I Demoni

In questa scena del romanzo, un uomo si toglie la vita: Dostoevskij descrive in maniera minuziosa la scenza, ponendo un accento particolare sul sangue e sulla reazione degli accorsi.

Nessuno aveva notato in lui nulla di speciale: era calmo, quieto e affabile. Doveva essersi sparato verso mezzanotte, sebbene, cosa strana, nessuno avesse udito il colpo; se ne erano accorti solo quel giorno, verso l’una, quando dopo aver bussato invano, avevano abbattuto la porta. La bottiglia di Château d’Yquem era stata vuotata a metà; anche d’uva ne rimaneva mezzo piatto. Il colpo era stato sparato
con una piccola rivoltella a tre canne, puntata direttamente al cuore. Di sangue ne era uscito poco; la rivoltella gli era caduta dalle mani sul tappeto. Il ragazzo era mezzo disteso su un angolo del divano. La morte doveva essere stata istantanea; nessun mortale tormento si notava sul suo viso; aveva un’espressione calma, quasi felice, desiderosa di vivere. Tutti i nostri lo contemplavano con avida curiosità. Generalmente in ogni disgrazia del prossimo c’è sempre qualcosa che rallegra l’occhio dell’estraneo, chiunque sia. Le nostre signore guardavano in silenzio, mentre i compagni si distinsero per acume e grande presenza di spirito. Uno osservò che era la miglior fine, e che il ragazzo non avrebbe
potuto escogitare niente di più intelligente; un altro concluse che almeno per un attimo aveva vissuto bene.

Fëdor Dostoevskij

Delitto e Castigo

In questo brano viene descritta la morte di a causa della tubercolosi: l’autore mette in evidenza i sintomi psichici prima della morte della donna.

«Calmatevi, signora, calmatevi,» prese a dire il funzionario. «Venite con me, vi accompagnerò io… Non va
bene così, in mezzo alla folla… Voi vi sentite male…»
«Mio gentile, gentilissimo signore, voi non sapete niente!» gridava Katerìna Ivànovna. «Noi andremo sul
Nèvskij Prospèkt… Sònja, Sònja! Ma dove s’è cacciata? Ecco che piange anche lei! Ma insomma, che cosa avete tutti quanti?… Kòlja, Lènja, dove andate?» esclamò d’un tratto, spaventata. «Oh che sciocchi bambini! Kòlja, Lènja! Ma dove vanno?…»
Era successo che Kòlja e Lènja, spaventati a morte dalla folla e dalle stranezze della madre impazzita, e
vedendo alla fine anche quel soldato che voleva prenderli e portarli chissà dove, a un tratto, come se si fossero messi d’accordo, s’erano afferrati per la mano e se l’eran data a gambe. Katerìna Ivànovna si slanciò, urlando e piangendo, al loro inseguimento. Era uno spettacolo penoso vederla correre, così tutta in pianto e ansimante. Sònja e Pòleèka le corsero dietro.
«Sònja, falli tornare indietro, falli tornare! Che bambini sciocchi e ingrati!… Pòlja! Acchiappali!… Ma se è per voi che io…»
Inciampò in piena corsa e cadde.
«Si è fatta male, sanguina! Oh, Signore!» esclamò Sònja, che si era chinata su di lei.
Tutti accorsero e le si fecero intorno. Raskòlnikov e Lebezjàtnikov furono tra i primi ad accorrere; anche il
funzionario sopraggiunse in fretta, seguito dalla guardia che borbottava: «Che guaio!» facendo un gesto seccato con la mano, convinto ormai che la faccenda gli avrebbe procurato delle noie.
«Circolare! Circolare!» diceva respingendo la gente che si affollava tutt’intorno.
«Sta morendo!» gridò uno.
«È impazzita!» disse un altro.
«Signore, proteggili!» disse una donna, facendosi il segno della croce. «E li hanno poi ripresi, la ragazzina e il bimbo? Eccoli lì, li ha acchiappati quella più grande… Però, che bambini balordi!»
Ma quando ebbero esaminato più attentamente Katerìna Ivànovna, si accorsero che non si era affatto ferita contro una pietra, come aveva pensato Sònja: il sangue che aveva arrossato il selciato le era sgorgato dal petto e dalla
bocca.
«So bene cos’è, l’ho già visto,» mormorava il funzionario a Raskòlnikov e a Lebezjàtnikov. «È la tubercolosi; il
sangue viene fuori e ti soffoca. L’ho già visto coi miei occhi, è accaduto non molto tempo fa a una mia parente; ne sarà
venuto fuori un bicchiere e mezzo… all’improvviso… Ma che dobbiamo fare, visto che sta morendo?»

Fëdor Dostoevskij

Cosa ci insegna la solitudine (dei numeri primi)

Una ricercatrice del Dipartimento di scienze biomediche (Dsb) del Cnr, alla richiesta di identificare un romanzo in risonanza con la sua materia di studio, indica “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano. “Rileggendo qualche passaggio di questa bellissima storia che lessi anni fa, mi sono resa conto di come sia anche perfettamente in simbiosi con il momento particolarmente difficile e sofferente che stiamo vivendo a causa del Covid-19”


Quando mi è stato chiesto di identificare un testo che fosse in risonanza con la materia del Dipartimento di scienze biomediche (Dsb) del Cnr mi è venuto in mente il libro “La solitudine dei numeri primi” (Mondadori) di Paolo Giordano e, rileggendo qualche passaggio di questa bellissima storia che lessi anni fa, mi sono resa conto di come sia anche perfettamente in simbiosi con il momento particolarmente difficile e sofferente che stiamo vivendo a causa del Covid-19.
Il libro, pubblicato nel 2008 dall’esordiente Paolo Giordano, ha ricevuto numerosi premi, tra cui lo Strega e il Campiello opera prima. La trama, orchestrata sui due fili paralleli delle vite dei due protagonisti, che con un primo colpo di scena si intrecciano quando Alice e Mattia incrociano i propri sguardi ancora al liceo, descrive l’esistenza dei due giovani torinesi, accompagnandoli dall’infanzia all’età matura. Alice è una bambina obbligata dal padre a frequentare la scuola di sci. E una mattina di nebbia fitta, persa nella nebbia, staccata dai compagni, se la fa addosso. Umiliata, cerca di scendere, ma finisce fuori pista spezzandosi una gamba. Rimane sulla neve credendo che morirà assiderata. Invece si salva, ma resterà zoppa e segnata per sempre.
Mattia è un bambino molto intelligente, ma ha una gemella, Michela, ritardata. La presenza di Michela umilia Mattia di fronte ai suoi compagni e, per questo, la prima volta che un compagno di classe li invita entrambi alla sua festa, Mattia abbandona Michela nel parco, con la promessa che lei lo aspetterà. Mattia non ritroverà più Michela. In quel parco, Michela si perde per sempre. Le vite di Alice e di Mattia, due esistenze segnate, si incroceranno. Diventeranno, Alice e Mattia, adolescenti, giovani, adulti. Continueranno a perdersi e ritrovarsi per finire con un’ennesima separazione, senza che riescano veramente a trovarsi e abbiano il coraggio di restare insieme.
La trama si dirama in un’alternanza esclusiva tra le storie dei due personaggi principali, parafrasi del rapporto fra Mattia e Alice, due “numeri primi” – a loro fa riferimento il titolo – per la loro unicità rispetto a tutti gli altri, ma anche “numeri primi gemelli”, che, come due numeri primi vicini ma divisi da un solo numero intero che si frappone tra loro, sono sostanzialmente simili ma non arrivano mai a toccarsi. Pertanto, in senso metaforico, i numeri primi rimandano alla solitudine, lo spazio tra l’io e il nulla è lo spazio della solitudine, quello che occupano i protagonisti di questo romanzo.
Sono due personaggi che non riescono a incontrarsi, due anime gemelle che si amano ma che non riescono a stare insieme. Questo romanzo tocca in questo modo tematiche molto importanti, come la solitudine insormontabile e le problematiche legate alla socialità, ma anche le difficoltà dei giovani moderni, dalla fuga all’estero per trovare lavoro all’anoressia e alla depressione. Il romanzo riflette in modo amaro sul mondo contemporaneo del benessere, in cui i giovani hanno tutto ciò che è materiale ma sono abbandonati alla loro solitudine.
I protagonisti, segnati da traumi che non riescono a superare, si rifugiano in sé stessi, autoescludendosi dal mondo. La solitudine è allora ciò che li accomuna ma che, per definizione, li allontana anche l’uno dall’altra.
È una lettura che segna il cuore, che riesce a trasportare nel baratro del silenzio e del dolore insieme ai protagonisti, che fa percepire l’oscurità della solitudine e del male di vivere. Un romanzo d’esordio estremamente maturo per la compiutezza del contenuto e per l’alta tensione emotiva sviluppata; un crescendo di sensazioni avviluppante l’anima del lettore, tra momenti di tenerezza, di tristezza e di speranza.
Il tema principale del romanzo riflette la tanta solitudine comparsa durante il confinamento da Covid-19: solitudini latenti ed emerse, solitudini dell’animo nonostante l’interconnessione virtuale con il mondo, solitudini degli anziani senza connessioni, solitudini delle città che rimbombano in un silenzio assordante, solitudine dei morenti… solitudine di chi non si è mai guardato dentro e non ha mai speso il proprio tempo immerso nella gioia della lettura. Ci si può augurare che questo tempo sia stato proficuo per far scoprire la lettura a chi non l’aveva mai considerata, rivelando che la libertà, le emozioni, le sensazioni, i colori, i viaggi, i profumi sono solo una piccola parte di quanto possa procurare la propria immaginazione durante la lettura di un bel libro, trasportando il lettore fuori di casa.

Elsa Fortuna


Libro: Paolo Giordano, “La solitudine dei numeri primi”, Mondadori (2008)


Fonte: Almanacco CNR – Focus, consigli di lettura

Il bestseller di Paolo Giordano diventa film

Saverio Costanzo, alla sua terza prova da regista, si cimenta nell’impresa di portare su grande schermo “La solitudine dei numeri primi”. Il libro subisce nella trasposizione cinematografica inevitabili modifiche, peraltro condivise dall’autore, che ha collaborato alla sceneggiatura. Protagonisti del film sono Alice e Mattia, due giovani introversi e solitari. Mattia si ferisce per punirsi della morte della sorella, affetta da problemi psichici, che da bambino aveva abbandonato per partecipare a una festa. Alice è claudicante a causa di una caduta sugli sci, durante una discesa a cui era stata costretta dal padre


Saverio Costanzo, alla sua terza prova da regista, si cimenta nell’impresa di portare su grande schermo il bestseller di Paolo Giordano, ‘La solitudine dei numeri primi’. Vincitore del premio Strega 2008, il libro del fisico torinese subisce nella trasposizione cinematografica inevitabili modifiche, peraltro condivise dall’autore che ha collaborato alla sceneggiatura.
Protagonisti del film sono Alice e Mattia, due giovani resi introversi e solitari dalle vicende personali rivelate dai continui flashback. Mattia si ferisce per punirsi della morte della sorella, minorata mentale, che da bambino aveva abbandonato per partecipare a una festa. Alice è zoppa a causa di una caduta con gli sci, durante una discesa a cui l’aveva costretta il padre.
Per i due incontrarsi vuol dire sottrarsi all’isolamento, ma il legame si spezza quando il giovane, divenuto un brillante ricercatore, si trasferisce in Germania per lavoro. La separazione accentua i loro disagi portando Mattia all’obesità e Alice all’anoressia. “L’anoressia nervosa fa parte dei disturbi del comportamento alimentare (Dca)”, spiega Gianvincenzo Barba dell’Istituto di scienze dell’alimentazione (Isa) del Cnr di Avellino. “Semplificando, si può dire che in presenza di una predisposizione individuale su base genetica e/o biologica, ne possono scatenare la comparsa fattori psicologici o ambientali: una violenza, traumi familiari, difficoltà a essere accettati. L’adolescente deve allora ‘difendersi'”, prosegue l’esperto del Cnr, “e per mostrare di controllare la situazione concentra la propria attenzione sul corpo, piegandolo alla propria volontà come invece non riesce a fare per l’evento scatenante. Anche nei casi in cui il giovane si sottopone a una dieta eccessiva per adeguarsi a un canone estetico, alla base, esiste un disagio non riconosciuto”.

Quali sono i sintomi del disturbo e quali le conseguenze? “Dapprima si evitano tutti i cibi ritenuti grassi, preferendo alimenti ‘sani’, con attenzione ossessiva alle calorie e alla bilancia, fino a concentrare la propria vita totalmente sul cibo, con riduzione di interesse e entusiasmo verso le normali attività della vita”, spiega Barba. “Nelle ragazze in età fertile, all’aggravarsi dello stato di malnutrizione si associa l’amenorrea, ovvero la perdita del ciclo mestruale. La malnutrizione spinta comporta un rischio di vita, in particolare un danno cardiaco da ipopotassiemia (carenza di potassio). Nel lungo termine, gli effetti della pregressa malnutrizione sono danni a organi e tessuti, soprattutto all’apparato scheletrico. La diagnosi precoceè il presupposto per la guarigione, che passa per il contrasto delle abitudini errate, il recupero funzionale completo, la prevenzione delle recidive e la ricostituzione di un benessere psico-fisico che comunque risulta minato”.
Ricco di scenografie suggestive e con una fotografia curata, la pellicola mostra una regia matura, capace di risolvere con abilità situazioni narrative complesse. Bravi tutti gli attori, in particolare i due protagonisti nelle varie età: da adulti a Mattia dà corpo Luca Marinelli mentre Alice è Alba Rohrwacher.

Rita Bugliosi


Film: di Saverio Costanzo, “La solitudine dei numeri primi”, Medusa Film (2010)

“La cognizione del dolore”, Carlo Emilio Gadda

Romanzo composto tra il 1938 e il 1941, inizialmente pubblicato a puntate sulla rivista Letteratura, rimase incompiuto a causa dell’imperversare della guerra e venne pubblicato solo nel 1963 dall’editore Einaudi. Nelle opere di Gadda alla contaminazione dei generi (lirico, grottesco, tragico…) si accompagna sempre quella dei linguaggi (termini di uso non comune, espressioni dialettali, linguaggi settoriali). In questo brano si narra l’incontro di Gonzalo Pirobutirro con la madre, dolorosamente consapevole della malattia psichica (il male oscuro) che tormenta il figlio. La donna, anziana e malata, sta cercando di improvvisare una cena per il figlio, reduce da un viaggio di lavoro: ognuno si chiude nel mutismo e si trincera nella propria solitudine


« L’alta figura di lui si disegnò nera nel vano della porta-finestra, di sul terrazzo, come l’ombra d’uno sconosciuto: e, dietro a lui, nel cielo, due stelle parevano averlo assistito fin là. Diòscuri splendidi sopra una fascia d’amaranto, lontana, nel quadrante di bellezza e di conoscenza: fraternità salva! La madre lo scorse, ma non poté vederne il viso contro il rettangolo di luce. Egli allora entrò, e recava una piccola valigia, la solita, quella di cartone giallo da quaranta centavos, come d’un venditore ambulante di fazzoletti. Nella stessa mano, arrotolato, il vecchio ombrello. La madre disse “oh! Gonzalo, come stai? Oh! guarda!” e proferì con un singhiozzo di gioia i nomi delle due stelle, a mani giunte, a guisa di saluto. Ma pensò che la prima sola valeva, nella correlazione di fortuna e d’astri per simbolo di una presenza terrena; poiché l’altra, così fulgida, così pura, non era se non un pensiero lontano della notte.
Il figlio la salutò appena, come ogni volta, stanco. Neppure le sorrise. Ella non insisté a cercarne lo sguardo, non chiese del viaggio, né dell’uragano.
[…]
Le sue mani rigide, quasi inerti, non arrivavano a prendere con esattezza; le riuscì difficile d’insinuare il cilindro di cristallo nella sua ghiera precisa, di ottone lucido, come una trina dei costumi desueti: e questa invece lo doveva ritenere alla base. Si sarebbe seduta, tremava… ma bisognò pensare al figliolo… Quando la lampada poté rischiarare la stanza, al fine, le parve di dover cadere… L’ultimo sguardo del crepuscolo, già lontanissimo, abbandonava il mobilio, con riflessi radenti e freddi sulla credenza, su qualche vassoio di metallo. Quel pallore della lucerna, invero, non ci aveva aggiunto di molto. Richiuse i vetri come le riuscì; ch’era molto alta finestra, sul terrazzo; abbrividendo.
[…]
Andò in cucina a preparargli qualcosa da cenare. Era assolutamente necessario, anche a dimostrazione della validità funzionale della villa: tanto più, poi, che la villa era sprovveduta di cuoca o d’una qualunque fante. Altrimenti egli avrebbe colto quel pretesto ad accendersi circa la inanità della campagna: e sarebbe incorso nelle peggiori bizze ed ubbìe: (la cosa, oramai, un triste rito: la povera madre lo sapeva bene). Avrebbe ripetutamente scorbacchiato e rimaledetto la villa, insieme col mobilio, coi candelieri, con la memoria del padre che l’aveva costruita; incoronando di vituperî osceni tutti i padri e tutte le madri che lo avevano preceduto nella serie, su, su, su, fino al fabbricatore di Adamo. Sarebbe trasceso alle bestemmie, ch’ella non poteva udire: ad accuse troppo vere, forse, per essere udibili: coinvolgendo nella turpitudine pazza che lo animalava in quei momenti financo il sacro nome di Pastrufacio (il Garibaldi del Maradagàl).
[…]
La madre, viceversa, fin da quando i muratori ci accudivano nel ’99, aveva incorporato in sé, subito, – avvampante splendore di giovinezza – il trionfo serpentesco della “sua” villa sopra le rivali keltikesi che non credevano alla possibilità di una villa: (degli spelacchiatissimi Pirobutirro).
E quell’orgoglio, quel tirso di brace che le era venuto fatto, in un giorno lontano, di potersi infilare a metà dell’anima alla facciazza delle pseudo-cognate e delle pseudo-nipoti, quello poi era cresciuto ad ebbrezza e ad onnipotenza raggiante, dentro un evo fulgido, allucinato, senza più misura né termine: l’idea del possesso e della supposta vittoria tracannata come un cognac di fuoco e di vita a ogni nuovo mattino, a ogni giorno splendido. Quello le era bastato, durante quarant’anni, a scongiurare la disperazione, ad acculare al di là d’ogni strazio e d’ogni miseria, d’ogni sdrucita maglia de’ suoi bimbi, d’ogni scampanìo, d’ogni gloria, d’ogni tenca, lo sporco sogghigno della morte.
[…]
in cucina non v’era quasi nulla, da potergli preparare nemmeno un ovo. Lo stentòreo deretano delle galline del Giuseppe ci perveniva piuttosto raramente, a una così gloriosa estromissione. Ne teneva più d’una, ma facevan l’ovo a turno: e spesso, poi, marinavano il turno. Il figlio si sarebbe imbestialito anche di ciò: e allora bisognava sorvolare, sulle ova. Già altra volta era accaduto che s’infuriasse, per quella inadempienza dei polli del Serruchón porco: e aveva accusato il gallo di morosità genetica e di perversione, le galline d’esser lesbiche, e tr…; poi la furia s’era schiarita in una reminiscenza di Livio “gallinam in marem, gallum in foeminam se se vertisse…”. E, atrocemente, sghignazzando, aveva brindato alla salute del gallo! ma non disse affatto alla salute, disse una parte del corpo: aveva inneggiato, (irridendo lei, la mamma), al gallo bardassa
[…]
Carlo Emilio Gadda

Fonte:
“La cognizione del dolore”: Gonzalo torna a casa – citazioni
Citazioni e frasi celebri

Mio fratello rincorre i dinosauri. Storia mia e di Giovanni che ha un cromosoma in più

Down: una parola straniera? Una notizia travolgente? Un’etichetta? Una sindrome?

Una persona, un fratello, una questione di sguardo.

Abbiamo una cosa da dirvi… Riguarda vostro fratello.

Papà le strinse la mano.

– Vostro fratello… – disse, e fece una pausa. – Ecco, vostro fratello sarà… speciale.

Io e Chiara ci scrutammo l’un l’altra muovendo solo gli occhi.

– Speciale? – disse lei.

– In che senso speciale? – chiesi io.

– Nel senso, – disse papà, – che sarà… diverso. Affettuoso, anzitutto. Molto. Moltissimo. E poi sorridente e gentile. E tranquillo. E con i suoi, ecco, diciamo con i suoi tempi.

Sollevai un sopracciglio: – I suoi tempi?

– E altre cose sue speciali che ancora non sappiamo, – sorrise mamma.

– Quindi è una buona notizia? – chiese Chiara.

– Non è solo una buona notizia, – disse papà serio. Aggrottò la fronte in un modo buffo e la macchina cominciò a gonfiarsi e a sgonfiarsi come se stesse respirando con noi. – È molto di piú, – disse. – È una notizia travolgente –. Poi si girò e accese la radio. […]

– In che senso da dove arriva?

– Non è di questo pianeta. È evidente.

– Te l’avevamo detto, – disse lui, stringendomi la spalla con una mano cosí calda e ferma che con quella mano sulla spalla, giuro, sarei stato capace di andare ovunque nel mondo, affrontare qualunque cosa. – L’avevamo detto che era speciale.

Annuii.

Anzitutto gli occhi. Gli occhi erano cinesi, o venusiani forse, non sapevo decidermi; o di qualche altro pianeta con cristalli luminosi che sbucavano dalla sabbia e dieci lune viola nel cielo. Anch’io ho un taglio degli occhi un po’ orientale, in questo si vede che siamo fratelli, ma i suoi erano proprio tanto orientali. E poi la nuca. La nuca era piatta come una pista di atterraggio per microscopiche navicelle spaziali; se si fosse messo a quattro zampe potevi usarla come vassoio. Ma nulla mi colpí come le dita del piede che era scivolato fuori dalle coperte e che muoveva con scatti elettrici. Perché di dita, Giovanni, in quel piede, ne aveva quattro. O meglio, s’intuiva che potenzialmente erano cinque, ma il quarto e il quinto – il minolo e il pondolo – erano fusi insieme. Come due Kit Kat. […]

Aveva la copertina blu, un blu mogio e polveroso, e l’avevo intercettato già diverse volte, in camera da letto o sulla poltrona in salotto. Cosí, un giorno che stavo ciondolando per casa, finii per avvicinarmi e prenderlo in mano. Lessi l’autore, uno straniero, e il titolo, che conteneva anch’esso una parola straniera, e che quella parola era straniera lo sapevo perché c’era la lettera w. Noi non abbiamo tante lettere w o x nella lingua italiana, pensai. La parola era Down. La lessi pronunciandola: dovn. Prima di quella c’era la parola sindrome. Non sapevo cosa volesse dire sindrome, non sapevo cosa volesse dire Down. Lo aprii e, come sempre accade quando ci sono delle pagine piú spesse, il libro si spalancò su una fotografia.
Sgranai gli occhi. È Giovanni, pensai. […]

Ecco, allo stesso modo, interrogavo i miei genitori sui problemi di Gio. Sui suoi limiti, evidenti come il panino alla Nutella che mangiavo a merenda. E interrogavo soprattutto me stesso. Non mi interessavano piú le cause, quelle ormai erano cose passate. Pensavo piú che altro al suo futuro. Lui che non riusciva a imparare i numeri, come avrebbe fatto a pagare dal panettiere? Lui che aveva impiegato anni per parlare – e avrebbe sempre parlato male – come avrebbe fatto a scrivere? Se non sapeva né contare né scrivere, non avrebbe mai trovato un lavoro. Mi chiedevo perché avesse messo gli occhiali cosí presto: nessun altro bambino li portava. Mi chiedevo perché non ascoltasse niente, perché non capisse niente.
Addirittura – fu la cosa che mi sconvolse di piú – non avrebbe mai potuto fare le capriole. […]

Prima di quel giorno pensavo che il silenzio fosse assenza di rumore. Invece il silenzio è un suono, e c’è silenzio e silenzio. In quella mezz’ora, il silenzio mi parlò: mi disse che Gio aveva bisogno di me, costante bisogno di me; e io capii che ormai, senza Gio, non ci volevo piú stare a questo mondo. I suoi problemi erano i miei. E i miei problemi? A quelli ci avrei pensato da solo, senza disturbare; avrei trovato una soluzione. O almeno ci speravo. […]

Fu come il sole di mattina, quando filtra attraverso la tapparella che cerca di chiuderlo fuori e lui no, liquido e imprescindibile non si lascia imbrigliare, s’infila in ogni buco, in ogni fessura. Pensai ad Alice, alla sua reazione di fronte al bambino con il fucile. Pensai a Chiara, a quando aveva detto lascialo fare, che non è detto che le storie debbano sempre finire come sono state scritte. Ecco. Chi è che aveva scritto la nostra storia? Chi è che aveva sceneggiato la relazione tra me e Giovanni, e tra me, lui e il mondo, chi? Nessuno. Eravamo noi gli scrittori. Mia poi era la responsabilità di decidere come sarebbe finita la nostra storia. Nessuno instillava la paura del giudizio nel mio cuore, ero io a nutrirla.

Giacomo Mazzariol

Giacomo Mazzariol, “Mio fratello rincorre i dinosauri”, Einaudi, Torino, 2016

 

Cristo si e’ fermato a Eboli
(foto Archivio Cameraphoto Epoche/Getty Images)

Carlo Levi era laureato in medicina, ma trascurò presto la professione per dedicarsi alla pittura e alla letteratura. Venne condannato poi al confino in Lucania (dove risiedette nel 1935 e nel 1936) perché ritenuto oppositore del fascismo. Qui scopre il problema meridionale e nasce l’autobiografico “Cristo si è fermato a Eboli”.

In paese si diffonde la notizia che il confinato è un medico. I contadini, che non ripongono fiducia nei due “medicaciucci” Gibilisco e Milillo, lo interpellano sovente per consulenze mediche. Levi all’inizio avrebbe voluto evitare di occuparsi di malati, ma “capii subito che non avrei potuto resistere a lungo nel suo proposito”.

Non mi svegliarono, di primo mattino, le campanelle dei greggi, come a Grassano, perché qui non vi sono pastori, né pascoli, né erba; ma il rumore continuato degli zoccoli degli asini sulle pietre della strada, e il belar delle capre. È l’emigrazione quotidiana: i contadini si levano a buio, perché devono fare chi due, chi tre, chi quattro ore di strada per raggiungere il loro campo, verso i greti malsani dell’Agri e del Sauro, o sulle pendici dei monti lontani. La stanza era piena di luce: il berretto con le iniziali non c’era più. Il mio compagno doveva essere uscito all’alba, per portare i conforti della Legge nelle case dei contadini, prima che quelli partissero per la campagna; e a quest’ora forse già correva, col cappello sfavillante sotto il sole, e il clarinetto, e una capra al guinzaglio, sulla strada di Stigliano. Dall’uscio mi giungeva un suono di voci femminili e un pianto di bambino. Una diecina di donne, con i bimbi in collo o per mano, aspettavano, pazienti, la mia levata. Volevano mostrarmi i loro figli, perché li curassi. Erano tutti pallidi, magri, con dei grandi occhi neri e tristi nei visi cerei, con le pance gonfie e tese come tamburi sulle gambette storte e sottili. La malaria, che qui non risparmia nessuno, si era già insediata nei loro corpi denutriti e rachitici.

Io avrei voluto evitare di occuparmi di malati, perché non era il mio mestiere, perché conoscevo la mia poca competenza, e sapevo che, facendolo, sarei entrato, e la cosa non mi sorrideva, nel mondo stabilito e geloso degli interessi dei signori del paese. Ma capii subito che non avrei potuto resistere a lungo nel mio proposito. Si ripeté la scena del giorno precedente. Le donne mi pregavano, mi benedivano, mi baciavano le mani. Una speranza, una fiducia assoluta era in loro. Mi chiedevo che cosa avesse potuto generarle. Il malato di ieri era morto, e io non avevo potuto far nulla per evitarne la morte: ma le donne dicevano che avevano visto che io non ero, come gli altri, un medicaciucci, ma ero un cristiano bono e avrei guarito i loro figliuoli. Era forse il prestigio naturale del forestiero che viene da lontano, e che è perciò come un dio; o piuttosto si erano accorte che, nella mia impotenza, mi ero tuttavia sforzato di far qualcosa per il moribondo e l’avevo guardato con interesse, e con reale dispiacere? Ero stupito e vergognoso di questa fiducia, tanto piena quanto immeritata. Congedai le donne con qualche consiglio, ed uscii, dietro a loro, dalla stanza ombrosa nella luce abbagliante del mattino. Le ombre delle case erano nere e ferme, il vento caldo che saliva dai burroni sollevava nuvole di polvere: nella polvere si spidocchiavano i cani. Volevo riconoscere i miei confini, che erano strettamente quelli dell’abitato: fare un primo viaggio di circumnavigazione della mia isola: le terre, attorno, dovevano restare, per me, uno sfondo non raggiungibile oltre le colonne d’Ercole podestarili. La casa della vedova è all’estremità alta del paese su uno slargo che termina, in fondo, alla chiesa, una piccola chiesetta bianca, appena più grande delle case. Sull’uscio stava l’Arciprete, occupato a minacciare con un bastone un gruppo di ragazzi che, a qualche passo di distanza, gli facevano boccacce e sberleffi, e si chinavano a terra, nell’atto di volergli gettare delle pietre. Al mio arrivo i ragazzi scapparono come passeri; il prete li seguì con lo sguardo corrucciato, brandendo il bastone e gridando: – Maledetti, eretici, scomunicati! È un paese senza grazia di Dio, questo, – disse poi, rivolgendosi a me. – In chiesa ci vengono i ragazzi, per giocare. Ha visto? Se no, non ci viene nessuno. La messa la dico ai banchi. Neppure battezzati, sono. E i frutti di quelle poche terre, non c’è verso di farseli pagare. Non ho ancora avuti quelli dell’anno passato. Sono tutti fior di galantuomini, davvero, in questo paese, se ne accorgerà.

Era un vecchio piccolo e magro, con degli occhiali di ferro a stanghetta su un naso affilato, all’ombra del pendaglio rosso che scendeva dal cappello, e dietro agli occhiali degli occhietti pungenti, che passavano rapidamente da una fissità ossessionata a un brillare brusco di arguzia. La bocca sottile gli cascava in una piega di abituale amarezza. Sotto all’abito sporco e sdrucito, pieno di frittelle e sbottonato, spuntavano gli stivali scalcagnati e pieni di polvere. Da tutto il suo aspetto spirava un’aria stanca di miseria mal sopportata; come le rovine di una catapecchia incendiata, nera e piena di erbacce. Don Giuseppe Trajella non era amato da nessuno in paese, e dai signori del luogo, l’avevo sentito la sera prima nella loro conversazione, era addirittura esecrato. Gli facevano ogni sorta di villanie, gli aizzavano contro i ragazzi, si lagnavano di lui col prefetto e col Vescovo. – L’Arciprete, se ne guardi, – mi aveva detto il podestà. – È una disgrazia per il nostro paese: una profanazione della casa di Dio. È sempre ubriaco. Non ci è ancora stato possibile liberarcene, ma speriamo di poterlo presto cacciar via. Almeno a Gaglianello, la frazione che è la sua vera sede. È qui da parecchi anni, per punizione. Lo hanno mandato a Gaglianello, lui che era professore di Seminario, per castigo. Si permetteva certe libertà con gli allievi, lei mi capisce. A Gagliano ci sta per abuso, perché non ce n’è un altro. Ma è un castigo per noi -.

Povero don Trajella! Se anche il diavolo lo aveva tentato nei suoi giovani anni, questa era ormai una cosa antica e dimenticata. Ora egli non si reggeva quasi in piedi, non era che un povero vecchio perseguitato e inasprito, una pecora nera e malata in un gregge di lupi. Ma, lo si capiva anche nella sua decadenza, ai bei tempi in cui insegnava teologia al Seminario di Melfi e a quello di Napoli, don Giuseppe Trajella da Tricarico doveva essere stato un uomo buono, intelligente, pieno di spirito e di risorse. Scriveva vite di santi, dipingeva, scolpiva, si occupava vivacemente delle cose del mondo. L’improvvisa disgrazia lo aveva colpito, lo aveva staccato da tutto e l’aveva buttato, come un relitto, su quella lontana spiaggia inospitale. Egli si era lasciato cadere a picco, godendo amaramente di fare più grande la propria miseria. Non aveva più toccato un libro né un pennello. Gli anni erano passati, e di tutte le antiche passioni una sola era rimasta, e aveva preso il carattere della fissazione: il rancore. Trajella odiava il mondo, perché il mondo lo perseguitava. Si era ridotto a vivere solo, senza parlare con nessuno, nella sola compagnia di sua madre, una vecchia di novant’anni, inebetita e impotente. Il suo solo conforto (oltre alla bottiglia, forse) era di passare il giorno a scrivere epigrammi latini contro il podestà, i carabinieri, le autorità e i contadini. – È un paese di asini, questo, non di cristiani, – mi disse, invitandomi a entrare con lui nella chiesa. – Lei sa il latino, vero?

Gallianus, Gallianellus Asinus et asellus Nihil aliud in sella Nisi Joseph Trajella. La chiesa non era che uno stanzone imbiancato a calce, sporco e trasandato, con in fondo un altare disadorno su un palco di legno, e un piccolo pulpito addossato a una parete. I muri, pieni di crepe, erano ricoperti da vecchi quadri secenteschi dalle tele scrostate e piene di strappi, malamente appesi in disordine in parecchie file.

– Questi vengono dalla vecchia chiesa: sono le uniche cose che abbiamo potuto salvare. Li guardi, lei che è pittore. Ma non valgono molto. Questa d’ora non era che una cappella. La vera chiesa, la Madonna degli Angeli, era in basso, all’altra estremità del paese, dove c’è la frana. La chiesa è crollata improvvisamente, è cascata nel burrone, tre anni fa. Per fortuna era notte, l’abbiamo scampata bella. Qui ci sono continuamente le frane. Quando piove, la terra cede e scivola, e le case precipitano. Ne va giù qualcuna tutti gli anni. Mi fanno ridere con i loro muretti di sostegno. Fra qualche anno questo paese non esisterà più. Sarà tutto in fondo al precipizio. Pioveva da tre giorni quando è caduta la chiesa. Ma tutti gli inverni è la stessa cosa: qualche disastro, piccolo o grosso, avviene tutti gli anni, qui come in tutti gli altri paesi della provincia. Non ci sono alberi né rocce, e l’argilla si scioglie, scorre in basso come un torrente, con tutto quello che c’è sopra. Vedrà quest’inverno, anche lei. Ma le auguro di non essere più qui allora. La gente è peggio della terra. Profanum vulgus -. Gli occhi dell’Arciprete brillavano dietro gli occhiali. – Abbiamo dovuto accontentarci di questa vecchia cappella. Non c’è campanile, la campana è fuori, attaccata a un sostegno. Bisognerebbe anche rifare il tetto, ci piove. S’è dovuto anche puntellarla. Vede che crepe nei muri? Ma i denari, chi me li dà? La chiesa è povera, e il paese e poverissimo: e poi non sono cristiani, non hanno religione. Non mi portano nemmeno i regalucci d’uso, figuriamoci per fare il campanile. E il podestà, don Luigi, e gli altri, sono d’accordo a non lasciar far nulla. Loro fanno i farmacisti. Vedrà, vedrà, le loro opere pubbliche! Il mio cane Barone, inconsapevole della maestà del luogo, si affacciava all’uscio, stanco di aspettarmi, abbaiando allegro, e non mi riusciva di scacciarlo o di farlo tacere.

Presi allora congedo da don Trajella; e mi avviai, per la stessa strada a sinistra della chiesa che avevo percorso il giorno prima arrivando, verso le prime case del paese. Era questa la zona che mi era apparsa, il giorno avanti, passando rapido in automobile, accogliente e quasi gentile d’alberi e di verde. Ma ora, sotto il sole crudo del mattino, pareva che il verde si fosse dissolto nel grigio abbagliante dei muri e della terra. Era un gruppo di case costruite in disordine ai lati della strada, con attorno degli orticelli stenti e qualche magro olivo. Quasi tutte le case erano costituite da una sola stanza, senza finestre, che prendeva luce dalla porta. Le porte erano sbarrate, poiché i contadini erano nei campi: a qualche soglia stavano sedute delle donne con i bambini in grembo, o delle vecchie che filavano la lana; e tutte mi salutavano con un gesto, e mi seguivano con i grandi occhi spalancati. Qua e là alcune case avevano invece un primo piano, e un balcone; e la porta di strada, invece di essere di vecchio legno nero e consumato, brillava pretensiosamente di vernice, e si adornava di una maniglia di ottone. Erano le case degli «americani». In mezzo alle catapecchie contadine stava una casetta lunga e stretta, a un piano, costruita da poco nello stile cosiddetto moderno, quello dei sobborghi delle città, era la caserma dei carabinieri. Sulla strada e attorno alle case, nei mucchi di spazzature e di rifiuti, le scrofe, circondate dalle loro famiglie di maialini, dal viso di vecchietti avidi e libidinosi, grufolavano diffidenti e feroci, e Barone ringhiava rinculando, sollevando il labbro sulle gengive, coi peli ritti di uno strano orrore. Dopo l’ultima casa del paese, dove la strada, superata una selletta, comincia a scendere verso il Sauro, c’era un breve spiazzo di terra disuguale, coperta a tratti di un’erba gialla e intristita. Era il campo sportivo, opera del podestà Magalone. Qui dovevano esercitarsi i ragazzi della Gil, e si dovevano fare le adunate di popolo. A sinistra un sentiero saliva ancora su un poggio poco distante coperto di ulivi e terminava a un cancelletto di ferro, aperto tra due pilastrini che si continuavano in un muretto basso di mattoni. Dietro il muretto spuntavano due sottili cipressi; attraverso il cancello si vedevano le tombe, bianche sotto il sole. Il cimitero era il limite estremo, in alto, del terreno che mi era concesso. La vista di lassù era più larga che da ogni altro punto, e meno squallida. Non si vedeva tutto Gagliano, che sta nascosto come un lungo serpente acquattato fra le pietre; ma i tetti rosso-gialli della parte alta apparivano fra le fronde grige degli ulivi mosse dal vento, fuori della consueta immobilità, come cose vive; e, dietro questo primo piano colorato, le grandi distese desolate delle argille sembravano ondulare nell’aria calda come sospese al cielo; e sopra il loro monotono biancore passava l’ombra mutevole delle nubi estive. Le lucertole stavano immobili sul muro assolato; una, due cicale si rispondevano a tratti, come provando un canto, e poi tacevano improvvise.

Poiché di qui mi era vietato continuare, mi volsi al ritorno, scendendo rapido al paese per la strada percorsa; ripassai davanti alla chiesa, alla casa della vedova, e, giù per la discesa, arrivai all’ufficio postale, e al muretto della Fossa del Bersagliere. Il podestà, maestro di scuola, era in quel momento nell’esercizio delle sue funzioni di insegnante. Stava seduto al balcone della sua classe, e fumava guardando la gente sulla piazza, e interpellando democraticamente tutti i passanti. Aveva in mano delle lunghe canne, con le quali, ogni tanto, ristabiliva l’ordine senza muoversi dalla seggiola attraverso la finestra aperta, colpendo, con un colpetto abilissimo e ben aggiustato, la testa o le mani dei ragazzi che, lasciati soli, facevano troppo chiasso. – Bella giornata, dottore! – mi gridò dal suo arengo, quando mi vide comparire sulla piazza. Di lassù, con le sue bacchette in mano, egli si sentiva veramente il padrone del paese, un padrone affabile, popolare e giusto; e nulla poteva sfuggire alla sua vista. – Non l’avevo ancora veduto, stamattina. Dov’è stato? A passeggiare? Su, fino al cimitero? Bravo, bravo, passeggi, passeggi! Si diverta. E si trovi qua in piazza dopo colazione, alle cinque e mezzo. Prima dormirà, credo. Le voglio far conoscere mia sorella. Dove va? A Gagliano di Sotto? A cercare alloggio? Mia sorella glielo troverà, non si preoccupi. Per un uomo come lei non ci vuole una casa di contadini. Ma le troveremo meglio, dottore! E buona passeggiata!-

Dopo la piazza, la strada risaliva, superava un costone, e ridiscendeva in un’altra minuscola piazzetta, circondata di case basse. In mezzo alla piazza si ergeva uno strano monumento, alto quasi quanto le case, e, nell’angustia del luogo, solenne ed enorme. Era un pisciatoio: il più moderno, sontuoso, monumentale pisciatoio che si potesse immaginare; uno di quelli di cemento armato, a quattro posti, con il tetto robusto e sporgente, che si sono costruiti soltanto in questi ultimi anni nelle grandi città. Sulla sua parete spiccava come una epigrafe un nome familiare al cuore dei cittadini: «Ditta Renzi – Torino». Quale bizzarra circostanza, o quale incantatore o quale fata poteva aver portato per l’aria, dai lontani paesi del nord, quel meraviglioso oggetto, e averlo lasciato cadere, come un meteorite, nel bel mezzo della piazza di questo villaggio, in una terra dove non c’è acqua né impianti igienici di nessuna specie, per centinaia di chilometri tutto attorno? Era l’opera del regime, del podestà Magalone. Doveva essere costato, a giudicare dalla sua mole, le entrate di parecchi anni del comune di Gagliano. Mi affacciai al suo interno: da un lato un maiale stava bevendo l’acqua ferma nel fondo del vaso, dall’altra due ragazzi ci buttavano barche di carta. Nel corso di tutto l’anno non lo vidi mai adibito ad altra funzione, né abitato da altri che non fossero maiali, cani, galline, o bambini; se non la sera della festa della Madonna di settembre, in cui alcuni contadini si arrampicarono sul suo tetto per meglio godere, da quell’altezza, lo spettacolo dei fuochi artificiali. Una sola persona lo usò spesso per l’uso per cui era stato costruito; e quella persona ero io: e non l’usavo, debbo confessarlo, spinto dal bisogno, ma mosso dalla nostalgia. A un angolo della piazzetta, dove quasi giungeva l’ombra lunga del monumento, uno zoppo, vestito di nero, con un viso secco, serio, sacerdotale, sottile come quello di una faina, soffiava come un mantice nel corpo di una capra morta. Mi fermai a guardarlo. La capra era stata ammazzata poco prima, lì sulla piazzetta, e sdraiata sopra un tavolaccio di legno su due cavalletti. Lo zoppo, senza tagliarne altrove la pelle, aveva fatto una piccola incisione in una delle zampe di dietro, vicino al piede, e all’incisione aveva posto la bocca, e a forza di polmoni andava gonfiando la capra, staccandone la pelle dalla carne. A vederlo così attaccato all’animale, che andava a mano a mano mutando e crescendo, mentre l’uomo, senza mutare contegno, pareva assottigliarsi e svuotarsi di tutto il suo fiato, sembrava di assistere a una strana metamorfosi, dove l’uomo si versasse, a poco a poco, nella bestia. Quando la capra fu gonfia come una mongolfiera, lo zoppo, stringendo con una mano la zampa, staccò finalmente la bocca dal piede dell’animale, e se la pulì con la manica; poi, rapidamente, si pose a rovesciare la pelle della capra, come un guanto che si sfili, fino a che la pelle, intera, fu tutta sgusciata, e la capra, nuda e spelata come un santo, rimase sola sul tavolaccio a guardare il cielo.

– Così non si sciupa, si possono farne degli orci, – mi spiegò lo zoppo, pieno di sussiego, mentre un ragazzo docile e taciturno, suo nipote, lo aiutava a squartare la bestia. – Quest’anno c’è parecchio lavoro. I contadini ammazzano tutte le capre. Per forza. La tassa chi può pagarla?-

Pare infatti che il governo avesse da poco scoperto che la capra e un animale dannoso all’agricoltura, poiché mangia i germogli e i rami teneri delle piante: e aveva perciò fatto un decreto valido ugualmente per tutti i comuni del Regno, senza eccezione, che imponeva una forte imposta su ogni capo, del valore all’incirca della bestia. Così, colpendo le capre, si salvavano gli alberi. Ma a Gagliano non ci sono alberi, e la capra è la sola ricchezza del contadino, perché campa di nulla, salta per le argille deserte e dirupate, bruca i cespugli di spine, e vive dove, per mancanza di prati, non si possono tenere né pecore né vitelli. La tassa sulle capre era dunque una sventura: e, poiché non c’era il denaro per pagarla, una sventura senza rimedio. Bisognava uccidere le capre, e restare senza latte e senza formaggio. Lo zoppo era un proprietario decaduto, ma fiero tuttavia della sua posizione sociale, che per campare faceva molti mestieri; e fra l’altro era suo compito il sacrificio delle capre. Grazie al provvido decreto ministeriale potei, quell’anno, trovar spesso da lui della carne: negli anni precedenti, mi disse, mi sarei dovuto accontentare di mangiarla molto di rado. Egli si occupava anche di amministrare i beni di qualche proprietario che non abitava in paese, sorvegliava i contadini, faceva da sensale nelle vendite, metteva mano ai matrimoni, conosceva tutto e tutti; e non c’era avvenimento o fatterello dove non si vedesse comparire silenziosamente la sua gamba zoppa, il suo abito nero e il suo viso volpino. Era curiosissimo, ma, nelle parole, riservato: le sue frasi si fermavano a mezzo, a lasciare intendere che egli sapeva molto più che non dicesse; e sempre con un che di solenne e dignitoso, e terribilmente serio, quasi a smentire il suo cognome, Carnovale. Come seppe che cercavo un alloggio e possibilmente abbastanza grande e luminoso da poterci dipingere, rifletté un poco, con aria concentrata, e mi disse che c’era il palazzo dei suoi cugini che io forse conoscevo, perché erano dei grandi dottori di Napoli. Avrei forse potuto averne una parte, due o tre stanze: avrebbe subito scritto in città: sarebbe stata per me una fortuna, era la sola casa che potesse convenirmi. Era vuota, ma un letto e gli altri mobili necessari me li avrebbe potuti affittare lui. Se intanto volevo visitarlo, mi avrebbe subito fatto accompagnare dal nipote con le chiavi. Mi avviai col ragazzo, anche lui nero, triste e compassato come lo zio. La strada scendeva ancora dopo la piazzetta, finché arrivava ad un punto dove i due burroni di destra e di sinistra non lasciavano più posto per le case, e lì scorreva sullo stretto ciglione fra due muretti bassi, al di là dei quali l’occhio si perdeva nel vuoto. Era un intervallo di un centinaio di metri fra Gagliano alta e Gagliano bassa; e qui, fra le due gole, il vento soffiava violento in perpetuità. Verso il mezzo di questo intervallo, in un punto dove il ciglione si allargava un poco, c’era una delle due sole fontanelle del paese: l’altra l’avevo vista in alto, vicino alla chiesa. La fontanella, che dava l’acqua per tutta Gagliano di Sotto e per buona metà di Gagliano di Sopra, era allora affollata di donne, come la vidi poi sempre, in tutte le ore del giorno. Stavano in gruppo, attorno alla fontana, alcune in piedi, altre sedute per terra, giovani e vecchie, tutte con una botticella di legno sul capo, e la brocca di terra di Ferrandina. Ad una ad una si avvicinavano alla fontana, e aspettavano pazienti che l’esile filo d’acqua riempisse gorgogliando la botte: l’attesa era lunga. Il vento muoveva i veli bianchi sui loro dorsi diritti, tesi con naturalezza nell’equilibrio del peso. Stavano immobili nel sole, come un gregge alla pastura; e di un gregge avevano l’odore. Mi giungeva il suono confuso e continuo delle voci, un sussurrare ininterrotto. Al mio passaggio nessuna si mosse, ma mi sentii colpito da diecine di sguardi neri, che mi seguirono fermi e intensi, finché, superato l’intervallo, ricominciai a salire per giungere alle case di Gagliano di Sotto, che ridiscende poi fino alla chiesa diroccata e al precipizio. Giungemmo in breve al palazzo: e davvero era la sola costruzione, in paese, che potesse portare questo nome. Di fuori aveva un aspetto tetro con i suoi muri nerastri e le piccole finestre ferrate, e i segni di un secolare abbandono. Era la vecchia dimora di una famiglia nobile che da molto tempo aveva emigrato. Era stata poi adibita a caserma dei carabinieri, che l’avevano lasciata per la nuova sede modernizzante. Del passaggio dei militi serbava nell’interno i ricordi, nella sporcizia e nello squallore delle pareti. C’erano ancora le celle di sicurezza, ricavate dividendo un salone, buie, con le bocche di lupo alle finestrelle e i grandi catenacci alle porte. Ma le porte, gonfiate dall’acqua e dai geli, non chiudevano più; i vetri delle finestre erano tutti rotti, uno spesso strato di polvere, portata dal vento, copriva ogni cosa. Dal soffitto, dorato e dipinto, pendevano lembi di pittura e ragnatele; i pavimenti di pietra bianca e nera a disegno erano sconnessi, e qualche grigio filo d’erba cresceva negli interstizi. Al nostro ingresso nelle sale eravamo accolti da un rumore rapido e furtivo, come di animali che corressero impauriti nei loro nascondigli. Spalancai una porta-finestra, mi affacciai a un balcone, dalla pericolante ringhiera settecentesca di ferro, e, venendo dall’ombra dell’interno, rimasi quasi accecato dall’improvviso biancore abbagliante. Sotto di me c’era il burrone; davanti, senza che nulla si frapponesse allo sguardo, l’infinita distesa delle argille aride, senza un segno di vita umana, ondulanti nel sole a perdita d’occhio, fin dove, lontanissime, parevano sciogliersi nel cielo bianco. Nessun’ombra svariava questo immobile mare di terra, divorato da un sole a picco. Era mezzogiorno, ora di rientrare.

Come avrei potuto vivere in questa rovina nobiliare? Tuttavia, il luogo aveva un suo triste incanto: avrei potuto passeggiare sulle pietre sconnesse dei saloni, e preferivo, per compagnia delle mie notti, i pipistrelli agli ufficiali esattoriali e alle cimici della vedova. Forse, pensavo, avrei potuto far rimettere i vetri, farmi arrivare da Torino una zanzariera per proteggermi dalla malaria, e ridar vita ai muri arcigni e cadenti del palazzo. Dissi allo zoppo che mi aspettava sulla piazzetta con la sua capra squartata, che scrivesse a Napoli, e risalii verso casa.

Arrivato al muretto della Fossa del Bersagliere, sulla piazza, vidi un giovane biondo, alto e aitante, con una camicia cittadina dalle maniche corte, uscire dall’usciolo di una catapecchia portando in mano un piatto di spaghetti fumanti, traversare la piazza, posare il piatto sul muretto lanciando un fischio di richiamo, e rientrare poi rapidamente di dove era venuto. Mi fermai incuriosito a guardare di lontano quella pastasciutta abbandonata. Subito, da una casa di faccia, uscì un giovane alto, bruno questo, e bellissimo, con un viso pallido e malinconico, vestito di un abito grigio di taglio elegante. Andò al muretto, prese il piatto degli spaghetti e ritornò sui suoi passi. Giunto sulla soglia, lanciò un’occhiata circospetta alle finestre e alla piazza deserta, si volse verso di me, sorrise, mi fece con la mano un amichevole cenno di saluto, e subito, chinandosi per passare nella porticina bassa, scomparve in casa.

Don Cosimino, il gobbetto della posta, stava chiudendo il suo ufficio, e dal suo angolo nascosto aveva visto tutto come me. Si accorse del mio stupore, e mi fece col capo un cenno d’intesa; io lessi la simpatia nei suoi occhi tristi e arguti. – Questa scena, – mi disse, – avviene tutti i giorni a quest’ora. Sono due confinati come lei. Quello biondo è un muratore comunista di Ancona, un ottimo ragazzo. L’altro è uno studente di scienze politiche di Pisa. Era ufficiale della Milizia, e comunista anche lui. È di famiglia modesta, ma non gli danno il sussidio perché sua madre e sua sorella sono maestre, e perciò, dicono, hanno i mezzi per mantenerlo. Prima i confinati potevano stare assieme, ma da qualche mese don Luigi Magalone ha dato l’ordine che non debbano neppure vedersi. Quei due, che facevano cucina comune per economia, ora sono costretti a preparare il pranzo a turno, un giorno per uno, e a portare i piatti sul muretto, dove l’altro li va a prendere quando il primo è già rientrato in casa. Se no, se si incontrassero, chissà che pericolo per lo Stato!- C’eravamo incamminati insieme su per la salita: don Cosimino abitava non lontano dalla casa della vedova, con la moglie e parecchi bambini. – Don Luigi ci bada molto a queste cose. Lui è per la disciplina. Le pensano insieme, lui e il brigadiere. Con lei spero sarà diverso. Ma ad ogni modo non se la prenda, dottore! – Don Cosimino mi guardava di sotto in su, consolatore. – Hanno la mania di fare i poliziotti, e vogliono saper tutto. Il muratore ha avuto, anche delle noie. Parlava con dei contadini, e cercava di spiegare le teorie di Darwin, che l’uomo deriva dalla scimmia. Io già non sono darvinista, – e don Cosimino sorrideva arguto, – ma non ci vedo nulla di male, se qualcuno ci crede. Don Luigi lo è venuto a sapere, naturalmente. E ha fatto una scenata terribile. L’avesse sentito gridare! Ha detto al muratore che le teorie di Darwin sono contro la religione cattolica, che il cattolicismo e il fascismo sono una cosa sola, e che perciò parlare di Darwin è fare dell’antifascismo. E ha scritto anche a Matera, alla questura, che il muratore faceva propaganda sovversiva. Ma i contadini gli vogliono bene. È gentile e sa far di tutto -. Eravamo arrivati a casa sua. – Stia di buon umore, – mi disse. – Lei è appena arrivato, e si deve abituare. Ma tutto questo passerà. –

Quasi timoroso di aver detto troppo, questo angelo gobbo mi salutò bruscamente e mi lasciò.

Carlo Levi, “Cristo si è fermato a Eboli”. (Einaudi 1945).

Una donna tra amore e malattia

Scritto dall’editor e critica letteraria, Giovanna De Angelis, stroncata prematuramente nel 2013 da un male che ha voluto raccontare in questo unico e postumo romanzo, il cui tema centrale è proprio la malattia della protagonista, Francesca, in lotta contro un ‘mostro’ incurabile


La giovane protagonista vive a Roma e fa la traduttrice, è sposata con Cosimo, ha una madre assente, un’amica attenta e frequenta il vecchio professore dell’università a cui la lega la passione per la traduzione. Un giorno incontra Diego, un ricercatore universitario, con il quale inizia una storia, fatta di poche parole e incontri sessuali che si consumano su un “divano letto tappezzato di velluto a coste verde scuro”.
Di colpo, arriva la malattia, il dolore, che “è solo di chi lo prova e di nessun altro”, e l’ospedale con la sua routine, “la terapia, il reparto che riapre le porte, una mascella di ferro, plastica e vetro pronta a masticarla e a risputarla fuori barcollante e col sangue pulito”. Francesca vive da ammalata senza rinunciare a combattere per mantenere la sua identità e per ottenere un’altra possibilità.
La narrazione in terza persona del libro, diviso in due parti – ‘Il vento’ e ‘Lo schianto’ – si alterna a brevi pagine di diario dove la malattia non viene esibita, ma diventa un osservatorio da cui scrutare la vita degli altri. Una lettura che propone la sofferenza della protagonista in modo delicato e aiuta a guardare oltre, per dare il giusto peso alle cose.

Marina Landolfi


Giovanna De Angelis, “La frattura”, Elliot (2015 )



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Memoriale di un folle

Passato e presente, vita e morte, moglie e madre: binomi di una mente disturbata.

Caddi stroncato da un accesso di febbre. Da quindici anni non avevo più avuto una malattia seria, e mi stupivo di questo incidente capitatomi così inopportuno: non che temessi di morire (…) questa fine precipitosa non poteva rallegrarmi. (…)  Roso dalla febbre che mi squassava come un materasso di piume, mi afferrava alla gola per strangolarmi, mi schiacciava il petto con un ginocchio, mi bruciava al punto di farmi uscire gli occhi dalle orbite, restavo nella mia soffitta solo con la morte, che certamente mi era scivolata di soppiatto in camera e ora si gettava su di me!

<No, non lo voglio vedere il medico><Perché?> <Perché non lo voglio vedere>

I nostri occhi si scambiarono tutta una serie di sottintesi >Voglio morire> dissi per finirla. <La vita mi nausea, il passato mi torna alla mente come una matassa aggrovigliata che non ho la forza di dipanare. Che i miei occhi si riempiano di berio e si tirino le tende!>

Davanti ai miei nobili e coraggiosi sfoghi, ella restava insensibile.

<I tuoi vecchi sospetti…sempre?> disse

<Sì, sempre. Fa’ sparire il fantasma! Solo tu sei riuscita a scacciarlo via finora!>

Con un gesto abituale, posò sulla mia fronte la sua dolce mano, e, con finta aria di mammina, come un tempo, disse: 

<Va bene così?>

<Sì, così va bene!>

Ed era vero. Il semplice contatto di quella manina leggera, piombata così pesante nel mio destino, aveva la facoltà di scacciare le visioni nere, respingendo le inquietudini furtive.

Presto la febbre mi riprese, e più forte. Mia moglie si alzò per prepararmi una tisana di sambuco.

Essendo manifesta la maternità di Maria non mi reputo più tenuto in amore, a certe precauzioni; e siccome non c’è più motivo di rifiutarsi, inventa scuse per infastidirmi e quando vede la mia soddisfazione dopo i nostri liberi amplessi, mi serba rancore per l’innocente gioia che mi è venuta da lei.

E’ fin troppa felicità per me, visto che i miei disturbi nervosi vengono proprio dalla continenza! Intanto la mia affezione gastrica si aggrava al punto che non posso inghiottir altro che brodo e la notte mi sveglio con terribili crampi allo stomaco e bruciori insopportabili, che cerco di calmare bevendo latte freddo.

August Johan Strindberg

Enciclopedia Treccani Online

August Johan Strindberg, “Memoriale di un folle” (Armando Curcio ed. 1978)

Le parole per dirlo

Marie Cardinal scava nell’animo umano e porta in superficie le cause del suo malessere esistenziale e della sua inquietudine.

Fino a quel giorno, quando presi il coraggio a due mani per parlargli finalmente dell’allucinazione, e quando lui mi chiese dopo aver ascoltato la mia descrizione: “Tubo’, che cosa le fa venire in mente?” fino quel giorno non mi ero ancora avventurata a fondo nell’inconscio. Vi avevo fatto qualche puntatina a caso, quasi senza rendermene conto.

[…] Mi rendevo conto che ancora a trent’anni e passa, avevo paura di non piacere a mia madre. Allo stesso tempo mi rendevo conto che la botta tremenda che mi aveva dato raccontandomi il suo aborto mancato mi aveva procurato un profondo disgusto di me stessa: non potevo essere amata, non potevo piacere, non potevo che essere respinta. Per questo ogni separazione, ogni partenza, ogni contrattempo erano vissuto come altrettanti abbandoni. Bastava che perdessi la metropolitana per sentire la Cosa agitarsi dentro di me. Ero una fallita, e quindi era logico che fallissi in tutto.

Era tanto semplice! Come mai non c’ero arrivata da sola? Come mai non me n’ero servita ogni volta che mi sentivo male? Semplicemente perché finora non ne avevo parlato con nessuno.

[…] Era tanto semplice che stentavo a crederci. Eppure i fatti lo dimostravano: tutti i miei disturbi psicosomatici erano scomparsi: il sangue, l’impressione di diventare cieca e sorda. La distanza tra le crisi di angoscia aumentava, ormai mi capitavano solo due o tre volte alla settimana.

Nonostante ciò, non ero ancora normale. 

[…] In quel momento il dottore chiese:

“’Tubo’, che cosa le fa venire in mente?”

Queste parole mi diedero fastidio. Sapevo dove andava a parare: il pisellino di carta, l’uscita dalla pancia di mia madre. Non si trattava di qiesto. Se fosse stato così semplice ci sarei arrivata da sola. M0p venuto voglia di alzarmi e di tagliare la corda. Mi esasperava quel piccolo burattino muto, con la sua calma e la sua impassibilità da iniziati. 

“lei mi ricorda i preti. È uguale a loro. Lei è il gran sacerdote della religione del cazzo. È sempre lo stesso ritornello con voialtri. Mi fai schifo.

[…] “…tubo, mi fa pensare a un tubo. Un tubo è un tubo… tubo mi fa pensare a tubetto… a tunnel… tunnel mi fa pensare al treno… da bambina viaggiavo spesso. Passavamo le nostre estati in Francia e in Svizzera. Prendevamo la nave poi il treno. Sul treno avevo paura di far la pipì. Mia madre era fissata sull’igiene e vedeva microbi dappertutto…”

Divagavo, divagavo. La bambina è venuta a raggiungermi. Io ero la bambina, avevo tre o quattro anni.”

[…] Durante quelle settimane, o quei mesi, non ricordo più, ero ubriaca dal mattino alla sera, ubriaca di gioia, d’alcool, di salute, di notti insonni, di carezze sempre nuove, di cibi appetitosi. Passavo le mie giornate a divertirmi con questo straordinario giocattolo: il mio corpo.

[…] Ogni parola che faticavo a pronunciare nascondeva in realtà un territorio nel quale rifiutavo di entrare. Ogni parola che dicevo con piacere designava al contrario un territorio che mi piaceva.

[…] Mi sono allora resa conto che c’era tutta una parte del mio corpo che non avevo mai accettato, che in qualche modo non mi era mai appartenuta. Tutto quello che era collocato tra le mie gambe poteva essere indicato soltanto con parole vergognose e non era mai stato l’oggetto del mio pensiero cosciente. Nessuna parola conteneva il mio ano.

[…] Non parlavo mai dell’analisi perché mi rendevo conto che quell’argomento infastidiva la gente: “sono tutte balle. I pazzi si mandano in manicomio. Per il resto sono balle da donnette, froci o squilibrati.” A quel punto iniziava una vera pioggia di racconti del genere: “io (o Pietro, Paolo o Mariarosa) ho fatto una psicoanalisi. Ebbene, cara mia, mi ha completamente distrutto. Non me ne parlare. Mi ci sono voluti cinque anni per rimettermi in sesto!” dopo scoprivo che avevano visto un medico per due mesi, sei mesi o anche due anni. Qualcuno al quale avevano raccontato la loro vita, che li aveva ascoltati, dato dei consigli e infine gli aveva prescritto un tranquillante nuovo. Insomma, o non avevano fatto una vera analisi, o l’avevano abbandonata nel momento in cui diventava difficile.

Marie Cardinal

Scheda dell’editore

Marie Cardinal, “Le parole per dirlo” (1975)