Una cosa che comincia per elle

In questo racconto, contenuto nell’antologia “Boutique del mistero”, Buzzati racconta la lebbra, malattia innominabile e contratta dal mercante Schroder costretto a girare seminudo con la campanella del lebbroso.

Versione integrale audio del racconto

Cristoforo Schroder, mercante in legnami, andò subito a letto, perché non si sentiva bene. Mandò poi a chiamare il medico dottor Lugosi, ch’egli conosceva da anni. Il medico venne e sembrò rimanere perplesso. Escluse che ci fossero cose gravi, si fece dare una bottiglietta di orina per esaminarla e promise di tornare il giorno stesso.
Il mattino dopo lo Schroder si sentiva molto meglio (…)

“Sono qui con un amico, questa mattina” (…)

“Tutto bene, le orine. Solo vorrei farvi un piccolo salasso. ” (…)

Intanto il visitatore estraneo, senza togliersi l’ampio mantello, aveva deposto sul tavolo il cappello e un pacchetto oblungo che mandò un rumore metallico. Lo Schroder notò con un senso di vago malessere, che l’uomo si era seduto quasi sulla soglia come se gli premesse di stare lontano da lui.
” Don Valerio, voi non lo immaginate, ma vi conosce già” disse allo Schroder il medico (…)

Vi dirò non ho mai avuto l’onore di incontrarvi personalmente, ma so qualche cosa di voi che certo non immaginate. ” (…)

“Non era un uomo alto, tutto nero in faccia, con uno strano cappello a cilindro? ” insisteva don Valerio. ” E non aveva una specie di campanella? Non vi ricordate che continuava a suonare? ”  (…)

” E chi era quell’uomo, allora? ” chiese lo Schroder con asprezza, come per far capire che se il Melito aveva qualche cosa da dire, era meglio che lo dicesse subito. (…)

Voi, piuttosto, chi credeste che fosse?” (…)

Un povero diavolo, un disgraziato (…)

“Uno zingaro, poteva essere. Per far venire gente li ho visti tante volte suonare una campana” (…)

” No. Non era uno zingaro. O, se lo era stato una volta, non lo era più. Quell’uomo, per dirvelo chiaro, è una cosa che comincia per elle. “
” Una cosa che comincia per elle? ” (…)

“Un ladro? Volete dire?” (…) Un lanzichenecco forse?… ” (…)

” Nè un ladro nè un lanzichenecco ” disse lentamente il Melito. ” Un lebbroso, era. ” (…)

Sono l’alcade, caro signore (…)” In quel pacchetto c’è la vostra campanella ” rispose. ” Uscirete immediatamente di qui e continuerete a suonarla, fino a che sarete uscito fuori del paese, e poi ancora, fino a che non sarete uscito dal regno. “

“La giacca, la mantella, e basta. L’altro deve essere bruciato. Per la carrozza e il cavallo si è già provveduto.” (…)

Dino Buzzati. La boutique del mistero. (Oscar Mondadori, Mondadori, 1968)

La buona cura, da Seneca alla medicina narrativa





Dai suggerimenti del filosofo spagnolo all’attuale “Medicina narrativa”, su cui arriva ora in traduzione italiana il manuale di Rita Charon, si ravvisa un’analogia: la considerazione del malato come persona, il rischio di ridurre il paziente a “cliente”. Sensibilità, dialogo, competenze psico-pedagogiche sono fondamentali per percorsi terapeutici più efficaci


È ovviamente la nostra lettura a posteriori che induce a ravvisare nelle parole di Lucio Anneo Seneca così tante e strette analogie con le questioni odierne della medicina e della sua comunicazione. Detratto però questo bias dobbiamo riconoscere un indubitabile interesse e una notevole attualità ai “Consigli ai medici” del filosofo spagnolo, precettore di Nerone, ora ripubblicati da EDB in un’edizione curata dal classicista Lucio Coco.

Seneca ci appare per esempio, data l’insistenza sull’analogia tra la metafora medica e la cura delle anime propria del filosofo, una sorta di antesignano del counceling: “Chi è un vero medico è anche filosofo” scriveva del resto anche Galeno. Non meno moderna l’attenzione prestata dallo scrittore latino al medico e al malato come persona (in un passaggio del dialogo “Sui benefici” afferma che “malato e malattia non sono la stessa cosa”), legate da uno spirito umanitario, amicale, in cui oltre alla cura contano i consigli, soprattutto scevro dall’approccio venale che riduce il paziente a “cliente”, anche perché per medico e insegnante la ricompensa sta nel loro stesso lavoro. Un concetto molto condiviso all’epoca, anche Celso nel “De medicina” afferma che “a parità di scienza è più utile che il medico sia amico che estraneo”.
E poi l’apprezzamento per la capacità professionale: “Il malato non domanda un medico eloquente ma esperto” ricorda a Lucilio, con un’affermazione tutt’altro che banale in tempi di improvvisazione e ciarlataneria dilaganti, che peraltro proseguono ben oltre l’epoca classica fino ai giorni nostri, come tanta cronaca insegna. Come nel “Giuramento” di Ippocrate, Seneca insiste insomma sui plus etici inscindibili dalla pratica clinica e sanitaria: temperanza, equilibrio, riservatezza sono chiaramente affermati come doveri ben prima che entrassero in vigore le norme sulla privacy.
Molto vicino ai nostri giorni anche l’accostamento di tre settori di ricerca come chirurgia, dietetica e farmaceutica (già nel “Corpus hippocraticum” leggiamo che è “Nel cibo il farmaco migliore, nel cibo il farmaco peggiore”), altra anticipazione plurisecolare rispetto alla odierna, talvolta maniacale o fobica, attenzione all’impatto della dieta e dell’alimentazione sulla salute. Peraltro, secondo il filosofo stoico, in passato i mali erano meno virulenti perché l’uomo “non aveva ancora inventato cibi elaborati che, invece di calmare la fame, stimolano l’appetito e il desiderio”: sembra di ascoltare una campagna contro il junk food!

Quando poi Seneca scrive che il medico deve materialmente “sentire il polso” del malato, non può curare “di passaggio” e non può decidere “per lettera” ci sembra davvero di leggere, mutatis mutandis, dei nostri rapporti digitali e tecnologici con una Sanità che raramente concede (e può permettersi) una palpazione o auscultazione del paziente.
Facendo poi un salto di parecchi secoli, ravvisiamo un’altra e fondamentale analogia, quella cioè di una “buona cura” che passi non solo per le competenze scientifiche del medico e per il supporto tecnologico ma anche per un rapporto umano autentico tra sanitari e pazienti, che consenta la necessaria comprensione, comunicazione e condivisione. Il concetto che oggi passa sotto il nome di “Medicina narrativa”. L’omonimo volume di Rita Charon è ora tradotto e pubblicato in Italia da Raffaello Cortina, a tredici anni dalla sua uscita negli Stati Uniti. Un omaggio all’opera su cui si fonda la disciplina della quale l’autrice – medico internista e docente alla Columbia University – è considerata tra i massimi rappresentanti. Senza dubbio la Medicina narrativa è ormai un modello di formazione irrinunciabile, anche nel contesto italiano, per chi operi a qualunque livello nel servizio sanitario, dove la sensibilità, la capacità di dialogo, le competenze in ambito psicologico e pedagogico sono considerati di fondamentale importanza, all’interno della complessiva ricucitura tra scienze umane e naturali.

“La medicina può trarre vantaggio da quello che gli studiosi di letteratura, gli psicologi e gli antropologi sanno già da un po’: come funzionano le narrazioni, come trasmettono conoscenze sul mondo, come organizzano l’esistenza permettendo di coglierne il significato”, scriveva Rita Charon rivolgendosi a un sapere medico all’epoca ancora “sordo verso tutto ciò” e “basato quasi esclusivamente sulla componente biologica della malattia e sullo sviluppo di competenze tecniche”, preoccupato soltanto di “spiegare” e “protocollare” su larga scala. Certo la situazione non è risolta definitivamente, di sicuro non nel contesto italiano, poiché le pur numerose esperienze e pratiche attivate sono ancora frammentarie, scarsamente visibili, conosciute e documentate. Sta però crescendo la consapevolezza etico-politica della cura, la coscienza che la fragilità che connota la malattia si interseca con la emarginazione sociale, con il disagio interiore: deficit su cui la narrativa ha indubbiamente un ruolo di cura, non nel senso generico di creare un ”immaginario clinico” ma nella capacità di “scendere verso” chi sta vivendo una situazione patologica prima di tutto per riconoscere, recepire e interpretare l’anamnesi (“ascoltare la storia del paziente”), quindi per meglio identificare la patologia e collaborare tra colleghi medici e con la famiglia al fine, molto concreto, di indirizzare e accompagnare lungo percorsi terapeutici più efficaci. “Una visita di otto minuti non basta a dire tutto quello che si deve […] è fondamentale costruire una fiducia longitudinale”.

Non è un obiettivo banale, poiché richiede “uno studio disciplinato e rigoroso” che confligge con le logiche di efficienza e redditività cui il sistema sanitario e anche l’atteggiamento di molti operatori sembrano guardare come al loro principale obiettivo, “un sistema di mercato burocratizzato e attento soprattutto ai costi”. Nel suo dipartimento universitario, una delle esperienze di Medicina narrativa più rilevanti a livello internazionale assieme alla rivista Literature and Medicine, Rita Charon ha creato un modello formativo preciso: “Noi insegniamo ad analizzare i testi con cura e a scrivere in maniera riflessiva disciplinata e ponderata […] Facciamo conoscere le grandi opere letterarie”. Ma – ammette l’autrice – questo modello confligge con una interpretazione molto diversa della medicina: “Siamo diventati molto bravi a diagnosticare e curare le malattie […] nonostante un progresso così impressionante, manca spesso la capacità umana di provare empatia per gli ammalati”. E non solo: “Le competenze narrative non riguardano solo il singolo incontro ma tutta la pratica clinica […] sembra che i dottori si tengano a distanza anche dagli studenti dai colleghi dagli altri operatori e dalla società”. In effetti, le università e le scuole di specializzazione non possono “insegnare il rispetto, l’altruismo e la responsabilità” se questi tratti non si sviluppano e coltivano fin dall’infanzia, nella formazione famigliare, scolastica e sociale.

Marco Ferrazzoli


Rita Charon, “Medicina narrativa. Onorare le storie dei pazienti” (Raffaello Cortina, 2019)
Lucio Anneo Seneca, “Consigli ai medici” (Dehoniani, 2019)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Se Josef Mengele bussa alla porta

L’inquietante fascinazione iconica e narrativa esercitata dal nazismo trova nel medico di Auschwitz una figura di rilievo particolarmente sinistro, che alla follia ideologica aggiunge quella “scientifica”. Un po’ come nel film “I ragazzi venuti dal Brasile”, la biografia romanzata “L’ospite” di Margherita Nani mescola realtà storica e finzione letteraria


La fascinazione iconica e narrativa esercitata dal nazismo non è certo una novità, basti pensare alla collana video con le opere della regista di regime Leni Riefensthal che già decenni or sono L’Espresso, certo non sospettabile di nostalgie o simpatie verso il Terzo Reich, allegò al settimanale. Le dittature esercitano su di noi una contraddittoria fascinazione forse proprio perché rappresentano in forme e misure diverse l’abiezione umana, di chi comanda ma anche di chi obbedisce, in un’ambiguità che Hannah Arendt scolpì in modo indelebile ne “La banalità del male”. In questo contesto, il nazismo ha però assunto un inquietante primato: fotografia, filmografia, narrativa e saggistica sul devastante corso che Hitler impresse alla storia della Germania e del mondo intero sono, non a caso, sterminate.

In questo filone, la figura di Joseph Mengele assume un rilievo ancor più sinistro, poiché alla follia politica aggiunge quella “scientifica”. Mengele si erge, nelle gerarchie svasticate, come l’artefice più spietato degli esperimenti che dovevano tradurre in prove i teoremi razziali, utilizzando come cavie i deportati nei lager, bambini e gemelli in primis. La fuga in Sudamerica compiuta dopo il crollo del regime, la caccia inesausta compiuta per ritrovarlo e consegnarlo alla giustizia hanno ispirato “I ragazzi venuti dal Brasile”, film memorabile soprattutto per la sfida attorale tra Gregory Peck e Laurence Olivier, che vestono rispettivamente i panni di Mengele – impegnato nella creazione di 95 cloni del Fuhrer – e di Ezra Lieberman, personaggio ispirato a Simon Wiesenthal.
Il medico di Auschwitz è ora protagonista de “L’ospite. Le anatomie di Josef Mengele” di Margherita Nani: una biografia romanzata che, come la pellicola, prescinde molto dalla reale e misteriosa esistenza post-nazista di Mengele. Nel libro lo incontriamo nel 1955 a Candido Godoi, nel cuore del Brasile, dove si presenta come un misterioso tedesco in cerca di una stanza. Una famiglia di affittacamere lo accoglie ma Pia Souza, la figlia adolescente dei gestori, resta subito colpita da quello straniero riservato e imperscrutabile, il quale ricambia l’attrazione per la ragazza, molto lontana dai canoni ariani ma tanto pura e vitale da ispirargli emozioni fino ad allora sconosciute. Flashback e attualità, realtà storica e finzione letteraria si alternano nel libro, facendo emergere la diabolica malvagità dell’uomo, che non sarà mai sfiorato dal pentimento o almeno dal ripensamento per gli orrori compiuti.
Escamotage narrativo fondamentale del testo è però l’analisi psicologica che l’autrice compie sul protagonista, disegnato attraverso i rapporti con la famiglia di origine, con la moglie Irene e con Teresa, una ebrea assoldata quale collaboratrice ad Auschwitz come una personalità contraddittoria e fortemente complessata. Mengele non sembra avere davvero un’anima e l’esperienza brasiliana gli confermerà che non potrà mai trovare pace. Del resto non troverà mai nemmeno la punizione terrena.

Marco Ferrazzoli


Margherita Nani, “L’ospite. Le anatomie di Josef Mengele” (Brioschi, 2019)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Dino Buzzati, Romanzi e racconti

In questo racconto, Buzzati descrive questa sconosciuta malattia (peste canina) e i suoi strani sintomi. Le poche conoscenze circa questa nuova epidemia generavano preoccupazione generale che sfociò in un “decreto del governatore” che proibii gli assembramenti, unita a ipocondria e allarmismi veri…O presunti.

Paurosissimo delle malattie, io le sento venire da lontano. (…)

Di questa malattia si raccontava una quantità di cose strane. Secondo alcuni proveniva dal cuore impenetrabile dell’Africa, altri invece dicevano che fosse stata provocata da un sacrilegio in Terrasanta. La chiamavano canina non perché colpisse i cani ma perché nella fase dell’incubazione, che durava uno o due giorni, l’ammalato emanava un forte odore. (…) Spesso ricordava il cane. (…) Un effluvio specialissimo, indefinibile a parole; che era lo stesso marchio della peste. E pochissimi erano in grado di distinguerlo. (…) medici o infermieri, o suore che erano vissuti in Africa o in Oriente.  Altri sintomi denotavano l’esplodere della peste vera e propria. (…) Ma ce n’era uno tipico e fatale: l’uomo colpito dal contagio non era più capace di un discorso organizzato (…)

Perciò la si chiamava anche peste sillabica.  (…)

Esisteva, è vero, un vaccino capace di stroncare l’infezione: ma doveva essere iniettato al tempo giusto, nel corso dell’incubazione, né prima né dopo; guai se si tardava; guai anche se lo si propinava, per errore, a una persona sana; se in seguito costui si contagiava, il vaccino non sarebbe più servito a niente. L’allarme fu gettato all’improvviso. Un decreto del governatore, alludendo in modo vago a pericoli di epidemie, proibì gli assembramenti e gli spettacoli, chiuse i locali pubblici, impose il controllo dei viaggiatori eccetera. In poche ore tutta la popolazione seppe. E già si udivano le sirene delle autoambulanze chiamata qua e là a trasportare i moribondi. Fu il terrore. (…)

Per fortuna io ero amico del professore Ettore Tiriaca, il clinico famoso (…)

Scoppiata l’epidemia, divenni l’ombra stessa del Tiriaca. (…) Col mio terrore di essere infettato, sentivo un odore dopo l’altro, immaginandomi che venissero da me. Il Tiriaca mi rassicurava: “Ma io non sento niente” (…)

Una sera – ero invitato a pranzo – appena entrato a casa Tiriaca, sento odore di tartufo. Magnifico, dico a me stesso, perché di tartufi sono ghiotto. (…)

“Ma dimmi, professore… come mai quest’odore di tartufi” “Tartufi?… Io non sento odore di tartufi… (…)

“Non sarò mica io per caso a …?” Lui mi annusa col suo grande naso, sorridendo. “Tu sei su una brutta china, caro mio… Di questo passo finirai dritto al manicomio” “Professore non inquietarti, l’odore c’è, ti giuro… E io ti sono amico… Io te lo volevo dire…  ascolta… non potrebbe darsi che … non potrebbe darsi che a odorare di tartufo… insomma non potresti essere tu?”

Il Tiriaca mi fissa, il sorriso gli si è fermato sulle labbra, non capisce se io voglio scherzare. Gli viene forse un dubbio? No. Si mette anzi a ridere di gusto. “Non mi illudevo che tu mi stimassi un luminare” dice “ma almeno che io non fossi un asino del tutto… Se mi fossi impestato, per capirlo credi forse che avrei bisogno dell’odore?” (…)

Per la prima volta io non gli credo, le sue parole non danno più sollievo. E intanto l’odore va crescendo, la casa ne è ammorbata, io cerco di andarmene al più presto. (…)

Anche la notte passa. Alle otto e mezzo salgo dal Tiriaca per accompagnarlo in clinica. Entrato, annuso. L’odore di tartufo non c’è più. Meno male, mi dico, si vede che era tutta suggestione. In quel mentre arriva il professore. “Beh, come la va? Senti ancora la presenza di tartufi? Ti sei calmato?… Ieri sera dopo che te ne sei andato, non credere, io non ci ho pensato su… e ho capito da dove ghe ghe quell’odore, in parte credo che sia… in parte… mah… invece, eh già… sgabusè toil gragiueaaa…” la frase si perse in un groviglio incomprensibile. (…)

La sera stessa fuggii dalla città (…)

E già è passato un mese. A quest’ora, se io fossi rimasto contagiato, il male sarebbe pur venuto fuori. Invece io sto bene, non emetto odori, parlo speditamente vero che parlo con la massima scioltezza? Il brutto sarebbe infatti se all’improvviso cominciassi anch’io a barbugliare, confondendomi, allora si sippo po potrei dirmi spaccirmi…

Dino Buzzati. “Romanzi e racconti”. A cura di Giuliano Gramigna. I Meridiani Mondadori, 1975

Una donna tra amore e malattia

Scritto dall’editor e critica letteraria, Giovanna De Angelis, stroncata prematuramente nel 2013 da un male che ha voluto raccontare in questo unico e postumo romanzo, il cui tema centrale è proprio la malattia della protagonista, Francesca, in lotta contro un ‘mostro’ incurabile


La giovane protagonista vive a Roma e fa la traduttrice, è sposata con Cosimo, ha una madre assente, un’amica attenta e frequenta il vecchio professore dell’università a cui la lega la passione per la traduzione. Un giorno incontra Diego, un ricercatore universitario, con il quale inizia una storia, fatta di poche parole e incontri sessuali che si consumano su un “divano letto tappezzato di velluto a coste verde scuro”.
Di colpo, arriva la malattia, il dolore, che “è solo di chi lo prova e di nessun altro”, e l’ospedale con la sua routine, “la terapia, il reparto che riapre le porte, una mascella di ferro, plastica e vetro pronta a masticarla e a risputarla fuori barcollante e col sangue pulito”. Francesca vive da ammalata senza rinunciare a combattere per mantenere la sua identità e per ottenere un’altra possibilità.
La narrazione in terza persona del libro, diviso in due parti – ‘Il vento’ e ‘Lo schianto’ – si alterna a brevi pagine di diario dove la malattia non viene esibita, ma diventa un osservatorio da cui scrutare la vita degli altri. Una lettura che propone la sofferenza della protagonista in modo delicato e aiuta a guardare oltre, per dare il giusto peso alle cose.

Marina Landolfi


Giovanna De Angelis, “La frattura”, Elliot (2015 )



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Robert Walser, la costruzione dell’invisibilità

Nel suo ‘Verso il bianco’, lo psicologo e psicoterapeuta Paolo Miorandi racconta la vicenda umana e letteraria dello scrittore svizzero a partire dalla foto che ne ritrae il corpo esanime nella neve. Una morte che lo stesso Walser aveva anticipato alcuni decenni prima in un proprio romanzo. E che giunge dopo ventitré anni di ricovero in manicomio


Lo psicologo e psicoterapeuta Paolo Miorandi racconta nel suo ‘Verso il bianco’ la vicenda umana e letteraria di Robert Walser. Lo fa analizzando alcune foto, a partire da quella scattata dalla polizia che ritrae lo scrittore svizzero morto, riverso nella neve, a breve distanza dalle orme della sua ultima passeggiata (percorso che oggi fa parte del Robert Walser Pfad, sentiero letterario inaugurato nel 1986). La cosa incredibile è che alcuni decenni prima Walser aveva descritto questa stessa scena, con precisione quasi assoluta, nel suo ‘I fratelli Tanner’: il giovane Simon, protagonista del romanzo, “sale verso il monte, la neve scricchiola sotto la suola delle sue scarpe […] A metà della salita, Simon vede un uomo sdraiato sulla neve in mezzo al sentiero […] Il corpo è rigido e senza vita […] Simon riconosce l’uomo: è Sebastian, il poeta […] Un riposo splendido – continua Simon rivolgendosi al poeta sdraiato nella luce bianca – questo giacere e irrigidirsi sotto i rami degli abeti nella neve. È il meglio che tu potessi fare”.

La morte che Walser aveva in qualche modo vaticinato giunge dopo ventitré anni di ricovero nel manicomio di Herisau, dove lo scrittore è stato condotto dalla maggiore delle due sorelle, Lisa, che si dichiara impossibilitata ad accudirlo e che è impaurita da certi comportamenti sessuali del fratello. Robert la ricambierà rifiutandosi di incontrarla quando lei, gravemente malata, esprimerà il desiderio di vederlo. A completare lo scenario della disgraziata famiglia, il fratello Ernest, anch’egli internato e morto in manicomio per dementia praecox: finito “dalla parte in cui non c’è più il sole”, scrive Robert. Se si aggiunge che “probabilmente Walser è morto vergine” a causa “di una forma nervosa di impotenza”, coltivando – come il suo collega Gottfried Keller, anima che sente particolarmente affine – la convinzione che “la favola del corteggiamento è sempre la stessa: comincia soave e piacevole e finisce penosamente”, il quadro di un’assoluta desolazione sentimentale ed emotiva è completo.
Ma l’internamento e la scomparsa di Walser si inquadrano in qualche modo anche in quella Svizzera che la scrittrice Fleur Jaeggy ha definito “un’arcadia della malattia”, dove “qualcosa di malato e torbido” si agita “dietro ai giardini curati e alle finestre dai davanzali perennemente fioriti”. Il libro è il resoconto di una sorta di pellegrinaggio che Miorandi conduce a Herisau e nei luoghi walseriani, attratto dalla capacità dello scrittore di “trasformare la sconfitta in qualcosa che non so nominare ma che ha il chiarore di una disarmante conclusiva bellezza”. Pur essendo un paziente calmo, Walser in manicomio rifiuta qualunque privilegio e, in particolare, l’opportunità che gli viene offerta di scrivere, dicendo di trovarsi lì “per fare il matto”. Al giovane medico che se lo prende a cuore, risponde: “In clinica ho quel che mi occorre, la pace”. Una pace “semplice e ben scandita” da ritmi lenti e regolari in cui si alternano la sveglia, il lavoro, i pasti, il riposo. “A Herisau lavora alla costruzione della propria invisibilità” e di questa silente sofferenza restano solo “i microgrammi”, cioè “cinquecentoventisei piccoli fogli contenuti in una scatola da scarpe” e scritti in una grafia minutissima, quasi illeggibile.
“Walter Benjamin ha scritto che le storie di Walser iniziano laddove terminano le fiabe”, ricorda Miorandi: “Il lampo di inquietante felicità che ci trasmettono è dovuto al fatto che sono guariti e poco importa che si tratti di una guarigione temporanea e che in ogni momento possano precipitare nuovamente nella follia”.

Marco Ferrazzoli


Paolo Miorandi, “Verso il bianco” (Exorma, 2019)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Batteri e virus, una guerra. Contro la paura

‘Le grandi epidemie’ di Barbara Gallavotti evidenzia come gli agenti infettivi siano stati capaci di uccidere più uomini di qualsiasi armata sulla Terra e si chiede: “Chi vincerà alla fine?”. La risposta è che uno dei principali alleati di questi nostri temibili e minuscoli avversari è il sentimento irrazionale che porta da un lato a diffidare dei vaccini e dall’altro ad assumere con leggerezza gli antibiotici. Mentre il corretto uso di queste innovazioni è la migliore arma a nostra disposizione


La letteratura divulgativa su virus, batteri, microbi, vettori e agenti patogeni è amplissima. Solo per citare randomicamente alcuni titoli degli ultimi lustri, va da ‘Epidemie’ di Giovanni Rezza a ‘Pillola del giorno prima. Vaccini, epidemie, catastrofi, paure e verità’ di Marco Malvaldi e Roberto Vacca; da ‘Batteri spazzini e virus che curano’ e ‘Occhio ai virus’ del nostro Giovanni Maga a testi opportunamente rivolti ai lettori più giovani come ‘Le difese del mio corpo’ di Laurent Degos e ‘Virus, microbi e vaccini’ di Clara Frontali; da monografie su specifiche patologie come ‘Aids. Breve storia di una malattia che ha cambiato il mondo’ di Cristiana Pulcinelli a ‘Metafisica della peste’ di Sandro Givone. Il tema delle patologie epidemiche e infettive è poi protagonista di saggi fondamentali come ‘Quarto cavaliere – Storia di epidemie, pestilenze e virus’ di Andrew Nikiforuk e ‘Armi, acciaio e malattie’ di Jared Diamond.

Quest’ultimo titolo, in particolare, è citato nella bibliografia dell’ultimo arrivato in questa cospicua e importante galleria saggistica: ‘Le grandi epidemie’ di Barbara Gallavotti, per il quale la giornalista di Superquark ha preso spunto da un’intervista di Francesco Maria Galassi, professore di Paleopatologia alla Flinders University in Australia e che si arricchisce di un’introduzione in cui Piero Angela evidenzia come i microrganismi siano “stati capaci di uccidere più uomini di qualsiasi armata sulla Terra”, nonostante (o forse proprio perché) siano “nostri parenti”, addirittura “i nostri più lontani progenitori”. I batteri sono stati infatti “i primi ad arrivare sulla Terra e saranno con ogni probabilità gli ultimi ad andarsene”, affermazione con cui il nostro massimo divulgatore focalizza la questione centrale del libro: “Chi vincerà alla fine l’eterna guerra fra gli esseri umani e gli agenti infettivi?”, si chiede Gallavotti in conclusione del volume. Rispondendo che, comunque, “non abbasseremo mai la guardia” e avvertendo che uno dei principali alleati di questi nostri avversari temibili e minuscoli (i batteri misurano millesimi di millimetro e i virus sono molto più piccoli) è la paura, il sentimento che “spinse i genovesi a lasciare precipitosamente Caffa e altri ad abbandonare le città appestate nel tentativo di sfuggire a un morbo che in realtà portarono con loro”. E che in tempi più recenti “ha indotto il governo del Sudafrica per diversi anni a sposare tesi negazioniste riguardo all’Hiv come causa dell’Aids”, che temendo gli untori “in innumerevoli casi” non ha fatto che produrre altre vittime innocenti, che sospetta dei migranti come ambasciatori di nuove o vecchie malattie.
Ma le paure forse più attuali e rischiose sono quelle, in qualche modo opposte, che ci portano da un lato a diffidare dei vaccini e dall’altro ad “assumere con leggerezza farmaci inappropriati, ad esempio antibiotici”. Se “Tutta la storia dell’umanità è stata una lunga battaglia contro i microbi responsabili delle malattie infettive”, che però abbiamo “combattuto per decine di migliaia di anni solo con gli strumenti messi a disposizione dall’evoluzione”, infatti, fortunatamente “negli ultimi decenni abbiamo messo a punto strumenti in grado di proteggerci dalle infezioni”, cioè vaccini e antibiotici. Influenza, morbillo, vaiolo, tifo, colera, sifilide hanno sterminato generazioni, compiuto genocidi, sin dai tempi raccontati da Tucidide, passando per il contatto tra europei e popolazioni amerindie, hanno cambiato il corso della storia, colpendo personaggi come Cesare Borgia, William Shakespeare e Friedrich Nietzsche. Ancora tra il 1918 e il 1919 l’influenza spagnola provocò tra 50 e 100 milioni di morti, più della contestuale guerra mondiale. E nel Novecento il vaiolo, prima di essere definitivamente sconfitto, ha causato 300-500 milioni di vittime…
Ma oggi abbiamo due tipi di farmaci fondamentali, “i vaccini, capaci addirittura di prevenire le malattie, e gli antibiotici, in grado di contrastare le principali infezioni batteriche”. Peccato che “i vaccini rischiano di essere resi inefficaci dalla decisione di alcuni di non servirsene e gli antibiotici da quella di usarli male”. Certo, virus e batteri hanno una straordinaria capacità di sviluppare ceppi resistenti, quella che combattiamo è “una rincorsa tra ricercatori e germi patogeni”, avverte cauto Angela. Ma per sperare di vincerla dobbiamo usare le armi che abbiamo in modo adeguato e convinto. Senza paura (per non usare altri termini).

Marco Ferrazzoli


Barbara Gallavotti, “Le grandi epidemie” (Donzelli, 2019)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Il professore e il pazzo’: un incontro allo specchio

Il racconto di una doppia avventura intellettuale e personale straordinaria: quella di James Murray, direttore dell’Oxford English Dictionary, e del dottor William Chester Minor, tra i più prolifici collaboratori dell’Oed, internato in manicomio in quanto affetto da follia omicida. Assieme ai due, molti altri personaggi interessanti vissuti nella cornice di un’opera monumentale e fondamentale


È il racconto di un’avventura intellettuale e di una vicenda privata (doppia) straordinarie: quella del professor James Murray, direttore editoriale dell’Oxford English Dictionary (Oed), e quella del dottor William Chester Minor, uno dei più prolifici collaboratori del Dizionario con decine di migliaia di schede, oltre cento alla settimana. Il libro di Simon Winchester, divenuto non a caso il plot di un recente film, presenta poi non pochi altri elementi di attualità e interesse: evidenzia come tassonomia e storicizzazione dei lemmi siano tra i problemi metodologici fondamentali di qualunque impresa culturale; illustra il moderno approccio vittoriano verso la malattia mentale (“caratteristica mescolanza di severità e illuminismo”, la definisce l’autore); il cosiddetto Oed rappresenta un pionieristico esperimento di citizen science, considerazione che abbiamo già espresso sull’Almanacco riguardo ad alcuni divulgatori italiani dell’epoca; infine, entrambi i protagonisti sono capaci di incarnare al meglio lo spirito della libera ricerca e della curiosità intellettuale anche in quanto ‘non accademici’, un po’ come Marconi.

Il senso del libro sta soprattutto nell’incontro tra i due, nella scoperta che sconvolge Murray quando finalmente sta per incontrare il suo collaboratore: “Me ne rincresce signore ma non sono io. Non è affatto come pensate. In realtà io sono il direttore del manicomio criminale di Broadmoor. Il dottor Minor è qui senza dubbio. Ma è un detenuto. È ricoverato da più di vent’anni”. L’uomo che più aveva contribuito all’Oxford English Dictionary è un pazzo omicida, affetto da una follia esplosa a seguito dei traumi subiti come ufficiale medico nella Guerra di secessione, durante la quale fu tra l’altro costretto a marchiare a fuoco un irlandese disertore, ma dovuta probabilmente a tare genetiche, visto che due fratelli di Minor si sono suicidati. “Eppure, con la follia, venivano anche le parole”.
Peraltro, Minor non è l’unica persona con problemi mentali che collaborò al dizionario, considerando anche Fitzedward Hall e soprattutto Frederick Furnivall, il segretario della Philological Society. È anche grazie a queste persone geniali e stravaganti se, dopo un lavoro di decenni, vede la luce quest’opera monumentale – 414.825 lrmmi; 1.827.306 citazioni, sei milioni di schede restituite dai volontari, due tonnellate di materiale nel solo 1879 – e fondamentale: basti dire che Voltaire la propose ai francesi come modello di un loro dizionario e che, l’autore usa un esempio fulminante, Shakespeare “non poteva, come si dice in inglese, look up ‘cercare’ un termine”.
Di personaggi interessanti se ne incontrano insomma molti nel volume. Da Alexander Melville Bell, “padre dell’infinitamente più famoso Alexander Graham”, a Henry Sweet, cui Bernard Shaw si sarebbe ispirato per uno dei personaggi di Pigmalione; dal “Killer Pazzo”, che oggi occupa una delle stanze abitate da Minor a Broadmoor, a Ezra Pound e John Hinckley, l’uomo che tentò di assassinare il presidente Reagan, entrambi internati come Minor nella casa di cura St. Elizabeth a Washington; da Daniel Defoe a Jonathan Swift, i “fari della letteratura inglese” che avevano lamentato la mancanza di un dizionario come l’Oed (Swift, in particolare, era indignato per l’uso della forma “couldn’t” nella lingua scritta, dov’è oggi comunemente accettata). Fino a Winston Churchill, che come ministro dell’Interno firmò la scarcerazione condizionale di Minor.
Ma la ricchezza umana e intellettuale del “professore” e del “pazzo” è tale da lasciare poco spazio ai comprimari. Per quanto “di primo acchito” sembrino contrassegnati “più dalle differenze […] che dalle somiglianze”, i due sono davvero speculari e simili. Tant’è che dopo il loro incontro “entrambi avranno creduto per un momento di avvicinarsi a se stessi riflessi in uno specchio”, vista tra l’altro la loro “barba: in entrambi i casi bianca, lunga e a due punte, con folti baffi e basette”. Non c’è da meravigliarsi se ne nacque “un’amicizia lunga e salda” che rese Murray e consorte i due più infaticabili supporti per il povero Minor, che negli ultimi anni arrivò persino ad auto-evirarsi dopo un doloroso percorso di schizofrenia, paranoie, fobie e fissazioni (assieme, va detto, alla vedova della sua vittima, che dopo averlo conosciuto non fece mancare il proprio aiuto all’assassino del marito).
In parte la relazione tra i due è la “romantica e piacevole invenzione” di un giornalista americano, che fu la principale fonte sulla vicenda finché nel 1977 K. M. Elisabeth Murray mise mano alla biografia del nonno. Ora Winchester ha prodotto un’opera completa di cui l’ottima traduzione italiana edita da Adelphi consente di apprezzare anche lo stile letterario. L’autore si muove in quel territorio di confine tra romanzo e saggio che è la chiave di molta della migliore letteratura odierna, si pensi all”Imperatore del male’ o alla biografia di Hermann Rorschach, riuscendo a mantenere la minuzia documentale evitando la prolissità di alcuni saggisti anglo-americani: in questo, il libro ricorda la produzione di un grande critico come il nostro Pietro Citati.

Marco Ferrazzoli


Simon Winchester, “Il professore e il pazzo” (Adelphi, 2018)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

I ciechi

Con questa composizione, Baudelaire usa la cecità quale metafora per descrivere i concittadini parigini. Parigi la città a cui tutto il mondo guardava come esempio di novità e civiltà, abitata però da uomini “ciechi” perché “la divina scintilla è fuggita” dai loro occhi.

Contemplali, anima mia; essi sono davvero orribili!
Simili ai manichini; vagamente ridicoli;
Terribili, singolari come i sonnambuli;
mentre dardeggiano non si sa dove i loro globi tenebrosi

I loro occhi, in cui s’è spenta la scintilla divina
Come se guardassero lontano, restano levati
Al cielo; non li si vede mai verso i selciati,
Chinare, pensosamente, la loro testa appesantita.

Essi attraversano così il nero sconfinato,
Questo fratello del silenzio eterno. O città!
Mentre che attorno a noi tu canti, ridi e sbraiti,

Innamorata del piacere fino all’atrocità,
Guarda! anch’io mi trascino! ma, più inebetito d’essi,
Io dico: Cosa chiedono al Cielo, tutti questi ciechi?.

Charles Baudelaire. “I ciechi”. (I fiori del male, 1857)

Gli ippopotami cantano? Pierluigi Cappello sicuramente sì

Il libro di Alberto Garlini racconta il lungo e profondo rapporto inttrattenuto con uno dei massimi poeti italiani, inchiodato su una carrozzina da un incidente di moto. Il libro ha due meriti: omaggiare un esponente fondamentale della poesia in lingua e dialettale e aver costruito, con la narrazione della loro amicizia, un vero romanzo e una vera autobiografia, dove disagio corporeo e psicologico trovano una via di catarsi parallela


Ma gli ippopotami cantano? La domanda potrebbe sorgere spontanea leggendo il titolo del libro di Alberto Garlini “Il canto dell’ippopotamo”, ma ci porterebbe fuori strada, lungo il pur appassionante tema etologico ed evoluzionistico delle azioni che consideriamo o meno esclusiva umana: ridere (memorabile al riguardo il dialogo tra Jorge e Guglielmo ne “Il nome della rosa”), piangere, utilizzare strumenti tecnologici (di cui abbiamo parlato recensendo “Umani” di Adam Rutherford) e, appunto, cantare. Azione che si esplica in un ventaglio di forme amplissimo e fondamentale, tanto da divenire persino oggetto di contesa come accade in questi giorni a Sanremo. Ma la frase, in realtà, con l’opera di Garlini c’entra poco o, meglio, serve nella sua casuale insignificanza a rappresentare un periodo e un aspetto della depressione di cui l’autore racconta: il rapporto stoccolmiano vittima-carnefice che instaura con una donna almeno altrettanto squilibrata, affetta da un egocentrismo pseudoartistico e particolarmente amante, appunto, degli slogan a effetto.
Vera e principale protagonista del libro è in realtà colei che della canzone è in qualche modo sorella, anche se il loro rapporto è estremamente controverso, e cioè la poesia, vista attraverso il lungo e profondo rapporto che Garlini ha intessuto con Pierluigi Cappello. Uno dei massimi poeti italiani, accomunabile sicuramente a Pier Paolo Pasolini, quanto meno per la comune friulanità, ma forse anche a Dario Bellezza e Valentino Zeichen per la stretta, ambigua, irrisolvibile connessione tra l’attività letteraria e la biografia “estrema”: omosessuale morto di Aids Bellezza, “baraccato” del quartiere romano Flaminio Zeichen, inchiodato su una carrozzina da un incidente di moto Cappello, hanno tutti vissuto le loro non lunghe esistenze tra il plauso della critica e degli intellettuali, il successo del magro ma appassionato pubblico della poesia contemporanea, le ristrettezze e difficoltà economiche e materiali.
Cappello sarebbe stato poeta anche camminando sulle proprie gambe, ma ovviamente non sarebbe stato lo stesso poeta. E a Garlini vanno riconosciuti due meriti. Il primo è quello di riservare un contributo fondamentale a un esponente fondamentale della poesia in lingua e dialettale (l’autore sceglie e suggerisce, in tutta l’opera, “Parole povere”), che si aggiunge al film che gli è stato dedicato da Francesca Archibugi e allo splendido romanzo autobiografico del poeta Questa libertà, in cui il racconto della caduta nella paralisi corporea è di un’efficacia agghiacciante proprio per la sua assoluta assenza di enfasi. L’altro è di aver costruito, con la narrazione della sua amicizia, un vero romanzo e una vera autobiografia dove il disagio corporeo di uno e quello psicologico dell’altro trovano nella poesia una via di catarsi parallela, adiacente, se non coincidente date le forti differenze letterarie che intercorrono tra i due protagonisti del libro.

Marco Ferrazzoli


Alberto Garlini, “Il canto dell’ippopotamo”, Mondadori (2019)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni