Vorrei che tu fossi qui

Un bestseller americano di Jodi Picoult racconta una storia fiction che forse non si discosta tanto dalla nostra realtà degli anni della pandemia


La vita di Diana O’Toole scorre su binari sicuri: si sposerà entro i trent’anni, avrà figli entro i trentacinque e dalla caotica New York si trasferirà in una tranquilla villetta nei sobborghi, il tutto facendo carriera nello spietato mondo delle aste d’arte. È sicura che il suo fidanzato Finn, specializzando in Chirurgia, le farà la proposta di matrimonio durante la fuga romantica alle Galápagos che hanno organizzato, pochi giorni prima del suo trentesimo compleanno. Giusto in tempo. Ma un virus che sembrava lontanissimo compare all’improvviso in città e, alla vigilia della partenza, Finn le dà una brutta notizia: non può assentarsi dall’ospedale. Così, a malincuore, Diana decide di partire senza di lui: chi rinuncerebbe alla prospettiva di una spiaggia assolata su un’isola esotica? Ben presto, però, si ritrova in completa solitudine in un luogo remoto, e quella che doveva essere una vacanza da sogno si trasforma in un incubo. Ma a volte c’è bisogno che vada tutto storto perché alla fine tutto si risolva nel migliore dei modi…
Dall’autrice bestseller Jodi Picoult un nuovo, appassionante romanzo che ha dominato le classifiche di vendita americane. Presto un film Netflix, Vorrei che fossi qui ci fa riflettere su quanto le nostre priorità possano cambiare e su come anche le certezze più salde possano essere stravolte.

Stefano Tummolini

Fonte: Fazi Editore

“La pandemia inglese di Johnson/Branagh”

THIS ENGLAND: miniserie fiction di Michael Winterbottom che racconta come l’Inghilterra ha vissuto gli eventi del Covid19

«Questa è un’opera di finzione basata su eventi reali». L’opera è “This England”, miniserie in 6 parti, che il 30 settembre arriva su Sky e in streaming su Now (due puntate a settimana). Gli eventi reali sono quelli che nel 2020 hanno stravolto il mondo.

Apocalisse. Vivere la catastrofe, immaginare il futuro

Durante la fase più acuta dell’epidemia da Covid-19, gli studiosi dell’Istituto per la storia del pensiero filosofico (Ispf) del Consiglio Nazionale delle ricerche ha riunito nello Speciale “Pandemia. Osservatorio filosofico” una serie di contributi di natura umanistica sul tema. Qui il ricercatore Roberto Evangelista ripercorre l’approccio al tema della crisi nella storia.

Nel corso della sua storia l’umanità ha sempre attraversato crisi enormi. Ricostruire la memoria della civiltà umana vuol dire probabilmente ricostruire il filo delle soluzioni trovate, di volta in volta, per risolvere la possibilità della fine.

Una umanità senza strumenti, chiusa in mondi piccoli e spesso autosufficienti (ma meglio sarebbe dire, autistici) si scontrava facilmente con momenti critici. Difficile, per esempio, era immaginare che il grano falciato ricrescesse; difficile era immaginare la certezza di una discendenza; complicato era gestire la demografia. E se complessa poteva essere la tenuta dei costumi morali di una comunità, impossibile doveva sembrare gestire catastrofi naturali o sconosciute malattie. Non dobbiamo andare troppo lontano, per immaginare cosa può aver significato per le popolazioni precolombiane l’incontro con virus e batteri sconosciuti e portati dai conquistatori.

Spinoza, all’inizio del suo Trattato teologico-politico ci ricorda che se l’uomo potesse con certezza governare gli eventi e gli sconvolgimenti della natura, non sarebbe soggetto ad alcuna superstizione. Questo è vero, ma non significa che la razionalità e la conoscenza della natura sono gli unici strumenti che possono metterci in uno stato di sicurezza. Certo, conoscere la natura aiuta a prevenirne le insidie, ma nel frattempo che la nostra conoscenza aumenta e aumentando si scontra con nuovi e inimmaginabili dubbi, l’umanità ha dovuto, per non abbandonarsi al delirio della superstizione, trovare strategie di reazione che compensassero quella mancanza di conoscenza. Se a questo aggiungiamo, poi, che la conoscenza e il completo governo della natura non li raggiungeremo mai, ecco che evidentemente alcune strategie, diciamo superstiziose, continuano a mantenersi attive e a compensare la nostra conoscenza parziale delle cose.

L’umanità ha trovato una strada per reagire alle crisi: raccontarsi storie. Non bugie, proprio storie, miti, favole. Storie di riscatto, oppure di sconfitta, storie nelle quali si prefiguravano i problemi e le soluzioni di una crisi. Storie nelle quali potevano essere proposte le diverse possibilità, i diversi destini umani, per provarsi a scegliere, a immaginare e magari a costruire un futuro. A questi racconti venivano spesso accompagnate ritualità di diverso genere: rappresentazioni o feste collettive, che rendevano quel racconto operativo, ovvero funzionale a stringere la comunità e interiorizzare un certo tipo di messaggio.

La funzione più importante dei miti non veniva assolta dal contenuto della storia che veniva raccontata. La funzione più importante del mito era il racconto stesso, e la sua condivisione. Italo Calvino, nella sua introduzione a Fiabe italiane, ci ricorda che le fiabe sono vere, perché contengono tutto il catalogo dei destini umani e delle possibilità. Percorrere insieme questo catalogo, però, non voleva dire avere semplicemente una maggiore cognizione di quello che poteva accadere, e prepararsi al peggio. Non importa quanto le favole venissero credute vere, o quanto ci fosse di “materialmente” vero nel loro contenuto; ciò che importava, era rafforzare e confermare il legame sociale, perché questa era l’unica risposta che si poteva dare in assenza di altri mezzi. E non era una risposta banale, né semplice, né tantomeno inefficace. È probabilmente questo tipo di risorsa che in un certo momento ci ha garantito la sopravvivenza: la facoltà di immaginare un futuro anche nei momenti più difficili.

Reagire a una crisi che mette in discussione la nostra presenza come genere umano, ci ha permesso di costruire edifici culturali che hanno fondato le comunità e le società umane. E questo, probabilmente, fa la differenza tra la nostra specie e le altre.

Ma da un certo momento in poi, cambiano molte cose: entrano nuove abitudini, e altre vengono svuotate di significato. D’altra parte, La nascita della famiglia, della società civile e dello Stato di Engels ci ha già permesso di riflettere su quanto il passaggio da una società comunitaria a una società divisa in classi abbia reso l’edificio culturale uno strumento di dominazione: il passaggio da una società matriarcale e comunitaria, a una società patriarcale e suddivisa in dominanti e dominati ha imposto una strutturazione dello Stato, con regole ferree a garanzia delle quali venivano posti sacerdoti o magistrati che amministravano la giustizia divina e umana, funzionale soprattutto a mantenere uno status quo non del tutto naturale.

Rimanendo, però, più ancorati al nostro tempo, ritroviamo, nei lavori principali di Ernesto De Martino (al quale queste righe sono fortemente debitrici) una inoppugnabile ricostruzione della resistenza di istituti culturali propri del mondo popolare e contadino, e del loro essere rivelatori di una posizione di subalternità di chi si trovava ai margini del “miracolo economico”. A fondamento di questo riferimento, c’è l’introduzione di un modo diverso di produzione che ha sconvolto i rapporti sociali. La fine della civiltà feudale e l’alba del mondo borghese ha significato la possibilità di una produzione su larga scala di beni essenziali che precedentemente venivano reperiti e fabbricati con molta difficoltà, e ha anche permesso la liberazione da alcune forme culturali che erano diventate una pesante zavorra, non solo per il nostro spirito.

La diversa organizzazione del lavoro produttivo ha significato un avanzamento scientifico, e questo ci ha permesso di prendere in considerazione l’ipotesi che le forze numinose che guidavano l’umanità produttrice di miti non ci avrebbero più salvato, perché questa incombenza spettava a noi (bisogna riconoscere, senza poter approfondire, che anche il cristianesimo ha avuto un ruolo in questo passaggio). La natura è diventata a mano a mano governabile, e allo stesso tempo gli dei e gli eroi dei miti sono caduti, si sono rivelati per essere solo proiezioni dell’essere umano. Si è avanzata la sottile percezione (non sempre, anzi quasi mai seguita da un atteggiamento coerente) che il peso del nostro destino fosse solo sulle nostre spalle. Ma questa consapevolezza, invece di arricchirci, ci ha in qualche modo impoverito. La distruzione delle vecchie certezze non ci ha permesso di crearne di nuove, e ci siamo trovati di fronte a due vicoli ciechi: ripercorrere le vecchie strade, oppure affidarci a una scienza anonima e senza volto.

Ma la scienza, da sola, non basta. Certo, la nostra vita è migliorata sotto molti aspetti. Ma questo miglioramento nella maggior parte dei casi è solo potenziale. L’uso che facciamo della scienza e della nostra capacità di governare gli eventi è del tutto sottostimato, tanto più che l’accesso al benessere che molte conquiste scientifiche rappresenterebbero è ben lontano dall’essere comune e condiviso. Questa “preclusione al progresso” ci getta in una condizione di miseria culturale, nella quale abbiamo abbandonato il vecchio modo di descrivere la realtà e di risolvere i conflitti comuni, ma non ne abbiamo trovato uno altrettanto efficace, o adeguato alle sfide che sono diventate probabilmente più complesse.

Lo capiamo meglio, se guardiamo a come abbiamo reagito alla pandemia da Coronavirus. Bisogna, per descrivere la nostra reazione, guardare alle immagini giuste. L’eccezionalità dell’evento che in poco tempo ci ha fatto precipitare in una condizione impensabile, ha prodotto un sovraccarico di significazione, per cui qualsiasi episodio, passaggio, parola, ha assunto o sembra assumere il valore di un simbolo. Proverò a fare una selezione di alcune immagini che ho trovato particolarmente significative.

La prima: gli scaffali dei supermercati pieni, a dispetto dei primi “assalti” alle provviste. La merce non manca, anzi per ora (tranne le mascherine e i disinfettanti per le mani) non sono spariti dal mercato i beni di prima necessità. Il problema, ma questa è storia vecchia, è che di merce ce n’è troppa rispetto a quella che si consuma, tanto che ogni giorno assistiamo alla distruzione di merci invendute. La nostra apocalisse si rappresenta così: l’impossibilità di consumare, o almeno di farlo ai ritmi precedenti. Il mercato online non ci soddisfa allo stesso modo, ma soprattutto abbiamo imparato a consumare in casa, in solitudine, togliendo alla valorizzazione della merce l’ultimo aspetto umano. La seconda: i senzatetto di Las Vegas, “parcheggiati” (letteralmente) negli spazi destinati ad automobili che invece si trovano al sicuro e al riparo dentro un garage. La terza (più che un’immagine, un racconto): una minuta domestica di Rio de Janeiro, che affronta un lungo viaggio per raggiungere il suo posto di lavoro. La famiglia presso la quale presta servizio, vuole che riprenda subito a lavorare nonostante loro siano tornati da un viaggio in Italia proprio nei giorni in cui sono emersi i primi casi di infezione da coronavirus. I suoi datori di lavoro hanno contratto il covid ma – potendo accedere a cure migliori – guariranno facilmente; la domestica, invece, ne morirà. La quarta: una donna ucraina che, per affermare la sua esistenza, inizia a urlare e si stende in strada. Abita a Napoli in zona “Fontanelle”, un quartiere molto popolare del centro storico, e da qualche giorno il marito lamenta i sintomi di una infezione da covid e aspetta invano che qualcuno venga a dare assistenza e a somministrare il tampone per determinare la positività al coronavirus. Questa immagine la trovo particolarmente significativa, perché ricorda le reazioni scomposte di fronte alle quali si trova Ernesto De Martino nei suoi viaggi nel meridione italiano, quando vede un mondo popolare letteralmente prigioniero di forme culturali del tutto fuori tempo, che provengono da un passato preindustriale, ma che non servono più a risolvere le crisi ricorrenti (lutti, magri raccolti, espropri e pignoramenti, epidemie di malaria etc.) di un mondo che evidentemente non aveva accesso ai “normali” standard di benessere. La ritualità arcaica che De Martino trova nelle comunità lucane e salentine, nella maggior parte dei casi, è priva di veri e propri riferimenti culturali e, più che una soluzione adottata da una comunità per ristabilire un legame sociale, assomiglia a un delirio privato o collettivo che riflette un disagio destinato a rimanere inespresso, perché si ritrova svuotata dei miti che ne accompagnano la ritualità.

Oggi, di fronte alla crisi, abbiamo pochi strumenti di riscatto, perché anche quelli della scienza risultano molto inefficaci. Se da una parte, non abbiamo strumenti culturali potenti (anche la religione in questo frangente sembra essere arretrata a uno strumento privato, e non ha invaso la sfera civile, come invece avvenuto in altri momenti storici), se siamo disposti a considerare più che plausibile l’inesistenza di forze divine a cui appellarci, se la scienza si è spesso sostituita al mito – assumendone alcune funzioni narrative, certamente -, dall’altra non siamo stati in grado di compensare questa “perdita”.

La realtà è che siamo arrivati a questa emergenza privi degli strumenti adeguati per risolverla, e questo basta a gettarci in una condizione di miseria culturale. Un terremoto, a prescindere dalla sua violenza, fa più danni se trova un territorio preparato alla catastrofe. Allo stesso modo, un virus che non ha una impressionante letalità, diventa una catastrofe generalizzata, perché trova una comunità che ha messo in secondo piano la solidarietà, l’investimento a fondo perduto nei servizi sanitari, e che ha creato tutte le condizioni materiali per soccombere a una disgrazia che di per sé non sarebbe stata catastrofica. Ma oltre a questo, l’avanzamento del progresso scientifico non si è accompagnato a una riorganizzazione dei rapporti sociali in senso stretto, anzi al contrario: è prevalsa l’illusione che l’automazione e il progresso potessero permettere a ciascuno “di fare da sé”. Abbiamo accettato (ma non poteva essere diversamente) di trasportare nella nostra vita quotidiana la condizione di individui assoluti, sciolti da ogni vincolo morale e sentimentale, che la civiltà borghese ha contribuito a spazzare via. Lo abbiamo accettato come società, ma questo non significa che lo abbiamo accettato tutti allo stesso modo (tentativi di controtendenza esistono, ma su questo diremo nelle conclusioni). Perdere il nostro legame sociale ha avuto un ruolo importante nel farci accettare le misure di confinamento come un provvedimento inevitabile (queste misure non nascono come necessarie, lo diventano sulla base di una situazione pregressa). Inoltre, lo sfilacciamento del legame sociale è la causa della nostra insicurezza ed è anche la ragione per la quale ci limitiamo ad affidarci a dati di dubbio valore: le curve epidemiche, i numeri dei morti, i guariti e i nuovi contagi, ci accompagnano ogni giorno e ci illudono di descrivere la realtà in maniera impeccabile, offrendoci la percezione di poter predire il futuro, un futuro che deve apparire vicino, e nel quale tutto tornerà come prima. Un futuro, insomma, davvero troppo vicino al nostro presente.

Ma pur senza gli antichi miti, pur senza l’antica ritualità, anche la nostra epoca si figura la sua fine, e lo fa in un modo del tutto peculiare: l’incapacità di consumare, la rinuncia alla qualità della vita sociale cui eravamo abituati, la fine della scuola, l’impossibilità di avere un sistema di cura sanitaria adeguato, il confinamento nelle case e la possibilità di uscire solo per lavorare e per produrre valore, sono gli spiragli attraverso cui guardiamo il collasso della nostra società. Possiamo benissimo immaginare di muoverci verso un mondo nel quale la didattica a distanza diventerà una normalità, nel quale il diritto all’apprendimento verrà negato a grosse fette di popolazione, nel quale saremo sempre più isolati nelle nostre abitazioni, e chi avrà il “privilegio” di uscire lo farà solo per andare in fabbrica; una versione grigia e oscura del capitalismo che assomiglia all’altra faccia della medaglia di cui abbiamo spesso parlato durante la nostra frenetica vita sociale; una versione “oscura” – oppure, chissà, quella più chiara e reale – del capitalismo che spesso si è affacciata ai nostri occhi di consumatori appassionati, ma che adesso sembra incombere sulla nostra testa come annuncio di un futuro probabile.  

Questo scenario appare tanto più possibile, se ricordiamo, insieme a Marx, che il capitale ha un lato anarchico con cui disperde la sua mania di controllo e permette alle necessità e alle aspirazioni degli individui di svilupparsi, sebbene le lasci insoddisfatte. Infatti, se è capace di “produrre” tempo libero rendendo più alta la produttività del lavoro, deve lasciare che sia la classe dei proprietari a fruire di questa nuova libertà, a scapito di un’altra che invece assiste alla trasformazione del suo tempo di vita in tempo di lavoro[1].Si materializza un’apocalisse che non è la fine della nostra civiltà, ma ne è la fase suprema, la sua “iperrealizzazione”. Non sappiamo se questo avverrà per certo, ma lo vediamo e, anzi, l’impressione è che stiamo rimanendo fermi a contemplarlo. Non riusciamo a pensare un’alternativa, nemmeno come epilogo della nostra civiltà.

È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, scriveva Mark Fisher dieci anni fa. L’impossibilità di immaginare una fine a questo stato di cose, a rapporti sociali e produttivi così congeniati, è la vera e propria cifra ideologica della nostra epoca. Infine, il mito non è morto, e anche la nostra civiltà, anche il capitalismo, ha la sua mitologia, che non interpella nessun dio, ma descrive la perpetuazione di se stesso, il suo continuo perfezionamento, fino a sconvolgere gli stessi equilibri naturali pur di uscirne vittorioso, anche a scapito della stessa vita umana. Abbiamo decretato la morte delle ideologie, e con essa ci siamo condannati a una eterna ripetizione della nostra epoca. Nella visione dell’apocalisse che stiamo vivendo in questi giorni, non arriverà nessuno a salvarci, ma vivremo solo l’esasperazione delle contraddizioni di uno stato di cose che consciamente o inconsciamente ci siamo abituati a pensare come eterno o inevitabile. Il futuro che immaginiamo è davvero troppo vicino al nostro presente, non solo perché la logica dell’utilità impone di non andare troppo avanti nel tempo con l’immaginazione, ma anche perché difettiamo di quella fantasia che ci permettere di dipingere un affresco dei nostri possibili destini.

Naturalmente, questa percezione delle cose potrebbe risolversi in una di quelle “profezie autoavveranti”: con il nostro atteggiamento potremmo, cioè, favorire la trasformazione delle nostre vite in una certa direzione. Ma non possiamo ancora dire cosa succederà. Per fortuna.

La speculazione e la filosofia non ci aiutano a predire il futuro. E nemmeno i modelli matematici (casomai, le loro interpretazioni). Tuttavia capiamo facilmente che mai come adesso non possiamo rifugiarci nel There is no alternative, non possiamo adagiarci all’idea che tutto sarà come prima. Dobbiamo raccontarci una storia diversa. Abbiamo specificato, qualche riga sopra, che non tutti hanno accettato di allentare, di perdere una certa connessione sociale. Spesso le nostre scelte confliggono e resistono a un messaggio dominante che pure ci condiziona, ma che riusciamo a non accettare del tutto. Se così non fosse, non saremmo affezionati alla nostra sopravvivenza, non saremmo in grado di partecipare a iniziative e di mettere in campo azioni collettive che vanno in una direzione diversa.

Non dovrà tornare tutto come prima. Chiedere una sanità pubblica ed efficiente, pretendere anche in una condizione di questo tipo che i parchi restino aperti e che le fabbriche rimangano chiuse senza deroghe, spostare la centralità della nostra vita dal lavoro agli affetti, costruire reti di assistenza territoriali e pretenderne la regolarizzazione, relazionarsi agli altri Paesi in termini di comune e mutua solidarietà, e non in competizione (Cuba e Venezuela hanno mandato squadre di medici in Europa, mentre le nazioni occidentali cercavano di rastrellare le ultime scorte di mascherine rimaste sul mercato[2]), costruire una scuola che potenzi la sua funzione primaria, ovvero garantire il diritto all’apprendimento attraverso il contatto umano e attraverso l’educazione alle relazioni, sembrano cose piccole rispetto alle storie epiche di dei ed eroi; sono queste, però, le immagini reali e umane che prefigurano un futuro diverso, nel quale non saranno solo i ricchi a salvarsi, ma saremo ancora costretti a salvarci tutti insieme, nel quale la vita possa scorrere serena anche di fronte alle difficoltà, per come può farlo una vita a misura di un essere limitato e parziale come l’uomo, che nonostante tutto ancora non merita l’estinzione.

Roberto Evangelista, Cnr-Ispf

[1] «Date l’intensità e la forza produttiva del lavoro la parte della giornata lavorativa sociale necessaria per la produzione materiale sarà tanto più breve, e la parte di tempo conquistata alla libera attività culturale e sociale degli individui sarà tanto maggiore, quanto più il lavoro sarà distribuito proporzionalmente tra tutti i membri della società capaci di lavorare e quanto meno uno strato della società potrà allontanare da sé la necessità di natura del lavoro e addossarla ad un altro strato. Il limite assoluto della riduzione della giornata lavorativa è sotto questo aspetto l’obbligo generale del lavoro. Nella società capitalistica si produce tempo libero per una classe trasformando in tempo di lavoro l’intera vita delle masse». K. Marx, Il Capitale, Roma, 1970, libro I, sezione V, capitolo XV.

[2] Non sono state le uniche iniziative internazionali di solidarietà, ma sono state quelle più importanti e significative, soprattutto considerando la campagna diffamatoria che colpisce questi Paesi.

Il contributo sulle pagine “Pan/démia Osservatorio Filosofico” del Cnr-Ispf

Jane Eyre

Jane Eyre assiste alla morte dell’amica Helen a causa della tubercolosi: nel brano che antologizziamo assistiamo alla scena culminante.

«Dunque, Helen, sei sicura che esiste il cielo e che le nostre anime potranno raggiungerlo quando moriremo?».
«Sono sicura che vi è un futuro; credo che Dio sia buono; posso affidare a Lui la parte immortale di me stessa senza alcuna apprensione. Dio è il mio padre; Dio è il mio amico: io Lo amo e credo che Egli ami me».
«E ti rivedrò, Helen, dopo la morte?».
«Verrai nello stesso mondo di felicità: sarai ricevuta da quello stesso padre potente e universale, non aver
dubbi, cara Jane».
Feci ancora domande, ma solo entro di me. «Dov’è questo mondo? Esiste?». E strinsi più forte le braccia
attorno a Helen; mi sembrava più cara che mai, avevo l’impressione di non potere lasciarla partire. Giacevo col volto nascosto nel cavo della sua spalla; adesso lei mi diceva in tono dolcissimo:
«Come mi sento bene! Quest’ultimo accesso di tosse mi ha un po’ stancata; credo di poter dormire; ma non lasciarmi, Jane; mi piace sentirti vicina».
«Starò con te, cara Helen: nessuno mi porterà via».
«Sei al caldo?».
«Sì».
«Buona notte, Jane».
«Buona notte, Helen».
Mi baciò, la baciai e ci addormentammo insieme.
Quando mi svegliai era giorno: mi aveva destato un movimento insolito; guardai; ero nelle braccia di qualcuno; l’infermiera mi sosteneva riportandomi lungo il corridoio verso il dormitorio. Non fui sgridata per aver lasciato il mio letto; avevano altro da pensare; non mi diedero allora alcuna spiegazione a tutte le domande che feci; ma un paio di giorni dopo seppi che la signorina Temple, tornando nella sua stanza verso l’alba, mi aveva trovata nel lettino, il volto contro la spalla di Helen Burns, le braccia strette al suo collo. Io ero addormentata e Helen era… morta.
La sua tomba è nel cimitero di Brocklebridge: per quindici anni dopo la sua morte rimase coperta solo da un piccolo tumulo erboso; ma adesso una lapide di marmo grigio segna quel luogo con inciso il suo nome e la parola «Resurgam».

Charlotte Brontë

Ivanov

Ivanov scopre che sua moglie è affetta da tisi. Il medico gli suggerisce una soluzione, ma sembra troppo costosa.

ŠABEL’SKIJ (uscendo di casa con L’vov)
I medici sono tal quali gli avvocati, con la sola differenza che gli avvocati si limitano a rubare, mentre i medici rubano e ammazzano… Non parlo dei presenti. (Si siede sul divanetto).Ciarlatani, sfruttatori… Può essere che in qualche sperduta Arcadia ci siano delle eccezioni alla regola generale, ma… io in vita mia ho buttato in medicine almeno ventimila rubli e non ho incontrato un solo medico che non mi sia sembrato un furfante matricolato.
BORKIN (a Ivanov)
Sì, voi non fate niente e legate le mani anche a me. Per questo non avete mai denaro…
ŠABEL’SKIJ
Ripeto, non parlo dei presenti… Può darsi che ci siano eccezioni, sebbene, poi… (Sbadiglia).
IVANOV (chiudendo il libro)
Che cosa dite, dottore?
L’VOV (guardando verso la finestra)
Le stesse cose che dicevo questa mattina: sua moglie deve prontamente andare in Crimea. (Cammina per la scena).
ŠABEL’SKIJ (sbuffa)
In Crimea!… Miša, perché noi due non ci mettiamo a fare il medico? È così facile… Una qualche madame Angot o Ofelia ha la raucedine o si mette a tossire dalla noia, prendi subito la carta e prescrivi secondo i dettami della scienza: prima di tutto un giovane medico, poi un viaggio in Crimea, e in Crimea un tataro…
IVANOV (al conte)
Ah, non scocciare, rompiscatole! (A L’vov).Per andare in Crimea servono mezzi. Supponiamo che io li trovi, ma lei si rifiuta tassativamente di partire.

L’VOV
Sì, si rifiuta.
Pausa.
BORKIN
Ascoltate, dottore, possibile che Anna Petrovna sia così gravemente ammalata da dover assolutamente andare in Crimea?…
L’VOV (guarda verso la finestra)
Sì, ha la tisi…
BORKIN
Pss!… brutta faccenda… E un po’ che anch’io mi sono accorto, dal suo aspetto, che non ne avrà per molto.
L’VOV
Ma… parlate più piano… in casa si sente tutto…
Pausa.
BORKIN (sospirando)La nostra vita… La vita umana è come un fiore che cresce rigoglioso in un campo: arriva un caprone, se lo mangia: e il fiore non c’è più.

Anton Cechov

Robinson Crusoe

Robinson Crusoe a seguito di una pioggia particolarmente fredda contrae una forte febbre che lo porta al delirio.

18 giugno. Ha piovuto per tutto il giorno e sono rimasto in casa. Ho avuto la sensazione che la pioggia fosse  più fredda e ho provato qualche brivido, cosa che mi è parsa alquanto insolita a questa latitudine. 

19 giugno. Sono stato molto malato, con brividi continui, come se improvvisamente facesse molto freddo. 20 giugno. Non ho chiuso occhio per tutta la notte. Febbre e forte mal di testa. 

21 giugno. Sto molto male, e sono disperato e stravolto pensando che mi trovo nella pietosa condizione del  malato privo di qualsivoglia assistenza. Per la prima volta dopo la tempesta al largo di Hull sono tornato a pregare  Iddio, ma senza sapere quel che dicevo perché, essendo la mia mente oltremodo confusa. 

22 giugno. Un po’ meglio, ma la malattia continua a farmi una gran paura. 

23 giugno. Di nuovo molto male, con brividi di freddo e un terribile mal di testa. 

24 giugno. Molto meglio. 

25 giugno. Violentissimo attacco di febbre terzana. La crisi è durata sette ore, in un alternarsi di brividi di  freddo e calore, seguito da accessi di sudore e senso di vampate di sfinimento. 

26 giugno. Sto meglio. Ho dovuto imbracciare il fucile, sebbene mi senta molto debole, perché non ho nessuna  scorta di cibo. Ho ucciso una capra e con molta difficoltà l’ho trascinata a casa. Ne ho arrostito un pezzo e l’ho  mangiato. Avrei preferito lessarlo per farmi del brodo, ma non ho pentole. 

27 giugno. Nuovo attacco di febbre terzana, così forte che sono rimasto tutto il giorno a letto senza mangiare  né bere. Mi sembrava di morir di sete, ma ero così debole che non avevo la forza di reggermi in piedi o di prendermi un  po’ d’acqua da bere. Ho pregato di nuovo Iddio, ma non riuscivo a concentrarmi, e anche quando ci riuscivo nella mia  ignoranza non sapevo che cosa dire; me ne stavo disteso sul mio giaciglio esclamando: «Signore, proteggimi! Signore,  abbi pietà di me! Signore, misericordia!» Probabilmente è tutto quel che ho fatto per due o tre ore, finché l’accesso è  passato e mi sono addormentato, per non svegliarmi fino a tarda notte. Al risveglio, mi sono sentito molto ristorato, ma  debolissimo e tormentato dall’arsura; ma in casa non avevo un goccio d’acqua da bere, cosicché sono stato costretto ad  aspettare fino al mattino e mi sono rimesso a dormire. In questo secondo sonno ho fatto un sogno terribile. 

Mi sembrava di sedere per terra, fuori del mio recinto, proprio dove mi trovavo durante l’uragano che era  seguito al terremoto, e di vedere un uomo scendere da una nuvola nera, in una vampa fiammeggiante, e posarsi sulla  terra. Brillava in ogni sua parte come fosse stato di fuoco, tanto che a stento riuscivo a guardarlo. Il suo aspetto era  terrificante, né ci sono parole per descriverlo. E nel momento in cui posò i piedi sul terreno, mi parve che la terra  tremasse, proprio come aveva tremato durante il terremoto, mentre l’aria, con mio grande terrore, pareva riempirsi di  bagliori infuocati. 

Non appena ebbe toccato terra, mosse verso di me impugnando una lunga lancia, o un’arma consimile, per  uccidermi; poi, raggiunta una posizione elevata a una certa distanza da me, prese a parlare, o quantomeno udii una voce  così spaventosa ch’io non potrei mai esprimerne tutto l’orrore. Tutto quello che credo di aver capito sono queste parole:  «Visto che tutto quanto è accaduto non ti ha indotto al pentimento, ora morrai.» Dopo di che mi parve sollevasse la  lancia per uccidermi. 

Daniel Defoe

Fonte:

Tito Lucrezio Caro, De rerum Natura, I a.C

Questo era più miserabile e doloroso, che quando ciascuno vedeva se stesso avvinto dal male, da esserne votato alla fine, perdutosi d’animo, giaceva con cuore dolente, e lì stesso perdeva la vita guardando immagini di morte.


Ora spiegherò quale sia la causa delle malattie e donde

la forza maligna possa sorgere d’un tratto e arrecare esiziale

strage alla stirpe degli uomini e alle torme degli animali.

Anzitutto, sopra ho insegnato che esistono semi

di molte cose che per noi sono vitali,

e per contro è necessario che ne volino molti altri che causano

malattia e morte. Quand’essi per casuale incontro

si son raccolti e han perturbato il cielo, l’aria si fa malsana

Dapprima avevano il capo in fiamme per il calore

e soffusi di un luccichìo rossastro ambedue gli occhi.

La gola, inoltre, nell’interno nera, sudava sangue,

e occluso dalle ulcere il passaggio della voce si serrava,

e l’interprete dell’animo, la lingua, stillava gocce di sangue,

infiacchita dal male, pesante al movimento, scabra al tatto.

Poi, quando attraverso la gola la forza della malattia

aveva invaso il petto ed era affluita fin dentro il cuore afflitto

dei malati, allora davvero vacillavano tutte le barriere della vita.

Il fiato che usciva dalla bocca spargeva un puzzo ributtante,

simile al fetore che mandano i putridi cadaveri abbandonati.

Questo era più miserabile

E doloroso, che quando ciascuno vedeva se stessoe

avvinto dal male, da esserne votato alla fine,

perdutosi d’animo, giaceva con cuore dolente,

e lì stesso perdeva la vita guardando immagini di morte.

E benché sulla terra giacessero insepolti mucchi di corpi

su corpi, tuttavia gli uccelli e le fiere o fuggivano

balzando lontano, per evitare l’acre puzzo,

oppure, se li assaggiavano, languivano per morte imminente.

E infatti ormai né la religione, né la maestà degli dèi

contavano molto: il dolore presente aveva il sopravvento.


Omero, Iliade, 750 a.C. circa

Alle origini della letteratura occidentale, anche se forse non ci pensiamo, c’è una scena legata alla malattia, alla pestilenza inviata dagli Dèi irati


Cantami, o Diva, del Pelìde Achille
l’ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco
generose travolse alme d’eroi,
e di cani e d’augelli orrido pasto
lor salme abbandonò (così di Giove
l’alto consiglio s’adempìa), da quando
primamente disgiunse aspra contesa
il re de’ prodi Atride e il divo Achille.
E qual de’ numi inimicolli? Il figlio
di Latona e di Giove. Irato al Sire
destò quel Dio nel campo un feral morbo,
e la gente perìa: colpa d’Atride
che fece a Crise sacerdote oltraggio.

Maledetto Malaparte

Ecco una serie di stralci da “La pelle”, il romanzo di Curzio Malaparte che racconta l’arrivo dei soldati americani a Napoli sotto la metafora di una “peste” morale


« È certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra tutti son buoni, non tutti son capaci di perderla.
[…]
Nessun popolo sulla terra ha mai tanto sofferto quanto il popolo napoletano. Soffre la fame e la schiavitù da venti secoli, e non si lamenta. Non maledice nessuno, non odia nessuno: neppure la miseria. Cristo era napoletano.
[…]
Voglio bene agli americani, qualunque sia il colore della loro pelle, e l’ho provato cento volte, durante la guerra. Bianchi o neri, hanno l’anima chiara, molto più chiara della nostra. Voglio bene agli americani perché sono buoni cristiani, sinceramente cristiani. Perché credono che Cristo sia sempre dalla parte di coloro che hanno ragione. Perché credono che è una colpa grave aver torto, che è una cosa immorale aver torto. Perché credono che essi soli son galantuomini, e che tutti i popoli d’Europa sono, più o meno, disonesti. Perché credono che un popolo vinto è un popolo di colpevoli, che la sconfitta è una condanna morale, è un atto di giustizia divina.
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Il 1 ottobre 1943 è una data memorabile nella storia di Napoli: perché segna l’inizio della liberazione dell’Italia e dell’Europa dall’angoscia, dalla vergogna, e dalle sofferenze della schiavitù e della guerra, e perché proprio in quel giorno scoppiò la terribile peste, che da quell’infelice città si sparse a poco a poco per tutta l’Italia e per tutta l’Europa.
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Ma le zone più frequentate dai liberatori erano proprio quelle Off limits, cioè quelle più infette e perciò più vietate, poiché è nella natura dell’uomo, specie dei soldati di tutti i tempi e di qualunque esercito, preferire le cose proibite a quelle permesse.
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Ma quel che più commuoveva il popolo napoletano era la gentilezza di modi dei liberatori, specie degli americani, la loro disinvolta urbanità, il loro senso di umanità, il loro sorriso innocente e cordiale di onesti, buoni, ingenui ragazzoni. Se è mai stato un onore perdere la guerra, era certamente un grande onore, per i napoletani, e per tutti gli altri popoli vinti dell’Europa, aver perduto la guerra di fronte a soldati così cortesi, eleganti, lindi, così buoni e generosi.
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La fame umana ha una voce meravigliosamente dolce e pura. Non v’è nulla di umano nella voce della fame.
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Napoli […] è la più misteriosa città d’Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell’immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta. Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto intatto alla superficie del mondo moderno. […] Non potete capire Napoli, non capirete mai Napoli.
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Erano i giorni della «peste» di Napoli. Ogni pomeriggio alle cinque, dopo mezz’ora di punching-ball e una doccia calda nella palestra della P.B.S., Peninsular Base Section, il Colonnello Jack Hamilton ed io scendevamo a piedi verso San Ferdinando, aprendoci il varco a gomitate nella folla che, dall’alba all’ora del coprifuoco, si accalcava tumultuando in via Toledo.
Eravamo puliti, lavati, ben nutriti, Jack ed io, in mezzo alla terribile folla napoletana squallida, sporca, affamata, vestita di stracci, che torme di soldati degli eserciti liberatori, composti di tutte le razze della terra, urtavano e ingiuriavano in tutte le lingue e in tutti i dialetti del mondo.
L’onore di essere liberato per primo era toccato in sorte, fra tutti i popoli d’Europa, al popolo napoletano: e per festeggiare un così meritato premio, i miei poveri napoletani, dopo tre anni di fame, di epidemie, di feroci bombardamenti, avevano accettato di buona grazia, per carità di patria, l’agognata e invidiata gloria di recitare la parte di un popolo vinto, di cantare, di battere le mani, saltare di gioia tra le rovine delle loro case, sventolare bandiere straniere, fino al giorno innanzi nemiche, e gettar dalle finestre fiori sui vincitori.
Ma nonostante l’universale e sincero entusiasmo, non v’era un solo napoletano, in tutta Napoli, che si sentisse un vinto. Non saprei dire come questo strano sentimento fosse nato nell’animo del popolo. »

Curzio Malaparte


Il racconto delle epidemie svela le nostre paure

Un articolo dell’Almanacco della scienza illustra brevemente la mostra dell’Ufficio stampa del Cnr “Racconti e ritratti di medicina e malattia”, allestita a Genova e Pisa rispettivamente nel 2018 e nel 2019. Analizzando in particolare come il tema del contagio è stato affrontato nelle varie forme di narrazione letteraria, visuale e artistica che si sono succedute nei secoli. Un viaggio che segue l’evoluzione scientifica e clinica della medicina, da un lato, e della narrazione della malattia, dall’altro


Malattie e contagi ricorrono in letteratura sin dall’antichità: l’Iliade, considerata il punto di inizio della narrazione occidentale, esordisce con il racconto della pestilenza provocata da Apollo, adirato con gli Achei accampati sotto la città di Troia. Le epidemie venivano interpretate come un segno dell’ira della divinità, una punizione inflitta agli uomini per aver violato un ordine morale o giuridico. Ma anche comeun fenomeno naturale che rende evidenti i limiti dell’uomo nei confronti della natura: ne troviamo testimonianza nelle accurate descrizioni della peste a opera di Tucidide (V secolo a.C.) nelle “Guerre del Peloponneso” o, alcuni secoli dopo, di Tito Lucrezio Caro nel “De rerum natura”.

Analizzare come il tema è stato affrontato nelle varie forme di narrazione letteraria, visuale e artistica che si sono succedute nei secoli è uno dei fili narrativi della mostra dell’Ufficio stampa del Cnr “Racconti e ritratti di medicina e malattia”, allestita a Genova e Pisa rispettivamente nel 2018 e nel 2019, i cui contenuti sono riassunti in una pagina dedicata del portale dell’Ente. Un vero e proprio viaggio che segue l’evoluzione  da un lato l’evoluzione scientifica e clinica della medicina, dall’altro della narrazione della malattia.

Il tema della punizione divina non cessa con l’acquisizione di nuove conoscenze razionali. In tempi più vicini a noi, Boccaccio parla nel “Decameron” della “mortifera pestilenza […] a nostra correzione mandata per nostre inique opere, da giusta ira di Dio”. E ancora nell’800 Manzoni attribuisce alla peste un ruolo provvidenziale: il morbo, infatti, provoca la morte di Don Rodrigo e permette, come noto, il lieto fine dei “Promessi sposi”.

Ancora nel ‘900, nonostante il decisivo progresso della medicina, la circolazione di virus mantiene una valenza simbolica molto forte. La malattia in molti autori subisce una trasformazione metaforica, diventando simbolo del male spirituale e morale che pervade la società, soprattutto in coincidenza di particolari crisi storiche. In “Morte a Venezia” di Thomas Mann (1912), ad esempio, o ne “La pelle” (1949) di Curzio Malaparte, in cui gli eserciti alleati liberano Napoli ma privandola della fiera dignità mostrata durante la guerra. Altra opera prepotentemente tornata alla ribalta in tempi di Coronavirus è “La peste” di Albert Camus (1947), dove attraverso il morbo l’autore affronta l’orrore del nazional-socialismo appena sconfitto, un topos letterario perfetto per parlare di odio, sopraffazione, ingiustizia.

Oggi, mentre l’epidemia da Covid ha una dimensione tragicamente reale, queste pagine del passato recente e remoto ci ricordano che nell’idea del nemico sconosciuto – il virus è un rappresentante ideale – risiedono sempre le nostre paure più profonde.

Francesca Gorini


Fonte: Almanacco CNR – Focus, Distopia