L’Idiota

Dopo aver ucciso Nastas’ja, Rogožin si trova in compagnia del principe Myškin. In questo brano l’omicida si incammina sulla strada del delirio.

Il principe sobbalzò sulla sedia in preda a un nuovo terrore. Quando Rogožin tacque di nuovo e di colpo, il principe si chinò in silenzio verso di lui, gli si sedette accanto e col cuore in tumulto e il respiro affannoso prese a scrutarlo. Rogožin non si voltava, sembrava addirittura che si fosse dimenticato di lui. Il principe lo guardava in attesa. Il tempo passava, cominciava ad albeggiare. Rogožin di tanto in tanto si metteva a borbottare forte, bruscamente, gridava, rideva. Il principe allora tendeva la mano tremante verso di lui e gli accarezzava la testa, i capelli, le guance… più di quello non poteva fare! Incominciò di nuovo a tremare forte e gli sembrò che la forza abbandonasse di nuovo le gambe. Una sensazione completamente nuova gli tormentava il cuore con un’angoscia infinita. Frattanto si era fatto giorno. Si allungò sul cuscino, privo di forze ormai, disperato, avvicinò il suo viso a quello pallido e immobile di Rogožin. Le lacrime sgorgavano dai suoi occhi e bagnavano le guance di Rogožin, ma forse allora non era più cosciente delle sue lacrime e non ne sapeva nulla… Ad ogni modo, quando, dopo molte ore, la porta fu aperta e entrò la gente, l’assassino fu trovato completamente privo di conoscenza e in delirio. Il principe era seduto immobile accanto a lui e, ogni volta che il malato gridava o delirava, si affrettava a passargli la mano tremante fra i capelli e sulle guance, per calmarlo con le carezze. Ma non comprendeva più nulla di quanto gli veniva chiesto, non riconosceva la gente che lo circondava e se Schneider in persona fosse giunto dalla Svizzera per visitare l’allievo e paziente d’un tempo, anch’egli, ricordando lo stato in cui il principe a volte si trovava durante il primo anno della sua cura in Svizzera, avrebbe fatto un gesto di scoraggiamento e avrebbe detto come allora:
«Idiota!».

Fëdor Dostoevskij

Fonte: http://www.writingshome.com/ebook_files/221.pdf

L’arte di legare le persone

Paolo Milone racconta i suoi quarant’anni di lavoro in Psichiatria d’urgenza; un diario di incontri e scontri, di appunti brevi, di pensieri nudi e crudi, che diventano poesie da rileggere, da assaporare, da mandare giù.

Avendo fuggito ogni altro lavoro per paura,
mi ritrovo a fare il lavoro che fa piú paura a tutti. […]

L’euforia è solo uno dei tanti disturbi mentali:
in altri il paziente è indifferente allo spazio,
in altri ancora, impensabile ma vero, è angosciato dallo spazio.
Il mondo è pieno di depressi che dormono su un divano senza neanche mettersi il pigiama,

o sul bordo del letto senza neanche tirare su il lenzuolo,
molti dormono su una sedia.
Se gli dai un letto matrimoniale, dopo un mese è intatto.
Preferiscono cosí. Non è di spazio esterno che hanno bisogno. […]

C’è chi ritiene che il ricovero in Psichiatria sia la cosa piú brutta al mondo. Talvolta la vita è ancora piú brutta.
Gli animali feriti si nascondono in una tana e si leccano le ferite:
Psichiatria è una tana. […]

Il bene e il male che facciamo a un’altra persona si riverbera
e si propaga in mille modi

tra i suoi parenti, amici e conoscenti
e, nel tempo, si trasmette a tutti i discendenti.
Sarà qualcosa di infinitesimo, un movimento atomico,
un’ombra, un fremito, ma esiste e si diffonde nell’universo.
Vedi, Giulia, noi contribuiamo a migliorare o peggiorare l’universo,
e, su questo, abbiamo una responsabilità. […]

È triste Lucrezia scoprirti un giorno mentre stai litigando a voce alta con nessuno.
Con che foga protesti, ribatti, chiedi scusa, insulti.
Sola nella stanza.
Sei l’accusatrice che ingiuria e minaccia
battendo i piedi per terra, con i capelli scompigliati,
poi sei la vittima che allarga le braccia piangendo e singhiozza. […]

Il sarto vede tutti mal vestiti,
il parrucchiere, tutti spettinati,
il cappellaio, tutti senza cappello,
il fisioterapista, tutti sciancati,
e io, psichiatra, vedo tutti matti. […]

Una notte insonne è breve per consolarsi del giorno prima.
Una notte insonne è breve per prepararsi al giorno dopo.
Aspra è la mattina: si riaprono i cassetti e riaffiorano i coltelli. […]

Ignorare la morte non rende immortali.
Neanche pensarci di continuo rende immortali.
Forse pensarci ogni tanto? […]

Non ci si uccide per una sofferenza quantitativamente piú grande – il suicidio avviene in uno stato mentale qualitativamente diverso.
Nessuna fantasia o esperienza dei viventi può aiutare a capire.[…]

Temi che le medicine si impossessino della tua mente e per questo le rifiuti.
Sbagli, Livia: è la depressione che si impossessa della mente,
le medicine restituiscono la chiave al proprietario. […]

Noi veniamo al mondo
non quando usciamo dal corpo della madre,
ma quando la madre ci abbraccia e ci riconosce
e, senza parole, ci contiene ancora in sé:
in questa matrice noi ci costruiamo.
La sacralità di questo abbraccio primigenio
si riverbera e balugina
in alcune contenzioni che noi facciamo. […]

L’arte di legare le persone.
Legare le persone al letto.
Legare le persone a te.
Legare le persone alla realtà

Legare le persone a se stesse.
Legare le persone è un’arte.
Inconoscibile.

Paolo Milone

Paolo Milone, “L’arte di legare le persone”, Einaudi, Torino, 2021

www.einaudi.it/catalogo-libri/narrativa-italiana/narrativa-italiana-contemporanea/larte-di-legare-le-persone-paolo-milone-9788806246372/

Alle soglie

In questo componimento Guido Gozzano, all’epoca molto malato , descrive l’inquietudine provocata dalle visite mediche alle quali viene sottoposto e l’arrendevolezza al possibile incontro con “quella Signora dall’uomo detta la Morte”.

I.

Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,

mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo,

pur chiuso nella tua nicchia, ti pare sentire di fuori

sovente qualcuno che picchia, che picchia… Sono i dottori.

Mi picchiano in vario lor metro spiando non so quali segni,

m’auscultano con gli ordegni il petto davanti e di dietro.

E sentono chi sa quali tarli i vecchi saputi… A che scopo?

Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli.

“Appena un lieve sussulto all’apice… qui… la clavicola…”

E con la matita ridicola disegnano un circolo azzurro.

“Nutrirsi… non fare più versi… nessuna notte più insonne…

non più sigarette… non donne… tentare bei cieli più tersi:

Nervi… Rapallo… San Remo… cacciare la malinconia;

e se permette faremo qualche radioscopia…”

II.

O cuore non forse che avvisi solcarti, con grande paura,

la casa ben chiusa ed oscura, di gelidi raggi improvvisi?

Un fluido investe il torace, frugando il men peggio e il peggiore,

trascorre, e senza dolore disegna su sfondo di brace

e l’ossa e gli organi grami, al modo che un lampo nel fosco

disegna il profilo d’un bosco, coi minimi intrichi dei rami.

E vedon chi sa quali tarli i vecchi saputi… A che scopo?

Sorriderei quasi, se dopo non fosse mestiere pagarli.

III.

Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,

mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo,

mio cuore dubito forte– ma per te solo m’accora –

che venga quella Signora dall’uomo detta la Morte.

(Dall’uomo: ché l’acqua la pietra l’erba l’insetto l’aedo

le danno un nome, che, credo, esprima una cosa non tetra.)

È una Signora vestita di nulla e che non ha forma.

Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma.

Tu senti un benessere come un incubo senza dolori;

ti svegli mutato di fuori, nel volto nel pelo nel nome.

Ti svegli dagl’incubi innocui, diverso ti senti, lontano;

né più ti ricordi i colloqui tenuti con guidogozzano.

Or taci nel petto corroso, mio cuore! Io resto al supplizio,

sereno come uno sposo e placido come un novizio.

Guido Gustavo Gozzano. “Alle soglie”. (I colloqui. Traves,1911)

Robert Walser, la costruzione dell’invisibilità

Nel suo ‘Verso il bianco’, lo psicologo e psicoterapeuta Paolo Miorandi racconta la vicenda umana e letteraria dello scrittore svizzero a partire dalla foto che ne ritrae il corpo esanime nella neve. Una morte che lo stesso Walser aveva anticipato alcuni decenni prima in un proprio romanzo. E che giunge dopo ventitré anni di ricovero in manicomio


Lo psicologo e psicoterapeuta Paolo Miorandi racconta nel suo ‘Verso il bianco’ la vicenda umana e letteraria di Robert Walser. Lo fa analizzando alcune foto, a partire da quella scattata dalla polizia che ritrae lo scrittore svizzero morto, riverso nella neve, a breve distanza dalle orme della sua ultima passeggiata (percorso che oggi fa parte del Robert Walser Pfad, sentiero letterario inaugurato nel 1986). La cosa incredibile è che alcuni decenni prima Walser aveva descritto questa stessa scena, con precisione quasi assoluta, nel suo ‘I fratelli Tanner’: il giovane Simon, protagonista del romanzo, “sale verso il monte, la neve scricchiola sotto la suola delle sue scarpe […] A metà della salita, Simon vede un uomo sdraiato sulla neve in mezzo al sentiero […] Il corpo è rigido e senza vita […] Simon riconosce l’uomo: è Sebastian, il poeta […] Un riposo splendido – continua Simon rivolgendosi al poeta sdraiato nella luce bianca – questo giacere e irrigidirsi sotto i rami degli abeti nella neve. È il meglio che tu potessi fare”.

La morte che Walser aveva in qualche modo vaticinato giunge dopo ventitré anni di ricovero nel manicomio di Herisau, dove lo scrittore è stato condotto dalla maggiore delle due sorelle, Lisa, che si dichiara impossibilitata ad accudirlo e che è impaurita da certi comportamenti sessuali del fratello. Robert la ricambierà rifiutandosi di incontrarla quando lei, gravemente malata, esprimerà il desiderio di vederlo. A completare lo scenario della disgraziata famiglia, il fratello Ernest, anch’egli internato e morto in manicomio per dementia praecox: finito “dalla parte in cui non c’è più il sole”, scrive Robert. Se si aggiunge che “probabilmente Walser è morto vergine” a causa “di una forma nervosa di impotenza”, coltivando – come il suo collega Gottfried Keller, anima che sente particolarmente affine – la convinzione che “la favola del corteggiamento è sempre la stessa: comincia soave e piacevole e finisce penosamente”, il quadro di un’assoluta desolazione sentimentale ed emotiva è completo.
Ma l’internamento e la scomparsa di Walser si inquadrano in qualche modo anche in quella Svizzera che la scrittrice Fleur Jaeggy ha definito “un’arcadia della malattia”, dove “qualcosa di malato e torbido” si agita “dietro ai giardini curati e alle finestre dai davanzali perennemente fioriti”. Il libro è il resoconto di una sorta di pellegrinaggio che Miorandi conduce a Herisau e nei luoghi walseriani, attratto dalla capacità dello scrittore di “trasformare la sconfitta in qualcosa che non so nominare ma che ha il chiarore di una disarmante conclusiva bellezza”. Pur essendo un paziente calmo, Walser in manicomio rifiuta qualunque privilegio e, in particolare, l’opportunità che gli viene offerta di scrivere, dicendo di trovarsi lì “per fare il matto”. Al giovane medico che se lo prende a cuore, risponde: “In clinica ho quel che mi occorre, la pace”. Una pace “semplice e ben scandita” da ritmi lenti e regolari in cui si alternano la sveglia, il lavoro, i pasti, il riposo. “A Herisau lavora alla costruzione della propria invisibilità” e di questa silente sofferenza restano solo “i microgrammi”, cioè “cinquecentoventisei piccoli fogli contenuti in una scatola da scarpe” e scritti in una grafia minutissima, quasi illeggibile.
“Walter Benjamin ha scritto che le storie di Walser iniziano laddove terminano le fiabe”, ricorda Miorandi: “Il lampo di inquietante felicità che ci trasmettono è dovuto al fatto che sono guariti e poco importa che si tratti di una guarigione temporanea e che in ogni momento possano precipitare nuovamente nella follia”.

Marco Ferrazzoli


Paolo Miorandi, “Verso il bianco” (Exorma, 2019)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

L’amore ai tempi del colera

Il colera causò una strage di persone di cui non si conosce l’entità. Nel bel mezzo dell’epidemia, il dottor Marco Aurelio Urbino si trova davanti al dilemma: metodo scientifico o caritatevole?

L’epidemia di colera, le cui prime vittime caddero fulminate nelle pozzanghere del mercato, aveva provocato in undici settimane la più grande mortalità della nostra storia.

Durante le due prime settimane del colera il cimitero traboccava, e non era rimasto un posto libero nelle chiese, nonostante avessero passato nell’ossario comune i resti consunti di parecchi grandi senza nome.

Nella terza settimana il chiostro del convento di Santa Clara si trovò pieno fino ai viali e fu necessario abilitare il cimitero, l’orto della comunità, che era grande il doppio. Lì scavarono fosse profonde per interrare a tre livelli, in fretta e senza precauzioni, ma si dovette desistere dal progetto perché il terreno che era traboccato si trasformo come in un una spugna che trasudava sotto i suoi passi in un sangue marcio e nauseabondo. Allora si dispose di continuare le sepolture alla Mano de Dios, una fattoria di bestiame a meno di una lega dalla città, che poi venne consacrata Cimitero Universale.

Da quando fu proclamato il bando del colera, nella fortezza della guarnigione locale si sparò un colpo di cannone ogni quarto d’ora, di giorno e di notte, d’accordo con la superstizione cittadina che la polvere purificava l’ambiente. Il colera fu molto più feroce con la popolazione negra, che era la più numerosa e la più povera, ma in realtà non fece considerazioni di colore né di lignaggio. Cessò improvvisamente come era iniziato, e non si conobbe mai la quantità dei suoi danni, non perché fosse impossibile stabilirla ma perché una delle nostre virtù più usuali era il pudore delle proprie disgrazie. Il dottor Marco Aurelio Urbino, padre di Juvenal, fu un eroe civile di quelle giornate infauste, e anche la sua vittima più notevole.

Anni dopo rivedendo la cronaca di quei giorni, il dottor Juvenal Urbino verificò che il metodo di suo padre era stato più caritatevole che scientifico e che in molti modi era contrario alla ragione così da aver favorito in gran misura la voracità della peste.

Quando riconobbe in se stesso gli scompigli irreparabili che aveva visto e compatito negli altri, non tentò neanche una battaglia inutile, ma si appartò dal mondo per non contaminare nessuno. Chiuso, da solo, in una stanza di servizio dell’Ospedale della Misericordia, sordo alle chiamate dei colleghi e alle suppliche dei suoi, estraneo all’orrore dei pestiferi che agonizzavano sul pavimento dei corridoi traboccanti, scrisse alla moglie e ai figli una lettera d’amore febbrile, di gratitudine per essere esistiti, nella quale si rivelava quanto e con quanta avidità avesse amato la vita. Fu un addio di venti fogli stracciati nei quali si notavano i progressi della malattia dal deterioramento della scrittura, e non era necessario avere conosciuto chi li avesse scritti per sapere che la firma era stata messa con l’ultimo respiro, d’accordo con le sue disposizioni, il corpo incenerito si confuse nel cimitero comune e non fu visto da nessuno che lo avesse amato.

Gabriel García Marquez

Treccani Enciclopedia Online

Gabriel García Marquez, “L’amore ai tempi del colera” (1985)

La peste di Buzzati

Nei due brani, estratti da “Sessanta racconti”, Dino Buzzati descrive i sintomi e i segni della peste canina, capace di distruggere anche i rapporti di amicizia più saldi.

Odore di tartufo

Paurosissimo delle malattie, io le sento venire da lontano. Così, per certe voci portate da marinai, da viaggiatori, zingari, io sapevo alcuni mesi prima che la peste canina stava avvicinandosi. Se ne parlava nelle taverne del porto verso sera, quando dalle acque buie, là vicino, cominciano a uscire le superstizioni e gli incubi. Ma la gente istruita diceva che era solo una leggenda. 

Di questa malattia si raccontava una quantità di cose strane: secondo alcuni proveniva dal cuore impenetrabile dell’Africa, altri invece dicevano che fosse stata provocata da un sacrilegio di Terrasanta. La chiamavano canina non perché colpisse i cani ma perché nella fase dell’incubazione, che durava uno o due giorni, l’ammalato emetteva un forte odore; il quale, a seconda dei casi, ricordava la resina, o l’aglio, o lo sterco, o la rosa e così via; ma assai più spesso ricordava il cane. E di qui il nome. 

In tanti odori c’era però sempre un comune sottofondo: cioè un effluvio specialissimo, indefinibile a parole; che era lo stesso marchio della peste. É pochissimi erano in grado di distinguerlo, così da poter dire: questo è odore di peste e questo no. Si trattava di medici o infermieri, o suore che erano vissuti in Africa o in Oriente. 

Altri sintomi denotavano l’esplodere della peste vera e propria. Alcuni, come i brividi, il mal di testa, le vertigini, erano comuni a molte altre note malattie. Ma ce n’era uno tipico e fatale: l’uomo colpito dal contagio non era più capace di un discorso organizzato, a un tratto il pensiero sembrava frantumarsi in una sconnessione di parole che finivano in un confuso barbuglìo. Dopo un poco magari l’ammalato riprendeva a parlare come al solito ma sempre, dopo due tre frasi, sopravveniva quell’intoppo. Perciò la si chiamava anche peste sillabica. Seguivano una grave prostrazione, vomito, delirio, e, nel giro di poche ore, immancabile la morte. Esisteva, è vero, un vaccino capace di stroncare l’infezione: ma doveva essere iniettato al tempo giusto, nel corso dell’incubazione, né prima né dopo; guai se si tardava; guai anche se lo si propinava, per errore, a una persona sana; se in seguito costui si contagiava, il vaccino non sarebbe più servito a niente. 

L’allarme fu gettato all’improvviso. Un decreto del governatore, alludendo in modo vago a pericoli di epidemie, proibì gli assembramenti e gli spettacoli, chiuse i locali pubblici, impose il controllo dei viaggiatori eccetera. In poche ore tutta la popolazione seppe. E già si udivano le sirene delle autoambulanze chiamate qua e là a trasportare i moribondi. Fu il terrore. 

Da quel momento, misteriosamente trasportandosi il contagio da un quartiere all’altro, tutti cominciarono a vivere nell’ansia, scrutando se stessi e i familiari, nel timore di avvertire i primi sintomi. In ogni luogo ora si vedevano perciò uomini e donne con i nasi per aria, ad annusare, se mai sentissero l’odore della peste. Ma era facilissimo ingannarsi; né si contavano le paure a vuoto. In una città popolata di cani come questa non c’era casa dove l’odore canino fosse assente; ne erano intrisi, si può dire, i muri stessi. Ciò moltiplicava i falsi allarmi. 

Va da sé che, scoppiata l’epidemia, divenni l’ombra stessa del Tiriaca. Guai se non avessi potuto stargli a fianco così spesso. Col mio terrore di essere infettato, sentivo un odore dopo l’altro, immaginandomi che provenissero da me. Il Tiriaca mi rassicurava: «Ma io non sento niente ». E mi annusava col suo grande naso a becco. 

Una sera -ero invitato a pranzo –appena entrato in casa del Tiriaca, sento odore di tartufo. Magnifico, dico a me stesso, perché di tartufi sono ghiotto. E già pregusto un pranzo succulento, tanto più che in questi tempi grami è una delle poche consolazioni che rimangono. 

A tavola si è in due soltanto, Tiriaca ed io; la famiglia sua è partita, alle prime avvisaglie della peste lui l’ha mandata in Sicilia, da parenti. Un antipasto, una ottima zuppa, roastbeef con salsa e contorno, asparagi. A questo punto il Tiriaca mi guarda: « Cos’hai? Non ti senti bene? Sei diventato così pallido». «No, no, niente » faccio io, inchiodato da un terribile sospetto. «Ma dimmi, professore… Come mai quest’odore di tartufi?» « Tartufi?… Io non sento odore di tartufi… E tu Ines, senti qualche cosa? » « Neanch’io » risponde la domestica « di tartufi, io non ne ho adoperati, forse sarà il profumo della salsa. » 

Ma anche di là, in salotto, dove passiamo a prendere il caffè, persiste la inquietante sensazione. «Scusami professore, abbi pazienza » io lo supplico. « Prova a sentire… Non sarò mica io per caso a…? » Lui mi annusa col suo grande naso, sorridendo. « Tu sei su una brutta china, caro mio… Di questo passo finirai dritto manicomio. » « Professore, non inquietarti, l’odore c’è, ti giuro… E io ti sono amico… Io te lo devo dire… ascolta… non potrebbe darsi che… non potrebbe darsi  a adorare di tartufo… insomma non potresti essere tu?». Il Tiriaca mi fissa, il sorriso gli si è fermato sulle labbra, non capisce se io voglio scherzare. Gli viene forse un dubbio? No. Si mette anzi a ridere di gusto. « Non mi illudevo che tu mi stimassi un luminare » dice « ma almeno che io non fossi un asino del tutto… Se mi fossi impestato, per capirlo credi forse che avrei bisogno dell’odore? Starei fresco… Altro che odore di tartufo… Sono i tuoi poveri nervi… » 

Così lui parla, ma non serve. Per la prima volta io non gli credo, le sue parole non danno più sollievo. E intanto l’odore va crescendo, la casa ne è ammorbata, io cerco di andarmene al più presto. 

No, in casa mia per fortuna non c’è il più vago ricordo di tartufi. Tuttavia stento a prender sonno. Quel pensiero mi tormenta. Se il Tiriaca fosse veramente contagiato? Se fossi stato io, l’ignorante, ad accorgermene? Poi mi dico: è impossibile, oltre all’odore ci sono molti altri indizi, lui li avrebbe subito avvertiti. 

Anche la notte passa. Alle otto e mezzo salgo dal Tiriaca per accompagnarlo in clinica. Entrato, annuso. L’odore di tartufo non c’è più. Meno male, mi dico, si vede che era tutta suggestione. In quel mentre arriva il professore. << Beh, come la va? Senti ancora la presenza di tartufi? Ti sei calmato… Ieri sera dopo che te ne sei andato, non credere, io ci ho pensato su… e ho capito da dove ghe ghe quell’odore, in parte credo che sia… in parte… mah… invece, eh già… sgabusè toil gragiueaaa… » la frase si perse in un groviglio incomprensibile. 

Arretrati, gelato dal terrore. Quello era il segno. 

Tiriaca, che aveva avuto sempre la parola facilissima, barbugliava peggio di un demente. 

Con una mano dietro la schiena avevo intanto girato la maniglia della porta, la spalancai di colpo, giù per le scale a precipizio. Non connettevo più dalla paura. Via subito, via da quella casa maledetta. Dall’alto il Tiriaca mi chiamò. Ma che mi importava più di lui? 

La sera stessa fuggii dalla città. Adesso sono qui, con la famiglia, in questo paesello di montagna, che la peste ha dimenticato, si direbbe. E già è passato un mese. A quest’ora, se io fossi rimasto contagiato, il male sarebbe pur venuto fuori. Invece io sto bene, proprio bene, non emetto odori, parlo speditamente, vero che parlo con la massima scioltezza? Il brutto sarebbe infatti se all’improvviso cominciassi anch’io a barbugliare, confondendomi, allora si sippo po potrei dirmi spaccirmi… ma finché non si comincia a balbettare si può cocofon… allora sippo… chestra… sfiare… ir chiò… scimen… baorg… ge… ge… 

Il tiranno malato


Che cosa li aveva sbaragliati quando già stavano assaporando il sangue : la Vittoria? Perché si ritiravano? ”Il mastino tornava a far loro paura:” 

Non il mastino Tronk. Bensì una cosa informe e nuova che dentro di 

lui si era formata e lentamente da lui stava espandendosi come un alone…infetto. . …… 

I tre avevano intuito che a Tronk doveva “essere successo qualche cosa e non c’era più motivo di temerlo. Ma credevano di addentare un cane vivo. 

E invece l’odore insolito del pelo, forse, del fiato, e il sangue dal sapore repellente, li aveva ributtati indietro. Perché le bestie più ancora che i luminari delle cliniche percepiscono ‘al più lieve segno l’avvicinarsi della, presenza maledetta, del contagio che non ha rimedio. E d.lottatore era segnato, non apparteneva più alla vita, da qualche profondità recondita del corpo già si propagava la dissoluzione delle cellule.

Dino Buzzati

Treccani Enciclopedia Online

Dino Buzzati, “Sessanta racconti” (1958)

Malaria

Nella novella di Verga si assiste ad una vera e propria guerra tra poveri ignoranti a causa della malaria.

E’ vi par di toccarla colle mani […] stagnante nella pianura, a guisa dell’afa pesante di luglio. Vi nasce e vi muore il sole di brace, e la luna smorta, e la Puddara, che sembra navigare in un mare che svapori, e gli uccelli e le margherite bianche della primavera, e l’estate arsa, e vi passano in lunghe file nere le anitre nel nuvolo dell’autunno, e il fiume che luccica quasi fosse di metallo, fra le rive larghe e abbandonate, bianche, slabbrate, sparse di ciottoli; e in fondo il lago di Lentini, come uno stagno, colle sponde piatte, senza una barca, senza un albero sulla riva, liscio ed immobile. Sul greto pascolano svogliatamente i buoi, rari, infangati sino al petto, col pelo irsuto.

Però dov’è la malaria è terra benedetta da Dio. In giugno le spighe si coricano dal peso, e i solchi fumano quasi avessero sangue nelle vene appena c’entra il vomero in novembre. Allora bisogna pure che chi semina e chi raccoglie caschi come una spiga matura, perché il signore ha detto: « Il pane che si mangia bisogna sudarlo»

Quelli del baraccone stavano a cena cuocere quattro fave, a ridosso del muricciolo, seduti sulle calcagna, per covar la pentola cogli occhi, tutta la famiglia. A un tratto udirono gridare: —Dàlli! dàlli! –e videro la folla inferocita che correva per sbranarli. –Signori miei! siamo poveri diavoli, poveri commedianti che andiamo intorno per buscarci il pane! -Il vecchio annaspava colle mani, per fare intendere le sue ragioni; la donna copriva i fìgliuoletti colle ali, come una chioccia; la giovinetta colle braccia in aria. Arrivò una prima sassata, che fece colare il sangue. Poi un parapiglia, la gente in mucchio accapigliandosi, gli strilli delle vittime, che si udivano più forte. -No! no! non li’ ammazzate “…ancora! Vediamo prima se “sono innocenti! Vediamo prima se portano il colera! -C’erano pure delle anime buone in quella ressa. ‘Ma gli altri non volevano intender ragioni: Jeli di comare Barbara, che gli sanguinava il cuore dall’angoscia, Scaricalasino che aveva visto coi suoi occhi Zanghì stecchito sotto il lenzuolo, massaro Lio che si sentiva già i dolori di ventre addosso. In un attimo la baracca in tutta sottosopra: i burattini, gli scenari, i cenci, la poca paglia sudicia dei sacconi. Poi, dopo che non ebbero più ridire frugare, fecero un mucchio d’ogni cosa, e vi appiccarono il fuoco. -Bravo! E adesso come farete a scoprire se portavano il colera? —-gridarono alcuni. Ma il povero capocomico non sentiva e non badava più a nulla, né le grida di morte, né le falci, né le scuri; pallido e stravolto, col sangue giù per la faccia, i capelli irti, gli occhi fuori della testa, voleva buttarsi sul fuoco per spegnerlo colle sue mani, urlando che lo rovinavano, che gli” toglievano il suo pane, strappandosi i capelli dalla disperazione, in mezzo alla famigliuola tutta pesta e malconcia, scampata per miracolo alla strage. —-Meglio, meglio che ci avessero uccisi tutti! —-Neppure il colera li aveva voluti, da per tutto dove l’avevano incontrato, stanchi ed affamati.

Giovanni Verga

Treccani Enciclopedia Online

Novelle rusticane

Giovanni Verga, “Novelle Rusticane” (1885)

Una ‘pestifera’ novella

La Morte Nera del 1348 a Firenze ha un cronista d’eccezione: Giovanni Boccaccio, il quale, evidenzia come le relazioni cambiarono in peggio a causa dell’epidemia.

Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera Incarnazione del figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre ad ogni altra italica nobilissima, pervenne la mortifera pestilenza, la quale o per operazione de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantità di viventi avendo private, senza ristare, d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata. E in quella, non valendo alcuno senno né umano provvedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi dentro a ciascun infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate e in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente  cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare.

E non come in Oriente aveva fatto, dove morte; ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nell’anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcune meno le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parti predette del corpo infra brieve spazio di tempo cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e venire, e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità e permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce, e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno.

[…] E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse, e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura, e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano; era con sì fatto spavento quasi tribulazione entrata n’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava, e il zio il nipote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna e il suo marito; e , che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano.

Boccaccio

Treccani Enciclopedia Online

Giovanni Boccaccio, “Il Decamerone” (1349-1353)

La peste nell’Impero Romano

Tito Lucrezio Caro descrive con raccapricciante veridicità i sintomi e i segni della malattia.

Ora spiegherò quale sia la causa delle malattie e donde

la forza maligna possa sorgere d’un tratto e arrecare esiziale

strage alla stirpe degli uomini e alle torme degli animali

Anzitutto, sopra ho insegnato che esistono semi

di molte cose che per noi sono vitali,

e per contro è necessario che ne volino molti altri che causano

malattia e morte. Quand’essi per casuale incontro

si son raccolti e han perturbato il cielo, l’aria si fa malsana

Dapprima avevano il capo in fiamme per il calore

e soffusi di un luccichìo rossastro ambedue gli occhi.

La gola, inoltre, nell’interno nera, sudava sangue,

e occluso dalle ulcere il passaggio della voce si serrava,

e l’interprete dell’animo, la lingua, stillava gocce di sangue,

infiacchita dal male, pesante al movimento, scabra al tatto.

Poi, quando attraverso la gola la forza della malattia

aveva invaso il petto ed era affluita fin dentro il cuore afflitto

dei malati, allora davvero vacillavano tutte le barriere della vita.

Il fiato che usciva dalla bocca spargeva un puzzo ributtante,

simile al fetore che mandano i putridi cadaveri abbandonati.

Questo era più miserabile

E doloroso, che quando ciascuno vedeva se stesso

Avvinto dal male, da esserne votato alla fine, 

perdutosi d’animo, giaceva con cuore dolente, 

e lì stesso perdeva la vita guardando immagini di morte.

E benché sulla terra giacessero insepolti mucchi di corpi

su corpi, tuttavia gli uccelli e le fiere o fuggivano

balzando lontano, per evitare l’acre puzzo,

oppure, se li assaggiavano, languivano per morte imminente

E infatti ormai né la religione, né la maestà degli dèi

contavano molto: il dolore presente aveva il sopravvento.

Lucrezio

Treccani Enciclopedia Online

Tito Lucrezio Caro, “De Rerum Natura”

La peste nei classici greci

Omero e Tucidide raccontano, con dovizia di particolari, l’insorgere e l’evolversi della peste.

I muli colpiva in principio e i cani veloci,

ma poi mirando gli uomini la freccia acuta

lanciava, e di continuo le pire dei morti ardevano, fitte.

Ritorneremo indietro, purché sfuggiamo alla morte,

se guerra e peste insieme abbatton gli Achei

[…] forse, dal fumo d’agnelli, di capre accettevoli

Saziato, vorrà stornare il flagello da noi.

Omero

Il corpo, a toccarsi esteriormente, non era né troppo caldo né pallido, ma rossastro, livido, fiorito di piccole pustole e ulcere; […] la maggior parte morivano dopo nove o sette giorni per l’ardore interno, ancora in possesso di qualche forza; oppure, se scampavano, con lo scendere della malattia negli intestini, e col prodursi di una forte ulcerazione e il sopraggiungere di una diarrea violenta, i più morivano in seguito, sfiniti per questa ragione. 

Tucidide

Treccani Enciclopedia Online

Omero, Iliade, (trad. it. Con testo a fronte di Rosa Calzecchi Onesti, Enaudi, Torino 1972, p. 3)

Tucidide op. cit, libro II, 48, 1 e 49, 5-6, pp.341-343