La Vita è Sogno

Il principe Sigismondo vive rinchiuso in una torre per volere di suo padre. La sua esistenza si svolge sul filo tra sogno e realtà, senza la possibiltà di ricomporre questa dicotomia. In questo brano il principe descrive la propria condizione.

Sigismondo (solo)
So che esistiamo in mondo singolare
dove vivere è sognare…
e l’esperienza mi insegna
che l’uomo che vive sogna
fino a farsi ridestare….
Sogna il re il suo trono, e vive
nell’inganno… comandando…
disponendo e governando…
e l’applauso che riceve
in prestito… nel vento scrive….
e in cenere lo converte
la morte… sventura forte!
Chi ancora vorrà regnare…
dovendosi ridestare
nel sogno della morte?
Sogna il ricco la ricchezza…
che continui affanni gli offre…
sogna il povero… che soffre
la miseria e la tristezza….
sogna chi agli agi s’avvezza…
sogna chi nell’ansia attende…
sogna chi ferisce e offende…
e nel mondo… in conclusione…
sogna ognuno la passione…
ch’egli vive… e non lo intende…
Io sogno la prigionia
che mi tiene qui legato…
e sognai che un altro stato
mi rendeva l’allegria…
Che è la vita?… Frenesia…
Che è la vita?… Un’illusione…
solo un’ombra… una finzione…
e il maggiore bene… un bisogno
del nulla… la vita è un sogno…
e i sogni… non sono che sogni.

Pedro Calderón de la Barca

Il Gabbiano

La scena che antologizziamo è tratta dalla parte terminale dell’opera teatrale. Treplev, distrutto da ogni fronte, ed in particolare quello amoroso, decide di suicidarsi.

A destra, fuori scena, un colpo di rivoltella; tutti sussultano.
ARKADINA (spaventata)
Cos’è stato?
DORN
Niente. Deve essere esploso qualcosa nella mia cassetta dei medicinali. Non vi agitate. (Esce da destra, ritorna dopo mezzo, minuto). È proprio così. È scoppiata una boccetta di etere. (Canticchia).”Di nuovo incantato io sto innanzi a te…”.
ARKADINA (sedendosi al tavolo)
Uff, che paura. Mi ha fatto venire in mente, quando… (Nasconde il viso nelle mani).Mi si è persino annebbiata la vista…
DORN (sfogliando una rivista, a Trigorin)
Due mesi fa qui avevano pubblicato un articolo… una lettera dall’America, ora io vi vorrei pregare tra l’altro… (prende Trigorin per la vita e lo conduce verso la ribalta). … poiché questo problema mi sta molto a cuore… (Con tono più basso, a mezza voce).Portate via Irina Nikolaevna. Konstantin Gavriloviè si è ucciso…

Anton Cechov

Zio Vanja

Vanja, guardandosi alle spalle, trova di essere deluso della sua vita: le speranze e le illusioni sono ormai cadute. Per questo motivo nel brano antologizzato tenta il suicidio.

ASTROV (grida adirato)
Smettila! (Addolcendosi).Quelli che vivranno cento, duecento anni dopo di noi, ci disprezzeranno perché abbiamo vissuto le nostre vite in modo così stupido e rozzo; quelli, forse, troveranno il modo per essere felici, ma noi… Tu ed io abbiamo un’unica speranza. La speranza che quando riposeremo nelle nostre tombe, vengano a visitarci visioni, magari piacevoli. (Sospirando).Sì, fratello. In tutto il distretto ci sono state soltanto due persone per bene e intelligenti: io e te. Ma nel giro di una decina di anni, la vita filistea, la vita spregevole ha avuto ragione di noi; con le sue putride esalazione ha avvelenato il nostro sangue, e noi siamo diventati volgari come tutti gli altri. (Vivacemente). Ma io non ci casco, comunque. Restituiscimi ciò che mi hai preso.
VOJNICKIJ
Non ti ho preso niente.
ASTROV
Mi hai preso dalla borsa delle medicine una fiala di morfina.
Pausa.
Ascolta, se tu, a qualunque condizione, hai deciso di farla finita, va’ nel bosco e sparati un colpo là. Rendimi la morfina, se no ci saranno chiacchiere, congetture, penseranno che sia stato io a dartela… Già dovrò farti l’autopsia… Pensi che sia interessante?
(Entra Sonja.)
VOJNICKIJ
Lasciami.
ASTROV (a Sonja)
Sof’ja Aleksandrovna, vostro zio ha sottratto dalla mia borsa una fiala di morfina e non la vuole restituire. Ditegli che non è cosa… intelligente, tutto sommato. E io non ho tempo. Devo partire.
SONJA
Zio Vanja, hai preso la morfina?
Pausa.
ASTROV
L’ha presa. Ne sono certo.
SONJA

Restituiscila. Perché ci vuoi spaventare? (Teneramente). Restituiscila, zio Vanja! Io, forse, non sono meno infelice di te, però non mi abbandono alla disperazione. Sopporto e sopporterò, finché la mia vita non finirà da sola… Sopporta anche tu.
Pausa.
Restituiscila! (Gli bacia le mani).Caro, dolce zio, buono, restituiscila (Piange). Sei buono, avrai pietà di noi e la restituirai. Sopporta, zio! Sopporta!
VOJNICKIJ (estrae da un cassetto del tavolo la fiala e la porge ad Astrov)
To’, prendi! (A Sonia). Bisogna lavorare al più presto, al più presto fare qualcosa, altrimenti non posso… non posso…

Anton Cechov

Ifigenia in Tauride

Il seguente brano traccia le vicende avvenute al ritorno in patria di Agamennone, il pastore dei popoli: la moglie Clitemnestra, con la complicità del suo amante Egisto, uccide il re. Suo figlio Oreste è chiamato ad uccidere la madre per vendicare il padre.

PILADE
Ma felici sono i mille e mille che morirono
la morte dolceamara per mano del nemico!
Selvaggi orrori e una fine luttuosa
ha preparato invece del trionfo
per i reduci un dio sdegnato e ostile.
La voce degli uomini non viene fino a voi?
Dovunque arriva, diffonde intorno la fama
di fatti inauditi, che sono accaduti.
Così lo strazio che gli atrii di Micene
riempie di sospiri sempre ripetuti,
è un segreto per te? Clitennestra
con l’aiuto d’Egisto ha irretito il marito,
l’ha ucciso il giorno stesso che è ritornato. – –
Sì, tu onori questa casa regale.
Io lo vedo. Il tuo cuore combatte invano
la parola così atroce ed inattesa.
[…]

ORESTE

Il giorno che il padre cadde Elettra
nascose, per salvarlo, il fratello: Strofio,
il cognato del padre, lo accolse volentieri,
lo crebbe accanto al proprio figlio
di nome Pilade, che annodò i vincoli
più belli d’amicizia con il nuovo venuto.
E con la loro età, nella loro anima cresceva
la smania ardente di vendicare la morte
del re. Inattesi, in abito straniero,
raggiunsero Micene, fingendo di portare
la notizia luttuosa della morte d’Oreste
con le sue ceneri. Benevola li accoglie
la regina; loro entrano nella casa.
Oreste rivela a Elettra che è suo fratello;
lei riattizza in lui il fuoco della vendetta,
che alla presenza sacra della madre si era
sopìto. In silenzio lo guida
al luogo dove il padre era caduto,
dove una antica, lieve traccia del sangue
versato con protervia, colorava il suolo
lavato spesso, di funeste strisce sbiadite.
Con la sua lingua di fuoco lei descrisse
tutte le fasi di quell’azione infame,
la sua vita miserabile, da serva,
l’arroganza di quei traditori fortunati
e i pericoli che ora attendevano i fratelli
da parte di una madre divenuta matrigna.
Qui lei lo forza a stringere l’antico pugnale,
strumento di furia atroce nella casa di Tantalo,
e Clitennestra cadde per mano del figlio.

Johann Wolfgang von Goethe

Fonte: http://www.writingshome.com/ebook_files/160.pdf

L’Eilisir d’amore. “Udite, udite o rustici”

Atto primo, scena V.

Di questa opera lirica di Gaetano Donizzetti su libretto di Felice Romani, riportiamo la scena in cui il sedicente dottor Dulcamara si spaccia per medico di grande fama, sfoggiando i propri portentosi preparati.

“L’Elisir d’amore: Melodramma giocoso in due atti.” Libretto originale e integrale di F, Romani.

DULCAMARA:
Udite, udite, o rustici;
Attenti, non fiatate.
Io già suppongo e imagino
Che al par di me sappiate
Ch’io sono quel gran medico,
Dottore enciclopedico
Chiamato Dulcamara,
La cui virtù preclara,
E i portenti infiniti
Son noti all’universo … e in altri siti.
Benefattor degli uomini,
Riparator de’ mali,
In pochi giorni io sgombero,
Io spazzo gli ospedali,
E la salute a vendere
Per tutto il mondo io vo.
Compratela, compratela,
Per poco io ve la do. (…)

O voi matrone rigide,
Ringiovanir bramate?
Le vostre rughe incomode
Con esso cancellate.
Volete voi, donzelle,
Ben liscia aver la pelle?
Voi, giovani galanti,
Per sempre aver amanti?
Comprate il mio specifico,
Per poco io ve lo do.
Ei muove i paralitici;
Spedisce gli apopletici,
Gli asmatici, gli asfitici,
Gl’isterici, i diabetici,
Guarisce i timpanitidi,
E scrofole e rachitidi,
E fino il mal di fegato
Che in moda diventò.
Comprate il mio specifico,
Per poco io ve lo do. (…)

Ecco qua: così stupendo,
Sì balsamico elisire,
Tutta Europa sa ch’io vendo
Niente men di nove lire:
Ma siccome è pur palese,
Ch’io son nato nel paese,
Per tre lire a voi lo cedo:
Sol tre lire a voi richiedo;
Così chiaro è come il sole,
Che a ciascuno che lo vuole
Uno scudo bello e netto
In saccoccia io faccio entrar.
Ah! di patria il caldo affetto
Gran miracoli può far.

Gaetano Donizzetti e Felice Romani, 1832

Faust

Il brano è tratto dal dramma Faust di Goethe. Il protagonista incontra nel suo viaggio, interiore e fisico contemporaneamente (verso le profondità dell’universo e della mente), l’angoscia.

Faust:
Quattro ne ho visto venire, soltanto tre andarsene. Il senso del loro discorso non l’ho potuto intendere. Verso un libero spazio io non ancora
mi sono aperto il passo. Potessi
dal mio cammino la magia rimuovere
e come uomo soltanto starti a fronte, Natura, essere umana creatura allora varrebbe la pena.
Lo ero una volta, prima di cercare nelle tenebre e bestemmiando maledire il mondo e me.
Se un giorno mai di limpida ragione ci sorride, la notte nella trama dei suoi sogni ci chiude.
E, spauriti, si rimane soli.
La porta cigola e nessuno viene avanti. (Di soprassalto).
C’è qualcuno?
Angoscia:
La domanda vuole un sì.
Faust:
E tu, chi sei tu allora?
Angoscia: Faust:
Va’ via di qui!
Angoscia:
Ci sono, ecco.
Sono dove ho da essere.
Sotto parvenza mutevole
la mia potenza è feroce.
Sui sentieri, sulle onde
eterna compagna angosciosa, mai la cerchi, sempre la trovi,
e lusingata e maledetta… l’Angoscia l’hai mai conosciuta?
Faust:
Non ho fatto che correre, io, attraverso il mondo. Ogni piacere l’ho afferrato a volo.
Ho avuto solo desideri e solo
desideri saziati
e nuove voglie; e di forza, così
ho attraversato d’impeto la vita.
La conosco abbastanza, questa terra.
Sull’al di là ci è impedita la vista.
L’uomo si tenga saldo qui e si guardi intorno: non è muto questo mondo a chi sa e opera.
L’Angoscia:
Quando ho qualcuno in mio potere il mondo gli diventa inutile.
Su lui cala buio eterno.
Ha perfetti i sensi esterni
ma tenebre intime lo abitano.
Faust:
Certe sciocchezze non voglio ascoltarle.
L’Angoscia:
Ha da andare? Ha da venire?
Il potere di decidere gli è tolto.
A metà d’una via sgombra vacilla, vede sempre più storta ogni cosa; peso e noia a sé e agli altri
può respirare eppure soffoca, non soffoca eppure non vive.
Faust:
Il tuo potere, Angoscia, insinuante e grande, io non lo riconoscerò.
Angoscia:
Tutta la vita sono ciechi gli uomini: e tu diventalo, Faust, alla fine!
(Gli soffia sul viso).
Faust (accecato):
La notte sembra scendere su me sempre più fonda
ma brilla entro di me una luce chiara.

Johann Wolfgang von Goethe

Ippolito

L’Ippolito del tragediografo greco Euripide fu rappresentato nel 428 a.C ad Atene. La tragedia narra la storia dell’amore proibito tra Fedra e il suo figliastro Ippolito. Fedra è sconvolta nella sua intera persona dalla potenza dell’amore. Il brano antologizzato è tratto dalla prima apparizione del coro: è preoccupato dal male che affligge Fedra e ne descrive i sintomi.

CORO
str. a
C’è una roccia, raccontano, che stilla
acqua d’oceano: dalle rupi
erompe una sorgiva,
vi attingono con brocche.
Là c’era una mia amica,
lavava nella corrente vesti purpuree
le distendeva sopra
una calda, assolata pietra.
Le prime voci sulla mia padrona
mi giunsero di là.

ant. a
Giace in casa, stremata,
sul suo letto di inferma,
veli leggeri le ombrano
il biondo capo.
Da due giorni, mi dicono,
rifiuta di nutrirsi,
tiene puro il suo corpo
del cibo di Cerere: vuole
approdare al termine funesto di morte
spinta da un male segreto.

str. b
† Forse, † figlia, sei in potere
di Pan, oppure di Ecate o
dei venerandi Coribanti
o della Madre dei monti.
O ti tormenti per qualche tua colpa
contro Dictinna, la dea della caccia:
l’hai offesa con libagioni non offerte?
Oltre i laghi essa incede,
oltre la terra, sui vortici d’acque
del salso mare.

ant. b
O il tuo consorte, il capo
degli Eretteidi, nobile di stirpe,
lo signoreggia un amore segreto,
lo sottrae al tuo letto, nel palazzo?
o un navigante salpato da Creta
è giunto al nostro
porto ospitale
con notizie per la regina:
e l’anima è inchiodata al letto
per il dolore e l’angoscia?

ep.
Convive, di solito, con la difficile natura
delle donne una triste infelice debolezza
di travagli e vaneggiamenti.
Ha attraversato anche me, il mio grembo
questa tempesta. E invocavo
Artemide celeste, signora dell’arco, protettrice
dei parti; io la venero, tanto,
ed essa, grazie a Dio, accorre da me, sempre.
Ma guarda lì davanti alla porta la vecchia nutrice: sta accompagnando fuori dal palazzo la padrona. Che volto tetro,
rannuvolato ha la regina. E io desidero sapere, con tutta l’anima, che cosa l’abbia distrutta, perché sia così pallida.

Euripide

Da Euripide, Ippolito, ed. digitale a cura di Patrizio Sanasi. Liberamente disponibile presso il sito web https://spazioinwind.libero.it/latinovivo/Testintegrali/Ippolito.htm

Agamennone

Il brano antologizzato è tratto dalle ultime pagine dell’Agamennone di Eschilo, una tragedia greca rappresentata nel 458 a.C, insieme ad altre due tragedie (che, insieme con la prima, compongono la trilogia dell’Orestea) e ad un dramma satiresco. Cassandra ha previsto la morte propria e del re “pastore dei popoli” Agamennone per mano della regina Clitemnestra (o Clitennestra), con la complicità dell’amante Egisto. La morte dei due si consuma fuori scena, secondo la consuetudine del teatro tragico attico.

CASSANDRA

Ahi, ahi, la fiamma, eccola! Mi assale! Apollo Liceo, a me, a me! Leonessa a due gambe, a letto col lupo, mentre il  leone gagliardo è lontano. Lei mi abbatterà: ah, mio tormento. Come preparando filtro di morte, mischierà alla vendetta  la mia parte di paga. Affila la lama per lui, il suo uomo. La morte – di questo si vanta – sarà giusto compenso per avermi  condotta sin qui. Perché vi ho ancora indosso, scettro, fasce profetiche sulle spalle? Perché si rida di me? Vi spezzo, io  stessa prima dell’ora fatale. Distrutte vi voglio. Nella polvere, ecco come io vi ripago. Un’altra al mio posto fate ricca di  strazio. Guardate, la mano stessa di Apollo mi strappa il velo oracolare. Prima posava l’occhio superbo su me che così  abbigliata ero esposta alle beffe di tutti: amici, nemici, perfetto equilibrio di scherno… “E mi adattavo al nome ormai  consueto: Ciarlatana!” rifiuto umano, in giro ad accattare, miserabile morta di fame. Per finire, il mago che m’ha fatta  maga, lui m’ha trascinata a questa vicenda di morte. Non l’altare – nella casa paterna – ma il tronco del boia mi aspetta,  scarlatto di tiepido sangue dal mio capo reciso. Cadremo, ma non senza castigo di mano divina. Sarà qui uno a  vendicare, germoglio matricida, esigerà il saldo per l’assassinio del padre. Lui, fuggitivo, cacciato lontano in esilio, è  ormai di ritorno: pronto a incorniciare con l’ultimo fregio l’avito edificio di colpe. Saldo patto hanno giurato gli dèi. Lo  spingerà il gesto implorante del padre steso al suolo. Perché questo abisso di pianto? Ho forse pietà di me stessa? Ho  visto, all’inizio, compiersi il fato di Troia. Ho visto i suoi vincitori uscire in questo stato dal divino giudizio. Perciò mi  avvio, voglio il mio destino: patire la morte! Cassandra volge lo sguardo al portale del palazzo. E ora a te, mia porta  dell’Ade: ti saluto. Mi tocchi un colpo preciso, lo supplico. Senza scarti d’agonia – fiotti, torrenti di sangue per una morte soave. Così possa chiudere gli occhi.

CORO

Quanto devi patire, donna di alto sapere! Hai detto molto. Ma se realmente conosci la tua fine fatale, perché questo  strano coraggio, questi passi verso l’altare, come vittima rapita dal dio?

CASSANDRA

No, ospiti, non c’è salvezza neppure tardando.

CORO

È impagabile l’ultimo istante.

CASSANDRA

La mia ora è qui: fuggendo guadagno ben poco.

CORO

Attingi coraggio dal tuo animo prode. Sappilo.

CASSANDRA

Chi ha sorte felice non ode simili frasi.

CORO

Una morte illustre affascina gli uomini.

CASSANDRA

O padre! Te, e i tuoi nobili figli!

CORO

Cos’hai? Quale spavento ti strappa indietro?

CASSANDRA

Ahimè!

CORO

Perché questo “ahimè”? Brivido d’orrore, dentro?

CASSANDRA

Sfiata assassinio la casa, gronda cruenta.

CORO

Come può? È aroma di offerte votive, dai focolari.

CASSANDRA

Si distingue come un respiro di tomba.

CORO

Non c’è incenso d’Oriente là dentro, a tuo dire!

CASSANDRA

Parto. Ululerò ai trapassati il mio fato e quello di Agamennone. Sia finita qui. Ah stranieri! Grido: non di spavento –  uccello a un’ombra di fronda – ma perché di tutto questo, dopo la fine, mi siate testi fedeli, nell’ora che una donna, a  saldare la mia morte di donna, cadrà, e un uomo dovrà morire, in cambio di un uomo cui fu fatale la sposa. Pensate che  sto per morire. Fatemi questo dono ospitale.

CORO

O tu che soffri, ho pena del fato che tu stessa t’annunci.

CASSANDRA

Ancora una volta voglio dire parole distese, non cantilene di lutto, per la mia morte. Davanti a quest’ultima luce di sole,  io chiedo ai vendicatori del re che facciano scontare ai nemici anche la mia uccisione, di me morta schiava, vittima  disarmata. Vicende terrene! Prospere, e basta un’ombra a travolgerle: se la sorte è ostile, una passata di spugna stillante,  e il disegno è perduto. Questo mi fa piangere, molto più di tutto il resto. Cassandra entra nella reggia. 

CORO

Hanno nel sangue gli uomini

fame implacabile di felicità.

Nessuno di quelli che la gente

già mostra col dito, vuole

vietarle l’entrata, scacciarla

dal proprio palazzo, gridando

“Non avvicinarti, mai più.”

A quest’uomo i beati donarono

di vincere la terra di Priamo,

e torna alla patria

pieno di onori divini.

Ma ora, se deve saldare il sangue

di chi l’ha preceduto,

se per quelle morti antiche

morendo lui stesso compie

espiazione di altri assassinii,

quale uomo, che sappia la storia,

può dire di essere nato

all’ombra di un destino innocente?

Dall’interno della reggia, laceranti, esplodono voci di dolore. 

AGAMENNONE

Aaah! Ho dentro, m’inchioda colpo preciso.

CORO

Silenzio. Chi grida, trapassato da colpo preciso?

AGAMENNONE

Altra fitta, orrenda! Due colpi ho in corpo.

CORO

L’azione è conclusa: quest’ululo del re me lo fa sospettare. Amici, scambiamoci i pareri sicuri. Vi dico quel che penso:  far gridare in città che si corra alla rocca.

Per me, scattare subito dentro, smascherare il delitto con evidenza di lama appena estratta. Ecco il mio voto, su cosa decidere: mi associo a questo consiglio. Non è ora d’indugi.

Apriamo gli occhi. Queste sono le prime battute, indizi di tirannide, di ciò che stanno preparando allo stato. Troppo tardi: loro schiacciano sotto i piedi il decantato “pensaci bene”! Intanto la mano è ben sveglia. Non so quale miglior consiglio dare: l’agire esige riflessione attenta, …

Sono dalla stessa parte: non ho il mezzo di far risorgere l’ucciso a parole.

Dunque, salvare la vita. E per questo, chinarsi ai padroni che sono infamia alla casa?

No, non si può tollerarlo. Meglio la morte, è più dolce che subire i tiranni.

Come indizio c’è l’urlo del re. Ci basta per crederlo ucciso?

Vediamoci chiaro, poi venga pure lo sdegno. Indovinare, ed essere certi: c’è differenza.

Per me, prevale questo parere, e l’approvo: sapere con certezza la fine dell’Atride.

Lento, si spalanca il portale della reggia. Dentro, tre figure. Riverso in una conca lucente, avvolto in un largo drappo  chiazzato di sangue, il corpo di Agamennone. Accanto, abbattuta, Cassandra. Li sovrasta – l’arma è ancora in mano –  Clitennestra, superba. 

CLITENNESTRA

In passato molte parole ho detto sfruttando un’occasione: ora, non avrò scupoli a smentirle. Come può, uno, tramando  ostili colpi a gente ostile che si presenta con la faccia amica, gettare rete di sventura, altezza che nessun balzo varca? Da troppo tempo non mi usciva dalla mente questa gara di morte. Ora il premio della lotta, la vittoria: tardi, ma alla fine è  giunta! Qui mi ergo, dove vibrai l’arma, dove ho saldato il mio impegno. Ho agito, ho avuto successo, non voglio  celarlo: né scampo per lui, né riparo al colpo fatale. Un volo di rete, inestricabile – come a una mattanza – e lo ingabbio,  sfarzo doloroso di stoffe. Io due squarci. Due rantoli, lui, fascio di membra snervate, lì al suolo. È steso. Un terzo colpo  gli assesto. Grato ossequio a Zeus dell’abisso, patrono dei morti. Sfoga l’anima crollando – una boccata precipitosa di  sangue e spira. Mi schizza di fosche stille – velo di rugiada scarlatta che mi fa lieta, come la semente del grano, quando  nel pieno sbocciare dei chicchi s’ingemma del rorido dono del cielo. Questi gli eventi, degna nobiltà di Argo. Esultate se vi piace. Io me ne glorio. Se mai fosse buon momento per libare su un ucciso, ora sarebbe giusto, legittimo, anzi.  Quest’uomo ha colmato il calice di troppi crimini, qui nella reggia: al suo ritorno gli è toccato svuotarlo.

CORO

Ci scuote la tua lingua sfacciata, questa voce superba contro lo sposo.

CLITENNESTRA

Mi state saggiando: quella donna insensata, pensate. Io però con cuore immoto mi rivolgo a gente che intende. Tu mi  assecondi, sei disposto? Mi critichi? È lo stesso. Ecco Agamennone, sì mio marito. Morto. Colpo di questa abile mano,  autrice di vendetta. Questi i fatti.

CORO

str. I 

Regina, che tossico frutto della zolla

inghiottisti, che filtro stillato

dall’onda salmastra

per commettere l’assassinio?

Per spezzare, troncare

l’imprecazione che sale dal paese?

Sarai fuorilegge, sotto un carico d’astio

ti schiaccerà la tua gente.

CLITENNESTRA

Adesso tocca a me fuggire il paese, affrontare l’astio, la pubblica esecrazione: così tu ora sentenzi. Non facesti contrasto in passato a quest’uomo. Lui, senza scrupolo – non conta la morte di un’agnella, quando il pascolo trabocca di mandrie  ricciute – immolò la sua figlia, frutto doloroso e adorato del mio parto. Doveva affascinare, in Tracia, il calo di vento. A  lui no, non toccava l’espulsione da questo paese, a fargli scontare il crimine osceno. Alle mie azioni, invece, tendi le  orecchie, e ti fai giudice senza pietà. Ora ascolta. Limita le minacce, potrai darmi ordini, ma solo piegandomi con le tue  mani: io, per me, sono pronta, da pari a pari. Régolati. Certo, se dio decide l’opposto, apprenderai la dura lezione di un  tardivo equilibrio di mente.

CORO

ant. I 

Sei spavalda di cuore

e alzi la voce arrogante.

Delira il tuo spirito

per il cruento colpo di fortuna.

Ombra fosca di sangue

– la vedo – ti scintilla negli occhi.

Hai vuoto d’amore, intorno:

devi espiare il colpo con colpo di risarcimento.

CLITENNESTRA

E tu considera la santa base dei miei giuramenti: su Equità che rese giustizia a mia figlia, su Perdizione punitrice divina, su Erinni, cui dedico quest’uomo scannato, mai varcherà la mia soglia il brivido della paura, finché attizzi il fuoco nel  mio braciere Egisto, pieno d’affetto, come sempre in passato, per me. È lui scudo non piccolo del mio franco ardire.  Eccolo, steso, colui che schizzò fango su questa donna, l’incanto delle Criseidi, laggiù sotto Troia. E guarda, ecco la  preda di guerra, la veggente, la profetessa d’oracoli che spartì il letto con lui. Che amica fedele di letto, ora, guardali!  Come quando si stendevano insieme sul ponte delle navi! Non è salato il conto, di quei due. Lui, giace così come vedi.  Lei, modulò la nenia estrema dell’agonia – un cigno, pareva. Eccola stesa con lui, a fare l’amore. Me la porse lui, il mio  uomo, ghiotto contorno al mio godere!

Eschilo

Fonte: eschilo_agamennone