Alla ricerca del tempo perduto

Nell’opera di Marcel Proust non vi è traccia del medico ciarlatano e irriverente nei confronti del paziente.

Voi, signora, vi credevate malata – gravemente malata, forse. Dio sa di quale affezione credevate di scoprirvi i sintomi. E non vi sbagliavate, li avevate davvero. Il nervosismo è un imitatore geniale. Non c’è malattia che non sappia contraffare a meraviglia. Riproduce perfettamente la dilatazione dei dispeptici, le nausee della gravidanza, l’aritmia del cardiopatico, lo stato febbrile del tubercoloso. Se cade nel tranello il medico, come potrebbe non caderci il malato? Ah! Non pensate ch’io sorrida dei vostri mali, non mi prenderei la responsabilità di curarli se non li comprendessi. Del resto, non c’è buona confessione che non sia reciproca. Ecco qua: vi ho detto che senza malattia nervosa non c’è grande artista; ebbene (e alzò gravemente l’indice), non c’è nemmeno grande scienziato. Aggiungerò che, se non si è affetti a propria volta da qualche malattia nervosa, non si può essere, non fatemi dire un buon medico, ma semplicemente un accettabile medico di malattia nervose.

[…] le manifestazioni di cui soffrite svaniranno alle mie parole. E poi, accanto a voi c’è qualcuno che è dotato d’un gran potere e che io, ormai, ho trasformato nel vostro medico è il vostro stesso male, la vostra iperattività nervosa. Sapessi come guarirvene, mi guarderei bene dal farlo. Mi basta impartirgli degli ordini. Vedo sul vostro tavolo un libro di Bergotte. Guarita dal vostro nervosismo, non l’amereste più. Ebbene, come potrei arrogarmi il diritto di scambiare le gioie che vi procura Bergotte con un’integrità nervosa assolutamente inadeguata a darvene di uguali?

Marcel Proust

Enciclopedia Treccani Online

Marcel Proust, “Alla ricerca del tempo perduto” (1913)

Si incontrano vecchi medici di manicomio

Non esiste vero psichiatra che non sia in amicizia con la pietà.

<Torniamo alla modestia del nostro tema, ai matti abbandonati.>

<Agli ordini ! come si diceva una volta.> 

I novatori hanno affermato che la follia non esiste, quelli che erano ricoverati in manicomio erano vittime del potere. I giornali, i rotocalchi quando è uscita la legge 180 hanno brindato allo smantellamento, alla liberazione.>

<I ricoverati si devono inserire, tornare in famiglia, in società.>

<La società li ha ammalati, la società se li riprenda. Si devono inserire.>

<Sì, gli piacciono certe parole. Mancano le strutture e non: manca l’assistenza, la protezione, un giaciglio, un tetto.>

<Ne ho visto brancolare per le strade eppure molti mantenevano nel viso un sorriso senza rimprovero. Avevano fame e sete e conservavano un loro incantamento.>

<Evvia devi riconoscerlo, i novatori con la loro malinconia, la malinconia endogena, hanno avuto una bella vittoria.>

<Sì un trionfo>

<Tanti ne hanno uccisi>  (…)

<Ci infamino, ma si propaghi lo splendore della nuova scienza. I matti tornino nelle famiglie dove sono nati>

<E vi rimangano>

<Non importa se vi sono giovani, ragazze, bambini, vecchi>

<E meglio di tutto se la loro abitazione è in uno di quei grossi edifici delle città moderne, umani alveari, un bel appartamento di famiglia operaia>

<Qui il giovane schizofrenico avrà più contatti e più in fretta si inserirà>

<Il padre durante la notte stia in allarme, sa che il figlio può compiere oscenità e picchiare anche qualcuno dei familiari, ma che felicità per lui quando la mattina si alzerà dal letto e andrà verso la sua fabbrica, alla sua catena di montaggio, che è anch’essa certamente una letizia per la fantasia umana>   (…)

<Tu l’avevi immaginata tanta abnegazione nelle madri degli alienati?>

<Ti confesso di no. All’uscita della legge 180 non l’avevo prevista (…)>

<Gli altri familiari presto si stancano, sbuffano, si adirano; arrivano ad odiare il congiunto colpito dalla follia>

<Le madri no, fedeli, accettano qualsiasi cosa dal loro figlio scacciato dal manicomio. (…) Esse sono state costrette a diventare psichiatre, e che potenza di linguaggio acquistano, capaci di incredibili sottigliezze (…)>

<(…) Che è successo in Italia? Ti ricordi la grande speranza che sorse alla scoperta degli psicofarmaci? Eravamo nel 1952>

<Si accese la speranza di salvarne tanti. Le violenze si oacarono, i deliri si appassivan, le allucinazioni ancora battevano in quelle teste ma non si traducevano più in assoluto comando, in terribili imposizioni, divenute invece pallide, un’eco lontana. E ogni giorno di più tra le mura manicomiali soffiava il vento dell’umana libertà>  (…)

<In poco tempo tutti i manicomi d’Italia… e se non ti piace questo nome mettiamone un altro che olezzi di verbena>

<Tutti gli ospedali psichiatrici avrebbero vissuto nella giusta misura, tramutati in umani domicili…>

<E invece piomba giù la moda, la demagogia, la psichiatria sociale>

<La 180. I malati per le strade>   (…)

<Non ti voglio parlare dei matti violenti contro se stessi o contro gli altri. Io vecchio medico di manicomio ho una speciale tenerezza per i deboli di mente, i frenastenici, quelli scarsamente capaci di misurarsi con le difficoltà della vita, di distinguere tra cielo sereno e aria di tempesta. Essi sono diventati preda, facile preda di chi esercita la malizia, chi gode al beffeggio, che si diletta dello zimbello. I frenastenici, gli scarsi di giudizio, sono buon pasto dei profittatori, dei prepotenti, dei cattivi che respirano al mondo>  (…)

<Lasciamo stare questa mia confessione, la verità è che dovremo difenderli tutti, frenastenici e no. E  per questo parlare franco e usare le parole più comuni, quelle che capiscono tutti>

<Scienza è godere del frutto del passato e beneficiare della scoperta moderna>

<Non esiste vero psichiatra che non sia in amicizia con la pietà>

<Se davvero vogliamo difendere, aiutare i malati di mente dobbiamo essere nemici di chi maneggia politica e sociologia e imbratta la psichiatria, la quale non è né democratica né aristocratica né borghese o plebea, è solo la psichiatria, colei che studia la pazzia, uno dei più profondi misteri umani>.

Mario Tobino

Treccani Enciclopedia Online

Mario Tobino, “Zita dei fiori” (Mondadori meridiani, 1986)

I pazzi salutano Clarisse

La tragica realtà di un reparto psichiatrico dove si intrecciano il lavoro del medico, di Clarisse, dei malati e di ciò che avviene nella loro mente.

Un “reparto tranquillo”, – spiegò il medico.

C’erano soltanto donne; avevano i capelli sciolti sulle spalle e i loro visi erano repulsivi, con lineamenti molli, enfiati, deformi.

Una di esser corse subito dal medico e gli consegnò una lettera.

E’ sempre la stessa storia, – disse Friedenthal e lesse forte:

-“Adolfo mio adorato! Quando vieni? Mi hai dimenticata?” –

La donna, più che sessantenne, ascoltava con aria ebete. – La spedirai subito, vero? – ella pregò – Certo! – promise il dotto Friedenthal e sotto i suoi occhi strappò la lettera ammiccando alla sorvegliante. Clarisse lo rimproverò: – Come può agire così? – esclamò con sdegno – I malati bisogna prenderli sul serio!

Venga via! – esortò Friedenthal. – Non mette conto di fermarsi qui. Se vuole le posso mostrare centinaia di lettere simili. Avrà osservato che la vecchia è rimasta indifferente quando ho strappato il suo biglietto.

Clarisse era allibita perché ciò che diceva il dottore era vero ma le sconvolgeva le idee.

(Cfr. Lechon, Il difficile problema del rispetto del paziente psichico)

sovente sono grandi artisti, molto moderni.

E ammalati? – dubitò Clarisse.

– Perché no? – sospirò Friedenthal pateticamente.

“Dunque anche un’arte rispettabile e rispettata come l’accademia ha una sorella rinnegata, defraudata e tuttavia quasi identica in manicomio?”

Nei letti della nuova stanza eran seduti o buttati una serie di orrori. Tutto di quei corpi era storto, imbrattato, contraffatto o paralitico. Dentature guaste. Teste ciondolanti. Crani troppo grandi, troppo piccoli e tutti deformi. Mascelle cascanti, colanti di saliva, bocche macinanti a vuoto, animalescamente, senza cibo né parole. (…)

Le sale dei gravemente affetti da idiozia sono fra gli spettacoli più raccapriccianti che si possan trovare nelle brutture di un manicomio, e Clarisse si sentì sprofondare in una tenebra fitta e spaventosa dove non distingueva più nulla.

Il dottor Friedenthal la seguiva spiegando: – Idiozia familiare amaurotica – Sclerosi ipertrofica tuberosa. – Idiozia timica.

Il generale che s’era stufato di vedere ebeti e lo stesso supponeva di Ulrich, guardò l’orologio e disse: – Dov’eravamo rimasti? 

il dottor Friedenthal (…)

Era abituato a quel, trantran. Ordine come in una caserma o in ogni altra comunità, alleviamento delle principali sofferenze e incomodi, prevenzione dei peggioramenti evitabili, ogni tanto un miglioramento, una guarigione: questi erano gli elementi della sua attività quotidiana. (…)

Adesso entriamo in un reparto di agitati, – annunziò Friedenthal, e già s’avvicinavano a uno schiamazzo, a un grido, che pareva erompere da un’immensa gabbia d’uccelli. (…)

Tutti i pazzi roteavano gli occhi e le braccia, eccitati e urlanti (…)

Alcuni erano liberi, altri erano legati all’orlo dei letti con cinghie che lasciavano pochissimo gioco alle mani. (…)

Infine il pazzo disse lentamente: – E’ il settimo figlio dell’Imperatore.

Stumm von Bordwehr diede una gomitata a Ulrich.

– Non è vero, – contraddisse Friendenthal, e continuando il gioco si rivolse a Clarisse coll’invito: – Gli dica lei stessa che s’inganna.

– Non è vero, amico mio, – mormorò Clarisse, che per la commozione quasi non riusciva a parlare.

Robert Musil

Trecani Enciclopedia Online

Robert Musil, “L’uomo senza qualità” (1930-1942)

La signora Frola e il signor Ponza, suo genero

La prima novella proposta è incentrata sulla tesi che la verità è inconoscibile, che ognuno ha la sua verità che non combacia con quella degli altri. La seconda mostra come solo nella pazzia si è davvero liberi.

Ma insomma, ve lo figurate? C’è da ammattire sul serio tutti quanti a non poter sapere chi tra i due sia il pazzo, se questa signora Frola o questo signor Ponza, suo genero. Cose che capitano soltanto a Valdana, città disgraziata, calamìta di tutti i forestieri eccentrici.

Pazza lei o pazzo lui; non c’è via di mezzo: uno dei due dev’esser pazzo per forza. Perché si tratta niente meno che di questo… Ma no, è meglio esporre prima con ordine.

[…] la signora Frola, poveretta, non pare, ma è pazza.

Pazza da quattro anni, sì. E la sua pazzia consiste appunto nel credere che egli non voglia farle vedere la figliuola. Quale figliuola? È morta, è morta da quattro anni la figliuola; e la signora Frola, appunto per il dolore di questa morte, è impazzita; per fortuna, impazzita, sì, giacche la pazzia è stata per lei lo scampo dal suo disperato dolore. Naturalmente non poteva scamparne, se non così, cioè credendo che non sia vero che la sua figliuola è morta e che sia lui, invece, suo genero, che non vuole più fargliela vedere.

Per puro dovere di carità verso un’infelice, egli, il signor Ponza, seconda da quattro anni, a costo di molti e gravi sacrifici, questa pietosa follia; tiene, con dispendio superiore alle sue forze, due case: una per sé, una per lei; e obbliga la sua seconda moglie, che per fortuna caritatevolmente si presta volentieri, a secondare anche lei questa follia. Ma carità, dovere ecco fino a un certo punto: anche per la sua qualità il pubblico funzionario, il signor Ponza non può permettere che si creda di lui, in città questa cosa crudele e inverosimile: ch’egli cioè, per gelosia o per altro, vieti a una povera madre di vedere la propria figliuola.

Dichiarato questo, il signor Ponza s’inchina innanzi allo sbalordimento delle signore, e va via. Ma questo sbalordimento delle signore non ha neppure il tempo di scemare un po’, che rieccoti la signora Frola[…] […] E la signora Frola, con la maggior semplicità e naturalezza del mondo, dichiara a sua volta[…]

Il signor Ponza, poveretto – ottimo, ottimo inappuntabile segretario alla prefettura, compito, preciso in tutti i suoi atti, in tutti i suoi pensieri, pieno di tante buone qualità – il signor Ponza, poveretto, su quest’unico punto non… ragiona più, ecco: il pazzo è lui, poveretto; e la sua pazzia consiste appunto in questo; nel credere che sua moglie sia morta da quattro anni e nell’andar dicendo che la pazza è lei, la signora Frola che crede ancora viva la figliuola.[…]

E questa idea gli si fissò talmente nel cervello, che non ci fu più verso di levargliela, neppure quando, ritornata dopo circa un anno florida come prima, la moglietta gli fu ripresentata. La credette un’altra; tanto che si dovette con l’aiuto di tutti, parenti e amici, simulare un secondo matrimonio, che gli ha ridato pienamente l’equilibrio delle facoltà mentali. 

[…] « E intanto », conclude con un sospiro che su le labbra le s’atteggia in un dolce mestissimo sorriso « intanto la povera figliuola mia deve fingere di non essere lei, ma un’altra; e anch’io sono obbligata a fingermi pazza […]»

“Il treno ha fischiato”

Farneticava Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d’ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall’ospizio , ov’erano stati a visitarlo. Pareva provassero un gusto particolare a darne l’annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via: – Frenesia, frenesia. – Encefalite. – Infiammazione della membrana. – Febbre cerebrale. E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per quel dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale.

[…] E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell’infelice viveva da tant’anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia , poteva anche essere la spiegazione più semplice di quel suo naturalissimo caso.

[…] Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, così per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po’, a fargli almeno drizzare un po’ le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S’era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse più, avvezzo com’era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte. Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d’una improvvisa alienazione mentale. Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio aveva il diritto di fargliela, il capoufficio. Già s’era presentato, la mattina, con un’aria insolita, nuova, e – cosa veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d’una montagna – era venuto con più di mezz’ora di ritardo. Pareva che il viso, tutt’a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt’a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d’improvviso all’intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt’a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai. Così ilare, d’una ilarità vaga e piena di stordimento, s’era presentato all’ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente.

[…] – E come mai? Che hai combinato tutt’oggi? Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un’aria d’impudenza, aprendo le mani. – Che significa? – aveva allora esclamato il capoufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo. – Ohé, Belluca! – Niente, – aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d’impudenza e d’imbecillità su le labbra. – Il treno, signor Cavaliere. – Il treno? Che treno? – Ha fischiato. – Ma che diavolo dici? – Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L’ho sentito fischiare… – Il treno? – Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo… Si fa in un attimo, signor Cavaliere! Gli altri impiegati, alle grida del capoufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi. Allora il capo ufficio – che quella sera doveva essere di malumore – urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli. Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s’era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch’egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo. Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all’ospizio dei matti. Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. Ne imitava il fischio. Oh, un fischio assai lamentoso, come lontano, nella notte; accorato. E, subito dopo, soggiungeva:

 – Si parte, si parte… Signori, per dove? per dove? E guardava tutti con occhi che non erano più i suoi. Quegli occhi, di solito cupi, senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d’un bambino o d’un uomo felice; e frasi senza costrutto gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite; espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tanto più stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s’era mai occupato d’altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria.

[…] Quando andai a trovarlo all’ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sì, ancora esaltato un po’, ma naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito. – Magari! – diceva – Magari! Signori, Belluca s’era dimenticato da tanti e tanti anni – ma proprio dimenticato – che il mondo esisteva.

[…] Non ci aveva pensato più! Il mondo s’era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell’arida, ispida angustia della sua computisteria… Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L’attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l’immaginazione d’improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari… Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C’erano, mentr’egli qua viveva questa vita “impossibile”, tanti e tanti milioni d’uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente Assorto: concentrato.  nòria: macchina per sollevare l’acqua ancora in uso, all’inizio del Novecento, nelle campagne meridionali.  sturati: aperti. tutte… angustie: del suo triste mondo soffocante. anelante: ansimante. travaso: trasferimento. lande: terre. Il treno ha fischiato. […]Ora, nel medesimo attimo ch’egli qua soffriva, c’erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti… sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva così… c’erano gli oceani… le foreste… E, dunque, lui – ora che il mondo gli era rientrato nello spirito – poteva in qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l’immaginazione una boccata d’aria nel mondo. Gli bastava! Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S’era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d’un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebbro della troppa troppa aria, lo sentiva. Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capoufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capoufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l’altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo: – Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato…

Luigi Pirandello

Il treno ha fischiato

Luigi Pirandello, “Novelle per un anno”, (1922, Mondadori)

Le memorie di un pazzo

Gogol scrive il racconto delirante di un uomo uscito di senno: Cina e Spagna sono la stessa nazione; febbraio ha 30 giorni e gennaio lo segue nel calendario.

3 ottobre

[…]L’ho riconosciuta subito: era la carrozza del nostro direttore. Ma lui non aveva motivo d’entrare in quel negozio, ho pensato; di certo è sua figlia. Mi sono addossato al muro. Il lacchè ha aperto gli sportelli e lei è svolazzata fuori dalla carrozza come un uccellino. Che occhiate ha dato a destra e a sinistra, che balenio di ciglia e di occhi… Signoriddio! Ero perduto, completamente perduto. E perchè poi lei era uscita con un tempo così piovoso? E va’ poi a raccontare che le donne non perdono la testa per tutti quegli stracci! Lei non mi ha riconosciuto, e del resto anch’io di proposito mi sono imbacuccato il più possibile, perchè avevo indosso un cappotto molto sudicio e poi di vecchio taglio. Adesso si portano i mantelli con il collo a scialle, mentre il mio è abbottonato sino in cima; e poi anche la stoffa non è affatto buona. La sua cagnetta, che non aveva fatto in tempo a infilare la porta del negozio, è rimasta sulla strada. Conosco questa cagnetta. Si chiama Meggy. Stavo lì appena da un minuto quando, a un tratto, sento una vocina sottile: «Salve, Meggy.» Questa si che era bella! Chi aveva parlato? Mi sono guardato in giro e ho visto due signore che camminavano sotto a un ombrello: una vecchia, l’altra abbastanza giovane; ma loro erano già passate e vicino a me ho udito di nuovo: «Guai a te, Meggy!» Che razza di diavolo! Allora ho visto che Meggy annusava l’altra cagnetta che seguiva le signore. Eh! mi son detto; questo è troppo, non sarò ubriaco? Davvero, per quanto mi risulta questa è una cosa che mi succede molto di rado. «No, Fidèle, fai male a pensare così», e io con i miei occhi ho visto che era Meggy a parlare. «Sono stata, bau! bau! Sono stata, bau, bau, bau! molto ammalata.» Ah, razza di cagnetta! Confesso d’essermi molto stupito a sentirla parlare nella lingua degli uomini. Ma poi, quando ho ragionato per bene su tutto questo, ho cessato di meravigliarmi. Effettivamente, al mondo ci sono già stati parecchi esempi del genere. Si dice che in Inghilterra sia venuto a galla un pesce il quale ha detto due parole in una lingua stranissima che da tre anni ormai gli scienziati si sforzano di decifrare, ma finora non hanno scoperto nulla. Sui giornali ho letto anche di due vacche che sono entrate in un negozio e hanno chiesto una libbra di tè. Ma, lo confesso, mi sono meravigliato molto di più quando Meggy ha detto: «Io ti ho scritto, Fidèle; di certo Polkan non ha portato la mia lettera!» Che non riceva lo stipendio se in vita mia avevo mai sentito che un cane potesse scrivere. Solo un nobile può scrivere correttamente. Sì, naturale, anche certi mercanti e persino i servi della gleba talvolta scrivono, ma il loro scrivere per lo più è meccanico: nè virgole, nè punti, nè stile.

Anno 2000, 43 aprile

Oggi è una giornata di immenso trionfo! In Spagna c’è un re. È stato trovato. Questo re sono io. L’ho saputo solo oggi. Confesso che, di colpo, è stato come se avessi avuto un’illuminazione. Non capisco come abbia potuto immaginarmi di essere un consigliere titolare. Come mi sia passato per il capo un pensiero così stravagante. Meno male che nessuno ha pensato allora di mettermi in manicomio. Adesso tutto è chiaro dinanzi a me. Adesso vedo tutto come sul palmo della mano. Mentre prima, io non capisco, prima tutto mi stava davanti come in una nebbia. E tutto questo, credo, avviene perchè gli uomini credono che il cervello umano si trovi nella testa; nient’affatto: lo porta il vento dalla parte del Mar Caspio. Dapprima ho annunciato a Mavra chi sono io. Quando ha sentito che dinanzi a lei stava il re di Spagna, ha battuto le mani e per poco non moriva dalla paura. Stupida, lei non ha mai visto il re di Spagna. Io, tuttavia, ho cercato di tranquillizzarla e con parole affettuose ho cercato di assicurarla circa i miei sentimenti, e che non me la sarei presa se certe volte lei mi ha pulito male le scarpe. Questa infatti è plebaglia. A loro non si può parlare di argomenti elevati. Lei si è spaventata, perchè è convinta che tutti i re in Spagna assomigliano a Filippo II. Ma io le ho spiegato che fra me e Filippo non c’è nessuna affinità e che io non ho nemmeno un cappuccino … Al ministero non sono andato. Al diavolo anche quello! No, amici, adesso non mi attirate più; non mi metterò a copiare le vostre schifose carte!

Madrid, 30 febbraio

E così sono in Spagna e tutto è successo così rapidamente che ho fatto appena in tempo a fiatare. Questa mattina si sono presentati da me i deputati spagnoli e sono salito con loro in carrozza. M’è sembrata strana l’insolita velocità. Andavamo così lesti che in mezz’ora abbiamo raggiunto la frontiera spagnola. Del resto, adesso in tutta l’Europa ci sono strade ferrate e i treni viaggiano velocissimi. Strano paese la Spagna: quando siamo entrati nella prima stanza ho visto una quantità di persone con la testa rapata. Però ho intuito che dovevano essere domenicani o cappuccini, perchè loro si rapano la testa. Mi è sembrato molto strano il modo di fare del cancelliere di stato, che mi ha preso per mano, mi ha spinto in una piccola stanza e ha detto: «Siediti qui, e se seguiti a raccontare di essere il re Ferdinando, te la levo io la voglia.» Ma io, sapendo che quello era solamente un modo per tentarmi, ho risposto picche, per la qual cosa il cancelliere mi ha battuto due volte sulla schiena con un bastone e in modo così doloroso che per poco non lanciavo un grido, ma mi sono trattenuto ricordando che si tratta d’un uso cavalleresco quando si assurge a un alto titolo, giacchè in Spagna sono ancor oggi in vigore gli usi cavallereschi. Rimasto solo, ho deciso di occuparmi degli affari di stato. Ho scoperto che la Cina e la Spagna sono la stessa identica terra e solo per ignoranza li considerano due stati diversi. Consiglio a tutti di provare a scrivere su un pezzo di carta «Spagna» : verrà fuori «Cina». Mi ha tuttavia straordinariamente amareggiato un avvenimento che deve aver luogo domani. Domani alle sette si compirà uno strano fenomeno: la terra si poserà sulla luna. Ne scrive anche il celebre chimico inglese Wellington. Confesso che mi sono sentito stringere il cuore considerando l’insolita morbidezza e la fragilità della luna. La luna infatti di solito viene fatta ad Amburgo, e vien fatta malissimo. Mi stupisco come l’Inghilterra non se ne interessi. La fa un bottaio zoppo ed è evidente che quel cretino non ha nessuna nozione della luna. Adopera del catrame e olio; per questo su tutta la terra c’è un lezzo terribile, tanto che bisogna tapparsi il naso. E per questo che la luna stessa è un globo così tenero che gli uomini non possono viverci e adesso lassù ci vivono solamente i nasi. E per questo anche che noi non possiamo vedere i nostri nasi, giacchè si trovano tutti sulla luna. E quando ho considerato che la terra è una materia pesante e, posandosi, può schiacciare i nostri nasi, mi ha preso un’inquietudine tale che, infilatemi calze e scarpe, sono corso nella sala del consiglio di stato per dare ordine alla polizia di non autorizzare la terra a posarsi sulla luna. I cappuccini, di cui ho trovato un gran numero nella sala del consiglio di stato, erano gente molto intelligente, e, quando ho detto: «Signori, salviamo la luna, perchè la terra vuole posarsi su di lei», all’istante si sono precipitati tutti a eseguire la mia sovrana volontà e molti si sono arrampicati sul muro allo scopo di agguantare la luna, ma in quel momento è entrato il grande cancelliere. Vedendolo, tutti sono scappati via. Io, in quanto re, sono rimasto solo. Ma, con mia meraviglia, il cancelliere mi ha colpito con il bastone e mi ha cacciato nella mia stanza. Tanto potere ha ancor oggi in Spagna l’usanza popolare.

Gennaio dello stesso anno, che vien dopo febbraio

Non riesco ancora a capire che razza di paese sia la Spagna. Le usanze e l’etichetta di corte sono assolutamente insolite. Non capisco, non capisco, proprio non capisco. Oggi mi hanno rapato la testa sebbene gridassi con tutte le forze che non desideravo farmi monaco. Ma non sono più capace di ricordare che cosa ne è stato di me quando hanno cominciato a versarmi sulla testa dell’acqua fredda. Un inferno simile non l’avevo ancora mai provato. Ero lì lì per montare su tutte le furie, tanto che a fatica potevano trattenermi. Non capisco assolutamente il significato di questa strana usanza. Usanza stupida, insensata! Mi è incomprensibile l’irragionevolezza dei re, che ancora non l’aboliscono. A giudicare da tutte le apparenze, credo di indovinare, forse sono caduto nelle mani dell’Inquisizione e quello che ho preso per il cancelliere forse è il grande inquisitore. Solamente non riesco ancora a capire come il re possa esser sottomesso all’Inquisizione. È vero che potrebbe essere una cosa che viene dalla Francia, e probabilmente da Polignac. Oh, quella bestia di Polignac! Ha giurato di danneggiarmi mortalmente. Ed ecco che mi perseguita e mi perseguita, ma io lo so, amico bello, che è l’inglese che ti guida. L’inglese è un gran politico. S’intrufola dappertutto. È ormai universalmente noto che quando I’Inghilterra fiuta il tabacco, la Francia starnuta.

Giorno 25

Oggi il grande inquisitore è venuto nella mia stanza, ma io, avendo sentito da lontano i suoi passi, mi sono nascosto sotto una sedia. Vedendo che non c’ero, lui ha cominciato a chiamarmi. Prima ha gridato: «Poprišèìn!» e io, neanche una parola. Poi: «Aksèntij Ivànoviè! Consigliere titolare! Nobile!» Io, sempre zitto. «Ferdinando VIII, re di Spagna!» Avrei voluto cacciar fuori la testa, ma poi ho pensato: no, bello, non me la fai! Ti conosco, mascherina: mi vuoi versare di nuovo dell’acqua fredda sulla testa. Lui però mi ha visto e col bastone mi ha fatto uscire di sotto la sedia. Quel maledetto bastone colpisce in una maniera incredibilmente dolorosa. Comunque, di tutto questo mi ha ricompensato la scoperta che ho fatto oggi: sono venuto a sapere che ogni gallo ha una Spagna e che essa si trova sotto le sue penne. Il grande inquisitore, tuttavia, se n’è andato furibondo, minacciandomi chissà che castigo. Ma io non ho fatto assolutamente caso alla sua rabbia impotente, sapendo che lui agisce come una macchina, come uno strumento degli inglesi.

Li 34 slo Mc gdao febbraio 349

No, non ho più la forza di sopportare. Dio! che cosa fanno di me! Mi versano in testa acqua fredda. Non mi ascoltano, non mi vedono, non mi danno retta. Che cosa gli ho fatto? Perchè mi torturano? Che cosa vogliono da me, poveretto? Che cosa posso dargli? Io non ho niente. Non ho la forza, non posso sopportare tutte le loro torture, la testa mi brucia e tutto mi gira intorno. Salvatemi! Portatemi via! Datemi una trojka di cavalli veloci come il vento! A cassetta, mio cocchiere; tintinna, mia campanella; impennatevi, cavalli, e portatemi via da questo mondo! Lontano, più lontano, che non si veda nulla, nulla. Ecco che il cielo turbina davanti a me; lontano brilla una stellina; sotto di me corre la foresta con gli alberi scuri e con la luna; una nebbia bluastra si stende sotto i miei piedi; nella nebbia, vibra una corda; da una parte c’è il mare, dall’altra l’Italia; ecco che si vedono anche le isbe russe. È la mia casa quella che azzurreggia lontano? È mia madre quella che siede alla finestra? Mamma, salva il tuo povero figliolo! Versa una lacrimuccia sulla sua testolina malata! Guarda come lo torturano! Stringi al petto il tuo povero orfanello! Non c’è posto per lui al mondo! Lo perseguitano! Mammina! abbi pietà del tuo bambino malato!… Ma lo sapete che il re di Francia ha un bernoccolo proprio sotto il naso?

Gogol

Treccani Enciclopedia Online

Gogol (Janovskij Nikolaj Vasil’evič), “I racconti di Pietroburgo

I dolori del Giovane Werther

Il brano antologizzato è tratto dall’ultima pagina de I Dolori del Giovane Werther. Werther non sopporta più la propria esistenza a causa anche di un’importante delusione d’amore. Le righe che riportiamo sono dotate di una precisione anatomica notevole: il suicidio non è cosi semplice come si possa immaginare; Werther non riesce infatti ad uccidersi.

Un vicino vide il lampo e udì il colpo; ma poiché, dopo, tutto rimase tranquillo, non vi badò oltre.

La mattina alle sei entrò il servitore col lume. Vide il suo padrone per terra, le pistole, il sangue. Lo chiamò, lo scosse: nessuna risposta, solo un rantolo. Corse dal medico, da Alberto. Carlotta udì suonare il campanello e un tremito le corse per tutte le membra. Svegliò il marito, si alzarono, e il servitore, balbettando e piangendo, diede loro la notizia. Carlotta cadde svenuta ai piedi di Alberto.

Quando il medico giunse presso l’infelice, lo trovò che non c’era più niente da fare; il polso batteva, le membra erano del tutto paralizzate. S’era sparato alla testa, sopra l’occhio destro, il cervello gli era saltato. Per precauzione gli fu praticato un salasso; il sangue uscì, respirava ancora.

Dal sangue che era sulla spalliera della seggiola, si poté arguire che si era colpito mentre sedeva alla scrivania; poi era caduto e si era rotolato convulsamente intorno alla seggiola. Giaceva supino presso la finestra, immobile; era completamente vestito, con gli stivali, la giacca e il panciotto giallo.

La casa, il vicinato, la città erano in subbuglio. Giunse Alberto. Werther era stato trasportato sul letto, con la fronte fasciata; il viso era mortalmente pallido, non faceva alcun movimento. Il rantolo era orribile a udirsi, ora debole, ora più forte; si attendeva la fine.

Non aveva bevuto che un bicchiere di vino. Sulla sua scrivania stava aperto il dramma Emilia Galotti. La costernazione di Alberto, il dolore di Carlotta erano indicibili.

Il vecchio borgomastro accorse a briglia sciolta alla notizia, e baciò il morente versando lacrime cocenti. I suoi figli più grandi lo raggiunsero presto, si gettarono accanto al letto, esternando il loro acerbo dolore, gli baciarono le mani e la bocca e il maggiore, che era stato sempre il suo prediletto, non si staccò dalle sue labbra fino all’ultimo respiro, e bisognò strapparlo via con la forza. Werther morì verso mezzogiorno. La presenza del borgomastro e le misure da lui prese valsero ad arginare lo scandalo. Verso le undici di sera lo fece seppellire nel luogo da lui designato. Il vecchio seguì il feretro coi suoi figli; Alberto non ne ebbe la forza; si temeva per la vita di Carlotta. Alcuni artigiani lo trasportarono, e nessun prete lo accompagnò.

Johann Wolfgang von Goethe

fonte: goethe_werther

Ippolito

L’Ippolito del tragediografo greco Euripide fu rappresentato nel 428 a.C ad Atene. La tragedia narra la storia dell’amore proibito tra Fedra e il suo figliastro Ippolito. Fedra è sconvolta nella sua intera persona dalla potenza dell’amore. Il brano antologizzato è tratto dalla prima apparizione del coro: è preoccupato dal male che affligge Fedra e ne descrive i sintomi.

CORO
str. a
C’è una roccia, raccontano, che stilla
acqua d’oceano: dalle rupi
erompe una sorgiva,
vi attingono con brocche.
Là c’era una mia amica,
lavava nella corrente vesti purpuree
le distendeva sopra
una calda, assolata pietra.
Le prime voci sulla mia padrona
mi giunsero di là.

ant. a
Giace in casa, stremata,
sul suo letto di inferma,
veli leggeri le ombrano
il biondo capo.
Da due giorni, mi dicono,
rifiuta di nutrirsi,
tiene puro il suo corpo
del cibo di Cerere: vuole
approdare al termine funesto di morte
spinta da un male segreto.

str. b
† Forse, † figlia, sei in potere
di Pan, oppure di Ecate o
dei venerandi Coribanti
o della Madre dei monti.
O ti tormenti per qualche tua colpa
contro Dictinna, la dea della caccia:
l’hai offesa con libagioni non offerte?
Oltre i laghi essa incede,
oltre la terra, sui vortici d’acque
del salso mare.

ant. b
O il tuo consorte, il capo
degli Eretteidi, nobile di stirpe,
lo signoreggia un amore segreto,
lo sottrae al tuo letto, nel palazzo?
o un navigante salpato da Creta
è giunto al nostro
porto ospitale
con notizie per la regina:
e l’anima è inchiodata al letto
per il dolore e l’angoscia?

ep.
Convive, di solito, con la difficile natura
delle donne una triste infelice debolezza
di travagli e vaneggiamenti.
Ha attraversato anche me, il mio grembo
questa tempesta. E invocavo
Artemide celeste, signora dell’arco, protettrice
dei parti; io la venero, tanto,
ed essa, grazie a Dio, accorre da me, sempre.
Ma guarda lì davanti alla porta la vecchia nutrice: sta accompagnando fuori dal palazzo la padrona. Che volto tetro,
rannuvolato ha la regina. E io desidero sapere, con tutta l’anima, che cosa l’abbia distrutta, perché sia così pallida.

Euripide

Da Euripide, Ippolito, ed. digitale a cura di Patrizio Sanasi. Liberamente disponibile presso il sito web https://spazioinwind.libero.it/latinovivo/Testintegrali/Ippolito.htm

La lettera scarlatta

I due brani antologizzati dalla Lettera Scarlatta di Nathaniel Hawthorne presentano sul proscenio della narrazione due figure intrecciate e profondamente diverse: Hester Prynne ed il reverendo Dimmesdale. Lo sfondo è quello di una civiltà ipocritamente e fanaticamente religiosa, pronta a mettere al patibolo Hester per essere stata trovata incinta durante una prolungata assenza del marito: il padre della nascitura Perla è proprio il reverendo. Nel primo brano si comincia ad intravedere il disordine psicologico che nel secondo brano porterà il reverendo alla morte, dopo aver sofferto sino alla fine del romanzo di un senso di colpa profondo per la propria codardia.

Nel suo ultimo singolare incontro con Mr Dimmesdale Hester Prynne era rimasta turbata nel vedere in che  stato fosse il pastore. I suoi nervi sembravano assolutamente a pezzi. La forza d’animo era avvilita a debolezza infantile. Strisciava inerme sulla terra, mentre le sue facoltà intellettuali conservavano la pristina forza; anzi avevano forse  acquistato una energia morbosa, che soltanto la malattia avrebbe potuto conferire loro. Conoscendo una sequenza di  circostanze ignote a tutti gli altri, Hester poteva facilmente intuire che, accanto alla legittima azione della coscienza, sul  benessere e sulla tranquillità di Mr Dimmesdale operava e tuttora era in azione un terribile meccanismo. Memore di ciò  che era stato una volta quel povero peccatore, la sua anima si commosse davanti al brivido di terrore con cui si era  appellato a lei – la donna esclusa – invocando aiuto contro il nemico scoperto per istinto. Hester decise che egli aveva  diritto a tutto il suo aiuto. Poco abituata, nel suo lungo esilio dalla società umana, a misurare i principi di giusto e  ingiusto in base a criteri esterni a se stessa, Hester ritenne – o parve ritenere – di avere nei confronti del pastore una  responsabilità che non aveva verso nessun altro, neppure verso l’intero mondo. I legami che la univano al resto  dell’umanità – legami di fiori, sete, oro o chissà quale altro materiale – erano stati spezzati tutti […]

«Popolo della Nuova Inghilterra!», esclamò con una voce che si levò sopra gli astanti alta, solenne, maestosa –  eppure pervasa dal tremore e, a tratti, possente come un urlo che scaturisse dagli insondabili abissi del rimorso e della pena – «voi che mi avete amato! Voi che mi avete considerato santo! Guardatemi qui, il peggior peccatore! Finalmente!  Finalmente! Sono nel luogo dove avrei dovuto ergermi sette anni fa, con questa donna, il cui braccio – più di quel po’ di  forza che mi ha trascinato qui – mi sostiene in questo terribile momento, impedendomi di prostrarmi con la faccia a  terra! Ecco la lettera scarlatta che Hester porta! Avete tremato tutti vedendola! Ovunque la portassero i suoi passi –  ovunque lei cercasse di trovare riposo, sotto quel terribile fardello – dappertutto il simbolo ha gettato intorno a lei un  bagliore sinistro di ripugnanza e di orrore. Ma ecco in mezzo a voi un uomo davanti al cui marchio di infamia e di  peccato voi non avete tremato».

Parve a questo punto che il ministro non dovesse rivelare il resto del suo segreto. Ma combatté contro la  debolezza del corpo – e ancora di più contro la codardia del cuore – che tentava di sopraffarlo. Respingendo ogni aiuto,  avanzò di un passo avanti alla donna e alla bambina.

«Il marchio era su di lui!», continuò quasi con accanimento, tanto era deciso a rivelare tutto. «L’occhio di Dio  lo vedeva! Gli angeli lo additavano! Il demonio lo conosceva bene e lo affliggeva con il tocco delle sue dita di fiamma!  Ma egli lo nascondeva agli uomini con scaltrezza e si aggirava fra voi con il portamento di uno spirito addolorato,  perché puro in un mondo di peccato! Triste, perché lontano dai suoi congiunti in cielo! Ora, nel momento della morte,  sta davanti a voi! Vi incita a guardare ancora la lettera scarlatta di Hester! Vi dice che, pur con tutto il suo arcano orrore, è soltanto l’ombra di quello che egli porta sul petto e che anche questo, il suo marchio rosso, è soltanto il segno di ciò  che l’ha inaridito nel profondo del cuore! C’è qualcuno qui che mette in dubbio il castigo di Dio su un peccatore?  Guardate! Guardate la terribile testimonianza!»

Con un gesto convulso strappò il paramento sacro dal petto. Ecco la rivelazione! Ma sarebbe irriverente  descriverla. Per un attimo lo sguardo della moltitudine inorridita si concentrò sullo spaventoso miracolo, mentre il  ministro si ergeva con il volto avvampante di trionfo, come chi, nello spasimo di un dolore acutissimo, abbia conseguito la vittoria. Poi si abbatté sul palco! Hester lo sollevò un poco e gli sostenne la testa contro il proprio petto. Il vecchio  Roger Chillingworth si inginocchiò al suo fianco, con un volto vuoto e vacuo, che sembrava privo di vita. «Mi sei sfuggito!», ripeté più di una volta. «Mi sei sfuggito!»

[…]

Perla gli baciò le labbra. Si spezzò l’incantesimo. La grande scena di dolore, nella quale la bimba selvaggia  aveva avuto la sua parte, aveva risvegliato tutta la sua tenerezza, e, mentre cadevano sulle guance del padre, le lacrime  erano il pegno che sarebbe cresciuta in mezzo alla gioia e al dolore umano, non per combattere contro il mondo, ma per  essere donna nel mondo. Anche verso sua madre si era compiuta la missione di Perla, quale messaggera di angoscia. «Hester», disse il pastore, «addio!»

«Non ci incontreremo più?», sussurrò lei piegando il volto sul suo. «Non trascorreremo insieme la nostra vita  immortale? Sì, sì, ci siamo riscattati a vicenda con tanto dolore! Guardi lontano nell’eternità con quei luminosi occhi  morenti. Dimmi quello che vedi».

«Silenzio, Hester, silenzio!», disse con tremula solennità. «La legge che abbiamo infranto! Il peccato rivelato  in modo così orribile! Che soltanto questo sia nei tuoi pensieri! Ho paura! Ho paura! Forse, quando abbiamo  dimenticato il nostro Dio – quando abbiamo violato la deferenza reciproca per l’anima dell’altro – da quel momento è  stato vano sperare di poterci incontrare nell’aldilà in una unione eterna e pura. Dio sa ed è misericordioso! Ha  dimostrato misericordia soprattutto nella mia afflizione. Infliggendomi questa tortura da portare sul cuore! Mandando  quel terribile vecchio tenebroso a tenerla sempre incandescente! Portandomi a questa morte di ignominia davanti a tutti! Se una sola di queste agonie fosse mancata, sarei stato perduto per sempre! Sia lodato il suo nome! Sia fatta la sua  volontà! Addio!»

Quest’ultima parola accompagnò l’estremo respiro del ministro. La moltitudine, in silenzio fino a quel  momento, proruppe in uno strano, profondo clamore di smarrimento e di stupore, incapace di esprimersi se non con quel mormorio che rimbombava sordo dietro lo spirito dipartito.

Nathaniel Hawthorne

Fonte: hawtorne_lettera scarlatta

Agamennone

Il brano antologizzato è tratto dalle ultime pagine dell’Agamennone di Eschilo, una tragedia greca rappresentata nel 458 a.C, insieme ad altre due tragedie (che, insieme con la prima, compongono la trilogia dell’Orestea) e ad un dramma satiresco. Cassandra ha previsto la morte propria e del re “pastore dei popoli” Agamennone per mano della regina Clitemnestra (o Clitennestra), con la complicità dell’amante Egisto. La morte dei due si consuma fuori scena, secondo la consuetudine del teatro tragico attico.

CASSANDRA

Ahi, ahi, la fiamma, eccola! Mi assale! Apollo Liceo, a me, a me! Leonessa a due gambe, a letto col lupo, mentre il  leone gagliardo è lontano. Lei mi abbatterà: ah, mio tormento. Come preparando filtro di morte, mischierà alla vendetta  la mia parte di paga. Affila la lama per lui, il suo uomo. La morte – di questo si vanta – sarà giusto compenso per avermi  condotta sin qui. Perché vi ho ancora indosso, scettro, fasce profetiche sulle spalle? Perché si rida di me? Vi spezzo, io  stessa prima dell’ora fatale. Distrutte vi voglio. Nella polvere, ecco come io vi ripago. Un’altra al mio posto fate ricca di  strazio. Guardate, la mano stessa di Apollo mi strappa il velo oracolare. Prima posava l’occhio superbo su me che così  abbigliata ero esposta alle beffe di tutti: amici, nemici, perfetto equilibrio di scherno… “E mi adattavo al nome ormai  consueto: Ciarlatana!” rifiuto umano, in giro ad accattare, miserabile morta di fame. Per finire, il mago che m’ha fatta  maga, lui m’ha trascinata a questa vicenda di morte. Non l’altare – nella casa paterna – ma il tronco del boia mi aspetta,  scarlatto di tiepido sangue dal mio capo reciso. Cadremo, ma non senza castigo di mano divina. Sarà qui uno a  vendicare, germoglio matricida, esigerà il saldo per l’assassinio del padre. Lui, fuggitivo, cacciato lontano in esilio, è  ormai di ritorno: pronto a incorniciare con l’ultimo fregio l’avito edificio di colpe. Saldo patto hanno giurato gli dèi. Lo  spingerà il gesto implorante del padre steso al suolo. Perché questo abisso di pianto? Ho forse pietà di me stessa? Ho  visto, all’inizio, compiersi il fato di Troia. Ho visto i suoi vincitori uscire in questo stato dal divino giudizio. Perciò mi  avvio, voglio il mio destino: patire la morte! Cassandra volge lo sguardo al portale del palazzo. E ora a te, mia porta  dell’Ade: ti saluto. Mi tocchi un colpo preciso, lo supplico. Senza scarti d’agonia – fiotti, torrenti di sangue per una morte soave. Così possa chiudere gli occhi.

CORO

Quanto devi patire, donna di alto sapere! Hai detto molto. Ma se realmente conosci la tua fine fatale, perché questo  strano coraggio, questi passi verso l’altare, come vittima rapita dal dio?

CASSANDRA

No, ospiti, non c’è salvezza neppure tardando.

CORO

È impagabile l’ultimo istante.

CASSANDRA

La mia ora è qui: fuggendo guadagno ben poco.

CORO

Attingi coraggio dal tuo animo prode. Sappilo.

CASSANDRA

Chi ha sorte felice non ode simili frasi.

CORO

Una morte illustre affascina gli uomini.

CASSANDRA

O padre! Te, e i tuoi nobili figli!

CORO

Cos’hai? Quale spavento ti strappa indietro?

CASSANDRA

Ahimè!

CORO

Perché questo “ahimè”? Brivido d’orrore, dentro?

CASSANDRA

Sfiata assassinio la casa, gronda cruenta.

CORO

Come può? È aroma di offerte votive, dai focolari.

CASSANDRA

Si distingue come un respiro di tomba.

CORO

Non c’è incenso d’Oriente là dentro, a tuo dire!

CASSANDRA

Parto. Ululerò ai trapassati il mio fato e quello di Agamennone. Sia finita qui. Ah stranieri! Grido: non di spavento –  uccello a un’ombra di fronda – ma perché di tutto questo, dopo la fine, mi siate testi fedeli, nell’ora che una donna, a  saldare la mia morte di donna, cadrà, e un uomo dovrà morire, in cambio di un uomo cui fu fatale la sposa. Pensate che  sto per morire. Fatemi questo dono ospitale.

CORO

O tu che soffri, ho pena del fato che tu stessa t’annunci.

CASSANDRA

Ancora una volta voglio dire parole distese, non cantilene di lutto, per la mia morte. Davanti a quest’ultima luce di sole,  io chiedo ai vendicatori del re che facciano scontare ai nemici anche la mia uccisione, di me morta schiava, vittima  disarmata. Vicende terrene! Prospere, e basta un’ombra a travolgerle: se la sorte è ostile, una passata di spugna stillante,  e il disegno è perduto. Questo mi fa piangere, molto più di tutto il resto. Cassandra entra nella reggia. 

CORO

Hanno nel sangue gli uomini

fame implacabile di felicità.

Nessuno di quelli che la gente

già mostra col dito, vuole

vietarle l’entrata, scacciarla

dal proprio palazzo, gridando

“Non avvicinarti, mai più.”

A quest’uomo i beati donarono

di vincere la terra di Priamo,

e torna alla patria

pieno di onori divini.

Ma ora, se deve saldare il sangue

di chi l’ha preceduto,

se per quelle morti antiche

morendo lui stesso compie

espiazione di altri assassinii,

quale uomo, che sappia la storia,

può dire di essere nato

all’ombra di un destino innocente?

Dall’interno della reggia, laceranti, esplodono voci di dolore. 

AGAMENNONE

Aaah! Ho dentro, m’inchioda colpo preciso.

CORO

Silenzio. Chi grida, trapassato da colpo preciso?

AGAMENNONE

Altra fitta, orrenda! Due colpi ho in corpo.

CORO

L’azione è conclusa: quest’ululo del re me lo fa sospettare. Amici, scambiamoci i pareri sicuri. Vi dico quel che penso:  far gridare in città che si corra alla rocca.

Per me, scattare subito dentro, smascherare il delitto con evidenza di lama appena estratta. Ecco il mio voto, su cosa decidere: mi associo a questo consiglio. Non è ora d’indugi.

Apriamo gli occhi. Queste sono le prime battute, indizi di tirannide, di ciò che stanno preparando allo stato. Troppo tardi: loro schiacciano sotto i piedi il decantato “pensaci bene”! Intanto la mano è ben sveglia. Non so quale miglior consiglio dare: l’agire esige riflessione attenta, …

Sono dalla stessa parte: non ho il mezzo di far risorgere l’ucciso a parole.

Dunque, salvare la vita. E per questo, chinarsi ai padroni che sono infamia alla casa?

No, non si può tollerarlo. Meglio la morte, è più dolce che subire i tiranni.

Come indizio c’è l’urlo del re. Ci basta per crederlo ucciso?

Vediamoci chiaro, poi venga pure lo sdegno. Indovinare, ed essere certi: c’è differenza.

Per me, prevale questo parere, e l’approvo: sapere con certezza la fine dell’Atride.

Lento, si spalanca il portale della reggia. Dentro, tre figure. Riverso in una conca lucente, avvolto in un largo drappo  chiazzato di sangue, il corpo di Agamennone. Accanto, abbattuta, Cassandra. Li sovrasta – l’arma è ancora in mano –  Clitennestra, superba. 

CLITENNESTRA

In passato molte parole ho detto sfruttando un’occasione: ora, non avrò scupoli a smentirle. Come può, uno, tramando  ostili colpi a gente ostile che si presenta con la faccia amica, gettare rete di sventura, altezza che nessun balzo varca? Da troppo tempo non mi usciva dalla mente questa gara di morte. Ora il premio della lotta, la vittoria: tardi, ma alla fine è  giunta! Qui mi ergo, dove vibrai l’arma, dove ho saldato il mio impegno. Ho agito, ho avuto successo, non voglio  celarlo: né scampo per lui, né riparo al colpo fatale. Un volo di rete, inestricabile – come a una mattanza – e lo ingabbio,  sfarzo doloroso di stoffe. Io due squarci. Due rantoli, lui, fascio di membra snervate, lì al suolo. È steso. Un terzo colpo  gli assesto. Grato ossequio a Zeus dell’abisso, patrono dei morti. Sfoga l’anima crollando – una boccata precipitosa di  sangue e spira. Mi schizza di fosche stille – velo di rugiada scarlatta che mi fa lieta, come la semente del grano, quando  nel pieno sbocciare dei chicchi s’ingemma del rorido dono del cielo. Questi gli eventi, degna nobiltà di Argo. Esultate se vi piace. Io me ne glorio. Se mai fosse buon momento per libare su un ucciso, ora sarebbe giusto, legittimo, anzi.  Quest’uomo ha colmato il calice di troppi crimini, qui nella reggia: al suo ritorno gli è toccato svuotarlo.

CORO

Ci scuote la tua lingua sfacciata, questa voce superba contro lo sposo.

CLITENNESTRA

Mi state saggiando: quella donna insensata, pensate. Io però con cuore immoto mi rivolgo a gente che intende. Tu mi  assecondi, sei disposto? Mi critichi? È lo stesso. Ecco Agamennone, sì mio marito. Morto. Colpo di questa abile mano,  autrice di vendetta. Questi i fatti.

CORO

str. I 

Regina, che tossico frutto della zolla

inghiottisti, che filtro stillato

dall’onda salmastra

per commettere l’assassinio?

Per spezzare, troncare

l’imprecazione che sale dal paese?

Sarai fuorilegge, sotto un carico d’astio

ti schiaccerà la tua gente.

CLITENNESTRA

Adesso tocca a me fuggire il paese, affrontare l’astio, la pubblica esecrazione: così tu ora sentenzi. Non facesti contrasto in passato a quest’uomo. Lui, senza scrupolo – non conta la morte di un’agnella, quando il pascolo trabocca di mandrie  ricciute – immolò la sua figlia, frutto doloroso e adorato del mio parto. Doveva affascinare, in Tracia, il calo di vento. A  lui no, non toccava l’espulsione da questo paese, a fargli scontare il crimine osceno. Alle mie azioni, invece, tendi le  orecchie, e ti fai giudice senza pietà. Ora ascolta. Limita le minacce, potrai darmi ordini, ma solo piegandomi con le tue  mani: io, per me, sono pronta, da pari a pari. Régolati. Certo, se dio decide l’opposto, apprenderai la dura lezione di un  tardivo equilibrio di mente.

CORO

ant. I 

Sei spavalda di cuore

e alzi la voce arrogante.

Delira il tuo spirito

per il cruento colpo di fortuna.

Ombra fosca di sangue

– la vedo – ti scintilla negli occhi.

Hai vuoto d’amore, intorno:

devi espiare il colpo con colpo di risarcimento.

CLITENNESTRA

E tu considera la santa base dei miei giuramenti: su Equità che rese giustizia a mia figlia, su Perdizione punitrice divina, su Erinni, cui dedico quest’uomo scannato, mai varcherà la mia soglia il brivido della paura, finché attizzi il fuoco nel  mio braciere Egisto, pieno d’affetto, come sempre in passato, per me. È lui scudo non piccolo del mio franco ardire.  Eccolo, steso, colui che schizzò fango su questa donna, l’incanto delle Criseidi, laggiù sotto Troia. E guarda, ecco la  preda di guerra, la veggente, la profetessa d’oracoli che spartì il letto con lui. Che amica fedele di letto, ora, guardali!  Come quando si stendevano insieme sul ponte delle navi! Non è salato il conto, di quei due. Lui, giace così come vedi.  Lei, modulò la nenia estrema dell’agonia – un cigno, pareva. Eccola stesa con lui, a fare l’amore. Me la porse lui, il mio  uomo, ghiotto contorno al mio godere!

Eschilo

Fonte: eschilo_agamennone

Annie Ernaux – Non sono più uscita dalla mia notte

 

Cosa accade quando i propri genitori iniziano una fase di declino attraverso la perdita del sé e degli altri in malattie in cui ci si perde, com l’Alzhaimer? Questa descrizione del viaggio nelle ultime fasi della vita della madre ci conduce attraverso le fasi di dolore e disperazione di una figlia.

 

Appunti, poche righe, sensazioni ed emozioni annotate velocemente, tracciano questo diario del dolore. Una figlia guarda la madre lentamente spegnersi, osserva i suoi gesti inconsapevoli, ascolta le sue frasi senza logica, soffre per il totale abbrutimento del suo corpo, per la sua perdita di dignità legata allo smarrimento della coscienza. Il morbo di Alzheimer è una malattia che colpisce la mente, la distrugge un po’ alla volta, cancella la persona. Per una figlia però la vita della madre è qualcosa di più della presenza di una persona amata: è il mantenere in vita un poco della propria infanzia, della memoria di anni e di sentimenti lontani nel tempo. Anche il dolore cocente nel vedere il lento annullarsi, che con gli anni si fa sempre più rapido, della coscienza della donna, ha momenti di profonda tenerezza che possono essere suscitati da una piega delle labbra o da un richiamo inaspettatamente cosciente.
Rimorsi, sensazioni di inadempienze, ricordi di paure infantili, sentimenti contraddittori che colgono la Ernaux all’improvviso, ma rimane sempre e comunque un pensiero: il bisogno che la madre sia viva. Quando infatti questa tenera e tragica malata muore, alla figlia rimane un terribile senso di vuoto, le mancherà a lungo il coraggio di riprendere in mano gli appunti scritti di ritorno da ogni visita all’ospedale, ma nello stesso tempo è solo a lei che riesce a pensare, sa parlare solo di lei, ridà vita, grazie al gioco della memoria, ad immagini della sua giovinezza… “quando avevo sei o sette anni la chiamavo Vanné”.

 

Non sono più uscita dalla mia notte di Annie Ernaux
Titolo originale dell’opera: Je ne suis pas sortie de ma nuit

Traduzione di Orietta Orel
Pag. 111, Lit. 18.000 – Edizioni Rizzoli (La Scala)
ISBN 88-17-67085-5

 

Link: https://www.wuz.it/archivio/cafeletterario.it/043/cafenov.htm