Un tunnel psicanalitico mitteleuropeo

Un’opera che rappresenta un viaggio personale e al tempo stesso storico, popolata da un dedalo di personaggi testimoni della complessità e delle atrocità del ventesimo secolo.

Un uomo rimasto solo al mondo si rivolge a una chiromante per entrare in contatto con il padre e il fratello defunti. La truffatrice lo imbroglia, sottraendogli tutti i beni, ma il protagonista riesce a rifarsi una vita in capo a cinque anni di duro lavoro. L’11 agosto 1999, assiste all’ultima eclissi solare del millennio. Poi ricorre alla psicanalisi.

È quasi dadaista, la trama di ‘Nel regno oscuro’ di Giorgio Pressburger. Il lettore che vuol affrontare il libro deve accettarne il plot caleidoscopico, degno delle scale di Escher. Per dare almeno una dimensione quantitativa della complessità di quest’opera, si tenga conto che in 330 pagine si ammassano ben 902 note. Viene in mente, a tratti, il ben più lineare ‘La malattia chiamata uomo’ di Ferdinando Camon, e il collegamento non dev’essere casuale, considerato che si tratta di due scrittori mitteleuropei, dunque provenienti della koinè che ci ha dato anche Svevo, Freud e Basaglia.

Non è questa, però, la sede nella quale indagare le complesse ragioni per le quali l’ex ombelico del mondo ha prodotto – durante la sua crisi epocale, che chiude non solo l’impero asburgico ma il predominio europeo sul pianeta – una fioritura culturale così ombelicale, lo studio tanto appassionato del sé e delle sue contraddizioni. Limitiamoci a segnalare, a chi ne fosse attratto, quest’opera nella quale il Novecento prende la forma di un inferno dantesco, popolato da persone imprigionate, uccise, torturate, suicide, sofferenti. Un tunnel che però prelude a una uscita insperata: il protagonista si avvia lentamente verso la guarigione, intravedendo nell’ultima seduta psicanalitica i suoi cari scomparsi.

Chi abbia una anche minima dimestichezza con tali questioni, sa bene che si tratta di un messaggio di straordinario ottimismo, anche se (anzi: proprio perché) in calce a un’opera tanto cupa, rispetto a una casistica reale che vede spesso i percorsi analitici non approdare a nessun risultato concreto.

Marco Ferrazzoli

Giorgio Pressburger, “Nel regno oscuro” (Bompiani, 2008)

https://www.bompiani.it/catalogo/nel-regno-oscuro-9788845261602

La grande poesia di Piersanti, tra natura e malattia

Nostalgia e ricordo, dolore di un padre e incomunicabilità di un figlio: i sentimenti profondamente autentici, tracciati dalla penna dell’autore in una emozionante raccolta poetica.

Capita raramente di imbattersi in un libro di poesia che, come “L’albero delle nebbie” di Umberto Piersanti, ci riavvicini alla grande sorgente classica e alla non meno grande tradizione otto-novecentesca italiana. Una poesia in cui si colgono echi di Ovidio, Pascoli, Carducci… una volta per una citazione, un’altra per lo stile o per il tema: ma tutto questo senza che si profili mai l’ombra del plagio, al contrario, in una rielaborazione personalissima, intima nell’afflato e nel ricordo eppure oggettiva fino al cinismo nella descrizione della realtà.

I temi affrontati nel libro sono due: le Cesane che hanno fatto da sfondo ad altri libri di Piersanti e il figlio Jacopo, malato di un’incomunicabilità inaccessibile anche per i suoi affetti più vicini. Nei versi più legati alla terra natìa, la particolare campagna appenninica del Montefeltro, l’autore si dispiega in una serie di indicazioni e descrizioni storiche, famigliari ed ambientali: dalla guerra ai riti domestici, fino alla dolce litania di specie animali e vegetali. E’ soprattutto nel paesaggio che il ricordo reale si fonde con un immaginario evocativo, profondamente nostalgico. Nella parte dedicata al figlio, invece, emerge lo strazio di un padre impotente che pure trova, dentro la propria sofferenza, la forza e la ragione sufficienti per vivere. I due temi, poi, si mescolano progressivamente, fino quasi a rincorrersi l’un l’altro nella terza parte del libro.

E’ davanti a opere come queste che si spiega come Piersanti abbia ottenuto una candidatura al Nobel per la letteratura.

Marco Ferrazzoli

Umberto Piersanti, “L’albero delle nebbie” (Einaudi, 2008)

L’informatico che sapeva troppo (presto)

Un saggio ”romanzato” sulle vicende della breve e straordinaria vita di Alan Turing, le cui intuizioni non smettono di sorprendere, anche dopo decenni, e di rivelare nuove strade per la scienza.

Il binomio genio-sregolatezza, forse follia, affascina sempre. Quello tra un grande scrittore e un grande personaggio realmente esistito, pure. Ecco dunque due buone ragioni per farsi vincere dal saggio, forse anche un po’ romanzo, che David Leavitt ha dedicato ad Alan Turing: “L’uomo che sapeva troppo”, titolo volutamente allusivo alla giallistica, che la copertina (una cornetta telefonica che penzola misteriosa) rimarca efficacemente. Turing è l’uomo che ha inventato il computer o, meglio, che lo ha intuito, lo ha precorso, gettando le basi dell’intelligenza artificiale quando ancora i pc erano molto lontani. Tra le altre cose, tanto per dare un’idea della sua statura intellettiva, Turing durante la Seconda guerra mondiale riuscì a violare il celeberrimo codice Enigma, creato dai tedeschi per le loro comunicazioni cifrate. Sospettato di attività sovversivo-spionistiche, accusato di atti osceni e omosessualità, suicidatosi in età ancora giovanile e in ‘circostanze misteriose’, tanto per usare una espressione tipica del noir, Turing è insomma un uomo la cui storia ha molte ragioni di attrattiva. E che ha colpito un maestro della letteratura americana come Leavitt, critico e storico nonché romanziere (tradotto in Italia da Mondadori), il quale ce ne rende la vicenda in uno stile asciutto, reso in modo molto pulito dalla traduzione di Carolina Sargian.

Marco Ferrazzoli

David Leavitt, “L’uomo che sapeva troppo” (Codice, 2007)

https://www.codiceedizioni.it/libri/alan-turing-l-uomo-che-sapeva-troppo/

Quando un medico si vergogna di visitare

L’autore ci conduce in una riflessione sulla relazione tra medico e paziente e sulla capacità, che è quasi una forma d’arte, di identificare cause e cura di un disturbo.

Come mai decine di dottori possono visitare un paziente senza scoprire né la causa dei suoi mali, né tantomeno la cura, e poi un medico riesce a identificare entrambe? Solo perché è più bravo, cioè più preparato diagnosticamente e terapeuticamente, oppure è questione di fortuna, di casualità, di esperienza specifica nella patologia?

Il mistero rimane irrisolto anche dopo la lettura di “Come pensano i dottori” di Jerome Groopman, che però è estremamente interessante per comprendere l’atteggiamento speculare, e spesso analogo, che chi si occupa della salute altrui per mestiere prova davanti alla nostra ansia di tornare a stare bene. Alcune pagine del diario di questo professore della Harvard Medical School – con esperienze anche a Boston, molte pubblicazioni scientifiche e alcuni saggi divulgativi alle spalle – ricordano quelle di Michail Bulgakov, lo scrittore che ebbe la sua prima esperienza professionale come medico condotto, in una desolata landa della Russia stalinista: “Dopo anni di studi ecco la mia reazione di fronte a un malato in carne e ossa: testa vuota e piedi incollati al pavimento”, confessa Groopman ricordando la sua prima notte di guardia. E, con lo stesso candore, ammette altri errori commessi per distrazione, imperizia o addirittura pudore: “’Per oggi basta così, gli avevo detto. Ma non bastava affatto. Avevo tralasciato di chiedergli di girarsi per ispezionargli le natiche e il retto”.

C’è da dire che l’eccesso di confidenza e abitudine che insorge con l’esperienza porta al rischio di errori esattamente come l’inesperienza iniziale. Ecco dunque spiegato come si possa arrivare al caso, narrato nell’introduzione, di Anne Dodge, giunta alla soluzione dei suoi problemi dopo essere stata visitata e curata da ben 30 dottori nell’arco di 15 anni.

Marco Ferrazzoli

Jerome Groopman, “Come pensano i dottori” (Mondadori, 2008)

https://www.mondadoristore.it/Come-pensano-i-dottori-Jerome-Groopman/eai978880457768/

Il signor Parkinson, inquilino abusivo

L’autobiografia dell’incontro tra lo psicologo D’Antuono e il signor P. svela la malattia e la sottrae allo stigma del silenzio.

Tra le descrizioni della malattia come invasione fisica del nostro corpo, resta insuperato l’incipit de “Il cancro” di Giorgio Gaber: ‘E ti lasciano libero / con questa cosa dentro / con quel milione di molecole / che non ti ubbidiscono più’. “L’inquilino dentro” utilizza la stessa metafora, in modo però più leggero.

L’autore, Francesco D’Antuono, è uno psicologo che è stato colpito a soli 35 anni dal Parkinson, morbo che nella descrizione letteraria realizzata con il giornalista Giovanni Piazza diventa un occupante abusivo, il quale ‘si è impadronito della parte migliore del condominio’, cioè l’attico e l’impianto elettrico, il cervello e la dopamina. Il protagonista decide però di incontrare il ‘signor P’, di affrontarlo e combatterlo, usando come arma principale l’umorismo, l’ironia, talvolta un sarcasmo che appare persino eccessivo e imbarazzante per il lettore: ‘Come shakero i cocktail, nemmeno Tom Cruise’.

È però senz’altro condivisibile l’obiettivo generale del racconto, cioè svelare questa patologia senza infingimenti, poiché è proprio dal suo riconoscimento pubblico che nasce la possibilità per il malato di mantenere la propria dignità. Fondamentale, in tal senso, la testimonianza di Giovanni Paolo II: ‘I suoi predecessori avrebbero cercato di mascherare la faccenda, magari apparendo in pubblico il meno possibile. Lui invece l’ha mostrato urbi et orbi’; ‘Non so ancora come, ma qualcosa mi dice che ha steso il suo signor P. con quella manata data al leggio durante l’ultimo Angelus’. Essenziale è anche ricordare – come il libro fa, grazie ai contributi di alcuni medici – che il morbo di Parkinson è una malattia molto compromettente, ben al di là della sintomatologia più nota del tremore, e le sempre migliori prospettive che la ricerca offre oggi ai malati.

Marco Ferrazzoli

Francesco D’Antuono, Giovanni Piazza, “L’inquilino dentro” (Aracne, 2008)

http://www.aracneeditrice.it/aracneweb/index.php/pubblicazione.html?item=9788854819399

In viaggio con Camon nella psicanalisi ‘ideologica’

Un romanzo che rappresenta un viaggio nell’inconscio di un uomo, attraverso il racconto del suo percorso clinico di analisi, e al tempo stesso fornisce una testimonianza storica e culturale della fine del ‘900.

Garzanti descrive “La malattia chiamata uomo”, in questa nuova edizione, come ‘la storia, forse raccontata per la prima volta dall’interno, di un’analisi’. Una presentazione forse eccessiva, solo che si pensi intanto a “La coscienza di Zeno” e soprattutto all’insuperato, per il coinvolgimento quasi empatico del lettore, “Le parole per dirlo” di Marie Cardinal. Detto ciò, l’operazione editoriale resta quanto mai opportuna: il romanzo di Ferdinando Camon uscito nel 1981, tre anni dopo quel “Un altare per la madre” che gli valse il premio Strega, non accusa il tempo ma anzi si afferma come una sorta di documento storico. Sia dal punto di vista narrativo, ad esempio nei riferimenti alla valuta in lire o nella descrizione dei viaggi notturni in treno, sia soprattutto nelle descrizioni delle esperienze di analisi intraprese.

Il romanzo è un ‘viaggio nell’inconscio di un uomo, fin là dov’è sconosciuto anche a se stesso e alle sue donne’, che si snoda per tappe penose e irritanti insieme, surreali e soggettive quanto concrete e reali. C’è il terapeuta autorevole che fuma incessantemente durante la seduta, del quale si avvertono effluvi e gorgoglii gastrico-intestinali e che, alla fine, non rilascia la ricevuta per l’intero importo, ridendo apertamente della propria afferenza al popolo degli evasori fiscali. Non manca il guru carismatico che maltratta i suoi pazienti, con plateali quanto soggettive discriminazioni, in uno sconcertante rapporto stoccolmiano.

Si tratta certo di figure che appartengono a un’analisi molto legata a quell’epoca fortemente ideologizzata, in senso sia freudiano sia politico. Oggi Camon, riscrivendo il libro, probabilmente tratteggerebbe i nuovi terapeuti ‘light’, i consulenti improvvisati, i taumaturghi pret-à-porter, ma al fondo resta la medesima, importante problematica di una professione dalle delicatissime implicazioni, spesso affrontata con molta prosopopea e scarsa professionalità. È fornendoci quest’importante spunto di riflessione che “La malattia chiamata uomo” dimostra la sua attualità. Confermata da alcune considerazioni dell’autore che mantengono intatta la loro validità: ‘La sostituzione del cuore naturale con un cuore artificiale’, scrive Camon, ‘questo è l’evento più grave della nostra storia negli ultimi decenni. Il fatto che nessun giornale lo nota, e tutti parlano di altri mali, è come se, al capezzale di un infartuato, i medici si preoccupassero anzitutto delle sue emorroidi’. Come suol dirsi, sembra scritta ieri.

Marco Ferrazzoli

Ferdinando Camon, “La malattia chiamata uomo” (Garzanti, 2008)

https://www.garzanti.it/libri/ferdinando-camon-la-malattia-chiamata-uomo-9788811683568/

L’ossimoro della malattia cronica

La forza della medicina narrativa in un libro la cui protagonista, convivente con la sclerosi multipla, si trova ad essere al tempo stesso medico e paziente.

Silvia Bonino è una psicologa, già autrice di numerosi saggi, che a un certo punto della sua esistenza si è trovata vivere la malattia dall’altra parte della barricata, quella del paziente, e che in tale duplice veste ha cercato di fare in modo che il malato e il terapeuta collaborassero ad affrontare insieme il terribile percorso della sclerosi multipla. Il nome della malattia viene a dire il vero citato di rado e con discrezione, mentre è più presente nel saggio-racconto il concetto di “malattia cronica”, cioè non curabile ma neppure immediatamente mortale, che quindi costringe a un’inabilità pesante e prolungata. Una sorta di ossimoro, profondamente contraddittorio per una società salutista come l’attuale, in cui si immaginano soprattutto le condizioni estreme della forma perfetta o della malattia incurabile, accettando come stato intermedio solo menomazioni leggere e temporanee. E’ proprio il radicale cambiamento della propria prospettiva esistenziale che il libro della Bonino pone al centro dell’analisi, a cominciare dal suo impatto iniziale, che si traduce nella domanda senza risposta: “Perché proprio a me?”. Molto condivisibile è, nell’autrice, la sua riflessione sulla impossibilità di trovare una vera ragione a un evento così eterodiretto – “Non avevo già pagato il mio tributo di sofferenza? Non avevo diritto a un po’ di serenità?” – e altrettanto profondamente giusta è la considerazione, ripresa dal diario di Etty Hillesum che costella di citazioni tutto il libro, che “non sono mai le circostanze esteriori” a minacciarci, ma la percezione interiore che ne abbiamo.

Marco Ferrazzoli

Silvia Bonino, “Mille fili mi legano qui” (Laterza, 2008)

https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788842079217

La vita: conoscere per giudicare

Dal genetista internazionale Edoardo Boncinelli, un vademecum completo e di grande chiarezza espositiva sui meccanismi dello sviluppo embrionale, fondamentale per affrontare con consapevolezza un tema delicato al centro del pubblico dibattito.

Edoardo Boncinelli, a lungo docente dell’Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano, ha condotto una lunga e prestigiosa carriera di genetista, che l’ha portato anche a lavorare a lungo al Cnr: prima borsista presso l’Istituto internazionale di genetica e biofisica di Napoli, poi direttore di ricerca del Centro per lo studio della farmacologia cellulare e molecolare.

Il grande pubblico, però, probabilmente lo conosce soprattutto per altre due attività importanti, quella di editorialista del Corriere della Sera e quella di autore di libri divulgativi.

In quest’ultima veste, Boncinelli ha dato alle stampe un saggio agile su “L’etica della vita”, un tema che insieme ad alcuni altri occupa il dibattito tra non specialisti e, dunque, rende quanto mai opportuno un minimo grado di diffusa e corretta informazione.

Il libro risponde a tale richiesta con un excursus molto completo ma di grande semplicità espositiva, grazie anche al glossarietto posto in appendice, che associa con grande equilibrio la descrizione asettica dei meccanismi genetici fondamentali e qualche incursione di carattere filosofico, inevitabilmente più soggettiva.

Ad esempio, ritornando alla propria primissima infanzia, l’autore fa coincidere identità e coscienza della persona: ‘Dal momento dei primi ricordi continuativi, io sono io’.

Siamo del resto in un terreno insidioso, dove anche l’affermazione apparentemente più innocua rischia di aprire dilemmi dilanianti, ma Boncinelli per la gran parte del testo offre soprattutto un prezioso servizio, fornendo sinteticamente gli elementi utili all’effettiva comprensione di termini ed espressioni di uso ormai corrente, quali ‘staminali embrionali’ o ‘diagnosi genetica pre-impianto’.

Il manualetto da un lato chiarisce meccanismi fondamentali dello sviluppo embrionale, senza contezza dei quali si rischiano nel giudizio deflagranti confusioni (pensiamo solo ai blastomeri e alla blastocisti); dall’altro lato, ci consente di ripescare qualche termine più piano ma sepolto tra le reminiscenze scolastiche, come gamete e zigote.

Un buon vademecum, insomma, se ci si vuol avvicinare al comunque non banale percorso della vita cellulare.

Il quesito finale, o fondamentale, di tutta la questione viene affrontato dall’autore nelle ultimissime pagine, dove si spiega che la diagnosi pre-impianto ‘sembrerebbe quindi il metodo ideale’ per impedire ‘la nascita di bambini gravemente malati’ evitando ‘il trauma dell’aborto terapeutico’, ma è disapprovata da chi considera il mancato impianto ‘come distruzione di vite umane’.

Analogo dilemma ‘squisitamente etico’ si pone su tutta una gamma di opportunità che la scienza sembra dischiudere in ordine alla durata, alla qualità e dunque alla ‘verità’ della vita.

Boncinelli, nell’ambito di questo dibattito, si sforza di lavorare per la comprensione tra le diverse posizioni, spesso abissalmente distanti.

Marco Ferrazzoli

Edoardo Boncinelli, “L’etica della vita” (Rizzoli, 2008)

La scheda sul sito dell’editore

I matti “creativi” di Stampa Alternativa

Due opere pubblicate nel trentennale della legge 180 del 1978, nota come legge Basaglia, in cui le protagoniste raccontano in forma di diario la propria esperienza di malattia mentale.

A breve distanza da “Tanto scappo lo stesso”, il “romanzo di una matta” di Alice Banfi, esce “La schizofrenia non esiste, e se esistesse io vorrei averla” di Gianna Schiavetti. Stampa Alternativa prosegue così, a ritmo incessante, in un filone narrativo nel quale si è affermata con un predominio quasi monopolistico: la diaristica dei malati o ex malati di mente.

I volumi, gran parte dei quali raccolti nella collana Eretica, sono connotati da elementi distintivi precisi: una titolazione battutistica e provocatoria, la cura o la prefazione di psichiatri di scuola basagliana (nei due casi citati Enrico Baraldi e Peppe dell’Acqua) e la tesi, o almeno l’impressione di fondo, che la follia possa essere considerata una visione alternativa della realtà, più o meno valida come quella ortodossa. In tale quadro, la pretesa della medicina di ricondurla ad un paradigma di salute oggettivo, si risolverebbe epistemologicamente – oltre che nella prassi terapeutica, come purtroppo accade spesso – in una coercizione della libertà mentale e della creatività dell’individuo.

Tale visione, molto romantica, si scontra però non soltanto con il vissuto di lacerante sofferenza che le patologie psichiche portano negli individui e nelle famiglie (elemento ben descritto anche nei libri di Stampa Alternativa), ma anche con una sintomatologia che non sempre è quella magari drammatica, ma scenografica, raccontate da queste storie. Spesso il disagio e la alienazione sociale si somatizzano con atteggiamenti depressivi e problematiche di asocialità di nessun fascino e di peso insopportabile.

Marco Ferrazzoli

Alice Banfi, “Tanto scappo lo stesso” (Stampa Alternativa, 2008)

Gianna Schiavetti, “La schizofrenia non esiste, e se esistesse io vorrei averla” (Stampa Alternativa, 2008)

Uccidere per pietà: quando l’handicap è la solitudine

Un libro doloroso, un dramma che testimonia le difficoltà dei familiari di persone portatrici di handicap gravi e sottolinea ancora una volta la necessità di investire sulle strutture sanitarie e sulla rete assistenziale.

Molti ricorderanno un caso che, pur nell’ormai quasi routinaria concitazione della cronaca nera domestica, ha colpito fortemente gli italiani che ne ebbero notizia: nel 2003 un borghesissimo medico romano uccise il figlio autistico, dopo l’ennesima giornata di vessazioni alle quali il ragazzo sottoponeva costantemente i genitori, nella totale solitudine familiare. Poco tempo dopo, relativamente ai tempi non fulminei della magistratura italiana, il padre, condannato per omicidio, veniva graziato dal presidente della Repubblica.

In questo libro che rievoca la storia della famiglia, basandosi soprattutto sugli appunti e sulle riflessioni disperate e dolenti dell’uomo, si intersecano numerosi piani di lettura. Uno, il più convincente, riguarda appunto la solitudine in cui vengono lasciate le famiglie degli handicappati gravi. Solitudine va qui inteso in un significato molto concreto e complesso: la forma autistica di Sergio, nato negli anni ’60, viene diagnosticata con un ritardo dovuto alla scarsa informazione del sistema sanitario italiano su questa patologia. Purtroppo, tale ritardo viene colmato, essendo la sintomatologia del bambino assai precoce ed eclatante, da una serie di valutazioni e terapie errate e costose. Ma anche dopo avere individuato che, purtroppo, Sergio soffre della forma più grave e aggressiva di questo ritardo mentale, l’appoggio delle strutture sanitarie pubbliche e private alla famiglia è irrisorio, spesso irritante e offensivo.

Molto meno convincente è la valutazione che l’autore de “Il mondo di Sergio” fa prendendo le mosse non dall’episodio dell’assassinio ‘per pietà’ ma dalla grazia concessa al padre dal Quirinale. Mauro Paissan estende infatti il concetto della pietà ‘pubblica’ alle richieste, spesso mosse in questi ultimi anni, di consentire l’eutanasia o il ‘suicidio assistito’ degli handicappati e dei malati incurabili. In realtà, l’esperienza di papà Salvatore e di sua moglie attestano che la morte non è il rimedio necessario, laddove si sollevino i cari dei malati dall’onere totale della cura e in particolare dall’angosciante domanda del ‘dopo di noi’: l’atto estremo raccontato nel libro avviene non tanto per l’esasperazione delle percosse, dei soldi dilapidati, della distruzione materiale e morale della casa, ma soprattutto perché il genitore si vede giunto a un’età nella quale la sua possibilità di accudire il figlio va esaurendosi, senza che le strutture prospettino all’ormai quarantenne Sergio una assistenza civile e dignitosa.

Marco Ferrazzoli

Mauro Paissan, “Il mondo di Sergio” (Fazi, 2008)