Morte a Venezia

Thomas Mann diventa cronista dell’epidemia di Colera che si diffondeva, silenziosamente, a Venezia.

Mentre prendeva il tè, seduto a un tavolino rotondo di ferro, dalla parte in ombra della piazza, fiutò ad un tratto nell’aria un odore singolare, che gli pareva avesse già sfiorato il suo olfatto, da tempo, senza però rendersene cosciente, un odore dolciastro medicinale che ricordava calamità e ferite e pulizia sospetta. Lo vagliò con apprensione, identificandolo, e, terminato lo spuntino, s’allontanò dalla piazza dalla parte opposta alla chiesa. Nello spazio ristretto, l’odore cresceva d’intensità.

Agli angoli delle calli erano affissi dei manifesti stampati con i quali le autorità comunali, a causa di certe malattie dell’apparato digerente, all’ordine del giorno con simili temperature, mettevano in guardia gli abitanti contro l’ingestione di ostriche e telline e anche contro l’acqua dei canali. La natura palliativa della prescrizione era chiara. La gente faceva crocchio su ponti e piazze; e lo straniero vi si mischiò, indagando e almanaccando.

Pregò un negoziante, appoggiato alla porta del suo fondaco, tra collane di corallo e monili di falsa ametista, di dargli informazioni sull’infausto odore. Quello lo squadrò con occhi pesanti e si rianimò frettoloso: «Una misura profilattica, signore!» rispose gesticolando. «Una disposizione della polizia, che bisogna approvare. Questa temperatura opprime, lo scirocco non è salutare. Insomma, lei mi capisce, una precauzione forse esagerata…» Aschenbach, ringraziatolo, proseguì. Anche sul vaporetto che lo riconduceva al Lido, sentiva ora l’odore del disinfettante.

Ritornato all’albergo, si recò subito alla tavola dei giornali e diede una scorsa ai quotidiani. In quelli stranieri non trovò nulla. Quelli del suo paese accennavano a notizie, citavano cifre incerte, riportavano smentite ufficiali, mettendone in dubbio la veridicità. Ecco come si spiegava lo sgombro dei turisti tedeschi e austriaci. Quelli delle altre nazionalità, evidentemente, non sapevano nulla, non sospettavano nulla, non erano ancora inquieti. «Si vuole tacere!» pensò Aschenbach eccitato, mentre gettava i giornali sulla tavola. «La cosa si vuole passarla sotto silenzio!» Ma nello stesso tempo il suo cuore si riempì di soddisfazione per l’avventura in cui il mondo esterno stava andando a finire

Un giorno, a colazione, nella grande sala da pranzo, affrontò il direttore, quell’ometto silenzioso in finanziera francese, il quale salutando e controllando, si muoveva tra i commensali e si era fermato anche alla tavola di Aschenbach per scambiare qualche parola. Perché, chiese l’ospite in maniera apatica e incidentale, perché diavolo, da qualche tempo, si disinfetta Venezia? «Si tratta,» rispose l’ipocrita, «di una misura della polizia, destinata ad evitare, debitamente e a tempo, ogni tipo di insalubrità o disturbo della salute pubblica, che potrebbe prodursi a causa della temperatura soffocante e caldissima.» «È proprio da lodare la polizia,» rispose Aschenbach; e, scambiate alcune osservazioni sul tempo, il direttore si congedò.

Già da parecchi anni il colera indiano aveva manifestato maggiore tendenza a propagarsi e a migrare. Generata dai caldi terreni paludosi al delta del Gange, aumentata dalle esalazioni mefitiche di quel rigoglioso e inutile luogo selvaggio preistorico e insulare, disertato dagli uomini, nei cui canneti si cela la tigre, l’epidemia aveva imperversato con violenza continua e insolita in tutto l’Indostan, invadendo a levante la Cina e a ponente l’Afghanistan e la Persia e portando, sulle piste delle principali carovaniere, il terrore fino ad Astrakan e addirittura fino a Mosca. Ma, mentre l’Europa tremava nel timore che lo spettro potesse introdursi da laggiù via terra, era comparso, propagato via mare, da navi mercantili siriane, quasi contemporaneamente, in parecchi porti mediterranei, sollevando la testa a Tolone e Malaga, mostrando la sua maschera più volte a Palermo e a Napoli, sembrando pure che non volesse più ritirarsi dalla Calabria e dalla Puglia. Il nord della penisola era stato risparmiato. Tuttavia alla metà di maggio di quell’anno, a Venezia furono trovati, nello stesso giorno, i terribili vibrioni nei cadaveri consunti e nerastri d’un mozzo e d’una fruttivendola. I casi vennero taciuti. Ma dopo una settimana ce n’erano dieci, venti, trenta e pure in diversi sestieri. Un austriaco che per diporto s’era trattenuto qualche giorno a Venezia, ritornato nella sua cittadina, morì con sintomi inequivocabili, e il fatto causò la comparsa sui giornali tedeschi delle prime voci sulla disgrazia nella città lagunare. Le autorità veneziane fecero rispondere che le condizioni sanitarie della città non erano mai state migliori, e presero le necessarie misure di sicurezza. Ma probabilmente generi alimentari, verdure, carne e latte erano già infetti, perché, nonostante smentite e occultamenti, la morte si estese distruggendo nelle anguste calli, e il caldo estivo, subentrato prematuro, intiepidendo l’acqua dei canali, favorì in modo particolare la diffusione. Sembrava addirittura che l’epidemia si fosse rinvigorita di forze, raddoppiata di tenacia e fertilità. I casi di guarigione erano rari; l’ottanta per cento dei colpiti moriva, e pure in modo orrendo, perché il male insorgeva con estrema violenza, presentando spesso quella forma pericolosissima detta «asciutta». In tale eventualità il corpo non riusciva neppure a espellere l’acqua secreta in abbondanza dai vasi sanguigni. In poche ore il malato, insecchitosi, soffocava per il sangue divenuto viscido come la pece, tra crampi e lamenti rauchi. Era da reputarsi fortunato se, come talvolta accadeva, all’accesso seguiva, dopo un leggero malessere, un deliquio profondo dal quale non si svegliava più, o quasi. Al principio di giugno furono riempiti tacitamente i padiglioni d’isolamento dell’ospedale civico, nei due orfanotrofi cominciavano a mancare i posti, tra la riva delle Fondamenta Nuove e San Michele, l’isola del cimitero, regnava un movimento d’intensità spaventosa. Ma il timore di una rovina troppo generale, il riguardo per l’esposizione di pittura recentemente aperta nel parco pubblico, per le enormi perdite che, in caso di panico e proscrizioni, avrebbero minacciato gli alberghi, i negozi, tutta la molteplice industria turistica, si mostrarono nella città più potenti dell’amore per la verità e del rispetto delle convenzioni internazionali; ebbero il potere di far persistere ostinate le autorità nella politica del silenzio e della smentita. Indignato, il più alto ufficiale sanitario di Venezia aveva rassegnato le dimissioni ed era stato sostituito alla chetichella da un uomo più arrendevole. La cittadinanza sapeva; ma la corruzione dei maggiorenti insieme con la regnante incertezza generale, con lo stato d’emergenza in cui la morte vagabonda aveva trasferito la città, produsse una certa depravazione degli strati inferiori, un incoraggiamento a impulsi foschi e antisociali, che si manifestò con sfrenatezza, impudicizia e crescente criminalità. Contro il solito la sera si notavano molti ubriachi; gentaglia malvagia, dicevano, rendeva di notte le strade malsicure; c’erano stati ripetuti casi di rapina e persino d’omicidio, in quanto già due volte era stato scoperto che persone presunte vittime dell’epidemia, erano state invece eliminate con il veleno dai loro propri familiari; la sciatteria professionale assumeva forme sfacciate e dissolute, prima d’allora mai conosciute in quei posti, mentre erano state di casa nel sud del paese e in Oriente. L’inglese disse di tutto questo le cose essenziali. «Farebbe bene a partire,» concluse. «Meglio oggi che domani. Non si può andare.

Thomas Mann

Enciclopedia Treccani Online

Thomas Mann, “Morte a Venezia” ()

Carmen Troiano

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