complesse. Bravi tutti gli attori, in particolare i due protagonisti nelle varie età: da adulti a Mattia dà corpo Luca Marinelli mentre Alice è Alba Rohrwacher.

Rita Bugliosi


Film: di Saverio Costanzo, “La solitudine dei numeri primi”, Medusa Film (2010)

Un’epidemia che colpisce lo spirito

In questa pagina, un breve saggio critico su “La pelle” di Curzio Malaparte. Come contributi aggiuntivi, suggeriamo un’intervista con Rita Monaldi e Francesco Sorti, autori di un giallo storico ispirato a Malaparte, “Morte come me”, e un contributo dalla rivista Domus su “Casa come me”, villa-icona del Novecento, perfetta espressione della visione architettonica di Malaparte


Il gruppo di lettura Casa d’altri, insieme a Nicola Lagioia, si è riunito in un nuovo incontro online per confrontarsi sul controverso romanzo di Curzio Malaparte, “La pelle”. Nel delineare i tratti salienti della vita di un personaggio discutibile e ambiguo, Nicola ha sottolineato come in Italia la parabola biografica di Malaparte abbia influenzato la valutazione della sua opera, proiettando un’ombra sulla sua attività letteraria, mentre all’estero sia considerato uno dei protagonisti del Novecento europeo.
Curzio Malaparte è il nome d’arte di Kurt Suckert, nato a Prato e soprannominato l’Arcitaliano perché avrebbe incarnato qualità e difetti del popolo italiano, primo fra tutti il trasformismo, che era una scelta dettata da ragioni di convenienza, ma anche un tratto distintivo del suo temperamento. Fascista della prima ora, Malaparte entrò più avanti in contrasto con il regime: venne mandato al confino, dove continuò comunque a godere della protezione di alcuni gerarchi. Dopo l’8 settembre 1943 si unì come ufficiale di collegamento alle truppe americane, per cambiare ancora orientamento nel dopoguerra, avvicinandosi a Togliatti. Nel ’57, dopo una diagnosi di tumore ai polmoni, lasciò in eredità la propria casa al Partito comunista cinese e in punto di morte si convertì alla religione cattolica.

Pubblicato a puntate in Francia tra il ’47 e il ’48, uscito in Italia nel ’49, al centro di una trilogia sulla decadenza dell’Europa iniziata con Kaputt e proseguita con Il ballo al Kremlino, “La pelle” racconta l’esperienza di Malaparte al seguito degli alleati a partire dalla liberazione di Napoli.
Nicola ha osservato come il libro possa essere considerato una non-fiction novel, una forma ibrida tra romanzo, reportage letterario e giornalismo, una rielaborazione letteraria della realtà più intensa e complessa di una semplice cronaca. L’altro genere letterario anticipato dalla Pelle è quello dell’autofiction: l’io narrante è Malaparte stesso, senza nemmeno un alter ego a fargli da schermo.
All’inizio il titolo avrebbe dovuto essere La peste, cambiato a causa della pubblicazione nel ’47 del libro di Albert Camus; mentre però la peste di Camus è una metafora del nazifascismo, quella di Malaparte è la corruzione, una malattia morale portata dagli eserciti alleati a Napoli, e da lì diffusa per l’Europa: i napoletani, che durante la guerra avevano combattuto con dignità, dopo la liberazione si vendevano per salvare la propria pelle.
La Napoli della Pelle non è una città ma un continente letterario, un luogo di immaginario potentissimo e al tempo stesso immobile: è il centro della paralisi, della tragedia e dell’abiezione, e proprio per questo luogo ideale per la letteratura.

Un tema ricorrente nel libro è il rapporto tra la civiltà degli europei vinti – verticale, profonda, consapevole dell’abisso in cui è precipitata, e per questo perduta – e la civiltà orizzontale, ingenua e inconsapevole, degli americani vincitori, che in quanto tali non hanno bisogno di interrogarsi. Alla riflessione sulle macerie di un’idea di Europa amata da Malaparte si accompagna una sorta di elegia su una tradizione letteraria.
Il dialogo che si è intrecciato dopo l’introduzione di Nicola ha messo in rilievo diversi aspetti, a partire dalla profonda e struggente pietas, espressa con accenti lirici, che prevale sui momenti in cui viene raccontata l’abiezione, l’uomo che perde la sua humanitas: Malaparte riesce a darci una lezione di umanità lì dove l’umanità sembra essere negata, anche se scrive in un secolo in cui l’idea di uomo – frammentata, disgregata – è molto diversa rispetto all’epoca in cui il sentimento della pietas nasce e viene elaborato, anche dal punto di vista letterario.
Alcune lettrici hanno sottolineato la sua sofferenza davanti a un processo storico, sentito come ineluttabile, che evolve grazie alla violenza, il suo amore per i vinti accanto alla ripugnanza per l’uomo nel suo miserabile trionfo.
Qui Nicola ha collegato “La pelle” con un libro apparentemente molto distante, La Storia di Elsa Morante, mettendo in luce come entrambi scelgano di scrivere la storia dal punto di vista delle vittime e non dei vincitori, perché solo coloro sui quali la storia ha inciso più a fondo il proprio marchio ne sono i veri testimoni. Lo stesso ragionamento, ma più vertiginoso, lo fa Primo Levi nei Sommersi e i salvati, dove sostiene di non essere lui il vero testimone: i testimoni integrali sono quelli che non sono tornati, o che sono tornati muti, totalmente annichiliti.

Anche per quanto riguarda il potere, l’oggetto privilegiato della narrazione nella letteratura moderna sono quasi sempre le persone che ne subiscono le conseguenze, come se chi detiene il potere fosse il centro di una tromba d’aria, che è l’unico luogo immobile, dove non succede niente.
È stato ricordato anche come Malaparte nel capitolo ambientato a Firenze non ponga l’accento sulla liberazione, sulla rinascita di un paese distrutto: analogamente a Fenoglio, racconta una guerra civile in cui, dal punto di vista narrativo e umano, c’erano dei ragazzi, con le loro complessità e fragilità, che si uccidevano tra loro.
Il rapporto tra civiltà europea e americana è stato ripreso nella conversazione, evidenziando come il candore degli americani, più che nel loro pudore, consista nella loro incapacità di concepire il male come qualcosa di irrimediabile, nel loro incrollabile ottimismo: convinti che tutto si può combattere, che si può guarir della miseria, della fame, del dolore, che v’è rimedio a ogni male, mancano del senso del tragico, che è il grande bagaglio – ma anche la grande zavorra – degli europei, dotati invece di una consapevolezza innata dovuta ad alcuni millenni di civiltà alle spalle e al trauma della guerra vissuta sul proprio suolo.

Tra le lettrici e i lettori c’è chi ha considerato “La pelle” un libro ancora più disperato di Addio alle armi perché, anche se non ha un finale tragico, racconta un mondo perduto, e chi ha visto un momento non proprio di catarsi, ma comunque di speranza, nella morte di un ufficiale alleato: io sentii, per la prima volta nella mia vita, che un essere umano era morto per me.
L’appuntamento, partecipato e coinvolgente, con Casa d’altri è stato l’occasione per riscoprire la forza linguistica e immaginativa di uno scrittore capace di raccontare una malattia dello spirito paurosamente attuale.

Alessandra Sirotti

Curzio Malaparte, “La pelle”, Adelphi (2010, 6ªediz)

Fonte: MinimumLab


Almanacco CNR – Faccia a faccia

DomusWeb – Curzio Malaparte: la storia e i retroscena di Casa come me

“La cognizione del dolore”, Carlo Emilio Gadda

Romanzo composto tra il 1938 e il 1941, inizialmente pubblicato a puntate sulla rivista Letteratura, rimase incompiuto a causa dell’imperversare della guerra e venne pubblicato solo nel 1963 dall’editore Einaudi. Nelle opere di Gadda alla contaminazione dei generi (lirico, grottesco, tragico…) si accompagna sempre quella dei linguaggi (termini di uso non comune, espressioni dialettali, linguaggi settoriali). In questo brano si narra l’incontro di Gonzalo Pirobutirro con la madre, dolorosamente consapevole della malattia psichica (il male oscuro) che tormenta il figlio. La donna, anziana e malata, sta cercando di improvvisare una cena per il figlio, reduce da un viaggio di lavoro: ognuno si chiude nel mutismo e si trincera nella propria solitudine


« L’alta figura di lui si disegnò nera nel vano della porta-finestra, di sul terrazzo, come l’ombra d’uno sconosciuto: e, dietro a lui, nel cielo, due stelle parevano averlo assistito fin là. Diòscuri splendidi sopra una fascia d’amaranto, lontana, nel quadrante di bellezza e di conoscenza: fraternità salva! La madre lo scorse, ma non poté vederne il viso contro il rettangolo di luce. Egli allora entrò, e recava una piccola valigia, la solita, quella di cartone giallo da quaranta centavos, come d’un venditore ambulante di fazzoletti. Nella stessa mano, arrotolato, il vecchio ombrello. La madre disse “oh! Gonzalo, come stai? Oh! guarda!” e proferì con un singhiozzo di gioia i nomi delle due stelle, a mani giunte, a guisa di saluto. Ma pensò che la prima sola valeva, nella correlazione di fortuna e d’astri per simbolo di una presenza terrena; poiché l’altra, così fulgida, così pura, non era se non un pensiero lontano della notte.
Il figlio la salutò appena, come ogni volta, stanco. Neppure le sorrise. Ella non insisté a cercarne lo sguardo, non chiese del viaggio, né dell’uragano.
[…]
Le sue mani rigide, quasi inerti, non arrivavano a prendere con esattezza; le riuscì difficile d’insinuare il cilindro di cristallo nella sua ghiera precisa, di ottone lucido, come una trina dei costumi desueti: e questa invece lo doveva ritenere alla base. Si sarebbe seduta, tremava… ma bisognò pensare al figliolo… Quando la lampada poté rischiarare la stanza, al fine, le parve di dover cadere… L’ultimo sguardo del crepuscolo, già lontanissimo, abbandonava il mobilio, con riflessi radenti e freddi sulla credenza, su qualche vassoio di metallo. Quel pallore della lucerna, invero, non ci aveva aggiunto di molto. Richiuse i vetri come le riuscì; ch’era molto alta finestra, sul terrazzo; abbrividendo.
[…]
Andò in cucina a preparargli qualcosa da cenare. Era assolutamente necessario, anche a dimostrazione della validità funzionale della villa: tanto più, poi, che la villa era sprovveduta di cuoca o d’una qualunque fante. Altrimenti egli avrebbe colto quel pretesto ad accendersi circa la inanità della campagna: e sarebbe incorso nelle peggiori bizze ed ubbìe: (la cosa, oramai, un triste rito: la povera madre lo sapeva bene). Avrebbe ripetutamente scorbacchiato e rimaledetto la villa, insieme col mobilio, coi candelieri, con la memoria del padre che l’aveva costruita; incoronando di vituperî osceni tutti i padri e tutte le madri che lo avevano preceduto nella serie, su, su, su, fino al fabbricatore di Adamo. Sarebbe trasceso alle bestemmie, ch’ella non poteva udire: ad accuse troppo vere, forse, per essere udibili: coinvolgendo nella turpitudine pazza che lo animalava in quei momenti financo il sacro nome di Pastrufacio (il Garibaldi del Maradagàl).
[…]
La madre, viceversa, fin da quando i muratori ci accudivano nel ’99, aveva incorporato in sé, subito, – avvampante splendore di giovinezza – il trionfo serpentesco della “sua” villa sopra le rivali keltikesi che non credevano alla possibilità di una villa: (degli spelacchiatissimi Pirobutirro).
E quell’orgoglio, quel tirso di brace che le era venuto fatto, in un giorno lontano, di potersi infilare a metà dell’anima alla facciazza delle pseudo-cognate e delle pseudo-nipoti, quello poi era cresciuto ad ebbrezza e ad onnipotenza raggiante, dentro un evo fulgido, allucinato, senza più misura né termine: l’idea del possesso e della supposta vittoria tracannata come un cognac di fuoco e di vita a ogni nuovo mattino, a ogni giorno splendido. Quello le era bastato, durante quarant’anni, a scongiurare la disperazione, ad acculare al di là d’ogni strazio e d’ogni miseria, d’ogni sdrucita maglia de’ suoi bimbi, d’ogni scampanìo, d’ogni gloria, d’ogni tenca, lo sporco sogghigno della morte.
[…]
in cucina non v’era quasi nulla, da potergli preparare nemmeno un ovo. Lo stentòreo deretano delle galline del Giuseppe ci perveniva piuttosto raramente, a una così gloriosa estromissione. Ne teneva più d’una, ma facevan l’ovo a turno: e spesso, poi, marinavano il turno. Il figlio si sarebbe imbestialito anche di ciò: e allora bisognava sorvolare, sulle ova. Già altra volta era accaduto che s’infuriasse, per quella inadempienza dei polli del Serruchón porco: e aveva accusato il gallo di morosità genetica e di perversione, le galline d’esser lesbiche, e tr…; poi la furia s’era schiarita in una reminiscenza di Livio “gallinam in marem, gallum in foeminam se se vertisse…”. E, atrocemente, sghignazzando, aveva brindato alla salute del gallo! ma non disse affatto alla salute, disse una parte del corpo: aveva inneggiato, (irridendo lei, la mamma), al gallo bardassa
[…]
Carlo Emilio Gadda

Fonte:
“La cognizione del dolore”: Gonzalo torna a casa – citazioni
Citazioni e frasi celebri

Leggere Freud

Sigmund Freud, Vienna, con Charcot a Parigi, la scuola ipnotica, l’inconscio, i tabù, la psicanalisi… Difficile dire che la vita e l’opera di Freud non siano un romanzo, in senso figurato ma anche letterale. Irving Stone in questo libro le racconta entrambe. Dalla famiglia al lavoro, dal successo agli incontri con Carl Gustav Jung e Albert Einstein. Il celebre critico letterario Harold Bloom, nel “Canone occidentale”, ha inserito Freud nel suo elenco degli scrittori più importanti di ogni tempo. A “Leggere Freud” ci invita Sergio Benvenuto


La pretesa di leggere Freud con occhi e orecchi vergini cercando di intendere l’essenziale della sua scrittura, può muovere all’ilarità più di un lettore, in particolare chi si rifà al relativismo ermeneutico. Non esistono letture trasparenti di un testo, tanto più di un autore morto che non può più puntualizzare o correggere. Ogni autore, ogni epoca, legge “il classico” (possiamo considerare Freud un classico moderno) secondo proprie griglie date dai propri interessi, priorità, saperi, domande, pregiudizi, giudizi previ, del proprio tempo. Insomma, anche se possiamo leggere un testo con maggiore o minore rigore filologico, non possiamo leggere un testo del passato obiettivamente. La questione del “come leggere” un testo è una delle più complesse. Inoltre questa questione è interna alla psicoanalisi stessa, nella misura in cui l’analisi è una certa lettura della parola dei soggetti. La questione di come leggere oggi i testi psicoanalitici si embrica quindi alla questione di capire su quale tipo di lettura – o ascolto – la psicoanalisi si basa.

Sergio Benvenuto


Sergio Benvenuto, “Leggere Freud. Dall’isteria alla fine dell’analisi”, Orthotes (2017)


Irving Stone, “Le passioni della mente: il romanzo di Sigmund Freud”, Corbaccio Editore (ediz.2012)


Edizione originale:
Irving Stone, “Le passioni della mente: il romanzo sulla vita di Sigmund Freud”, Dall’Oglio Editore (1971)



Un affascinante viaggio nei sogni

Maurizio Bettini dedica il suo volume ‘Viaggio nella terra dei sogni’ ai tanti pittori, registi, fotografi che si sono cimentati con quest’oggetto inafferrabile, grazie anche a un corredo di immagini ricco e di ottima qualità, per quanto non si debba ridurre a mero catalogo un libro che è un saggio in piena regola

(copywrite immagine: mulino.it)


Curiosamente, nel cospicuo elenco di fonti citate da Maurizio Bettini in calce al suo ‘Viaggio nella terra dei sogni’, manca Akira Kurosawa. Eppure il cineasta giapponese in una delle sue ultime fatiche si impegnò nel tentativo estremamente arduo, e solo in parte riuscito, di trasformare in film il liquido mondo onirico: impalpabile, fragile, evanescente, come giustamente lo definisce il volume. Anche chi non avesse visto quella pellicola del 1990, ‘Sogni’, avrà però sperimentato l’inefficacia del racconto, proprio o di qualcuno, quando si prova a tradurre in parole quell’esperienza così unica. Nonostante ciò, o forse proprio per questo, la traduzione verbale del sogno è un topos centrale della psicanalisi, Freud è citatissimo, così come quella figurativa è un luogo non meno frequentato dell’arte.
Bettini dedica il suo volume proprio ai tanti pittori, registi, fotografi che si sono cimentati con quest’oggetto inafferrabile, grazie anche a un corredo di immagini ricco e di ottima qualità, per quanto non si debba ridurre a mero catalogo un libro che è un saggio in piena regola. Per restare al cinema, si pensi a ‘Le notti bianche’, ‘Il terzo uomo’, ‘Otto e mezzo’, ‘Inception’, ‘Matrix’ e ‘Io ti salverò’ di Hitchcock, con scene di Salvador Dalì. Anche per le arti si apre una galleria amplissima dove ovviamente predominano le correnti più vocate, a partire dal surrealismo e da nomi e opere come ‘La chiave dei sogni’ di Magritte, i fratelli De Chirico e Savinio, il Dalì di ‘Sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melagrana’ e de ‘Il ponte dei sogni’, ‘Foto questo è il colore dei miei sogni’ di Mirò. Non meno cospicua la presenza della mitologia della quale l’autore, in quanto classicista, è un esperto: l’eponimo Oneiros, Hypnos il dio del sonno, indicativamente e inquietantemente gemello di Thanatos, Endimione, Penelope…
Ma l’iconografia e la letteratura incluse in questo ‘Viaggio’ sono davvero ampie e abbracciano da Igor Mitoraj al pupazzetto Lego, interprete di un’esilarante vignetta (È sempre lo stesso sogno, cerco di correre ma i piedi mi rimangono attaccati al pavimento); dalle citazioni più note come le shakespeariane “La sostanza di cui sono fatti i sogni” e ‘Sogno di una notte di mezza estate’ e ‘Il sonno della ragione genera mostri’ di Goya, ai meno scontati fumetti e manga; dall’Ermafrodito dormiente su un materasso in marmo di Carrara realizzato dal Bernini fino alla smorfia napoletana e alle foto di Maplethorpe. Si viaggia tra sogni erotici, premonizioni, incubi (da evidenziare il ruolo del diavolo incubo e succubo secondo la ‘Summa Theologiae’ di San Tommaso), insonnia; tra i sogni biblici e cristiani di Costantino, della Vergine, di Giuseppe, Giacobbe, e anche islamici (il viaggio notturno di Maometto nell’aldilà).
Tanto interesse nell’immaginario è accentuato dalla conoscenza razionale del sogno, che resta un po’ a margine del volume. I progressi delle neuroscienze e delle neuro-immagini ci consentono di capire sempre meglio cosa avvenga nel nostro cervello mentre dormiamo e persino di cercare di guidarlo: app, elettrodi, sonno polifasico, ipotermia indotta, ausilii, sogno lucido e riposo vigile, braccialetti smart, conservazione della qualità del sonno, tecniche per pilotare le visioni… Le frontiere sulle quali la ricerca è impegnata sono affascinanti, non meno delle immagini e delle parole che l’arte continua a regalarci.

Marco Ferrazzoli


Maurizio Bettini, “Viaggio nella terra dei sogni”, Il Mulino (2017)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Mio fratello rincorre i dinosauri. Storia mia e di Giovanni che ha un cromosoma in più

Down: una parola straniera? Una notizia travolgente? Un’etichetta? Una sindrome?

Una persona, un fratello, una questione di sguardo.

Abbiamo una cosa da dirvi… Riguarda vostro fratello.

Papà le strinse la mano.

– Vostro fratello… – disse, e fece una pausa. – Ecco, vostro fratello sarà… speciale.

Io e Chiara ci scrutammo l’un l’altra muovendo solo gli occhi.

– Speciale? – disse lei.

– In che senso speciale? – chiesi io.

– Nel senso, – disse papà, – che sarà… diverso. Affettuoso, anzitutto. Molto. Moltissimo. E poi sorridente e gentile. E tranquillo. E con i suoi, ecco, diciamo con i suoi tempi.

Sollevai un sopracciglio: – I suoi tempi?

– E altre cose sue speciali che ancora non sappiamo, – sorrise mamma.

– Quindi è una buona notizia? – chiese Chiara.

– Non è solo una buona notizia, – disse papà serio. Aggrottò la fronte in un modo buffo e la macchina cominciò a gonfiarsi e a sgonfiarsi come se stesse respirando con noi. – È molto di piú, – disse. – È una notizia travolgente –. Poi si girò e accese la radio. […]

– In che senso da dove arriva?

– Non è di questo pianeta. È evidente.

– Te l’avevamo detto, – disse lui, stringendomi la spalla con una mano cosí calda e ferma che con quella mano sulla spalla, giuro, sarei stato capace di andare ovunque nel mondo, affrontare qualunque cosa. – L’avevamo detto che era speciale.

Annuii.

Anzitutto gli occhi. Gli occhi erano cinesi, o venusiani forse, non sapevo decidermi; o di qualche altro pianeta con cristalli luminosi che sbucavano dalla sabbia e dieci lune viola nel cielo. Anch’io ho un taglio degli occhi un po’ orientale, in questo si vede che siamo fratelli, ma i suoi erano proprio tanto orientali. E poi la nuca. La nuca era piatta come una pista di atterraggio per microscopiche navicelle spaziali; se si fosse messo a quattro zampe potevi usarla come vassoio. Ma nulla mi colpí come le dita del piede che era scivolato fuori dalle coperte e che muoveva con scatti elettrici. Perché di dita, Giovanni, in quel piede, ne aveva quattro. O meglio, s’intuiva che potenzialmente erano cinque, ma il quarto e il quinto – il minolo e il pondolo – erano fusi insieme. Come due Kit Kat. […]

Aveva la copertina blu, un blu mogio e polveroso, e l’avevo intercettato già diverse volte, in camera da letto o sulla poltrona in salotto. Cosí, un giorno che stavo ciondolando per casa, finii per avvicinarmi e prenderlo in mano. Lessi l’autore, uno straniero, e il titolo, che conteneva anch’esso una parola straniera, e che quella parola era straniera lo sapevo perché c’era la lettera w. Noi non abbiamo tante lettere w o x nella lingua italiana, pensai. La parola era Down. La lessi pronunciandola: dovn. Prima di quella c’era la parola sindrome. Non sapevo cosa volesse dire sindrome, non sapevo cosa volesse dire Down. Lo aprii e, come sempre accade quando ci sono delle pagine piú spesse, il libro si spalancò su una fotografia.
Sgranai gli occhi. È Giovanni, pensai. […]

Ecco, allo stesso modo, interrogavo i miei genitori sui problemi di Gio. Sui suoi limiti, evidenti come il panino alla Nutella che mangiavo a merenda. E interrogavo soprattutto me stesso. Non mi interessavano piú le cause, quelle ormai erano cose passate. Pensavo piú che altro al suo futuro. Lui che non riusciva a imparare i numeri, come avrebbe fatto a pagare dal panettiere? Lui che aveva impiegato anni per parlare – e avrebbe sempre parlato male – come avrebbe fatto a scrivere? Se non sapeva né contare né scrivere, non avrebbe mai trovato un lavoro. Mi chiedevo perché avesse messo gli occhiali cosí presto: nessun altro bambino li portava. Mi chiedevo perché non ascoltasse niente, perché non capisse niente.
Addirittura – fu la cosa che mi sconvolse di piú – non avrebbe mai potuto fare le capriole. […]

Prima di quel giorno pensavo che il silenzio fosse assenza di rumore. Invece il silenzio è un suono, e c’è silenzio e silenzio. In quella mezz’ora, il silenzio mi parlò: mi disse che Gio aveva bisogno di me, costante bisogno di me; e io capii che ormai, senza Gio, non ci volevo piú stare a questo mondo. I suoi problemi erano i miei. E i miei problemi? A quelli ci avrei pensato da solo, senza disturbare; avrei trovato una soluzione. O almeno ci speravo. […]

Fu come il sole di mattina, quando filtra attraverso la tapparella che cerca di chiuderlo fuori e lui no, liquido e imprescindibile non si lascia imbrigliare, s’infila in ogni buco, in ogni fessura. Pensai ad Alice, alla sua reazione di fronte al bambino con il fucile. Pensai a Chiara, a quando aveva detto lascialo fare, che non è detto che le storie debbano sempre finire come sono state scritte. Ecco. Chi è che aveva scritto la nostra storia? Chi è che aveva sceneggiato la relazione tra me e Giovanni, e tra me, lui e il mondo, chi? Nessuno. Eravamo noi gli scrittori. Mia poi era la responsabilità di decidere come sarebbe finita la nostra storia. Nessuno instillava la paura del giudizio nel mio cuore, ero io a nutrirla.

Giacomo Mazzariol

Giacomo Mazzariol, “Mio fratello rincorre i dinosauri”, Einaudi, Torino, 2016

 

L’arte di legare le persone

Paolo Milone racconta i suoi quarant’anni di lavoro in Psichiatria d’urgenza; un diario di incontri e scontri, di appunti brevi, di pensieri nudi e crudi, che diventano poesie da rileggere, da assaporare, da mandare giù.

Avendo fuggito ogni altro lavoro per paura,
mi ritrovo a fare il lavoro che fa piú paura a tutti. […]

L’euforia è solo uno dei tanti disturbi mentali:
in altri il paziente è indifferente allo spazio,
in altri ancora, impensabile ma vero, è angosciato dallo spazio.
Il mondo è pieno di depressi che dormono su un divano senza neanche mettersi il pigiama,

o sul bordo del letto senza neanche tirare su il lenzuolo,
molti dormono su una sedia.
Se gli dai un letto matrimoniale, dopo un mese è intatto.
Preferiscono cosí. Non è di spazio esterno che hanno bisogno. […]

C’è chi ritiene che il ricovero in Psichiatria sia la cosa piú brutta al mondo. Talvolta la vita è ancora piú brutta.
Gli animali feriti si nascondono in una tana e si leccano le ferite:
Psichiatria è una tana. […]

Il bene e il male che facciamo a un’altra persona si riverbera
e si propaga in mille modi

tra i suoi parenti, amici e conoscenti
e, nel tempo, si trasmette a tutti i discendenti.
Sarà qualcosa di infinitesimo, un movimento atomico,
un’ombra, un fremito, ma esiste e si diffonde nell’universo.
Vedi, Giulia, noi contribuiamo a migliorare o peggiorare l’universo,
e, su questo, abbiamo una responsabilità. […]

È triste Lucrezia scoprirti un giorno mentre stai litigando a voce alta con nessuno.
Con che foga protesti, ribatti, chiedi scusa, insulti.
Sola nella stanza.
Sei l’accusatrice che ingiuria e minaccia
battendo i piedi per terra, con i capelli scompigliati,
poi sei la vittima che allarga le braccia piangendo e singhiozza. […]

Il sarto vede tutti mal vestiti,
il parrucchiere, tutti spettinati,
il cappellaio, tutti senza cappello,
il fisioterapista, tutti sciancati,
e io, psichiatra, vedo tutti matti. […]

Una notte insonne è breve per consolarsi del giorno prima.
Una notte insonne è breve per prepararsi al giorno dopo.
Aspra è la mattina: si riaprono i cassetti e riaffiorano i coltelli. […]

Ignorare la morte non rende immortali.
Neanche pensarci di continuo rende immortali.
Forse pensarci ogni tanto? […]

Non ci si uccide per una sofferenza quantitativamente piú grande – il suicidio avviene in uno stato mentale qualitativamente diverso.
Nessuna fantasia o esperienza dei viventi può aiutare a capire.[…]

Temi che le medicine si impossessino della tua mente e per questo le rifiuti.
Sbagli, Livia: è la depressione che si impossessa della mente,
le medicine restituiscono la chiave al proprietario. […]

Noi veniamo al mondo
non quando usciamo dal corpo della madre,
ma quando la madre ci abbraccia e ci riconosce
e, senza parole, ci contiene ancora in sé:
in questa matrice noi ci costruiamo.
La sacralità di questo abbraccio primigenio
si riverbera e balugina
in alcune contenzioni che noi facciamo. […]

L’arte di legare le persone.
Legare le persone al letto.
Legare le persone a te.
Legare le persone alla realtà

Legare le persone a se stesse.
Legare le persone è un’arte.
Inconoscibile.

Paolo Milone

Paolo Milone, “L’arte di legare le persone”, Einaudi, Torino, 2021

www.einaudi.it/catalogo-libri/narrativa-italiana/narrativa-italiana-contemporanea/larte-di-legare-le-persone-paolo-milone-9788806246372/

Tutto chiede salvezza

È la settimana dei mondiali del ’94, cinque uomini la passano nel reparto di psichiatria a seguito di un trattamento sanitario obbligatorio, meglio conosciuto come TSO. Daniele, appena ventenne, è la voce narrante, che racconta l’emarginazione, la paura, il dolore, ma anche la tenerezza, il conforto e la saggezza di uomini che implorano solo salvezza.

Ho paura, vorrei vicino a me la mia famiglia, la mia casa, la mia stanza. So perché mi trovo qui, so quello che è successo. La vergogna, i sensi di colpa, il ricordo di ieri sera mi travolge, vorrebbe tramutarsi in pianto. Ma non ce la faccio. […]

Mi piacerebbe dire a mia madre ciò che mi serve veramente, sempre la stessa cosa, da quando ho urlato il primo vagito al mondo. Quello che voglio per tanto tempo non è stato semplice da dire, tentavo di spiegarlo con concetti complicati, ho trascorso questi primi vent’anni di vita a studiare le parole migliori per descriverlo. E di parole ne ho usate tante, troppe, poi ho capito che dovevo procedere in senso contrario, così, di giorno in giorno, ho iniziato a sfilarne una, la meno necessaria, superflua. Un poco alla volta ho accorciato, potato, sino ad arrivare a una parola sola. Una parola per dire quello che voglio veramente, questa cosa che mi porto dalla nascita, prima della nascita, che mi segue come un’ombra, stesa sempre al mio fianco. Salvezza. Questa parola non la dico a nessuno oltre me. Ma la parola eccola, e con lei il suo significato più grande della morte.
Salvezza. Per me. Per mia madre all’altro capo del telefono. Per tutti i figli e tutte le madri. E i padri. E tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri. La mia malattia si chiama salvezza, ma come? A chi dirlo? […]

“Che cura può esiste per come è fatta la vita, voglio di’, è tutto senza senso, e se ti metti a parla’ di senso ti guardano male, ma è sbagliato cerca’ un significato? Perché devo avere bisogno di un significato? Sennò come spieghi tutto, come spieghi la morte? Come se fa ad affrontare la morte di chi ami? Se è tutto senza senso non lo accetto, allora vojo mori’.” […]

“Lei prima ha detto che il mio problema potrebbe essere semplicemente chimico, magari fosse così, se fosse solo una questione di chimica basterebbe aggiungere, o diminuire, io sarei il ragazzo più felice del mondo, ma per ora tutto quello che ho provato non ha cambiato niente.” […]

“Lo stregone è arrivato» mi fa Mario, guardando in direzione della porta. La sua definizione mi fa sorridere.
«Perché stregone?»
«Perché dalla punta dei piedi sino al collo la scienza qualcosa ha capito, ma di qui sopra» e si indica la testa, «ancora niente, stiamo ancora al tempo della stregoneria, sono mutati i riti, le formule magiche, le erbe sono diventate pasticche, ma la verità è che la medicina brancola nel buio, magari domani si svegliano e ci dicono che la malattia che ci avevano affibbiato non è così certa, che il meccanismo d’azione di questa o quella cosa non è come avevano sempre pensato.” […]

“Questi sono posti che non vanno tanto a braccetto con la ragione, ma il rispetto verso gli altri è il primo comandamento, tanto ci pensiamo noi a farci del male.” […]

“Qui dentro la condanna non è il TSO, magari fosse quello, la vera pena affibbiata dal destino sta nella reiterazione del vissuto, come le repliche di uno spettacolo, un’eterna prima teatrale.” […]

“A te dico più o meno la stessa cosa: fidati pure dei farmaci, dei medici, ma non smettere di lavorare su te stesso, di fare di tutto per conoscerti meglio.” […]

“Per esempio ho capito che l’intelligenza è sopravvalutata, come la stupidità sottovalutata, che bene e male esistono veramente, che l’uomo può perdere tempo prezioso in mille modi stupidi, il più stupido di tutti è giudicare gli altri, perché è troppo facile, perché non serve né a noi né agli altri” […]

“Un uomo che contempla i limiti della propria esistenza non è malato, è semplicemente vivo. Semmai è da pazzi pensare che un uomo non debba mai andare in crisi.” […]

Forse, questi uomini con cui sto condividendo la stanza e una settimana della mia vita, nella loro apparenza dimessa, le povere cose di cui dispongono, forse loro, malgrado tutte le differenze visibili e invisibili, sono la cosa più somigliante alla mia vera natura che mi sia mai capitato d’incontrare. […]

La vera pazzia è non cedere mai. Non inginocchiarsi mai.

Daniele Mencarelli

Daniele Mencarelli, “Tutto chiede salvezza”, Mondadori, Milano, 2020

Ida, la donna che rifiutò l’isteria

Ida Bauer è – nello pseudonimo assunto nella letteratura freudiana – Dora, il più noto caso di cui Freud si occupa a Vienna. Raccoglie molteplici vite in una sola, condotta a cavallo tra l’illusione ovattata della luccicante “belle époque” e il secondo conflitto mondiale. Katharina Adler, la pronipote, ne raccoglie la storia nel suo primo romanzo


“Lei, lei solo avrebbe d’ora in avanti deciso della sua vita”. Questa è la decisione che Ida Bauer prende all’inizio del nuovo anno e del nuovo secolo, nel 1901, quando, camminando lungo la Berggasse di Vienna, torna a casa sua dallo studio del dottor Sigmund Freud. Che, ha deciso, non vuole più rivedere. Ida è la prima paziente ed è il primo grande fallimento del padre della psicoanalisi, che non ha ancora fatto i conti con il controtransfert ma è costretto a farli con il netto rifiuto che la giovane oppone alla spiegazione fornitale per la sua isteria.
Ida Bauer è – nello pseudonimo assunto nella letteratura freudiana – Dora, il più noto caso di cui Freud si occupa a Vienna. Raccoglie molteplici vite in una sola, condotta a cavallo tra l’illusione ovattata della luccicante “belle époque” e il secondo conflitto mondiale. Ed è Katharina Adler, la pronipote di Ida, a raccoglierne la storia nel suo primo romanzo, nominato per il Klaus-Michael Küne Prize e il Zdf Aspekte literatupreis e pubblicato in traduzione italiana da Sellerio. Nelle pagine del romanzo ripercorriamo la storia di una donna divisa tra la consapevolezza di sé e una società ancora troppo patriarcale, stretta nella dinamica familiare e sociale della Vienna ebraica altoborghese, con le sue ipocrisie e i suoi occultamenti. Incluso quello dell’abuso subito da parte di Hanns Zellenka, la cui moglie è anche l’amante di suo padre. Questi intrecci complicano la situazione sanitaria della paziente di Freud, che comprende come il contesto che la circonda sia talmente soffocante da ammalarla, emettendo la diagnosi di “isteria”: ma Ida-Dora non accetta. “Lei sapeva bene quali conclusioni trarre, aveva detto. Tanto più che, come se non bastasse, se l’era voluta filare”.
Adler traccia un ritratto preciso della Dora-Ida che impara a camminare sulle sue gambe, prendendo man mano coscienza di sé, di quello che è stata e di ciò che vuole essere, nonostante una lunga serie di rinunce: in primis, quella agli studi che avrebbe prediletto. Seguiamo l’evolversi della vita di questa donna tra salti in avanti e indietro e gli stralci freudiani del “Frammento di un’analisi d’isteria” e – con la sua – seguiamo le esistenze di moltissime donne, perché in Ida vivono la bambina molestata, la figlia ribelle e acuta, la sorella devota, la sposa delusa, la madre apprensiva e la vedova rassegnata.
Non solo un racconto biografico, dunque, bensì lo sguardo che solitamente non viene considerato né riconosciuto, la versione dei fatti al femminile che assume anche la valenza di rivincita su un mondo maschile che pretende di chiudere in una sola parola, isteria, un universo complesso e sconosciuto ai più. Tutto viene filtrato attraverso la lente della tenacia che anima Ida Bauer, fino a “quando con calma attenderai che la luce in sala si spenga. Quando il buio calerà e si alzerà il sipario”.

Manuela Discenza


Katharina Adler, “Ida”, Sellerio (2019)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni