La peste di Buzzati

Nei due brani, estratti da “Sessanta racconti”, Dino Buzzati descrive i sintomi e i segni della peste canina, capace di distruggere anche i rapporti di amicizia più saldi.

Odore di tartufo

Paurosissimo delle malattie, io le sento venire da lontano. Così, per certe voci portate da marinai, da viaggiatori, zingari, io sapevo alcuni mesi prima che la peste canina stava avvicinandosi. Se ne parlava nelle taverne del porto verso sera, quando dalle acque buie, là vicino, cominciano a uscire le superstizioni e gli incubi. Ma la gente istruita diceva che era solo una leggenda. 

Di questa malattia si raccontava una quantità di cose strane: secondo alcuni proveniva dal cuore impenetrabile dell’Africa, altri invece dicevano che fosse stata provocata da un sacrilegio di Terrasanta. La chiamavano canina non perché colpisse i cani ma perché nella fase dell’incubazione, che durava uno o due giorni, l’ammalato emetteva un forte odore; il quale, a seconda dei casi, ricordava la resina, o l’aglio, o lo sterco, o la rosa e così via; ma assai più spesso ricordava il cane. E di qui il nome. 

In tanti odori c’era però sempre un comune sottofondo: cioè un effluvio specialissimo, indefinibile a parole; che era lo stesso marchio della peste. É pochissimi erano in grado di distinguerlo, così da poter dire: questo è odore di peste e questo no. Si trattava di medici o infermieri, o suore che erano vissuti in Africa o in Oriente. 

Altri sintomi denotavano l’esplodere della peste vera e propria. Alcuni, come i brividi, il mal di testa, le vertigini, erano comuni a molte altre note malattie. Ma ce n’era uno tipico e fatale: l’uomo colpito dal contagio non era più capace di un discorso organizzato, a un tratto il pensiero sembrava frantumarsi in una sconnessione di parole che finivano in un confuso barbuglìo. Dopo un poco magari l’ammalato riprendeva a parlare come al solito ma sempre, dopo due tre frasi, sopravveniva quell’intoppo. Perciò la si chiamava anche peste sillabica. Seguivano una grave prostrazione, vomito, delirio, e, nel giro di poche ore, immancabile la morte. Esisteva, è vero, un vaccino capace di stroncare l’infezione: ma doveva essere iniettato al tempo giusto, nel corso dell’incubazione, né prima né dopo; guai se si tardava; guai anche se lo si propinava, per errore, a una persona sana; se in seguito costui si contagiava, il vaccino non sarebbe più servito a niente. 

L’allarme fu gettato all’improvviso. Un decreto del governatore, alludendo in modo vago a pericoli di epidemie, proibì gli assembramenti e gli spettacoli, chiuse i locali pubblici, impose il controllo dei viaggiatori eccetera. In poche ore tutta la popolazione seppe. E già si udivano le sirene delle autoambulanze chiamate qua e là a trasportare i moribondi. Fu il terrore. 

Da quel momento, misteriosamente trasportandosi il contagio da un quartiere all’altro, tutti cominciarono a vivere nell’ansia, scrutando se stessi e i familiari, nel timore di avvertire i primi sintomi. In ogni luogo ora si vedevano perciò uomini e donne con i nasi per aria, ad annusare, se mai sentissero l’odore della peste. Ma era facilissimo ingannarsi; né si contavano le paure a vuoto. In una città popolata di cani come questa non c’era casa dove l’odore canino fosse assente; ne erano intrisi, si può dire, i muri stessi. Ciò moltiplicava i falsi allarmi. 

Va da sé che, scoppiata l’epidemia, divenni l’ombra stessa del Tiriaca. Guai se non avessi potuto stargli a fianco così spesso. Col mio terrore di essere infettato, sentivo un odore dopo l’altro, immaginandomi che provenissero da me. Il Tiriaca mi rassicurava: «Ma io non sento niente ». E mi annusava col suo grande naso a becco. 

Una sera -ero invitato a pranzo –appena entrato in casa del Tiriaca, sento odore di tartufo. Magnifico, dico a me stesso, perché di tartufi sono ghiotto. E già pregusto un pranzo succulento, tanto più che in questi tempi grami è una delle poche consolazioni che rimangono. 

A tavola si è in due soltanto, Tiriaca ed io; la famiglia sua è partita, alle prime avvisaglie della peste lui l’ha mandata in Sicilia, da parenti. Un antipasto, una ottima zuppa, roastbeef con salsa e contorno, asparagi. A questo punto il Tiriaca mi guarda: « Cos’hai? Non ti senti bene? Sei diventato così pallido». «No, no, niente » faccio io, inchiodato da un terribile sospetto. «Ma dimmi, professore… Come mai quest’odore di tartufi?» « Tartufi?… Io non sento odore di tartufi… E tu Ines, senti qualche cosa? » « Neanch’io » risponde la domestica « di tartufi, io non ne ho adoperati, forse sarà il profumo della salsa. » 

Ma anche di là, in salotto, dove passiamo a prendere il caffè, persiste la inquietante sensazione. «Scusami professore, abbi pazienza » io lo supplico. « Prova a sentire… Non sarò mica io per caso a…? » Lui mi annusa col suo grande naso, sorridendo. « Tu sei su una brutta china, caro mio… Di questo passo finirai dritto manicomio. » « Professore, non inquietarti, l’odore c’è, ti giuro… E io ti sono amico… Io te lo devo dire… ascolta… non potrebbe darsi che… non potrebbe darsi  a adorare di tartufo… insomma non potresti essere tu?». Il Tiriaca mi fissa, il sorriso gli si è fermato sulle labbra, non capisce se io voglio scherzare. Gli viene forse un dubbio? No. Si mette anzi a ridere di gusto. « Non mi illudevo che tu mi stimassi un luminare » dice « ma almeno che io non fossi un asino del tutto… Se mi fossi impestato, per capirlo credi forse che avrei bisogno dell’odore? Starei fresco… Altro che odore di tartufo… Sono i tuoi poveri nervi… » 

Così lui parla, ma non serve. Per la prima volta io non gli credo, le sue parole non danno più sollievo. E intanto l’odore va crescendo, la casa ne è ammorbata, io cerco di andarmene al più presto. 

No, in casa mia per fortuna non c’è il più vago ricordo di tartufi. Tuttavia stento a prender sonno. Quel pensiero mi tormenta. Se il Tiriaca fosse veramente contagiato? Se fossi stato io, l’ignorante, ad accorgermene? Poi mi dico: è impossibile, oltre all’odore ci sono molti altri indizi, lui li avrebbe subito avvertiti. 

Anche la notte passa. Alle otto e mezzo salgo dal Tiriaca per accompagnarlo in clinica. Entrato, annuso. L’odore di tartufo non c’è più. Meno male, mi dico, si vede che era tutta suggestione. In quel mentre arriva il professore. << Beh, come la va? Senti ancora la presenza di tartufi? Ti sei calmato… Ieri sera dopo che te ne sei andato, non credere, io ci ho pensato su… e ho capito da dove ghe ghe quell’odore, in parte credo che sia… in parte… mah… invece, eh già… sgabusè toil gragiueaaa… » la frase si perse in un groviglio incomprensibile. 

Arretrati, gelato dal terrore. Quello era il segno. 

Tiriaca, che aveva avuto sempre la parola facilissima, barbugliava peggio di un demente. 

Con una mano dietro la schiena avevo intanto girato la maniglia della porta, la spalancai di colpo, giù per le scale a precipizio. Non connettevo più dalla paura. Via subito, via da quella casa maledetta. Dall’alto il Tiriaca mi chiamò. Ma che mi importava più di lui? 

La sera stessa fuggii dalla città. Adesso sono qui, con la famiglia, in questo paesello di montagna, che la peste ha dimenticato, si direbbe. E già è passato un mese. A quest’ora, se io fossi rimasto contagiato, il male sarebbe pur venuto fuori. Invece io sto bene, proprio bene, non emetto odori, parlo speditamente, vero che parlo con la massima scioltezza? Il brutto sarebbe infatti se all’improvviso cominciassi anch’io a barbugliare, confondendomi, allora si sippo po potrei dirmi spaccirmi… ma finché non si comincia a balbettare si può cocofon… allora sippo… chestra… sfiare… ir chiò… scimen… baorg… ge… ge… 

Il tiranno malato


Che cosa li aveva sbaragliati quando già stavano assaporando il sangue : la Vittoria? Perché si ritiravano? ”Il mastino tornava a far loro paura:” 

Non il mastino Tronk. Bensì una cosa informe e nuova che dentro di 

lui si era formata e lentamente da lui stava espandendosi come un alone…infetto. . …… 

I tre avevano intuito che a Tronk doveva “essere successo qualche cosa e non c’era più motivo di temerlo. Ma credevano di addentare un cane vivo. 

E invece l’odore insolito del pelo, forse, del fiato, e il sangue dal sapore repellente, li aveva ributtati indietro. Perché le bestie più ancora che i luminari delle cliniche percepiscono ‘al più lieve segno l’avvicinarsi della, presenza maledetta, del contagio che non ha rimedio. E d.lottatore era segnato, non apparteneva più alla vita, da qualche profondità recondita del corpo già si propagava la dissoluzione delle cellule.

Dino Buzzati

Treccani Enciclopedia Online

Dino Buzzati, “Sessanta racconti” (1958)

Morte a Venezia

Thomas Mann diventa cronista dell’epidemia di Colera che si diffondeva, silenziosamente, a Venezia.

Mentre prendeva il tè, seduto a un tavolino rotondo di ferro, dalla parte in ombra della piazza, fiutò ad un tratto nell’aria un odore singolare, che gli pareva avesse già sfiorato il suo olfatto, da tempo, senza però rendersene cosciente, un odore dolciastro medicinale che ricordava calamità e ferite e pulizia sospetta. Lo vagliò con apprensione, identificandolo, e, terminato lo spuntino, s’allontanò dalla piazza dalla parte opposta alla chiesa. Nello spazio ristretto, l’odore cresceva d’intensità.

Agli angoli delle calli erano affissi dei manifesti stampati con i quali le autorità comunali, a causa di certe malattie dell’apparato digerente, all’ordine del giorno con simili temperature, mettevano in guardia gli abitanti contro l’ingestione di ostriche e telline e anche contro l’acqua dei canali. La natura palliativa della prescrizione era chiara. La gente faceva crocchio su ponti e piazze; e lo straniero vi si mischiò, indagando e almanaccando.

Pregò un negoziante, appoggiato alla porta del suo fondaco, tra collane di corallo e monili di falsa ametista, di dargli informazioni sull’infausto odore. Quello lo squadrò con occhi pesanti e si rianimò frettoloso: «Una misura profilattica, signore!» rispose gesticolando. «Una disposizione della polizia, che bisogna approvare. Questa temperatura opprime, lo scirocco non è salutare. Insomma, lei mi capisce, una precauzione forse esagerata…» Aschenbach, ringraziatolo, proseguì. Anche sul vaporetto che lo riconduceva al Lido, sentiva ora l’odore del disinfettante.

Ritornato all’albergo, si recò subito alla tavola dei giornali e diede una scorsa ai quotidiani. In quelli stranieri non trovò nulla. Quelli del suo paese accennavano a notizie, citavano cifre incerte, riportavano smentite ufficiali, mettendone in dubbio la veridicità. Ecco come si spiegava lo sgombro dei turisti tedeschi e austriaci. Quelli delle altre nazionalità, evidentemente, non sapevano nulla, non sospettavano nulla, non erano ancora inquieti. «Si vuole tacere!» pensò Aschenbach eccitato, mentre gettava i giornali sulla tavola. «La cosa si vuole passarla sotto silenzio!» Ma nello stesso tempo il suo cuore si riempì di soddisfazione per l’avventura in cui il mondo esterno stava andando a finire

Un giorno, a colazione, nella grande sala da pranzo, affrontò il direttore, quell’ometto silenzioso in finanziera francese, il quale salutando e controllando, si muoveva tra i commensali e si era fermato anche alla tavola di Aschenbach per scambiare qualche parola. Perché, chiese l’ospite in maniera apatica e incidentale, perché diavolo, da qualche tempo, si disinfetta Venezia? «Si tratta,» rispose l’ipocrita, «di una misura della polizia, destinata ad evitare, debitamente e a tempo, ogni tipo di insalubrità o disturbo della salute pubblica, che potrebbe prodursi a causa della temperatura soffocante e caldissima.» «È proprio da lodare la polizia,» rispose Aschenbach; e, scambiate alcune osservazioni sul tempo, il direttore si congedò.

Già da parecchi anni il colera indiano aveva manifestato maggiore tendenza a propagarsi e a migrare. Generata dai caldi terreni paludosi al delta del Gange, aumentata dalle esalazioni mefitiche di quel rigoglioso e inutile luogo selvaggio preistorico e insulare, disertato dagli uomini, nei cui canneti si cela la tigre, l’epidemia aveva imperversato con violenza continua e insolita in tutto l’Indostan, invadendo a levante la Cina e a ponente l’Afghanistan e la Persia e portando, sulle piste delle principali carovaniere, il terrore fino ad Astrakan e addirittura fino a Mosca. Ma, mentre l’Europa tremava nel timore che lo spettro potesse introdursi da laggiù via terra, era comparso, propagato via mare, da navi mercantili siriane, quasi contemporaneamente, in parecchi porti mediterranei, sollevando la testa a Tolone e Malaga, mostrando la sua maschera più volte a Palermo e a Napoli, sembrando pure che non volesse più ritirarsi dalla Calabria e dalla Puglia. Il nord della penisola era stato risparmiato. Tuttavia alla metà di maggio di quell’anno, a Venezia furono trovati, nello stesso giorno, i terribili vibrioni nei cadaveri consunti e nerastri d’un mozzo e d’una fruttivendola. I casi vennero taciuti. Ma dopo una settimana ce n’erano dieci, venti, trenta e pure in diversi sestieri. Un austriaco che per diporto s’era trattenuto qualche giorno a Venezia, ritornato nella sua cittadina, morì con sintomi inequivocabili, e il fatto causò la comparsa sui giornali tedeschi delle prime voci sulla disgrazia nella città lagunare. Le autorità veneziane fecero rispondere che le condizioni sanitarie della città non erano mai state migliori, e presero le necessarie misure di sicurezza. Ma probabilmente generi alimentari, verdure, carne e latte erano già infetti, perché, nonostante smentite e occultamenti, la morte si estese distruggendo nelle anguste calli, e il caldo estivo, subentrato prematuro, intiepidendo l’acqua dei canali, favorì in modo particolare la diffusione. Sembrava addirittura che l’epidemia si fosse rinvigorita di forze, raddoppiata di tenacia e fertilità. I casi di guarigione erano rari; l’ottanta per cento dei colpiti moriva, e pure in modo orrendo, perché il male insorgeva con estrema violenza, presentando spesso quella forma pericolosissima detta «asciutta». In tale eventualità il corpo non riusciva neppure a espellere l’acqua secreta in abbondanza dai vasi sanguigni. In poche ore il malato, insecchitosi, soffocava per il sangue divenuto viscido come la pece, tra crampi e lamenti rauchi. Era da reputarsi fortunato se, come talvolta accadeva, all’accesso seguiva, dopo un leggero malessere, un deliquio profondo dal quale non si svegliava più, o quasi. Al principio di giugno furono riempiti tacitamente i padiglioni d’isolamento dell’ospedale civico, nei due orfanotrofi cominciavano a mancare i posti, tra la riva delle Fondamenta Nuove e San Michele, l’isola del cimitero, regnava un movimento d’intensità spaventosa. Ma il timore di una rovina troppo generale, il riguardo per l’esposizione di pittura recentemente aperta nel parco pubblico, per le enormi perdite che, in caso di panico e proscrizioni, avrebbero minacciato gli alberghi, i negozi, tutta la molteplice industria turistica, si mostrarono nella città più potenti dell’amore per la verità e del rispetto delle convenzioni internazionali; ebbero il potere di far persistere ostinate le autorità nella politica del silenzio e della smentita. Indignato, il più alto ufficiale sanitario di Venezia aveva rassegnato le dimissioni ed era stato sostituito alla chetichella da un uomo più arrendevole. La cittadinanza sapeva; ma la corruzione dei maggiorenti insieme con la regnante incertezza generale, con lo stato d’emergenza in cui la morte vagabonda aveva trasferito la città, produsse una certa depravazione degli strati inferiori, un incoraggiamento a impulsi foschi e antisociali, che si manifestò con sfrenatezza, impudicizia e crescente criminalità. Contro il solito la sera si notavano molti ubriachi; gentaglia malvagia, dicevano, rendeva di notte le strade malsicure; c’erano stati ripetuti casi di rapina e persino d’omicidio, in quanto già due volte era stato scoperto che persone presunte vittime dell’epidemia, erano state invece eliminate con il veleno dai loro propri familiari; la sciatteria professionale assumeva forme sfacciate e dissolute, prima d’allora mai conosciute in quei posti, mentre erano state di casa nel sud del paese e in Oriente. L’inglese disse di tutto questo le cose essenziali. «Farebbe bene a partire,» concluse. «Meglio oggi che domani. Non si può andare.

Thomas Mann

Enciclopedia Treccani Online

Thomas Mann, “Morte a Venezia” ()

La pelle

La peste dell’anima induce l’essere a compiere scelleratezze di ogni tipo. Sia l’uomo che la donna perdono la dignità e umiliano sé stessi.

Era, quella, una peste profondamente diversa, ma non meno orribile, dalle epidemie che nel medioevo devastavano di quando in quando l’Europa. Lo straordinario carattere di tal nuovissimo morbo era questo: che non corrompeva il corpo, ma l’anima. Le membra rimanevano in apparenza intatte, ma dentro l’involucro della carne sana l’anima si guastava, si disfaceva. Era una specie di peste morale, contro la quale non pareva vi fosse difesa alcuna. Le prime ad essere contagiate furon le donne, che, presso ogni nazione, sono il riparo più debole contro il vizio, e la porta aperta ad ogni male. (…)

Molti, è vero, che la disperazione faceva ingiusti, quasi scusavano la peste: insinuando che le donne prendevano pretesto dal morbo per prostituirsi, che cercavano nella peste la giustificazione della loro vergogna.

Ma una più profonda conoscenza del morbo rivelò in seguito che un tale sospetto era maligno. Poiché le prime a disperarsi della loro sorte eran le donne e molte ne ho udite io stesso piangere, e maledire quella crudelissima peste che le spingeva con invincibile violenza, contro la quale nulla poteva la loro debole virtù, a prostituirsi come cagne. (…)

Non meno pietosa e orribile era la sorte degli uomini. Non appena contagiati, essi perdevano ogni rispetto di se medesimi: si davano ai più ignobili commerci, commettevano le più sudice viltà, si trascinavano carpone nel fango baciando le scarpe dei loro “liberatori” (disgustati di tanta, e on richiesta obiezione), non solo per essere perdonati delle sofferenze e delle umiliazioni sofferte negli anni della schiavitù e della guerra, ma per aver l’onore d’essere calpestati dai nuovi padroni; spuntavano sulle bandiere della propria patria, vendevano pubblicamente la propria moglie, le proprie figlie, la propria madre. Tutto ciò, dicevano, per salvare la patria. E pur quelli che, all’aspetto, sembravano immuni dal morbo, si ammalavano di una naueseante malattia, che li spingeva ad arrossire di essere italiani, e perfino di appartenere al genere umano. (…)

Il sospetto, divenuto poi certezza, che la peste fosse stata portata in Europa dagli stessi liberatori, aveva suscitato nel popolo un profondo e sincero dolore. Sebbene sia antica tradizione dei vinti odiare i vincitori, il popolo napoletano non odiava gli alleati. Li aveva attesi con ansia, li aveva accolti con gioia.

Curzio Malaparte

Enciclopedia Treccani Online

Curzio Malaparte, “La pelle” (1949)

Malaria

Nella novella di Verga si assiste ad una vera e propria guerra tra poveri ignoranti a causa della malaria.

E’ vi par di toccarla colle mani […] stagnante nella pianura, a guisa dell’afa pesante di luglio. Vi nasce e vi muore il sole di brace, e la luna smorta, e la Puddara, che sembra navigare in un mare che svapori, e gli uccelli e le margherite bianche della primavera, e l’estate arsa, e vi passano in lunghe file nere le anitre nel nuvolo dell’autunno, e il fiume che luccica quasi fosse di metallo, fra le rive larghe e abbandonate, bianche, slabbrate, sparse di ciottoli; e in fondo il lago di Lentini, come uno stagno, colle sponde piatte, senza una barca, senza un albero sulla riva, liscio ed immobile. Sul greto pascolano svogliatamente i buoi, rari, infangati sino al petto, col pelo irsuto.

Però dov’è la malaria è terra benedetta da Dio. In giugno le spighe si coricano dal peso, e i solchi fumano quasi avessero sangue nelle vene appena c’entra il vomero in novembre. Allora bisogna pure che chi semina e chi raccoglie caschi come una spiga matura, perché il signore ha detto: « Il pane che si mangia bisogna sudarlo»

Quelli del baraccone stavano a cena cuocere quattro fave, a ridosso del muricciolo, seduti sulle calcagna, per covar la pentola cogli occhi, tutta la famiglia. A un tratto udirono gridare: —Dàlli! dàlli! –e videro la folla inferocita che correva per sbranarli. –Signori miei! siamo poveri diavoli, poveri commedianti che andiamo intorno per buscarci il pane! -Il vecchio annaspava colle mani, per fare intendere le sue ragioni; la donna copriva i fìgliuoletti colle ali, come una chioccia; la giovinetta colle braccia in aria. Arrivò una prima sassata, che fece colare il sangue. Poi un parapiglia, la gente in mucchio accapigliandosi, gli strilli delle vittime, che si udivano più forte. -No! no! non li’ ammazzate “…ancora! Vediamo prima se “sono innocenti! Vediamo prima se portano il colera! -C’erano pure delle anime buone in quella ressa. ‘Ma gli altri non volevano intender ragioni: Jeli di comare Barbara, che gli sanguinava il cuore dall’angoscia, Scaricalasino che aveva visto coi suoi occhi Zanghì stecchito sotto il lenzuolo, massaro Lio che si sentiva già i dolori di ventre addosso. In un attimo la baracca in tutta sottosopra: i burattini, gli scenari, i cenci, la poca paglia sudicia dei sacconi. Poi, dopo che non ebbero più ridire frugare, fecero un mucchio d’ogni cosa, e vi appiccarono il fuoco. -Bravo! E adesso come farete a scoprire se portavano il colera? —-gridarono alcuni. Ma il povero capocomico non sentiva e non badava più a nulla, né le grida di morte, né le falci, né le scuri; pallido e stravolto, col sangue giù per la faccia, i capelli irti, gli occhi fuori della testa, voleva buttarsi sul fuoco per spegnerlo colle sue mani, urlando che lo rovinavano, che gli” toglievano il suo pane, strappandosi i capelli dalla disperazione, in mezzo alla famigliuola tutta pesta e malconcia, scampata per miracolo alla strage. —-Meglio, meglio che ci avessero uccisi tutti! —-Neppure il colera li aveva voluti, da per tutto dove l’avevano incontrato, stanchi ed affamati.

Giovanni Verga

Treccani Enciclopedia Online

Novelle rusticane

Giovanni Verga, “Novelle Rusticane” (1885)

La peste in Manzoni

Manzoni, ne “I promessi sposi”, non nasconde il terrore davanti all’avanzare dell’epidemia di peste.

E in questo racconto, il nostro fine non è, per dir la verità, soltanto di rappresentar lo stato delle cose nel quale verranno a trovarsi i nostri personaggi; ma di far conoscere insieme, per quanto si può in ristretto, e per quanto si può da noi, un tratto di storia patria più famoso che conosciuto.

E mentre,- dice il Ripamonti,- i cadaveri sparsi, o i mucchi di cadaveri, sempre davanti agli occhi, sempre tra’ piedi, facevano della città come un solo mortorio c’era qualcosa di più brutto, di più funesto, in quell’accanimento vicendevole, in quella sfrenatezza e mostruosità di sospetti… Non del vicino soltanto si prendeva ombra, dell’amico, dell’ospite; ma que’ nomi, que’ vincoli dell’umana carità, marito e moglie, padre e figlio, fratello e fratello, eran di terrore: e, cosa orribile e indegna a dirsi! La mensa domestica, il letto nuziale, si temevano, come agguati, come nascondigli di venefizio.

Ma le coperte gli parvero una montagna. Le buttò via, e si rannicchiò, per dormire; ché infatti moriva dal sonno. Ma, appena velato l’occhio, si svegliava con un riscossone, come se uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una tentennata; e sentiva cresciuto il caldo, cresciuta la smania. Ricorreva col pensiero all’agosto, alla vernaccia, al disordine; avrebbe voluto poter dar loro tutta la colpa; ma a queste idee si sostituiva sempre da sé quella che allora era associata con tutte, ch’entrava, per dir così, da tutti i sensi, che s’era ficcata in tutti i discorsi dello stravizio, giacché era ancor più facile prendere in ischerzo, che passarla sotto silenzio: la peste.

[…] si destò. Lasciò cadere il braccio che aveva alzato davvero: stentò alquanto a ritrovarsi, ad aprir ben gli occhi; ché la luce del giorno già inoltrato gli dava noia, quanto quella della candela, la sera avanti; riconobbe il suo letto, la sua camera […]

Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un’occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d’un livido paonazzo.

L’uomo si vide perduto: il terror della morte l’invase, e, con un senso per avventura più forte, il terrore di diventar preda de’ monatti, d’esser portato, buttato al lazzaretto.

Alessandro Manzoni

Treccani Enciclopedia Online

Alessandro Manzoni, “I promessi sposi” (Einaudi, Torino pag. 521)

Pazzi

Achille Campanile ragiona su chi sia davvero il pazzo, sul significato di pazzia e di saviezza. Finché simulavo la saggezza, mi sentivo pazzo. Abbandonandomi alla follia, mi sento savio.

Io certe volte sospetto di essere pazzo. E certe volte ne ho l’assoluta certezza e allora vorrei abbandonare ogni finzione di saviezza. Come è riposante non simulare più!

La cosiddetta saggezza non è assenza di pazzia, perché tutti abbiamo la stoffa dei pazzi. È soltanto la possibilità di simulare e possesso maggiore di alcuni freni. 

Il bello è, poi, che quando mi convinco di essere pazzo e decido di gettar la maschera della saggezza, mi sento in un certo senso rinsavito. Finchè simulavo la saggezza, mi sentivo pazzo. Abbandonandomi alla follia, mi sento savio. Andate a spiegare una cosa simile.

La maggior percentuale di sofferenze e di dolori- morali, s’intende- che ci procuriamo deriva dal fatto che, salvo alcune fortunate eccezioni, noi siamo dei pazzi costretti a fingerci savi e a regolarci come tali. Le fortunate eccezioni non si riferiscono a persone che non sono pazze, ma a quelle che, essendolo, non sono costrette alla simulazione.

Il male consiste nel fatto che il mondo riconosce ma non accetta la pazzia e perciò obbliga alla simulazione. Intanto, però, ognuno la riconosce soltanto negli altri. Spesso da quello di cui dice: <<è pazzo>>, il mondo pretende atti da savio.

Ora io non voglio dire che la saviezza sia infelicità e sofferenza. Lo è in quanto simulata. E questa apparente saviezza è la peggior froma di pazzia, la più sinistra, la più dolorosa. 

Invece la saviezza dovrebbe consistere nel capire quello che si è, ed esserlo veramente. Un pazzo sarà savio se si considererà pazzo e se si regolerà e ragionerà da pazzo. Sarà due volte pazzo se cercherà di regolarsi e di ragionare da savio. Beninteso, un savio sarà savio se si regolerà e ragionerà da savio.

[…] Basta afflitto, come dicevo, dal dubbio di essere pazzo, volli consigliarmi con un medico circa l’oppurtunità di sottopormi a un esame psichiatrico.

<<ma sei pazzo?>> mi disse quegli. <<perché vuoi farlo? Sarebbe una pazzia andare a mettersi in bocca al lupo>>

<<Naturalmente>> dissi << se sono pazzo, niente di strado che commetta delle pazzie>>

[…] Malrgado il parere del medico, mi presentai al manicomio e chiesi d’essere messo in osservazione.

<<che sintomi avete?>> mi domandò il direttore.

<<ecco, io mi considero pazzo>>

<<non basta. Bisogna assodare se lo siete davvero.>>

<<Perché? Nel caso che io fossi pazzo, lei mi considererebbe pazzo?>>

<<evidentemente>>

<<e sbaglierebbe. Se io fossi realmente pazzo, non sarei pazzo a considerarmi pazzo. Mentre, se non lo fossi, è chiaro che lo sarei per il fatto di ritenermi tale.>>

<<ma in che consisterebbe allora la vostra pazzia?>>

<<nel credermi pazzo senza esserlo.>>

<<ma allora non sareste pazzo, se non lo siete>>

<<Lo sarei in quanto, senza esserlo, mi ritengo tale. Se mi ritenessi pazzo essendolo realmente, questo mio credermi pazzo non sarebbe pazzia; mentre lo è se non lo sono.>>

Il direttore del manicomio si passò una mano sulla fronte. 

<<voi mi fate diventare pazzo>> mormorò.

Si volse l’assistente:

<<cosicchè, dovremmo metterlo al manicomio se non è pazzo?>>

<<Precisamente >> fece l’assistente. <<Perché, non essendolo, ritiene di esserlo. Questa è la sua forma di pazzia>>

<< ma con questo ragionamento>> obbiettò il direttore << se fosse pazzo non lo metteremmo al manicomio>>

<<Beninteso. È pazzo se non è pazzo>>

<<ma siete pazzo voi>>

<< Sarei pazzo se non ritenessi pazzo uno che non essendo pazzo si considera pazzo e che non sarebbe pazzo a considerarsi pazzo, se fosse realmente pazzo.>>

A tagliar corto il direttore mi sottopose a una minuziosa visita, sperimentò le mie reazioni, mi interrogò e alla fine mi batté affettuosamente la mano sulla spalla e disse congedandomi:

<<Andata, andate tranquillo; questo vostro ritenervi pazzo non è sintomo di pazzia, inquantoché siete realmente pazzo>>.

Me ne andai tranquillizzato, sereno, ormai, essendomi tolto un gran peso dallo stomaco: dunque non sono pazzo, visto che sono pazzo.

Achille Campanile

Treccani Enciclopedia Online

Achille Campanile, “Gli asparagi e l’immortalità dell’anima” (1974)

Alla ricerca del tempo perduto

Nell’opera di Marcel Proust non vi è traccia del medico ciarlatano e irriverente nei confronti del paziente.

Voi, signora, vi credevate malata – gravemente malata, forse. Dio sa di quale affezione credevate di scoprirvi i sintomi. E non vi sbagliavate, li avevate davvero. Il nervosismo è un imitatore geniale. Non c’è malattia che non sappia contraffare a meraviglia. Riproduce perfettamente la dilatazione dei dispeptici, le nausee della gravidanza, l’aritmia del cardiopatico, lo stato febbrile del tubercoloso. Se cade nel tranello il medico, come potrebbe non caderci il malato? Ah! Non pensate ch’io sorrida dei vostri mali, non mi prenderei la responsabilità di curarli se non li comprendessi. Del resto, non c’è buona confessione che non sia reciproca. Ecco qua: vi ho detto che senza malattia nervosa non c’è grande artista; ebbene (e alzò gravemente l’indice), non c’è nemmeno grande scienziato. Aggiungerò che, se non si è affetti a propria volta da qualche malattia nervosa, non si può essere, non fatemi dire un buon medico, ma semplicemente un accettabile medico di malattia nervose.

[…] le manifestazioni di cui soffrite svaniranno alle mie parole. E poi, accanto a voi c’è qualcuno che è dotato d’un gran potere e che io, ormai, ho trasformato nel vostro medico è il vostro stesso male, la vostra iperattività nervosa. Sapessi come guarirvene, mi guarderei bene dal farlo. Mi basta impartirgli degli ordini. Vedo sul vostro tavolo un libro di Bergotte. Guarita dal vostro nervosismo, non l’amereste più. Ebbene, come potrei arrogarmi il diritto di scambiare le gioie che vi procura Bergotte con un’integrità nervosa assolutamente inadeguata a darvene di uguali?

Marcel Proust

Enciclopedia Treccani Online

Marcel Proust, “Alla ricerca del tempo perduto” (1913)

Memoriale di un folle

Passato e presente, vita e morte, moglie e madre: binomi di una mente disturbata.

Caddi stroncato da un accesso di febbre. Da quindici anni non avevo più avuto una malattia seria, e mi stupivo di questo incidente capitatomi così inopportuno: non che temessi di morire (…) questa fine precipitosa non poteva rallegrarmi. (…)  Roso dalla febbre che mi squassava come un materasso di piume, mi afferrava alla gola per strangolarmi, mi schiacciava il petto con un ginocchio, mi bruciava al punto di farmi uscire gli occhi dalle orbite, restavo nella mia soffitta solo con la morte, che certamente mi era scivolata di soppiatto in camera e ora si gettava su di me!

<No, non lo voglio vedere il medico><Perché?> <Perché non lo voglio vedere>

I nostri occhi si scambiarono tutta una serie di sottintesi >Voglio morire> dissi per finirla. <La vita mi nausea, il passato mi torna alla mente come una matassa aggrovigliata che non ho la forza di dipanare. Che i miei occhi si riempiano di berio e si tirino le tende!>

Davanti ai miei nobili e coraggiosi sfoghi, ella restava insensibile.

<I tuoi vecchi sospetti…sempre?> disse

<Sì, sempre. Fa’ sparire il fantasma! Solo tu sei riuscita a scacciarlo via finora!>

Con un gesto abituale, posò sulla mia fronte la sua dolce mano, e, con finta aria di mammina, come un tempo, disse: 

<Va bene così?>

<Sì, così va bene!>

Ed era vero. Il semplice contatto di quella manina leggera, piombata così pesante nel mio destino, aveva la facoltà di scacciare le visioni nere, respingendo le inquietudini furtive.

Presto la febbre mi riprese, e più forte. Mia moglie si alzò per prepararmi una tisana di sambuco.

Essendo manifesta la maternità di Maria non mi reputo più tenuto in amore, a certe precauzioni; e siccome non c’è più motivo di rifiutarsi, inventa scuse per infastidirmi e quando vede la mia soddisfazione dopo i nostri liberi amplessi, mi serba rancore per l’innocente gioia che mi è venuta da lei.

E’ fin troppa felicità per me, visto che i miei disturbi nervosi vengono proprio dalla continenza! Intanto la mia affezione gastrica si aggrava al punto che non posso inghiottir altro che brodo e la notte mi sveglio con terribili crampi allo stomaco e bruciori insopportabili, che cerco di calmare bevendo latte freddo.

August Johan Strindberg

Enciclopedia Treccani Online

August Johan Strindberg, “Memoriale di un folle” (Armando Curcio ed. 1978)

Si incontrano vecchi medici di manicomio

Non esiste vero psichiatra che non sia in amicizia con la pietà.

<Torniamo alla modestia del nostro tema, ai matti abbandonati.>

<Agli ordini ! come si diceva una volta.> 

I novatori hanno affermato che la follia non esiste, quelli che erano ricoverati in manicomio erano vittime del potere. I giornali, i rotocalchi quando è uscita la legge 180 hanno brindato allo smantellamento, alla liberazione.>

<I ricoverati si devono inserire, tornare in famiglia, in società.>

<La società li ha ammalati, la società se li riprenda. Si devono inserire.>

<Sì, gli piacciono certe parole. Mancano le strutture e non: manca l’assistenza, la protezione, un giaciglio, un tetto.>

<Ne ho visto brancolare per le strade eppure molti mantenevano nel viso un sorriso senza rimprovero. Avevano fame e sete e conservavano un loro incantamento.>

<Evvia devi riconoscerlo, i novatori con la loro malinconia, la malinconia endogena, hanno avuto una bella vittoria.>

<Sì un trionfo>

<Tanti ne hanno uccisi>  (…)

<Ci infamino, ma si propaghi lo splendore della nuova scienza. I matti tornino nelle famiglie dove sono nati>

<E vi rimangano>

<Non importa se vi sono giovani, ragazze, bambini, vecchi>

<E meglio di tutto se la loro abitazione è in uno di quei grossi edifici delle città moderne, umani alveari, un bel appartamento di famiglia operaia>

<Qui il giovane schizofrenico avrà più contatti e più in fretta si inserirà>

<Il padre durante la notte stia in allarme, sa che il figlio può compiere oscenità e picchiare anche qualcuno dei familiari, ma che felicità per lui quando la mattina si alzerà dal letto e andrà verso la sua fabbrica, alla sua catena di montaggio, che è anch’essa certamente una letizia per la fantasia umana>   (…)

<Tu l’avevi immaginata tanta abnegazione nelle madri degli alienati?>

<Ti confesso di no. All’uscita della legge 180 non l’avevo prevista (…)>

<Gli altri familiari presto si stancano, sbuffano, si adirano; arrivano ad odiare il congiunto colpito dalla follia>

<Le madri no, fedeli, accettano qualsiasi cosa dal loro figlio scacciato dal manicomio. (…) Esse sono state costrette a diventare psichiatre, e che potenza di linguaggio acquistano, capaci di incredibili sottigliezze (…)>

<(…) Che è successo in Italia? Ti ricordi la grande speranza che sorse alla scoperta degli psicofarmaci? Eravamo nel 1952>

<Si accese la speranza di salvarne tanti. Le violenze si oacarono, i deliri si appassivan, le allucinazioni ancora battevano in quelle teste ma non si traducevano più in assoluto comando, in terribili imposizioni, divenute invece pallide, un’eco lontana. E ogni giorno di più tra le mura manicomiali soffiava il vento dell’umana libertà>  (…)

<In poco tempo tutti i manicomi d’Italia… e se non ti piace questo nome mettiamone un altro che olezzi di verbena>

<Tutti gli ospedali psichiatrici avrebbero vissuto nella giusta misura, tramutati in umani domicili…>

<E invece piomba giù la moda, la demagogia, la psichiatria sociale>

<La 180. I malati per le strade>   (…)

<Non ti voglio parlare dei matti violenti contro se stessi o contro gli altri. Io vecchio medico di manicomio ho una speciale tenerezza per i deboli di mente, i frenastenici, quelli scarsamente capaci di misurarsi con le difficoltà della vita, di distinguere tra cielo sereno e aria di tempesta. Essi sono diventati preda, facile preda di chi esercita la malizia, chi gode al beffeggio, che si diletta dello zimbello. I frenastenici, gli scarsi di giudizio, sono buon pasto dei profittatori, dei prepotenti, dei cattivi che respirano al mondo>  (…)

<Lasciamo stare questa mia confessione, la verità è che dovremo difenderli tutti, frenastenici e no. E  per questo parlare franco e usare le parole più comuni, quelle che capiscono tutti>

<Scienza è godere del frutto del passato e beneficiare della scoperta moderna>

<Non esiste vero psichiatra che non sia in amicizia con la pietà>

<Se davvero vogliamo difendere, aiutare i malati di mente dobbiamo essere nemici di chi maneggia politica e sociologia e imbratta la psichiatria, la quale non è né democratica né aristocratica né borghese o plebea, è solo la psichiatria, colei che studia la pazzia, uno dei più profondi misteri umani>.

Mario Tobino

Treccani Enciclopedia Online

Mario Tobino, “Zita dei fiori” (Mondadori meridiani, 1986)

Le parole per dirlo

Marie Cardinal scava nell’animo umano e porta in superficie le cause del suo malessere esistenziale e della sua inquietudine.

Fino a quel giorno, quando presi il coraggio a due mani per parlargli finalmente dell’allucinazione, e quando lui mi chiese dopo aver ascoltato la mia descrizione: “Tubo’, che cosa le fa venire in mente?” fino quel giorno non mi ero ancora avventurata a fondo nell’inconscio. Vi avevo fatto qualche puntatina a caso, quasi senza rendermene conto.

[…] Mi rendevo conto che ancora a trent’anni e passa, avevo paura di non piacere a mia madre. Allo stesso tempo mi rendevo conto che la botta tremenda che mi aveva dato raccontandomi il suo aborto mancato mi aveva procurato un profondo disgusto di me stessa: non potevo essere amata, non potevo piacere, non potevo che essere respinta. Per questo ogni separazione, ogni partenza, ogni contrattempo erano vissuto come altrettanti abbandoni. Bastava che perdessi la metropolitana per sentire la Cosa agitarsi dentro di me. Ero una fallita, e quindi era logico che fallissi in tutto.

Era tanto semplice! Come mai non c’ero arrivata da sola? Come mai non me n’ero servita ogni volta che mi sentivo male? Semplicemente perché finora non ne avevo parlato con nessuno.

[…] Era tanto semplice che stentavo a crederci. Eppure i fatti lo dimostravano: tutti i miei disturbi psicosomatici erano scomparsi: il sangue, l’impressione di diventare cieca e sorda. La distanza tra le crisi di angoscia aumentava, ormai mi capitavano solo due o tre volte alla settimana.

Nonostante ciò, non ero ancora normale. 

[…] In quel momento il dottore chiese:

“’Tubo’, che cosa le fa venire in mente?”

Queste parole mi diedero fastidio. Sapevo dove andava a parare: il pisellino di carta, l’uscita dalla pancia di mia madre. Non si trattava di qiesto. Se fosse stato così semplice ci sarei arrivata da sola. M0p venuto voglia di alzarmi e di tagliare la corda. Mi esasperava quel piccolo burattino muto, con la sua calma e la sua impassibilità da iniziati. 

“lei mi ricorda i preti. È uguale a loro. Lei è il gran sacerdote della religione del cazzo. È sempre lo stesso ritornello con voialtri. Mi fai schifo.

[…] “…tubo, mi fa pensare a un tubo. Un tubo è un tubo… tubo mi fa pensare a tubetto… a tunnel… tunnel mi fa pensare al treno… da bambina viaggiavo spesso. Passavamo le nostre estati in Francia e in Svizzera. Prendevamo la nave poi il treno. Sul treno avevo paura di far la pipì. Mia madre era fissata sull’igiene e vedeva microbi dappertutto…”

Divagavo, divagavo. La bambina è venuta a raggiungermi. Io ero la bambina, avevo tre o quattro anni.”

[…] Durante quelle settimane, o quei mesi, non ricordo più, ero ubriaca dal mattino alla sera, ubriaca di gioia, d’alcool, di salute, di notti insonni, di carezze sempre nuove, di cibi appetitosi. Passavo le mie giornate a divertirmi con questo straordinario giocattolo: il mio corpo.

[…] Ogni parola che faticavo a pronunciare nascondeva in realtà un territorio nel quale rifiutavo di entrare. Ogni parola che dicevo con piacere designava al contrario un territorio che mi piaceva.

[…] Mi sono allora resa conto che c’era tutta una parte del mio corpo che non avevo mai accettato, che in qualche modo non mi era mai appartenuta. Tutto quello che era collocato tra le mie gambe poteva essere indicato soltanto con parole vergognose e non era mai stato l’oggetto del mio pensiero cosciente. Nessuna parola conteneva il mio ano.

[…] Non parlavo mai dell’analisi perché mi rendevo conto che quell’argomento infastidiva la gente: “sono tutte balle. I pazzi si mandano in manicomio. Per il resto sono balle da donnette, froci o squilibrati.” A quel punto iniziava una vera pioggia di racconti del genere: “io (o Pietro, Paolo o Mariarosa) ho fatto una psicoanalisi. Ebbene, cara mia, mi ha completamente distrutto. Non me ne parlare. Mi ci sono voluti cinque anni per rimettermi in sesto!” dopo scoprivo che avevano visto un medico per due mesi, sei mesi o anche due anni. Qualcuno al quale avevano raccontato la loro vita, che li aveva ascoltati, dato dei consigli e infine gli aveva prescritto un tranquillante nuovo. Insomma, o non avevano fatto una vera analisi, o l’avevano abbandonata nel momento in cui diventava difficile.

Marie Cardinal

Scheda dell’editore

Marie Cardinal, “Le parole per dirlo” (1975)