Cronin, quando la cura diventa eroismo

Lo scrittore scozzese Archibald J. Cronin è una delle figure più note del medico scrittore ed è soprattutto l’autore dei romanzi dove questa figura professionale viene descritta nel modo più limpido quasi eroico. La cura del paziente e del malato viene raccontata come una missione


Archibald Joseph Cronin, medico e scrittore nato il 19 luglio 1896 nella contea di Dumbartonshire, Scozia. Laureatosi all’università di Glasgow e prestato servizio come medico chirurgo nella Royal Navy durante la Prima Guerra Mondiale, poi esercitò presso i minatori del Galles e da qui si interessò dei loro problemi sociali. Ritiratosi alle coste di Loch Fyne per un lungo periodo di riposo dopo una diagnosi di un’ulcera cronica nel 1930, si dedicò alla scrittura del suo primo romanzo, “Il castello del cappellaio”, pubblicato l’anno seguente. Segnò il suo successo per gli anni a venire, tanto che mise da parte lo stetoscopio per impugnare la penna.
In italia le opere di Cronin fecero molta fama soprattutto grazie alle riproduzioni televisive, in particolare “E le stelle stanno a guardare” e “La Cittadella”. Ma non furono le uniche opere ad andare sul grande e piccolo schermo.
Continuò a scrivere senza sosta fino all’età di ottanta anni, poi morì a Montreux, Svizzera, il 6 gennaio 1981.

Redazione CNR


Wikipedia – A.J. Cronin

Bompiani Editore – Autori – Archibald Joseph Cronin

Enciclopedia Treccani online – Cronin, Archibald Joseph

Dalla Cittadella alle stelle, quando la serie si chiamava sceneggiato

Le miniserie televisive italiane degli anni ’60 – ’70 che incantarono il pubblico con il personaggio del buon dottore


È una televisione ancora molto ingenua, in bianco e nero, quella che rende due opere di Archibald J. Cronin celeberrime tra gli spettatori italiani: “La cittadella” e “Le stelle stanno a guardare”. Sono i tempi nei quali le serie televisive si chiamano ancora sceneggiati e tengono inchiodati davanti al televisore milioni di persone, che si emozionano e commuovono davanti alle storie strappalacrime del medico scrittore britannico, grazie anche alle partecipate interpretazioni di noti attori dell’epoca come Alberto Lupo.

Redazione CNR


Rai Play – La cittadella (1964), lo sceneggiato dal romanzo di Archibald Joseph Cronin

Bompiani Editore:
A.J. Cronin, “La Cittadella”
A.J. Cronin, “E le stelle stanno a guardare”

Wikipedia:
La cittadella (miniserie televisiva 1964)
E le stelle stanno a guardare (miniserie televisiva 1971)

L’amore ai tempi del colera

Il colera causò una strage di persone di cui non si conosce l’entità. Nel bel mezzo dell’epidemia, il dottor Marco Aurelio Urbino si trova davanti al dilemma: metodo scientifico o caritatevole?

L’epidemia di colera, le cui prime vittime caddero fulminate nelle pozzanghere del mercato, aveva provocato in undici settimane la più grande mortalità della nostra storia.

Durante le due prime settimane del colera il cimitero traboccava, e non era rimasto un posto libero nelle chiese, nonostante avessero passato nell’ossario comune i resti consunti di parecchi grandi senza nome.

Nella terza settimana il chiostro del convento di Santa Clara si trovò pieno fino ai viali e fu necessario abilitare il cimitero, l’orto della comunità, che era grande il doppio. Lì scavarono fosse profonde per interrare a tre livelli, in fretta e senza precauzioni, ma si dovette desistere dal progetto perché il terreno che era traboccato si trasformo come in un una spugna che trasudava sotto i suoi passi in un sangue marcio e nauseabondo. Allora si dispose di continuare le sepolture alla Mano de Dios, una fattoria di bestiame a meno di una lega dalla città, che poi venne consacrata Cimitero Universale.

Da quando fu proclamato il bando del colera, nella fortezza della guarnigione locale si sparò un colpo di cannone ogni quarto d’ora, di giorno e di notte, d’accordo con la superstizione cittadina che la polvere purificava l’ambiente. Il colera fu molto più feroce con la popolazione negra, che era la più numerosa e la più povera, ma in realtà non fece considerazioni di colore né di lignaggio. Cessò improvvisamente come era iniziato, e non si conobbe mai la quantità dei suoi danni, non perché fosse impossibile stabilirla ma perché una delle nostre virtù più usuali era il pudore delle proprie disgrazie. Il dottor Marco Aurelio Urbino, padre di Juvenal, fu un eroe civile di quelle giornate infauste, e anche la sua vittima più notevole.

Anni dopo rivedendo la cronaca di quei giorni, il dottor Juvenal Urbino verificò che il metodo di suo padre era stato più caritatevole che scientifico e che in molti modi era contrario alla ragione così da aver favorito in gran misura la voracità della peste.

Quando riconobbe in se stesso gli scompigli irreparabili che aveva visto e compatito negli altri, non tentò neanche una battaglia inutile, ma si appartò dal mondo per non contaminare nessuno. Chiuso, da solo, in una stanza di servizio dell’Ospedale della Misericordia, sordo alle chiamate dei colleghi e alle suppliche dei suoi, estraneo all’orrore dei pestiferi che agonizzavano sul pavimento dei corridoi traboccanti, scrisse alla moglie e ai figli una lettera d’amore febbrile, di gratitudine per essere esistiti, nella quale si rivelava quanto e con quanta avidità avesse amato la vita. Fu un addio di venti fogli stracciati nei quali si notavano i progressi della malattia dal deterioramento della scrittura, e non era necessario avere conosciuto chi li avesse scritti per sapere che la firma era stata messa con l’ultimo respiro, d’accordo con le sue disposizioni, il corpo incenerito si confuse nel cimitero comune e non fu visto da nessuno che lo avesse amato.

Gabriel García Marquez

Treccani Enciclopedia Online

Gabriel García Marquez, “L’amore ai tempi del colera” (1985)

La peste di Buzzati

Nei due brani, estratti da “Sessanta racconti”, Dino Buzzati descrive i sintomi e i segni della peste canina, capace di distruggere anche i rapporti di amicizia più saldi.

Odore di tartufo

Paurosissimo delle malattie, io le sento venire da lontano. Così, per certe voci portate da marinai, da viaggiatori, zingari, io sapevo alcuni mesi prima che la peste canina stava avvicinandosi. Se ne parlava nelle taverne del porto verso sera, quando dalle acque buie, là vicino, cominciano a uscire le superstizioni e gli incubi. Ma la gente istruita diceva che era solo una leggenda. 

Di questa malattia si raccontava una quantità di cose strane: secondo alcuni proveniva dal cuore impenetrabile dell’Africa, altri invece dicevano che fosse stata provocata da un sacrilegio di Terrasanta. La chiamavano canina non perché colpisse i cani ma perché nella fase dell’incubazione, che durava uno o due giorni, l’ammalato emetteva un forte odore; il quale, a seconda dei casi, ricordava la resina, o l’aglio, o lo sterco, o la rosa e così via; ma assai più spesso ricordava il cane. E di qui il nome. 

In tanti odori c’era però sempre un comune sottofondo: cioè un effluvio specialissimo, indefinibile a parole; che era lo stesso marchio della peste. É pochissimi erano in grado di distinguerlo, così da poter dire: questo è odore di peste e questo no. Si trattava di medici o infermieri, o suore che erano vissuti in Africa o in Oriente. 

Altri sintomi denotavano l’esplodere della peste vera e propria. Alcuni, come i brividi, il mal di testa, le vertigini, erano comuni a molte altre note malattie. Ma ce n’era uno tipico e fatale: l’uomo colpito dal contagio non era più capace di un discorso organizzato, a un tratto il pensiero sembrava frantumarsi in una sconnessione di parole che finivano in un confuso barbuglìo. Dopo un poco magari l’ammalato riprendeva a parlare come al solito ma sempre, dopo due tre frasi, sopravveniva quell’intoppo. Perciò la si chiamava anche peste sillabica. Seguivano una grave prostrazione, vomito, delirio, e, nel giro di poche ore, immancabile la morte. Esisteva, è vero, un vaccino capace di stroncare l’infezione: ma doveva essere iniettato al tempo giusto, nel corso dell’incubazione, né prima né dopo; guai se si tardava; guai anche se lo si propinava, per errore, a una persona sana; se in seguito costui si contagiava, il vaccino non sarebbe più servito a niente. 

L’allarme fu gettato all’improvviso. Un decreto del governatore, alludendo in modo vago a pericoli di epidemie, proibì gli assembramenti e gli spettacoli, chiuse i locali pubblici, impose il controllo dei viaggiatori eccetera. In poche ore tutta la popolazione seppe. E già si udivano le sirene delle autoambulanze chiamate qua e là a trasportare i moribondi. Fu il terrore. 

Da quel momento, misteriosamente trasportandosi il contagio da un quartiere all’altro, tutti cominciarono a vivere nell’ansia, scrutando se stessi e i familiari, nel timore di avvertire i primi sintomi. In ogni luogo ora si vedevano perciò uomini e donne con i nasi per aria, ad annusare, se mai sentissero l’odore della peste. Ma era facilissimo ingannarsi; né si contavano le paure a vuoto. In una città popolata di cani come questa non c’era casa dove l’odore canino fosse assente; ne erano intrisi, si può dire, i muri stessi. Ciò moltiplicava i falsi allarmi. 

Va da sé che, scoppiata l’epidemia, divenni l’ombra stessa del Tiriaca. Guai se non avessi potuto stargli a fianco così spesso. Col mio terrore di essere infettato, sentivo un odore dopo l’altro, immaginandomi che provenissero da me. Il Tiriaca mi rassicurava: «Ma io non sento niente ». E mi annusava col suo grande naso a becco. 

Una sera -ero invitato a pranzo –appena entrato in casa del Tiriaca, sento odore di tartufo. Magnifico, dico a me stesso, perché di tartufi sono ghiotto. E già pregusto un pranzo succulento, tanto più che in questi tempi grami è una delle poche consolazioni che rimangono. 

A tavola si è in due soltanto, Tiriaca ed io; la famiglia sua è partita, alle prime avvisaglie della peste lui l’ha mandata in Sicilia, da parenti. Un antipasto, una ottima zuppa, roastbeef con salsa e contorno, asparagi. A questo punto il Tiriaca mi guarda: « Cos’hai? Non ti senti bene? Sei diventato così pallido». «No, no, niente » faccio io, inchiodato da un terribile sospetto. «Ma dimmi, professore… Come mai quest’odore di tartufi?» « Tartufi?… Io non sento odore di tartufi… E tu Ines, senti qualche cosa? » « Neanch’io » risponde la domestica « di tartufi, io non ne ho adoperati, forse sarà il profumo della salsa. » 

Ma anche di là, in salotto, dove passiamo a prendere il caffè, persiste la inquietante sensazione. «Scusami professore, abbi pazienza » io lo supplico. « Prova a sentire… Non sarò mica io per caso a…? » Lui mi annusa col suo grande naso, sorridendo. « Tu sei su una brutta china, caro mio… Di questo passo finirai dritto manicomio. » « Professore, non inquietarti, l’odore c’è, ti giuro… E io ti sono amico… Io te lo devo dire… ascolta… non potrebbe darsi che… non potrebbe darsi  a adorare di tartufo… insomma non potresti essere tu?». Il Tiriaca mi fissa, il sorriso gli si è fermato sulle labbra, non capisce se io voglio scherzare. Gli viene forse un dubbio? No. Si mette anzi a ridere di gusto. « Non mi illudevo che tu mi stimassi un luminare » dice « ma almeno che io non fossi un asino del tutto… Se mi fossi impestato, per capirlo credi forse che avrei bisogno dell’odore? Starei fresco… Altro che odore di tartufo… Sono i tuoi poveri nervi… » 

Così lui parla, ma non serve. Per la prima volta io non gli credo, le sue parole non danno più sollievo. E intanto l’odore va crescendo, la casa ne è ammorbata, io cerco di andarmene al più presto. 

No, in casa mia per fortuna non c’è il più vago ricordo di tartufi. Tuttavia stento a prender sonno. Quel pensiero mi tormenta. Se il Tiriaca fosse veramente contagiato? Se fossi stato io, l’ignorante, ad accorgermene? Poi mi dico: è impossibile, oltre all’odore ci sono molti altri indizi, lui li avrebbe subito avvertiti. 

Anche la notte passa. Alle otto e mezzo salgo dal Tiriaca per accompagnarlo in clinica. Entrato, annuso. L’odore di tartufo non c’è più. Meno male, mi dico, si vede che era tutta suggestione. In quel mentre arriva il professore. << Beh, come la va? Senti ancora la presenza di tartufi? Ti sei calmato… Ieri sera dopo che te ne sei andato, non credere, io ci ho pensato su… e ho capito da dove ghe ghe quell’odore, in parte credo che sia… in parte… mah… invece, eh già… sgabusè toil gragiueaaa… » la frase si perse in un groviglio incomprensibile. 

Arretrati, gelato dal terrore. Quello era il segno. 

Tiriaca, che aveva avuto sempre la parola facilissima, barbugliava peggio di un demente. 

Con una mano dietro la schiena avevo intanto girato la maniglia della porta, la spalancai di colpo, giù per le scale a precipizio. Non connettevo più dalla paura. Via subito, via da quella casa maledetta. Dall’alto il Tiriaca mi chiamò. Ma che mi importava più di lui? 

La sera stessa fuggii dalla città. Adesso sono qui, con la famiglia, in questo paesello di montagna, che la peste ha dimenticato, si direbbe. E già è passato un mese. A quest’ora, se io fossi rimasto contagiato, il male sarebbe pur venuto fuori. Invece io sto bene, proprio bene, non emetto odori, parlo speditamente, vero che parlo con la massima scioltezza? Il brutto sarebbe infatti se all’improvviso cominciassi anch’io a barbugliare, confondendomi, allora si sippo po potrei dirmi spaccirmi… ma finché non si comincia a balbettare si può cocofon… allora sippo… chestra… sfiare… ir chiò… scimen… baorg… ge… ge… 

Il tiranno malato


Che cosa li aveva sbaragliati quando già stavano assaporando il sangue : la Vittoria? Perché si ritiravano? ”Il mastino tornava a far loro paura:” 

Non il mastino Tronk. Bensì una cosa informe e nuova che dentro di 

lui si era formata e lentamente da lui stava espandendosi come un alone…infetto. . …… 

I tre avevano intuito che a Tronk doveva “essere successo qualche cosa e non c’era più motivo di temerlo. Ma credevano di addentare un cane vivo. 

E invece l’odore insolito del pelo, forse, del fiato, e il sangue dal sapore repellente, li aveva ributtati indietro. Perché le bestie più ancora che i luminari delle cliniche percepiscono ‘al più lieve segno l’avvicinarsi della, presenza maledetta, del contagio che non ha rimedio. E d.lottatore era segnato, non apparteneva più alla vita, da qualche profondità recondita del corpo già si propagava la dissoluzione delle cellule.

Dino Buzzati

Treccani Enciclopedia Online

Dino Buzzati, “Sessanta racconti” (1958)

La pelle

La peste dell’anima induce l’essere a compiere scelleratezze di ogni tipo. Sia l’uomo che la donna perdono la dignità e umiliano sé stessi.

Era, quella, una peste profondamente diversa, ma non meno orribile, dalle epidemie che nel medioevo devastavano di quando in quando l’Europa. Lo straordinario carattere di tal nuovissimo morbo era questo: che non corrompeva il corpo, ma l’anima. Le membra rimanevano in apparenza intatte, ma dentro l’involucro della carne sana l’anima si guastava, si disfaceva. Era una specie di peste morale, contro la quale non pareva vi fosse difesa alcuna. Le prime ad essere contagiate furon le donne, che, presso ogni nazione, sono il riparo più debole contro il vizio, e la porta aperta ad ogni male. (…)

Molti, è vero, che la disperazione faceva ingiusti, quasi scusavano la peste: insinuando che le donne prendevano pretesto dal morbo per prostituirsi, che cercavano nella peste la giustificazione della loro vergogna.

Ma una più profonda conoscenza del morbo rivelò in seguito che un tale sospetto era maligno. Poiché le prime a disperarsi della loro sorte eran le donne e molte ne ho udite io stesso piangere, e maledire quella crudelissima peste che le spingeva con invincibile violenza, contro la quale nulla poteva la loro debole virtù, a prostituirsi come cagne. (…)

Non meno pietosa e orribile era la sorte degli uomini. Non appena contagiati, essi perdevano ogni rispetto di se medesimi: si davano ai più ignobili commerci, commettevano le più sudice viltà, si trascinavano carpone nel fango baciando le scarpe dei loro “liberatori” (disgustati di tanta, e on richiesta obiezione), non solo per essere perdonati delle sofferenze e delle umiliazioni sofferte negli anni della schiavitù e della guerra, ma per aver l’onore d’essere calpestati dai nuovi padroni; spuntavano sulle bandiere della propria patria, vendevano pubblicamente la propria moglie, le proprie figlie, la propria madre. Tutto ciò, dicevano, per salvare la patria. E pur quelli che, all’aspetto, sembravano immuni dal morbo, si ammalavano di una naueseante malattia, che li spingeva ad arrossire di essere italiani, e perfino di appartenere al genere umano. (…)

Il sospetto, divenuto poi certezza, che la peste fosse stata portata in Europa dagli stessi liberatori, aveva suscitato nel popolo un profondo e sincero dolore. Sebbene sia antica tradizione dei vinti odiare i vincitori, il popolo napoletano non odiava gli alleati. Li aveva attesi con ansia, li aveva accolti con gioia.

Curzio Malaparte

Enciclopedia Treccani Online

Curzio Malaparte, “La pelle” (1949)

Pazzi

Achille Campanile ragiona su chi sia davvero il pazzo, sul significato di pazzia e di saviezza. Finché simulavo la saggezza, mi sentivo pazzo. Abbandonandomi alla follia, mi sento savio.

Io certe volte sospetto di essere pazzo. E certe volte ne ho l’assoluta certezza e allora vorrei abbandonare ogni finzione di saviezza. Come è riposante non simulare più!

La cosiddetta saggezza non è assenza di pazzia, perché tutti abbiamo la stoffa dei pazzi. È soltanto la possibilità di simulare e possesso maggiore di alcuni freni. 

Il bello è, poi, che quando mi convinco di essere pazzo e decido di gettar la maschera della saggezza, mi sento in un certo senso rinsavito. Finchè simulavo la saggezza, mi sentivo pazzo. Abbandonandomi alla follia, mi sento savio. Andate a spiegare una cosa simile.

La maggior percentuale di sofferenze e di dolori- morali, s’intende- che ci procuriamo deriva dal fatto che, salvo alcune fortunate eccezioni, noi siamo dei pazzi costretti a fingerci savi e a regolarci come tali. Le fortunate eccezioni non si riferiscono a persone che non sono pazze, ma a quelle che, essendolo, non sono costrette alla simulazione.

Il male consiste nel fatto che il mondo riconosce ma non accetta la pazzia e perciò obbliga alla simulazione. Intanto, però, ognuno la riconosce soltanto negli altri. Spesso da quello di cui dice: <<è pazzo>>, il mondo pretende atti da savio.

Ora io non voglio dire che la saviezza sia infelicità e sofferenza. Lo è in quanto simulata. E questa apparente saviezza è la peggior froma di pazzia, la più sinistra, la più dolorosa. 

Invece la saviezza dovrebbe consistere nel capire quello che si è, ed esserlo veramente. Un pazzo sarà savio se si considererà pazzo e se si regolerà e ragionerà da pazzo. Sarà due volte pazzo se cercherà di regolarsi e di ragionare da savio. Beninteso, un savio sarà savio se si regolerà e ragionerà da savio.

[…] Basta afflitto, come dicevo, dal dubbio di essere pazzo, volli consigliarmi con un medico circa l’oppurtunità di sottopormi a un esame psichiatrico.

<<ma sei pazzo?>> mi disse quegli. <<perché vuoi farlo? Sarebbe una pazzia andare a mettersi in bocca al lupo>>

<<Naturalmente>> dissi << se sono pazzo, niente di strado che commetta delle pazzie>>

[…] Malrgado il parere del medico, mi presentai al manicomio e chiesi d’essere messo in osservazione.

<<che sintomi avete?>> mi domandò il direttore.

<<ecco, io mi considero pazzo>>

<<non basta. Bisogna assodare se lo siete davvero.>>

<<Perché? Nel caso che io fossi pazzo, lei mi considererebbe pazzo?>>

<<evidentemente>>

<<e sbaglierebbe. Se io fossi realmente pazzo, non sarei pazzo a considerarmi pazzo. Mentre, se non lo fossi, è chiaro che lo sarei per il fatto di ritenermi tale.>>

<<ma in che consisterebbe allora la vostra pazzia?>>

<<nel credermi pazzo senza esserlo.>>

<<ma allora non sareste pazzo, se non lo siete>>

<<Lo sarei in quanto, senza esserlo, mi ritengo tale. Se mi ritenessi pazzo essendolo realmente, questo mio credermi pazzo non sarebbe pazzia; mentre lo è se non lo sono.>>

Il direttore del manicomio si passò una mano sulla fronte. 

<<voi mi fate diventare pazzo>> mormorò.

Si volse l’assistente:

<<cosicchè, dovremmo metterlo al manicomio se non è pazzo?>>

<<Precisamente >> fece l’assistente. <<Perché, non essendolo, ritiene di esserlo. Questa è la sua forma di pazzia>>

<< ma con questo ragionamento>> obbiettò il direttore << se fosse pazzo non lo metteremmo al manicomio>>

<<Beninteso. È pazzo se non è pazzo>>

<<ma siete pazzo voi>>

<< Sarei pazzo se non ritenessi pazzo uno che non essendo pazzo si considera pazzo e che non sarebbe pazzo a considerarsi pazzo, se fosse realmente pazzo.>>

A tagliar corto il direttore mi sottopose a una minuziosa visita, sperimentò le mie reazioni, mi interrogò e alla fine mi batté affettuosamente la mano sulla spalla e disse congedandomi:

<<Andata, andate tranquillo; questo vostro ritenervi pazzo non è sintomo di pazzia, inquantoché siete realmente pazzo>>.

Me ne andai tranquillizzato, sereno, ormai, essendomi tolto un gran peso dallo stomaco: dunque non sono pazzo, visto che sono pazzo.

Achille Campanile

Treccani Enciclopedia Online

Achille Campanile, “Gli asparagi e l’immortalità dell’anima” (1974)

Si incontrano vecchi medici di manicomio

Non esiste vero psichiatra che non sia in amicizia con la pietà.

<Torniamo alla modestia del nostro tema, ai matti abbandonati.>

<Agli ordini ! come si diceva una volta.> 

I novatori hanno affermato che la follia non esiste, quelli che erano ricoverati in manicomio erano vittime del potere. I giornali, i rotocalchi quando è uscita la legge 180 hanno brindato allo smantellamento, alla liberazione.>

<I ricoverati si devono inserire, tornare in famiglia, in società.>

<La società li ha ammalati, la società se li riprenda. Si devono inserire.>

<Sì, gli piacciono certe parole. Mancano le strutture e non: manca l’assistenza, la protezione, un giaciglio, un tetto.>

<Ne ho visto brancolare per le strade eppure molti mantenevano nel viso un sorriso senza rimprovero. Avevano fame e sete e conservavano un loro incantamento.>

<Evvia devi riconoscerlo, i novatori con la loro malinconia, la malinconia endogena, hanno avuto una bella vittoria.>

<Sì un trionfo>

<Tanti ne hanno uccisi>  (…)

<Ci infamino, ma si propaghi lo splendore della nuova scienza. I matti tornino nelle famiglie dove sono nati>

<E vi rimangano>

<Non importa se vi sono giovani, ragazze, bambini, vecchi>

<E meglio di tutto se la loro abitazione è in uno di quei grossi edifici delle città moderne, umani alveari, un bel appartamento di famiglia operaia>

<Qui il giovane schizofrenico avrà più contatti e più in fretta si inserirà>

<Il padre durante la notte stia in allarme, sa che il figlio può compiere oscenità e picchiare anche qualcuno dei familiari, ma che felicità per lui quando la mattina si alzerà dal letto e andrà verso la sua fabbrica, alla sua catena di montaggio, che è anch’essa certamente una letizia per la fantasia umana>   (…)

<Tu l’avevi immaginata tanta abnegazione nelle madri degli alienati?>

<Ti confesso di no. All’uscita della legge 180 non l’avevo prevista (…)>

<Gli altri familiari presto si stancano, sbuffano, si adirano; arrivano ad odiare il congiunto colpito dalla follia>

<Le madri no, fedeli, accettano qualsiasi cosa dal loro figlio scacciato dal manicomio. (…) Esse sono state costrette a diventare psichiatre, e che potenza di linguaggio acquistano, capaci di incredibili sottigliezze (…)>

<(…) Che è successo in Italia? Ti ricordi la grande speranza che sorse alla scoperta degli psicofarmaci? Eravamo nel 1952>

<Si accese la speranza di salvarne tanti. Le violenze si oacarono, i deliri si appassivan, le allucinazioni ancora battevano in quelle teste ma non si traducevano più in assoluto comando, in terribili imposizioni, divenute invece pallide, un’eco lontana. E ogni giorno di più tra le mura manicomiali soffiava il vento dell’umana libertà>  (…)

<In poco tempo tutti i manicomi d’Italia… e se non ti piace questo nome mettiamone un altro che olezzi di verbena>

<Tutti gli ospedali psichiatrici avrebbero vissuto nella giusta misura, tramutati in umani domicili…>

<E invece piomba giù la moda, la demagogia, la psichiatria sociale>

<La 180. I malati per le strade>   (…)

<Non ti voglio parlare dei matti violenti contro se stessi o contro gli altri. Io vecchio medico di manicomio ho una speciale tenerezza per i deboli di mente, i frenastenici, quelli scarsamente capaci di misurarsi con le difficoltà della vita, di distinguere tra cielo sereno e aria di tempesta. Essi sono diventati preda, facile preda di chi esercita la malizia, chi gode al beffeggio, che si diletta dello zimbello. I frenastenici, gli scarsi di giudizio, sono buon pasto dei profittatori, dei prepotenti, dei cattivi che respirano al mondo>  (…)

<Lasciamo stare questa mia confessione, la verità è che dovremo difenderli tutti, frenastenici e no. E  per questo parlare franco e usare le parole più comuni, quelle che capiscono tutti>

<Scienza è godere del frutto del passato e beneficiare della scoperta moderna>

<Non esiste vero psichiatra che non sia in amicizia con la pietà>

<Se davvero vogliamo difendere, aiutare i malati di mente dobbiamo essere nemici di chi maneggia politica e sociologia e imbratta la psichiatria, la quale non è né democratica né aristocratica né borghese o plebea, è solo la psichiatria, colei che studia la pazzia, uno dei più profondi misteri umani>.

Mario Tobino

Treccani Enciclopedia Online

Mario Tobino, “Zita dei fiori” (Mondadori meridiani, 1986)

Le parole per dirlo

Marie Cardinal scava nell’animo umano e porta in superficie le cause del suo malessere esistenziale e della sua inquietudine.

Fino a quel giorno, quando presi il coraggio a due mani per parlargli finalmente dell’allucinazione, e quando lui mi chiese dopo aver ascoltato la mia descrizione: “Tubo’, che cosa le fa venire in mente?” fino quel giorno non mi ero ancora avventurata a fondo nell’inconscio. Vi avevo fatto qualche puntatina a caso, quasi senza rendermene conto.

[…] Mi rendevo conto che ancora a trent’anni e passa, avevo paura di non piacere a mia madre. Allo stesso tempo mi rendevo conto che la botta tremenda che mi aveva dato raccontandomi il suo aborto mancato mi aveva procurato un profondo disgusto di me stessa: non potevo essere amata, non potevo piacere, non potevo che essere respinta. Per questo ogni separazione, ogni partenza, ogni contrattempo erano vissuto come altrettanti abbandoni. Bastava che perdessi la metropolitana per sentire la Cosa agitarsi dentro di me. Ero una fallita, e quindi era logico che fallissi in tutto.

Era tanto semplice! Come mai non c’ero arrivata da sola? Come mai non me n’ero servita ogni volta che mi sentivo male? Semplicemente perché finora non ne avevo parlato con nessuno.

[…] Era tanto semplice che stentavo a crederci. Eppure i fatti lo dimostravano: tutti i miei disturbi psicosomatici erano scomparsi: il sangue, l’impressione di diventare cieca e sorda. La distanza tra le crisi di angoscia aumentava, ormai mi capitavano solo due o tre volte alla settimana.

Nonostante ciò, non ero ancora normale. 

[…] In quel momento il dottore chiese:

“’Tubo’, che cosa le fa venire in mente?”

Queste parole mi diedero fastidio. Sapevo dove andava a parare: il pisellino di carta, l’uscita dalla pancia di mia madre. Non si trattava di qiesto. Se fosse stato così semplice ci sarei arrivata da sola. M0p venuto voglia di alzarmi e di tagliare la corda. Mi esasperava quel piccolo burattino muto, con la sua calma e la sua impassibilità da iniziati. 

“lei mi ricorda i preti. È uguale a loro. Lei è il gran sacerdote della religione del cazzo. È sempre lo stesso ritornello con voialtri. Mi fai schifo.

[…] “…tubo, mi fa pensare a un tubo. Un tubo è un tubo… tubo mi fa pensare a tubetto… a tunnel… tunnel mi fa pensare al treno… da bambina viaggiavo spesso. Passavamo le nostre estati in Francia e in Svizzera. Prendevamo la nave poi il treno. Sul treno avevo paura di far la pipì. Mia madre era fissata sull’igiene e vedeva microbi dappertutto…”

Divagavo, divagavo. La bambina è venuta a raggiungermi. Io ero la bambina, avevo tre o quattro anni.”

[…] Durante quelle settimane, o quei mesi, non ricordo più, ero ubriaca dal mattino alla sera, ubriaca di gioia, d’alcool, di salute, di notti insonni, di carezze sempre nuove, di cibi appetitosi. Passavo le mie giornate a divertirmi con questo straordinario giocattolo: il mio corpo.

[…] Ogni parola che faticavo a pronunciare nascondeva in realtà un territorio nel quale rifiutavo di entrare. Ogni parola che dicevo con piacere designava al contrario un territorio che mi piaceva.

[…] Mi sono allora resa conto che c’era tutta una parte del mio corpo che non avevo mai accettato, che in qualche modo non mi era mai appartenuta. Tutto quello che era collocato tra le mie gambe poteva essere indicato soltanto con parole vergognose e non era mai stato l’oggetto del mio pensiero cosciente. Nessuna parola conteneva il mio ano.

[…] Non parlavo mai dell’analisi perché mi rendevo conto che quell’argomento infastidiva la gente: “sono tutte balle. I pazzi si mandano in manicomio. Per il resto sono balle da donnette, froci o squilibrati.” A quel punto iniziava una vera pioggia di racconti del genere: “io (o Pietro, Paolo o Mariarosa) ho fatto una psicoanalisi. Ebbene, cara mia, mi ha completamente distrutto. Non me ne parlare. Mi ci sono voluti cinque anni per rimettermi in sesto!” dopo scoprivo che avevano visto un medico per due mesi, sei mesi o anche due anni. Qualcuno al quale avevano raccontato la loro vita, che li aveva ascoltati, dato dei consigli e infine gli aveva prescritto un tranquillante nuovo. Insomma, o non avevano fatto una vera analisi, o l’avevano abbandonata nel momento in cui diventava difficile.

Marie Cardinal

Scheda dell’editore

Marie Cardinal, “Le parole per dirlo” (1975)

La signora Frola e il signor Ponza, suo genero

La prima novella proposta è incentrata sulla tesi che la verità è inconoscibile, che ognuno ha la sua verità che non combacia con quella degli altri. La seconda mostra come solo nella pazzia si è davvero liberi.

Ma insomma, ve lo figurate? C’è da ammattire sul serio tutti quanti a non poter sapere chi tra i due sia il pazzo, se questa signora Frola o questo signor Ponza, suo genero. Cose che capitano soltanto a Valdana, città disgraziata, calamìta di tutti i forestieri eccentrici.

Pazza lei o pazzo lui; non c’è via di mezzo: uno dei due dev’esser pazzo per forza. Perché si tratta niente meno che di questo… Ma no, è meglio esporre prima con ordine.

[…] la signora Frola, poveretta, non pare, ma è pazza.

Pazza da quattro anni, sì. E la sua pazzia consiste appunto nel credere che egli non voglia farle vedere la figliuola. Quale figliuola? È morta, è morta da quattro anni la figliuola; e la signora Frola, appunto per il dolore di questa morte, è impazzita; per fortuna, impazzita, sì, giacche la pazzia è stata per lei lo scampo dal suo disperato dolore. Naturalmente non poteva scamparne, se non così, cioè credendo che non sia vero che la sua figliuola è morta e che sia lui, invece, suo genero, che non vuole più fargliela vedere.

Per puro dovere di carità verso un’infelice, egli, il signor Ponza, seconda da quattro anni, a costo di molti e gravi sacrifici, questa pietosa follia; tiene, con dispendio superiore alle sue forze, due case: una per sé, una per lei; e obbliga la sua seconda moglie, che per fortuna caritatevolmente si presta volentieri, a secondare anche lei questa follia. Ma carità, dovere ecco fino a un certo punto: anche per la sua qualità il pubblico funzionario, il signor Ponza non può permettere che si creda di lui, in città questa cosa crudele e inverosimile: ch’egli cioè, per gelosia o per altro, vieti a una povera madre di vedere la propria figliuola.

Dichiarato questo, il signor Ponza s’inchina innanzi allo sbalordimento delle signore, e va via. Ma questo sbalordimento delle signore non ha neppure il tempo di scemare un po’, che rieccoti la signora Frola[…] […] E la signora Frola, con la maggior semplicità e naturalezza del mondo, dichiara a sua volta[…]

Il signor Ponza, poveretto – ottimo, ottimo inappuntabile segretario alla prefettura, compito, preciso in tutti i suoi atti, in tutti i suoi pensieri, pieno di tante buone qualità – il signor Ponza, poveretto, su quest’unico punto non… ragiona più, ecco: il pazzo è lui, poveretto; e la sua pazzia consiste appunto in questo; nel credere che sua moglie sia morta da quattro anni e nell’andar dicendo che la pazza è lei, la signora Frola che crede ancora viva la figliuola.[…]

E questa idea gli si fissò talmente nel cervello, che non ci fu più verso di levargliela, neppure quando, ritornata dopo circa un anno florida come prima, la moglietta gli fu ripresentata. La credette un’altra; tanto che si dovette con l’aiuto di tutti, parenti e amici, simulare un secondo matrimonio, che gli ha ridato pienamente l’equilibrio delle facoltà mentali. 

[…] « E intanto », conclude con un sospiro che su le labbra le s’atteggia in un dolce mestissimo sorriso « intanto la povera figliuola mia deve fingere di non essere lei, ma un’altra; e anch’io sono obbligata a fingermi pazza […]»

“Il treno ha fischiato”

Farneticava Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d’ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall’ospizio , ov’erano stati a visitarlo. Pareva provassero un gusto particolare a darne l’annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via: – Frenesia, frenesia. – Encefalite. – Infiammazione della membrana. – Febbre cerebrale. E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per quel dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale.

[…] E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell’infelice viveva da tant’anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia , poteva anche essere la spiegazione più semplice di quel suo naturalissimo caso.

[…] Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, così per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po’, a fargli almeno drizzare un po’ le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S’era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse più, avvezzo com’era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte. Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d’una improvvisa alienazione mentale. Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio aveva il diritto di fargliela, il capoufficio. Già s’era presentato, la mattina, con un’aria insolita, nuova, e – cosa veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d’una montagna – era venuto con più di mezz’ora di ritardo. Pareva che il viso, tutt’a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt’a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d’improvviso all’intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt’a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai. Così ilare, d’una ilarità vaga e piena di stordimento, s’era presentato all’ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente.

[…] – E come mai? Che hai combinato tutt’oggi? Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un’aria d’impudenza, aprendo le mani. – Che significa? – aveva allora esclamato il capoufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo. – Ohé, Belluca! – Niente, – aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d’impudenza e d’imbecillità su le labbra. – Il treno, signor Cavaliere. – Il treno? Che treno? – Ha fischiato. – Ma che diavolo dici? – Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L’ho sentito fischiare… – Il treno? – Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo… Si fa in un attimo, signor Cavaliere! Gli altri impiegati, alle grida del capoufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi. Allora il capo ufficio – che quella sera doveva essere di malumore – urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli. Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s’era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch’egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo. Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all’ospizio dei matti. Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. Ne imitava il fischio. Oh, un fischio assai lamentoso, come lontano, nella notte; accorato. E, subito dopo, soggiungeva:

 – Si parte, si parte… Signori, per dove? per dove? E guardava tutti con occhi che non erano più i suoi. Quegli occhi, di solito cupi, senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d’un bambino o d’un uomo felice; e frasi senza costrutto gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite; espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tanto più stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s’era mai occupato d’altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria.

[…] Quando andai a trovarlo all’ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sì, ancora esaltato un po’, ma naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito. – Magari! – diceva – Magari! Signori, Belluca s’era dimenticato da tanti e tanti anni – ma proprio dimenticato – che il mondo esisteva.

[…] Non ci aveva pensato più! Il mondo s’era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell’arida, ispida angustia della sua computisteria… Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L’attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l’immaginazione d’improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari… Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C’erano, mentr’egli qua viveva questa vita “impossibile”, tanti e tanti milioni d’uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente Assorto: concentrato.  nòria: macchina per sollevare l’acqua ancora in uso, all’inizio del Novecento, nelle campagne meridionali.  sturati: aperti. tutte… angustie: del suo triste mondo soffocante. anelante: ansimante. travaso: trasferimento. lande: terre. Il treno ha fischiato. […]Ora, nel medesimo attimo ch’egli qua soffriva, c’erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti… sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva così… c’erano gli oceani… le foreste… E, dunque, lui – ora che il mondo gli era rientrato nello spirito – poteva in qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l’immaginazione una boccata d’aria nel mondo. Gli bastava! Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S’era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d’un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebbro della troppa troppa aria, lo sentiva. Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capoufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capoufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l’altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo: – Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato…

Luigi Pirandello

Il treno ha fischiato

Luigi Pirandello, “Novelle per un anno”, (1922, Mondadori)

La parabola dei ciechi

Hofmann mostra cosa i più provano davanti alla disabilità:paura, disgusto e pietà.

[…] Non ti vediamo affatto, guardiamo solo nella direzione da cui proviene la tua voce, sciocchino.

Comunque, dice il bambino a chi-ha-bussato, non sono tutti ciechi.

Tutti, dice chi-ha-bussato, altrimenti non verrebbero dipinti. Una sera d’estate, in cui faceva molto caldo ed essi sedevano sotto un ciliegio, sono arrivati degli uccelli. Si sono appollaiati sulle loro spalle e con il becco gli hanno cavato gli occhi.

Che tipo di uccelli?

Cornacchie o corvi.

Ed essi non hanno reagito?

Accadde tutto molto rapidamente, dice chi-ha-bussato.

È vero?, chiede il bambino e si gira di nuovo verso noi.

Si, vero, diciamo, e annuiamo.

E perché vi hanno cavato gli occhi?

Perché abbiamo ucciso i loro piccoli.

E perché avete ucciso i loro piccoli? 

Non potevamo più sentire lo schiamazzo, o comunque pensavamo di non esserne capaci.

Solo che alcuni sostengono che non si è trattato di corvi o di cornacchie, ma di taccole, dice chi-ha-bussato.

[…] Hei, tu, chiediamo procedendo, ci sono uomini qui?

Si, dice il bambino.

Quanti?

Devo contarli?

No. Press’a poco.

Forse dieci.

Dove?

Davanti alle loro case.

E che cosa vogliono?

Vedervi.

Allora ci guardano?

Sì.

Adesso?

Sì, adesso.

Ah, va bene, diciamo. E, come sempre quando ci osservano, a fatica ci avviciniamo l’uno all’altro, e volgiamo lo sguardo ostentatamente verso l’alto, e ci rendiamo conto di essere guardati, sia da vicino che da lontano. Un mostro marino noi siamo, quando passiamo così per i villaggi, un insieme che si muove con difficoltà, silenzioso e indistinto. Quando si espone alla vista, s’imbatte nella paura, nel disgusto e nella pietà.

[…] Pietà per i ciechi, gridiamo e agitiamo i bastoni affinchè ci scansino. (se poi non temono più i nostri bastoni, gli mostreremo gli occhi.) Chiediamo allora dei corvi, e chiediamo anche della stagione, perché non siamo mai sicuri. Di certo è una giornata fredda, ma che significa in una regione con un inverno così lungo? Chiediamo: primavera? Primavera, dicono loro. Chiediamo : fra breve? Sì, fra breve. E allora primavera, pensiamo e cerchiamo di annusare nel vento un po’ di tepore, mentre rinfrancati avanziamo lentamente. Forse è la piazza del villaggio, quella per la quale ci trasciniamo, ma forse non lo è.

Devo guidarvi?, chiede il bambino, ma noi non rispondiamo. Gridiamo : pietà per i ciechi.

Sì, prendili per mano e portali al tavolo con il cibo, dice chi-ha-bussato, saranno affamati.

Sempre affamati, diciamo.

[…] ecco il cibo, dice il bambino, è tutto per voi. E prende le nostre mani e le posa sul pane e sulle pentole e ci spinge intorno al tavolo. Cerchiamo tastoni il cibo per sapere che cosa c’è. Mettiamo persino le mani nel latte che sta vicino al mangiare, tiepido ci scorre addosso. Ma questo lo conosciamo. Di continuo prendiamo cose che non abbiamo previsto. Se addirittura non afferriamo qualcosa che non esiste.

[…] Ehi, gridiamo, che c’è da guardare così a bocca aperta?

Non guardano a bocca aperta, dice chi-ha-bussato.

E se noi sentiamo che guardano a bocca aperta?

Non guardano a bocca aperta, dice lui.

Ah, diciamo, che facciano pure. E prendiamo prima da questa poi da quella scodella, prima cibi freddi, poi bollenti e poi ancora tiepidi. Arriva un venticello e siamo contenti di avere i nostri camiciotti. Con il cucchiaio prendiamo anche la broda, che è dolce, non salata, e la infiliamo in bocca. Guarda come si sbrodolano, dicono.

Sì, diciamo, ci sbrodoliamo.

Allora ridono e dicono: continuate così. A sudare e a ingozzarvi.

Grazie, diciamo.

[…] strano che egli voglia dipingere proprio noi, pensiamo. Perché la gente non ci vede volentieri neanche non dipinti, cioè così come siamo. Già da lontano, quando ci vede arrivare, ci scansa, si appiattisce passandoci accanto. Perché al contrario dei nostri compari, gli storpi, noi non portiamo fortuna. Se dipendesse dalla gente, ci scaverebbe una profonda buca nella terra, ci getterebbe dentro e la ricoprirebbe per bene, per eliminarci, altro che dipingerci. Altro che fissarci dipingendoci, duplicarci attraverso la pittura.

[…] Va bene, diciamo. Allora, chiediamo, hai il tuo bastone?

Sì, dice Ripolus, il mio bastone è qui. E con questo cammina tastoni sul terreno, affinché noi lo si possa sentire. 

Bene, diciamo, e ora tendilo, perché tu sappia dove metti i piedi. Perché anche noi si sappia dove mettiamo i piedi, quando ti seguiamo. Tendilo, Ripolus, tendilo, gridiamo.

Sì, dice Ripolus, ora lo tendo. E dove andiamo? Chiede, dopo che abbiamo camminato per un po’. Perché la terra del signore, che per tutti è infinita per noi è ancora più grande. E tuttavia siamo sempre in grado di andare avanti, solo ci si chiede per dove. Perché è certo che non andiamo solo diritto, ma anche qua e là, e non solo in avanti, ma anche indietro o in tondo. Ben presto il villaggio pi piccolo si fa interminabilmente lungo, e uno di noi si attacca all’altro o si appoggia al bastone e deve prendere per bene fiato se vuole continuare. Una gruccia non sarebbe male. Con il suo aiuto voleremmo a bassa quota, teste insaccate, sopra la terra. Ma questo significa essere zoppi, non solo ciechi come noi. Accontentiamoci dunque di ciò che abbiamo, avanziamo strisciando con i nostri bastoni! O brandiamoli contro ciò che ci sbarra il passo, gli uomini, il loro bestiame, i loro carri.

Gert Hofmann

Treccani Enciclopedia Online

Gert Hofmann, “La parabola dei ciechi” (1985)