Divulgazione e (neuro)diversità, il Talk coffee per il Retreat Cnr-Irib

Divulgazione e (neuro)diversità, il Talk coffee per il Retreat Cnr-Irib

22/06/2023

Nell’ambito del Retreat del Cnr-Irib (Istituto per la ricerca e l’innovazione biomedica del Consiglio nazionale delle ricerche), Messina 20-22 giugno, si è svolto il primo Coffee talk presso il Museo regionale, che ha inaugurato un nuovo format di divulgazione dell’Irib che proseguirà a settembre. Tra i protagonisti, il prof. Angelo Quartarone, direttore scientifico dell’Irccs Bonino Pulejo di Messina, e il quartetto GLORIUS4, moderati da Marco Ferrazzoli, dirigente tecnologo del Cnr.

Il tema affrontato è quello del rapporto tra modalità espressive artistiche, in particolare musicali, e neurodiversità, declinato attraverso tre domande. Ne sono emersi sostanzialmente il funzionamento “super” del cervello di musicisti e cantanti, attestato dalla minor attivazione durante l’esecuzione di una semplice scala musicale, e le straordinarie potenzialità terapeutiche della musica, dimostrate tra l’altro dal “risveglio” dal loro torpore di pazienti alzheimeriani e parkinsoniani.

Sono stati mostrati al pubblico un’ex ballerina e un ex jazzista, rispettivamente stimolati dal “Lago dei cigni” e da un brano di Cab Calloway, e alcuni pazienti coinvolti in un ballo al ritmo di musiche irlandesi, oggetto di video particolarmente emozionali che in rete sono difatti divenuti virali. Il gruppo delle GLORIUS4 (Agnese Carruba, Cecilia Foti, Federica D’Andrea e Maria Chiara Millimaggi) ha interloquito con Ferrazzoli e Quartarone sulla base della propria esperienza ed eseguito a cappella alcuni brani: “Uluaki” (delle Isole Tonga), “More than words” in un mash up con “You’ve got a friend”, “Don’t worry, be happy” e “Tu vuo’ fa’ l’americano”.

Sempre in tema di interazione tra fragilità, neurodiversità e sindrome dello spettro autistico in particolare, la serata ha poi visto l’inaugurazione della mostra “Racconti e ritratti di medicina e malattia”, evento ufficiale del centenario Cnr, in corso dal 10 al 31 luglio e dal 4 settembre al 31 dicembre 2023 sempre a Messina, presso la sede Cnr-Irib, e che si è arricchita, rispetto alle sei stanze delle precedenti edizioni, di una settima stanza dedicata all’autismo. L’Istituto per la ricerca e l’innovazione biomedica, infatti, ha sviluppato un expertise unica di ricerca e trattamento dei disturbi dello spettro autistico.

La stanza è stata arricchita dall’esposizione dei quadri di Ugo Prestipino, 31enne con neurodiversità, mentre Samuele Di Meo, 18enne Asperger, ha fatto da guida della mostra per l’ampio pubblico presente. Tra ricercatori e ospiti erano presenti oltre un centinaio di persone, tra le quali il direttore dell’Irib Andrea De Gaetano, i ricercatori Antonio Cerasa, Flavia Marino, Giovanni Pioggia, Alfio Puglisi, Rosa Musotto, il direttore del MuMe-Museo regionale di Messina Orazio Micali, l’assessore comunale Alessandra Calafiore, l’imprenditore Antonio Barbera.

Per informazioni:
Giovanni Pioggia
Cnr – Irib
giovanni.pioggia@irib.cnr.it

La Tv, da “Malattie imbarazzanti” a “Ballando con le stelle”

La televisione offre spesso un atteggiamento contraddittorio nell’affrontare il rapporto tra normodotati e disabili: lo analizza un capitolo del saggio “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo.”

Anche la televisione è un medium contrassegnato da un atteggiamento ambiguo, che riflette quello del rapporto tra “normodotati” e disabilità. Prendiamo il docu-reality Malattie imbarazzanti: il format inglese in cui un’equipe di medici cerca di aiutare persone con patologie rare, si basa su scene di vita reale o riprese in modo da apparire tali.

I medici raccolgono anche le opinioni della popolazione, facendone emergere la disinformazione, la paura, il pregiudizio. Il successo del programma, vincitore di due premi BAFTA (British Academy of Film and Television Arts), ha portato alla produzione di spin-off come Embarrassing Fat Bodies e Embarrassing Teenage Bodies.

Lo Show dei record è andato in onda dal 2006 su Canale 5 e TV8, salvo interruzione della nuova edizione per via della pandemia. Nel programma dedicato ai più famosi primati censiti nel “Guinness dei primati”, pubblicato dal 1955 e tradotto in venti lingue, hanno trovato spazio made freak come Charlotte Guttenberg, che con il 91,5% del corpo coperto è la donna anziana più tatuata al mondo, e Lizardman (l’uomo lucertola), al secolo Erik Sprague: per ottenere l’aspetto che lo contraddistingue si è sottoposto a circa 700 ore di sedute di tatuaggi, a cui vanno aggiunti i corni in teflon, le modifiche ai denti e l’operazione per rendere la lingua biforcuta come quella dei rettili. Lo stesso Sprague scrive: “Ho deciso di fare della mia diversità un mestiere. Ho lavorato molto per diventare un’attrazione speciale. Mi sentivo un freak anche quando indossavo abiti normali ma prima di trasformarmi la gente non poteva sapere che ero così speciale, adesso basta un’occhiata per capire che sono una persona unica. Quando la gente dal panettiere vede l’uomo lucertola mi piace pensare che questo li scuota dalla monotonia, questo piccolo
tocco di surreale può scuoterli un attimo, restituire loro quel senso di stupore simile a quello che si prova da bambini”.

Come afferma Dick Zigun, fondatore e direttore artistico del Coney Island Circus Sideshow, la spettacolarizzazione della diversità oggi spesso risponde all’esigenza di rimarcare la propria unicità: «Sono le persone che desiderano sentirsi diverse, visibilmente diverse da tutte le altre. In questa società che tende all’omologazione, essere finalmente unici è un obiettivo».

In alcuni casi sono le stesse persone con disabilità reali a voler stupire grazie ai propri record. L’italo-albanese Haki Doku, 49enne paraplegico, ha iscritto il suo nome nel libro in due categorie: il percorso
più lungo compiuto spingendosi su una carrozzina per dodici ore consecutive e il maggior numero di gradini effettuati in discesa in un’ora.

Il programma forse più significativo è però Ballando con le stelle, condotto su Rai Uno da Milly Carlucci e Paolo Belli, importato dal format Strictly Dancing andato in onda per la prima volta su BBC One, in Gran
Bretagna.

Dopo le prime edizioni, gli autori hanno deciso di introdurre nel cast persone con disabilità. La prima è Giusy Versace nel 2014, seguita da Nicole Orlando nel 2016, Oney Tapia nel 2017 e l’ex modella sfigurata con l’acido Gessica Notaro nel 2018. Questa scelta è adottata anche in altri Paesi: nel 2008, all’omonimo programma Usa Dancing with the Stars, ha concorso l’attrice sordomuta premio Oscar Marlee Matlin e, nel 2014, Amy Purdy, una snowboarder paralimpica con protesi in titanio. Due anni dopo, vince la 22° edizione Nyle Di Marco, modello e attore sordo. Nel 2020 al Norwegian Dancing With the Stars ha partecipato per la prima volta una concorrente in carrozzina: Birgit Skarstein, campionessa paralimpica di canottaggio e scii. L’originale inglese ha ospitato nel 2017 Jonnie Peacock, corridore amputato che aveva strappato a Pistorius l’oro nei 100 metri alle Paralimpiadi di Londra, e Lauren Steadman, nata con il braccio destro incompleto e vincitrice di una medaglia d’argento nel paratriathlon a Rio.

In Italia, la trasmissione ha acceso i riflettori anche su altre diversità e fragilità, come l’obesità di Platinette, concorrente nel 2016, e il tumore della presidente di giuria Carolyn Smith: nel momento in cui si è tolta il turbante mostrandosi senza capelli, l’ovazione del pubblico è stata inevitabile. In totale, tra concorrenti, giurati e ospiti, dal 2012 al 2019 almeno una dozzina di personaggi con disabilità di generi diversi sono apparsi in trasmissione.

Alcuni giudizi sono positivi senza riserve. Secondo una recensione de “La Stampa”, Ballando con le Stelle sta dimostrando la capacità di affrontare tematiche scottanti riguardo la malattia, la disabilità ed i problemi sociali;

[…] Dopo la fantastica Giusy Versace, che ha vinto l’edizione 2014, quest’anno tra i partecipanti c’è anche l’atleta paralimpica Nicole Orlando e con lei la condizione della sindrome di Down è diventata finalmente visibile in modo positivo e vitale, come ci aspettavamo. Nella giuria, invece, la bella e sensibile Carolyn Smith è presente senza nascondere di essere alle prese con la chemioterapia. La simpatica Platinette, a suo modo, ha fatto sentire meno sole le persone insovrap peso parlando della sua operazione gastrica e degli sforzi per seguire un’alimentazione sana. Insomma, mi verrebbe da dire in maniera un po’ infantile ed entusiastica “Viva Ballando con le Stelle!”, sperando che l’impegno nei confronti della disabilità e dell’inclusione sociale venga seguito anche da altre trasmissioni televisive.

Altre valutazioni sono ovviamente più perplesse. Come abbiamo già detto, è difficile mettere sulla bilancia vantaggi e svantaggi di simili scelte mediatiche, ma certamente il dibattito in merito è preferibile alla disattenzione verso le disabilità, che in passato connotava spesso il mainstream. Certo è doveroso riflettere sulla qualità dei messaggi, puntare a una comunicazione che non sia meramente inclusiva, ma anche innovativa. E comunque l’enfasi della competizione può legittimamente essere giudicata eccessiva, ma rende il protagonista disabile soggetto alla stessa dinamica competitiva degli altri personaggi.

Il discorso potrebbe poi essere allargato ad altre competizioni nelle quali l’assegnazione della vittoria sembra condizionata dalla “diversità”, più che dai meriti. La scozzese Susan Magdalane Boyle, che conquista il secondo posto e raggiunge la fama internazionale nella trasmissione Britain’s Got Talent, ha difficoltà di apprendimento e di socializzazione dovute a un’asfissia neonatale. In Italia, il balbuziente Edson D’Alessandro vince Tu sì que vales. Il transgender austriaco Thomas Neuwirth, conosciuto con lo pseudonimo di Conchita Wurst, conquista l’Eurovision 2014sul cui palco si presenta come “donna barbuta”.

Sentenze “politicamente corrette”? Diversità sfruttate come investimento in termini di audience e
risonanza mediatica, anziché come costo sociale, quali sono generalmente considerate?

Quesiti evidentemente irrisolvibili.

[…]


Anche al Festival di Sanremo, vetrina mediatica senza pari nel mercato musicale e di costume italiano, i numeri non mancano. Negli ultimi 10anni c’è stato sempre almeno un concorrente o un ospite con disabilità,da Simona Atzori a Bocelli e Bosso. Di fronte alla continuità dell’innovazione impressa dai media, polemiche ed eventuali errori possono essere tutto sommato accettati.

Durante l’edizione 2021 è stato invitato a Sanremo Donato Grande, campione di powerchair football (calcio su sedia a rotelle) assieme a Zlatan Ibrahimovic. Claudio Arrigoni si è sul “Corriere della sera” ha acceso un dibattito attorno al diverso trattamento riservato dal conduttore Amadeus ai due sportivi:
Chiariamo: è stato importante che quell’intervento ci sia stato e Donato fosse presente. Una grande occasione per mostrare che lo sport può essere praticato in qualunque condizione. […] L’analisi però non deve e non può fermarsi qui. Perché non è accettabile che un professionista della comunicazione come Amadeus utilizzi ancora termini come “portatore di handicap” o espressioni come “soffre di disabilità” davanti a milioni di persone. O che legga quattro frasi su non parcheggiare senza permesso sui posteggi
dedicati a chi ha una disabilità, usando quella distanza fra “noi” e “loro”, i “fortunati” che non ne hanno bisogno e i “poverini” che li devono usare. È apparso, ma questa è magari solo un’impressione, che Ibra fosse il campione e Grande un suo tifoso, mentre su quel palco i campioni erano due e sarebbe stato bello far percepire meglio questo aspetto.

Dalla 70esima edizione la kermesse canora ha però impresso davvero una svolta inclusiva. Come accennato prima, per la prima volta le cinque le serate sono state interamente trasmesse in Lis su un canale dedicato di RaiPlay e tutti i brani sono stati interpretati in Lis da 15 performer selezionati da Rai Casting. Per le persone cieche e ipovedenti è stata messa adisposizione un’audio-descrizione. L’impegno della Rai per il progetto “Virtual Lis”, che permette la generazione di contenuti nella lingua dei segni mediante la computer grafica, è stato riconosciuto con la vittoria alla quarta edizione del Diversity Brand Summit. Oltre ai movimenti delle dita e delle mani, è stata posta grande attenzione anche alle espressioni
facciali, elemento fondamentale poiché conferiscono espressività alla comunicazione. Partendo dagli studi sulle soglie di wpm (words per minute) associate a livelli di comprensibilità diversi, è stata invece ideata Stretch Tv, una soluzione tecnologica che consente di rallentare i programmi televisivi per migliorarne la comprensione da parte di persone disabili e anziane. Un lavoro che così spiega il responsabile Campagne sociali Rai, Roberto Natale: “Il servizio pubblico esiste per fare coesione sociale […] e la Rai può davvero provare a incidere sulla mentalità corrente. Come è accaduto con le Paralimpiadi, alle cui ultime edizioni ha dedicato la stessa attenzione qualitativa e quantitativa che ha riservato alle Olimpiadi. Perfino i telecronisti
erano gli stessi. Sono occasioni in cui tocchi con mano quanto la tv generalista possa cambiare nel profondo il senso comune di un Paese. Per non dire della forza emotiva della fiction che, con le sue invenzioni narrative, può aiutare il pubblico a superare le proprie barriere culturali
“.

Marco Ferrazzoli, Francesca Gorini, Francesco Pieri, “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” (LuCe Edizioni 2019).

“Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” sul sito di LuCe Edizioni

Non c’è Oscar senza handicap

Il cinema ha svolto un ruolo essenziale nel rendere la disabilità visibile al grande pubblico. Spesso, tuttavia, lo ha fatto sfruttando gli stessi stereotipi che avrebbe dovuto sovvertire. Il tema è oggetto di un capitolo del volume “Il Superdisabile. Analisi di un stereotipo”.

Il cinema ha svolto un ruolo essenziale nel rendere la disabilità visibile al grande pubblico, ancorché spesso lo abbia fatto sfruttando gli stessi stereotipi che avrebbe dovuto sovvertire.

Freaks è in qualche modo l’opera che nel 1932 apre questa strada: ambientato nel mondo del circo, è interpretato da attori con disabilità reali, a partire dalla coppia di nani protagonista del film di Tod Browning. Hans è fidanzato con Frieda ma si invaghisce della trapezista Cleopatra che, d’accordo con l’“uomo forzuto” Ercole, tenta di ingannare e derubare lo spasimante. In realtà il nanismo non viene legato a una particolare connotazione morale nella pellicola, che diventa anzi l’occasione per mostrare come i mondi dei “normodotati” e delle persone disabili non siano così distanti, come entrambi provino sentimenti e compiano azioni simili, nel bene e nel male. Il film ha però un esito travagliato: la crudezza e il realismo provocano turbamenti e malori ad alcuni spettatori e la Metro Goldwyn Mayerche lo aveva prodott o, pensandolo come un horror di facile incasso, sottopone la pellicola a 26 minuti di tagli, eliminando tra l’altro la scena in cui Ercole viene evirato e il finale dove si esibisce cantando in falsetto. Il film è comunque rimasto un cult delle proiezioni underground e nei primi anni ‘60 è stato ripresentato al Festival di Venezia. Un’altra pellicola del1953 esplicitamente ispirata al circo Barnum, Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille, vince l’Oscar raccogliendo diversi altri riconoscimenti e nomination.

Il cinema del secondo dopoguerra racconta ovviamente anche la menomazione dovuta al conflitto, inserendosi nel filone cinematografico che narra storie di disabilità acquisite in cui i protagonisti sono principalmente di sesso maschile. Basti pensare a I migliori anni della nostra vita, vincitore nel 1947 di ben sette Oscar, in cui no degli attori, Harold Russel che interpreta il reduce Homer Parrish, è veramente privo di entrambe le mani.

Altro capolavoro sulle mutilazioni di guerra è Tornando a casa, diretto da Hal Ashby nel 1978 e interpretato da Jane Fonda e Jon Voight, entrambi premiati con l’Oscar, cui si aggiunge quello per la sceneggiatura. Nel 1989 è la volta di Nato il quattro luglio diretto da Oliver Stone, Oscar per la regia, il cui protagonista è un ex marine in carrozzina che da eroe di guerra si trasforma in militante pacifista. Pellicole in cui corrono in parallelo l’elemento psico-fisico, relativo all’identità mutata e mutilata del personaggio che deve rinunciare alla propria indipendenza e accettare la nuova condizione, e quello sociale, relativo dalla difficoltà del reduce di reinserirsi nel proprio ambiente di vita e nelle relazioni con gli altri.

Tra i moltissimi, un film spartiacque è poi Anna dei miracoli, del 1962, che racconta la sorprendente rieducazione della piccola Helen Keller, cieca e sordomuta dall’età di sei mesi, da parte dell’educatrice Annie Sullivan. Nel 1981 riceve ben otto candidature agli Academy Award The Elephant Man. La storia, che ha un tale successo da approdare anche a Broadway, con David Bowie nei panni del protagonista, ripercorre la vita di Joseph Merrick: nato con la sindrome di Proteo che comporta deformazioni sul corpo e in viso, al punto da andare in giro con un sacco in testa per non spaventare i passanti, mostra una tale sensibilità che la regina Vittoria apre un fondo per pagargli le cure.

Dal 1976, su 269 candidati e 44 vincitori all’Oscar come Miglior film dell’anno, rispettivamente 51 e 14 riguardano storie di disabilità. Ma se allarghiamo l’inquadratura ad altre patologie e categorie premiate le cifre sono ancora più significative. Basti pensare a Tom Hanks malato di AIDS in Philadelphia, migliore attore protagonista; Julianne Moore che racconta l’Alzheimer in Still Alice, migliore attrice protagonista; Al Pacino che conquista l’Academy Award solo all’ottava nomination per l’interpretazione del militare cieco in Scent of a Woman, remake dell’italiano Profumo di donna, dove a vestire la divisa era Vittorio Gassman.

Solo nel 2021 sono stati candidati tre film – The Father, Minari e Sound Of Metal – accomunati dalla disabilità del protagonista o di un personaggio principale. Secondo Rosalba Perrotta, docente di Sociologia presso l’Università di Catania, «l’handicap, al cinema, o diventa celebrazione della differenza, opponendosi agli stereotipi, oppure si fa tramite di una diversa coniugazione delle ideologie dominanti, consolidando i pregiudizi condivisi».

[…]

Il tema della patologia, della disabilità, della malattia, è stato affrontato sul grande schermo nei generi più vari: dal dramma di Million Dollar Baby alla ricostruzione storica de Il paziente inglese; dalle autobiografie,
come La teoria del tutto o Il discorso del re, che narrano rispettivamente le vite dello scienziato Stephen Hawking e del balbuziente re Giorgio VI, alla comicità di Perdiamoci di vista di Carlo Verdone, che con Asia Argento in sedia a rotelle vincerà un David di Donatello; dal premiatissimo horror Il silenzio degli innocenti alla fantascienza con La forma dell’acqua. In quest’ultimo genere la disabilità ha trovato ampio spazio: gli handicap dei supereroi spesso fanno da contrappasso ai loro poteri, come con la cecità
di Daredevil che in qualche modo richiama la figura di Tiresia, profeta e indovino della tragedia greca.

Caso davvero particolare è quello di Christopher Reeve, Superman degli anni ‘80 che, paralizzato dal collo in giù per una caduta da cavallo, ha recitato in carrozzina nel remake del thriller di Alfred Hitchcock La Finestra sul Cortile. Il titolo della sua autobiografia Still Me è un gioco di parole: still significa infatti sia “ancora” che “immobile”. Un altro film costruito sulla reale disabilità dell’interprete è Figli di un Dio minore con cui Marlee Matlin, sorda anche nella realtà, ha vinto la statuetta quale migliore protagonista.

Nella maggioranza dei casi, però, a coprire il ruolo del personaggio disabile viene chiamato un attore “normodotato”, modificandone l’aspetto con allenamenti e diete, oltre che con make up ed effetti speciali. Eddie Redmayne, per interpretare Stephen Hawking, ha perso circa 15 kg e incontrato decine di malati di SLA per osservarne i movimenti. Scelte che causano polemiche inevitabili, espresse dal motto Nothing about us without us: niente che ci riguardi senza di noi.

Katy Sullivan, attrice e campionessa paralimpica priva degli arti inferiori, dopo la scelta di Dwayne Johnson di interpretare il ruolo di un supereroe disabile in Skyscraper ha rivolto un appello alle star hollywoodiane: Sembra esserci una mancanza di sdegno sociale per gli attori normodotati che interpretano personaggi disabili. In effetti, sono spesso celebrati, dai Golden Globes agli Oscar, per aver assunto questo “materiale difficile”. È questa mancanza di autenticità che continua a rendere i disabili
invisibili, me inclusa. […] E i dirigenti e i produttori non sembrano fare nulla per cambiare le cose velocemente, per questo mi rivolgo a te. […] la prossima volta che ti verrà presentata l’opportunità di ritrarre un personaggio la cui esperienza di vita include una sorta di disabilità, per favore considera di dire “No”.

Marco Ferrazzoli, Francesca Gorini, Francesco Pieri, “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” (LuCe Edizioni 2019).

“Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” sul sito di LuCe Edizioni

Il fascino ambiguo del “mostro”

“Mostro” è un termine che nella lingua italiana si colora di molte accezioni diverse: il prodigio, il genio, ma anche l’essere orribile, deforme e però -in quanto tale- in grado di suscitare stupore. Un campionario del quale sono piene la mitologia e la narrativa, fiabe, leggende, cronache, storie e racconti, ma anche la letteratura scientifica. Al tema è dedicato un capitolo del volume “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo”.

Quando un individuo diventa “anormale” per la società? “Mostro” è un termine che nella lingua italiana si colora di molte accezioni diverse: il prodigio, il genio, ma anche l’essere orribile, deforme e però -in quanto tale- in grado di suscitare stupore. Un campionario del quale sono piene la mitologia e la narrativa, fiabe, leggende, cronache, storie e racconti, ma anche la letteratura scientifica. La categoria del “mostruoso” tassonomicamente nasce per contrapposizione, accogliendo il diverso, lo sconosciuto, l’anomalo, l’anormale. Ed esercita un’ambigua fascinazione che spesso diventa atteggiamento giudicante, stigma, allarme.

Nella letteratura i richiami alle disabilità e alle deformità sono frequenti, sin dagli esordi: nell’Olimpo Efesto, dio del fuoco e marito di Afrodite, è descritto come “storpio” e oggetto di burle: «questo ci ricorda che gli zoppi erano originariamente visti come personaggi buffi», avverte Leslie Fiedler, evidenziando la differenza con l’atteggiamento invalso nei secoli seguenti, quando il “diverso” sarà spesso associato a malvagità e timore. Visioni rappresentate, ad esempio, dallo “storpio” e machiavellico sovrano Riccardo III di Shakespeare; da Quilp, il “nano mostruoso” in agguato contro Little Nell nella Bottega dell’antiquario di Charles Dickens; dall’animo inaridito del capitano Achab del Moby Dick di Herman Melville, con una gamba sola; dal suo omologo assassino Long John Silver, nell’Isola del tesoro di Robert Louis Stevenson.

E ancora, il “deforme” e spietato Roger Chillingworth nella Lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne, il
Capitano Uncino ritratto da James Barrie nel Peter Pan, il “gobbo” di Notre Dame de Paris di Victor Hugo. Il campionario negativo delle persone menomate e con deformità è ricco quanto quello compassionevole, presente soprattutto nella letteratura infantile. Si pensi alla sopravvivenza finale del piccolo Tim nella Favola di Natale di Dickens, intenzionata a convincerci che il disagio della disabilità può sempre essere alleviato o risolto dalla filantropia.

Ma, ammonisce Fiedler, «altri racconti incentrati su guarigioni quasi miracolose (come Heidi e il Giardino Segreto) rivelano similitudini impressionanti con le storie basate sulla paura: è il desiderio che non esistano handicappati e che finalmente spariscano tutti».

Lorenzo Montemagno Ciseri, analizzando figure reali, mitologiche e letterarie identifica la dimensione come uno degli elementi determinanti del mostruoso: si pensi solo agli esseri giganteschi e minuscoli in cui si imbatte Gulliver. Tante soprattutto «le figure di giganti che caratterizzano il Medioevo occidentale, a cominciare da quella del mostruoso Grendel nemico dell’umanità e protagonista diabolico del Beowulf» per arrivare alla Commedia di Dante, che cristallizza più di ogni altra opera «nel nostro immaginario le figure dei mostri infernali».

Analoga morbosità, curiosità e interesse letterario si legano alle persone più piccole, come i Pigmei citati già in Omero, mentre Aristotele nei Problemi si interroga sul motivo che porta alla nascita di uomini nani
e, più in generale, di creature più grandi e più piccole, rispondendo che due sono i possibili motivi: lo spazio in cui si sviluppa l’embrione o il suo nutrimento. La poesia “Judge Selah Lively” tratta dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, nella trasposizione di Fabrizio De Andrè del 1971, descrive un nano con una famosa strofa che è forse la più feroce e fedele espressione dello stigma: «una carogna, di sicuro, perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo».

In altri casi l’atteggiamento è quanto meno formalmente diverso. Il reality show “Our Little Family”, in onda anche in Italia con il titolo di “Una famiglia extra small”, vede protagonista Michelle Hamill con i suoi
tre figli, tutti con nanismo. Sempre su Real Time ha avuto un notevole successo, tanto da aver già inanellato nove stagioni, “Questo piccolo grande amore”, serie che racconta la storia di Bill Klein e di Jennifer Arnold, una coppia di persone nane. E rimane nella memoria di tutti gli amanti del jazz il pianista Michel Antoine Petrucciani (1962-1999), con una osteogenesi imperfetta, patologia ereditaria nota come “sindrome delle ossa di cristallo”, spesso definito per contrappasso come un “gigante”.

Da osservare a margine come, con la pandemia di Covid-19, il mondo sia stato sconvolto dall’aggressività di microrganismi, mentre la letteratura distopica e fantascientifica preferisce immaginare nemici macroscopici, in genere più grandi e forti degli esseri umani.

Michel Foucault stabilisce un nesso tra il pregiudizio socio-culturale e le categorie etico-giuridiche:
Il mostro è una violazione delle leggi e della natura che fa cadere il modello di essere umano, la legge si trova davanti all’impossibilità di concettualizzare secondo natura ciò che egli è […] è un essere che non rientra nelle categorie morali e questo stravolge, allarma il diritto che non riesce a funzionare. L’ausilio arriva dal sapere medico che differenzia ciò che è mostruoso per natura, che è più giustificante, da ciò che è mostruoso per la condotta.

Ma anche l’approccio scientifico non risolve la questione, secondo Focault, poiché con le perizie psichiatriche «si seleziona una mostruosità morale e da qui parte la storia di questo concetto che ne porterà un altro: quello della perversione»


Su una tavoletta d’argilla babilonese risalente al 2800 a.C. si distingue tra mostri: per eccesso, ad esempio con sei dita; per difetto, cioè mancanti di un organo; doppi, come i gemelli siamesi. Non meno antiche sono le prime immagini del genere: la Venere di Willendorf, raffigura una donna steatopigia, cioè con una spiccata lordosi lombare.

Secondo Fiedler rappresentazioni simili sono frutto dell’osservazione di esseri umani con anomalie fisiche e per questo eretti a divinità: la famosa statuetta paleolitica simbolo di fertilità, risalente al 23.000-19.000 a.C., «ritrae con precisione quasi clinica» una donna obesa «diencefaloendocrina con ipertonia parasintomatica, sterilità e riduzione della libido», mentre «altri mostri, ritenuti per molto tempo puramente fantastici, possono essere stati dei tentativi di rappresentare anomalie riscontrabili soltanto nei feti abortiti».

La teoria è insomma che «l’osservazione delle malformazioni umane precedette la creazione dei mostri mitici». Nella maggior parte dei casi, però, le nascite di bambini con deformità venivano interpretate come presagio di malaugurio e portavano all’infanticidio. La stessa parola “mostro” porta con sé questa duplicità: il latino monstrum, cioè “segno degli dèi”, rimanda alla stessa radice di monstrare e di monere, ammonire, mettere in guardia.

Con l’Illuminismo la connotazione magico-religiosa del corpo mostruoso comincia a cedere all’analisi scientifica. In particolare Cesare Taruffi, professore di Anatomia patologica nell’Università di Bologna dal
1859 al 1894 e autore della prima “Storia della Teratologia” (dal greco τέρας, “mostro”), inaugura gli studi delle patologie legate a somatizzazioni corporee anomale. E proprio in questo periodo nasce anche il freak show, come se lo spettacolo facesse da versione popolare della speculazione scientifica.

Comunque anche nei secoli successivi e persino oggi, in una società scientificamente molto più avanzata, non di rado si scivola nello stesso ambiguo obiettivo di suscitare attrazione. Varie forme di spettacolarizzazione della diversità sono presenti nel cinema, nella televisione, nei nuovi media,
magari con l’intento di sensibilizzare i pubblici sul tema delle disabilità.

Marco Ferrazzoli, Francesca Gorini, Francesco Pieri, “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” (LuCe Edizioni 2019).

Marco Ferrazzoli, Francesca Gorini, Francesco Pieri, “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” (LuCe Edizioni 2019).

“Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” sul sito di LuCe Edizioni


Questo e altro, in tavola rotonda

L’autore tedesco Enzensberger mostra una società che ha deciso di non usare gli occhi per vedere.

[…] essere vittoriosi

Diventa compito dei veggenti

Coloro che hanno un occhio solo

L’hanno preso su di sé

Conquistato il potere

E nominato re il cieco

Alle frontiere sbarrate stanno poliziotti che giocano a mosca cieca

Ogni tanto acchiappano un oculista 

Cui si dà la caccia

Per attività contro lo stato

Tutti i signori dirigenti portano

Un cerottino nero

Sopra l’occhio destro 

Negli uffici oggetti rivenuti ammuffiscono

Forniti dai cani per ciechi

Lenti e occhiali senza padrone.

Solerti giovani astronomi

Si fanno applicare occhi di vetro 

Lungimiranti genitori

Insegnano ai loro figli a tempo debito

L’arte progressista del guardare di sbieco

Il nemico introduce acqua borica a mercato nero

Per la congiuntiva dei suoi agenti

Ma i borghesi perbene non si fidano 

Per cautela delle condizioni

Dei loro occhi.

Hans Magnus Enzensberger

Enciclopedia Treccani online

Mio fratello rincorre i dinosauri. Storia mia e di Giovanni che ha un cromosoma in più

Down: una parola straniera? Una notizia travolgente? Un’etichetta? Una sindrome?

Una persona, un fratello, una questione di sguardo.

Abbiamo una cosa da dirvi… Riguarda vostro fratello.

Papà le strinse la mano.

– Vostro fratello… – disse, e fece una pausa. – Ecco, vostro fratello sarà… speciale.

Io e Chiara ci scrutammo l’un l’altra muovendo solo gli occhi.

– Speciale? – disse lei.

– In che senso speciale? – chiesi io.

– Nel senso, – disse papà, – che sarà… diverso. Affettuoso, anzitutto. Molto. Moltissimo. E poi sorridente e gentile. E tranquillo. E con i suoi, ecco, diciamo con i suoi tempi.

Sollevai un sopracciglio: – I suoi tempi?

– E altre cose sue speciali che ancora non sappiamo, – sorrise mamma.

– Quindi è una buona notizia? – chiese Chiara.

– Non è solo una buona notizia, – disse papà serio. Aggrottò la fronte in un modo buffo e la macchina cominciò a gonfiarsi e a sgonfiarsi come se stesse respirando con noi. – È molto di piú, – disse. – È una notizia travolgente –. Poi si girò e accese la radio. […]

– In che senso da dove arriva?

– Non è di questo pianeta. È evidente.

– Te l’avevamo detto, – disse lui, stringendomi la spalla con una mano cosí calda e ferma che con quella mano sulla spalla, giuro, sarei stato capace di andare ovunque nel mondo, affrontare qualunque cosa. – L’avevamo detto che era speciale.

Annuii.

Anzitutto gli occhi. Gli occhi erano cinesi, o venusiani forse, non sapevo decidermi; o di qualche altro pianeta con cristalli luminosi che sbucavano dalla sabbia e dieci lune viola nel cielo. Anch’io ho un taglio degli occhi un po’ orientale, in questo si vede che siamo fratelli, ma i suoi erano proprio tanto orientali. E poi la nuca. La nuca era piatta come una pista di atterraggio per microscopiche navicelle spaziali; se si fosse messo a quattro zampe potevi usarla come vassoio. Ma nulla mi colpí come le dita del piede che era scivolato fuori dalle coperte e che muoveva con scatti elettrici. Perché di dita, Giovanni, in quel piede, ne aveva quattro. O meglio, s’intuiva che potenzialmente erano cinque, ma il quarto e il quinto – il minolo e il pondolo – erano fusi insieme. Come due Kit Kat. […]

Aveva la copertina blu, un blu mogio e polveroso, e l’avevo intercettato già diverse volte, in camera da letto o sulla poltrona in salotto. Cosí, un giorno che stavo ciondolando per casa, finii per avvicinarmi e prenderlo in mano. Lessi l’autore, uno straniero, e il titolo, che conteneva anch’esso una parola straniera, e che quella parola era straniera lo sapevo perché c’era la lettera w. Noi non abbiamo tante lettere w o x nella lingua italiana, pensai. La parola era Down. La lessi pronunciandola: dovn. Prima di quella c’era la parola sindrome. Non sapevo cosa volesse dire sindrome, non sapevo cosa volesse dire Down. Lo aprii e, come sempre accade quando ci sono delle pagine piú spesse, il libro si spalancò su una fotografia.
Sgranai gli occhi. È Giovanni, pensai. […]

Ecco, allo stesso modo, interrogavo i miei genitori sui problemi di Gio. Sui suoi limiti, evidenti come il panino alla Nutella che mangiavo a merenda. E interrogavo soprattutto me stesso. Non mi interessavano piú le cause, quelle ormai erano cose passate. Pensavo piú che altro al suo futuro. Lui che non riusciva a imparare i numeri, come avrebbe fatto a pagare dal panettiere? Lui che aveva impiegato anni per parlare – e avrebbe sempre parlato male – come avrebbe fatto a scrivere? Se non sapeva né contare né scrivere, non avrebbe mai trovato un lavoro. Mi chiedevo perché avesse messo gli occhiali cosí presto: nessun altro bambino li portava. Mi chiedevo perché non ascoltasse niente, perché non capisse niente.
Addirittura – fu la cosa che mi sconvolse di piú – non avrebbe mai potuto fare le capriole. […]

Prima di quel giorno pensavo che il silenzio fosse assenza di rumore. Invece il silenzio è un suono, e c’è silenzio e silenzio. In quella mezz’ora, il silenzio mi parlò: mi disse che Gio aveva bisogno di me, costante bisogno di me; e io capii che ormai, senza Gio, non ci volevo piú stare a questo mondo. I suoi problemi erano i miei. E i miei problemi? A quelli ci avrei pensato da solo, senza disturbare; avrei trovato una soluzione. O almeno ci speravo. […]

Fu come il sole di mattina, quando filtra attraverso la tapparella che cerca di chiuderlo fuori e lui no, liquido e imprescindibile non si lascia imbrigliare, s’infila in ogni buco, in ogni fessura. Pensai ad Alice, alla sua reazione di fronte al bambino con il fucile. Pensai a Chiara, a quando aveva detto lascialo fare, che non è detto che le storie debbano sempre finire come sono state scritte. Ecco. Chi è che aveva scritto la nostra storia? Chi è che aveva sceneggiato la relazione tra me e Giovanni, e tra me, lui e il mondo, chi? Nessuno. Eravamo noi gli scrittori. Mia poi era la responsabilità di decidere come sarebbe finita la nostra storia. Nessuno instillava la paura del giudizio nel mio cuore, ero io a nutrirla.

Giacomo Mazzariol

Giacomo Mazzariol, “Mio fratello rincorre i dinosauri”, Einaudi, Torino, 2016

 

La parabola dei ciechi

Racconto breve ispirato al quadro “La parabola dei ciechi” dell’artista fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio. L’opera è in Italia, esposta nel museo di Capodimonte.

Parabola dei ciechi, Pieter Bruegel il Vecchio. 1568

Sullo sfondo della campagna della Fiandra (…) sei medicanti cenciosi. (…)

Devono rispondere alla convocazione di un pittore che vuole ritrarli (…)

Finalmente raggiungono l’artista, cui vorrebbero soprattutto chiedere perché egli voglia ritrarli mentre cadono e si umiliano di fronte a lui (…)

L’esito del lungo viaggio (…) quel dipinto che William Carlos Williams definì “orribile e insieme superbo (…)

Ehi, tu, chiediamo procedendo, ci sono uomini qui?

Sì, dice il bambino.

Quanti?

Devo contarli?

No. Press’a poco.

Forse dieci.

Dove?

Davanti alle loro case.

E che cosa vogliono?

Vedervi.

Allora ci guardano?

Sì.

Adesso?

Sì, adesso.

Ah, va bene, diciamo. E, come sempre quando ci osservano, a fatica ci avviciniamo l’uno all’altro, e volgiamo lo sguardo ostentatamente verso l’alto, e ci rendiamo conto di essere guardati, sia da vicini che da lontano. Un mostro marino noi siamo, quando passiamo così per i villaggi, un insieme che si muove con difficoltà, silenzioso e indistinto. Quando si espone alla vista, s’imbatte nella paura, nel disgusto e nella pietà. (…)

Ecco il cibo, dice il bambino, è tutto per voi.

E prende le nostre mani e le posa sul pane e sulle pentole e ci spinge intorno al tavolo. Cerchiamo tastoni il cibo per sapere cosa c’è. Mettiamo persino le mani nel latte che sta vicino al mangiare, tiepido ci scorre addosso. Ma questo lo conosciamo. Di continuo prendiamo cose che non abbiamo previsto. Se addirittura non afferriamo qualcosa che non esiste. (…)

Ehi, gridiamo, che c’è da guardare così a bocca aperta?

Non guardano a bocca aperta, dice chi-ha-bussato.

E noi sentiamo che guardano a bocca apert??

Non guardano a bocca aperta, dice lui.

Ah, diciamo, che facciano pure. E prendiamo prima da questa poi da quella scodella, prima cibi freddi, poi bollenti e poi ancora tiepidi. Arriva un venticello e siamo contenti di avere i nostri camiciotti.

Con il cucchiaio prendiamo anche la broda, che è dolce, non salata, e la infiliamo in bocca.

Guarda come si sbrodolano, dicono.

Sì, diciamo, ci sbrodoliamo.

Allora ridono e dicono: Continuate così, A sudare e a ingozzarvi. (…) Il bambino affinché si ricordi più facilmente. Perché sappiamo che il pittore vuole dipingerci, ma ancora non ci crediamo ancora. (Non siamo mai stati dipinti finora!) Altrimenti non ha nessuno da dipingere? (…)

Gert Hofmann. La Parabola dei ciechi. (Trans, 1985)

‘e cecate ‘e Caravaggio

Versione Audio della poesia interpretata da Eduardo De Filippo

Dimme na cosa. T’ allicuorde tu
e quacche faccia ca p”o munno e’ vista,
mo ca pe’ sempe nun ce vide cchiù?

Sì, m’ allicordo; e tu?-No, frato mio;
io so’ nato cecato. Accussì ncielo,
pe mme murtificà, vulette Dio…

Lassa sta’ Dio!…Quant’ io ll’ aggio priato,
frato, nun t”o puo’ manco mmaggenà,
e dio m’ ha fatto addeventà cecato. (…)

E’ overo ca fa luce pe la via
‘o sole?…E comm’ è ‘o sole?-‘O sole è d’ oro,
comme ‘e capille ‘e Serrafina mia…


Serrafina?…E chi è? Nun vene maie?
Nun te vene a truvà?-Sì…quacche vota…
E comm’ è? Bella assaie?-Sì…bella assaie…


Chillo ch’ era cecato ‘a che nascette
Suspiraie. Suspiraie pure chill’ ato,
e ‘a faccia mmiezz’ ‘e mmane annascunnette.


Dicette ‘o primmo, doppo a nu mumente:
–Nun te lagnà, ca ‘e mammema carnale
io saccio ‘a voce…’a voce sulamente…

E se stettero zitte. E attuorno a lloro
addurava ‘o ciardino, e ncielo ‘o sole
luceva, ‘o sole bello, ‘o sole d’ oro…

Salvatore Di Giacomo.”‘ e ciecat ‘e Caravaggio”. (Suniette antiche, voce luntane, Mephite, 2010)

Gli ippopotami cantano? Pierluigi Cappello sicuramente sì

Il libro di Alberto Garlini racconta il lungo e profondo rapporto inttrattenuto con uno dei massimi poeti italiani, inchiodato su una carrozzina da un incidente di moto. Il libro ha due meriti: omaggiare un esponente fondamentale della poesia in lingua e dialettale e aver costruito, con la narrazione della loro amicizia, un vero romanzo e una vera autobiografia, dove disagio corporeo e psicologico trovano una via di catarsi parallela


Ma gli ippopotami cantano? La domanda potrebbe sorgere spontanea leggendo il titolo del libro di Alberto Garlini “Il canto dell’ippopotamo”, ma ci porterebbe fuori strada, lungo il pur appassionante tema etologico ed evoluzionistico delle azioni che consideriamo o meno esclusiva umana: ridere (memorabile al riguardo il dialogo tra Jorge e Guglielmo ne “Il nome della rosa”), piangere, utilizzare strumenti tecnologici (di cui abbiamo parlato recensendo “Umani” di Adam Rutherford) e, appunto, cantare. Azione che si esplica in un ventaglio di forme amplissimo e fondamentale, tanto da divenire persino oggetto di contesa come accade in questi giorni a Sanremo. Ma la frase, in realtà, con l’opera di Garlini c’entra poco o, meglio, serve nella sua casuale insignificanza a rappresentare un periodo e un aspetto della depressione di cui l’autore racconta: il rapporto stoccolmiano vittima-carnefice che instaura con una donna almeno altrettanto squilibrata, affetta da un egocentrismo pseudoartistico e particolarmente amante, appunto, degli slogan a effetto.
Vera e principale protagonista del libro è in realtà colei che della canzone è in qualche modo sorella, anche se il loro rapporto è estremamente controverso, e cioè la poesia, vista attraverso il lungo e profondo rapporto che Garlini ha intessuto con Pierluigi Cappello. Uno dei massimi poeti italiani, accomunabile sicuramente a Pier Paolo Pasolini, quanto meno per la comune friulanità, ma forse anche a Dario Bellezza e Valentino Zeichen per la stretta, ambigua, irrisolvibile connessione tra l’attività letteraria e la biografia “estrema”: omosessuale morto di Aids Bellezza, “baraccato” del quartiere romano Flaminio Zeichen, inchiodato su una carrozzina da un incidente di moto Cappello, hanno tutti vissuto le loro non lunghe esistenze tra il plauso della critica e degli intellettuali, il successo del magro ma appassionato pubblico della poesia contemporanea, le ristrettezze e difficoltà economiche e materiali.
Cappello sarebbe stato poeta anche camminando sulle proprie gambe, ma ovviamente non sarebbe stato lo stesso poeta. E a Garlini vanno riconosciuti due meriti. Il primo è quello di riservare un contributo fondamentale a un esponente fondamentale della poesia in lingua e dialettale (l’autore sceglie e suggerisce, in tutta l’opera, “Parole povere”), che si aggiunge al film che gli è stato dedicato da Francesca Archibugi e allo splendido romanzo autobiografico del poeta Questa libertà, in cui il racconto della caduta nella paralisi corporea è di un’efficacia agghiacciante proprio per la sua assoluta assenza di enfasi. L’altro è di aver costruito, con la narrazione della sua amicizia, un vero romanzo e una vera autobiografia dove il disagio corporeo di uno e quello psicologico dell’altro trovano nella poesia una via di catarsi parallela, adiacente, se non coincidente date le forti differenze letterarie che intercorrono tra i due protagonisti del libro.

Marco Ferrazzoli


Alberto Garlini, “Il canto dell’ippopotamo”, Mondadori (2019)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

“No” all’orecchio

Brano tratto da una novella del futurista Aldo Palazzeschi. In questi paragrafi l’autore descrive come la disabilità costringa il protagonista a dover fingere pur di non dover “dichiararsi sordo davanti all’universo”.

Abituato alla pratica soave della tenerezza e dell’idillio, come avrebbe potuto piegarsi alla spietata realtà? E allorquando la donna amata gli avrebbe sussurrato a fior di labbro nell’orecchio: “Quanto bene mi vuoi, angelo mio?”. Rispondere sollécito: “Domani è sabato”. E applicarsi quel ridicolo strumento che equivaleva a mettersi sul capo un cartello per dichiararsi sordo davanti all’universo. Sordo come una campana, come un tamburo, come un panchetto (…)

Infilò la via opposta dicendo: “No!” all’orecchio.

Conobbe per tale decisione il travaglio smisurato e disumano dell’uomo che non vuole o non deve essere sé stesso e vive dimostrando il contrario conquistando a poco a poco l’arte seduttrice della falsità e dell’infingimento fino a costruirvi un vero e proprio capolavoro.

Divenne frequentatore assiduo del teatro d’opera e dei concerti in special modo; ne seguiva l’esecuzione attento, penetrato, dotto, pur non udendo sia pur vagamente un suono. (…)

La sua penetrazione era tale da fargli esternare, in modo perfetto, tutto quello che non poteva sentire, e le persone che si trovavano vicino a lui di posto erano trascinate a seguirlo e ammirarlo lasciandosi trasportare più che dalla musica in sé, dal suo trasporto (…)

“Che intenditore dev’essere quello!” sussurravano tra loro (…)

Divenne frequentatore assiduo delle conferenze durante le quali, pur non riuscendo ad afferrare una sillaba del suo discorso, seguiva il conferenziere senza battere ciglio, e da parte sua sottolineandone le espressioni con segni marcatissimi di comprensione e di consenso (…)

E quelli che si trovavano vicini a lui reprimendo o nascondendo nella mano educatamente uno sbadiglio dopo l’altro, del loro irrefrenabile sbadigliare in serie si ravvivavano e consolavano osservandolo: “Beato lui! E’ della partita né più né meno. Eccone uno che sa il fatto suo. Uno scienziato, un erudito, un enciclopedico. (…)

Aldo Palazzeschi, “No! All’orecchio”. (Tutte le novelle. Meridiani Mondadori, 1957)