I dolori del Giovane Werther

Il brano antologizzato è tratto dall’ultima pagina de I Dolori del Giovane Werther. Werther non sopporta più la propria esistenza a causa anche di un’importante delusione d’amore. Le righe che riportiamo sono dotate di una precisione anatomica notevole: il suicidio non è cosi semplice come si possa immaginare; Werther non riesce infatti ad uccidersi.

Un vicino vide il lampo e udì il colpo; ma poiché, dopo, tutto rimase tranquillo, non vi badò oltre.

La mattina alle sei entrò il servitore col lume. Vide il suo padrone per terra, le pistole, il sangue. Lo chiamò, lo scosse: nessuna risposta, solo un rantolo. Corse dal medico, da Alberto. Carlotta udì suonare il campanello e un tremito le corse per tutte le membra. Svegliò il marito, si alzarono, e il servitore, balbettando e piangendo, diede loro la notizia. Carlotta cadde svenuta ai piedi di Alberto.

Quando il medico giunse presso l’infelice, lo trovò che non c’era più niente da fare; il polso batteva, le membra erano del tutto paralizzate. S’era sparato alla testa, sopra l’occhio destro, il cervello gli era saltato. Per precauzione gli fu praticato un salasso; il sangue uscì, respirava ancora.

Dal sangue che era sulla spalliera della seggiola, si poté arguire che si era colpito mentre sedeva alla scrivania; poi era caduto e si era rotolato convulsamente intorno alla seggiola. Giaceva supino presso la finestra, immobile; era completamente vestito, con gli stivali, la giacca e il panciotto giallo.

La casa, il vicinato, la città erano in subbuglio. Giunse Alberto. Werther era stato trasportato sul letto, con la fronte fasciata; il viso era mortalmente pallido, non faceva alcun movimento. Il rantolo era orribile a udirsi, ora debole, ora più forte; si attendeva la fine.

Non aveva bevuto che un bicchiere di vino. Sulla sua scrivania stava aperto il dramma Emilia Galotti. La costernazione di Alberto, il dolore di Carlotta erano indicibili.

Il vecchio borgomastro accorse a briglia sciolta alla notizia, e baciò il morente versando lacrime cocenti. I suoi figli più grandi lo raggiunsero presto, si gettarono accanto al letto, esternando il loro acerbo dolore, gli baciarono le mani e la bocca e il maggiore, che era stato sempre il suo prediletto, non si staccò dalle sue labbra fino all’ultimo respiro, e bisognò strapparlo via con la forza. Werther morì verso mezzogiorno. La presenza del borgomastro e le misure da lui prese valsero ad arginare lo scandalo. Verso le undici di sera lo fece seppellire nel luogo da lui designato. Il vecchio seguì il feretro coi suoi figli; Alberto non ne ebbe la forza; si temeva per la vita di Carlotta. Alcuni artigiani lo trasportarono, e nessun prete lo accompagnò.

Johann Wolfgang von Goethe

fonte: goethe_werther

La lettera scarlatta

I due brani antologizzati dalla Lettera Scarlatta di Nathaniel Hawthorne presentano sul proscenio della narrazione due figure intrecciate e profondamente diverse: Hester Prynne ed il reverendo Dimmesdale. Lo sfondo è quello di una civiltà ipocritamente e fanaticamente religiosa, pronta a mettere al patibolo Hester per essere stata trovata incinta durante una prolungata assenza del marito: il padre della nascitura Perla è proprio il reverendo. Nel primo brano si comincia ad intravedere il disordine psicologico che nel secondo brano porterà il reverendo alla morte, dopo aver sofferto sino alla fine del romanzo di un senso di colpa profondo per la propria codardia.

Nel suo ultimo singolare incontro con Mr Dimmesdale Hester Prynne era rimasta turbata nel vedere in che  stato fosse il pastore. I suoi nervi sembravano assolutamente a pezzi. La forza d’animo era avvilita a debolezza infantile. Strisciava inerme sulla terra, mentre le sue facoltà intellettuali conservavano la pristina forza; anzi avevano forse  acquistato una energia morbosa, che soltanto la malattia avrebbe potuto conferire loro. Conoscendo una sequenza di  circostanze ignote a tutti gli altri, Hester poteva facilmente intuire che, accanto alla legittima azione della coscienza, sul  benessere e sulla tranquillità di Mr Dimmesdale operava e tuttora era in azione un terribile meccanismo. Memore di ciò  che era stato una volta quel povero peccatore, la sua anima si commosse davanti al brivido di terrore con cui si era  appellato a lei – la donna esclusa – invocando aiuto contro il nemico scoperto per istinto. Hester decise che egli aveva  diritto a tutto il suo aiuto. Poco abituata, nel suo lungo esilio dalla società umana, a misurare i principi di giusto e  ingiusto in base a criteri esterni a se stessa, Hester ritenne – o parve ritenere – di avere nei confronti del pastore una  responsabilità che non aveva verso nessun altro, neppure verso l’intero mondo. I legami che la univano al resto  dell’umanità – legami di fiori, sete, oro o chissà quale altro materiale – erano stati spezzati tutti […]

«Popolo della Nuova Inghilterra!», esclamò con una voce che si levò sopra gli astanti alta, solenne, maestosa –  eppure pervasa dal tremore e, a tratti, possente come un urlo che scaturisse dagli insondabili abissi del rimorso e della pena – «voi che mi avete amato! Voi che mi avete considerato santo! Guardatemi qui, il peggior peccatore! Finalmente!  Finalmente! Sono nel luogo dove avrei dovuto ergermi sette anni fa, con questa donna, il cui braccio – più di quel po’ di  forza che mi ha trascinato qui – mi sostiene in questo terribile momento, impedendomi di prostrarmi con la faccia a  terra! Ecco la lettera scarlatta che Hester porta! Avete tremato tutti vedendola! Ovunque la portassero i suoi passi –  ovunque lei cercasse di trovare riposo, sotto quel terribile fardello – dappertutto il simbolo ha gettato intorno a lei un  bagliore sinistro di ripugnanza e di orrore. Ma ecco in mezzo a voi un uomo davanti al cui marchio di infamia e di  peccato voi non avete tremato».

Parve a questo punto che il ministro non dovesse rivelare il resto del suo segreto. Ma combatté contro la  debolezza del corpo – e ancora di più contro la codardia del cuore – che tentava di sopraffarlo. Respingendo ogni aiuto,  avanzò di un passo avanti alla donna e alla bambina.

«Il marchio era su di lui!», continuò quasi con accanimento, tanto era deciso a rivelare tutto. «L’occhio di Dio  lo vedeva! Gli angeli lo additavano! Il demonio lo conosceva bene e lo affliggeva con il tocco delle sue dita di fiamma!  Ma egli lo nascondeva agli uomini con scaltrezza e si aggirava fra voi con il portamento di uno spirito addolorato,  perché puro in un mondo di peccato! Triste, perché lontano dai suoi congiunti in cielo! Ora, nel momento della morte,  sta davanti a voi! Vi incita a guardare ancora la lettera scarlatta di Hester! Vi dice che, pur con tutto il suo arcano orrore, è soltanto l’ombra di quello che egli porta sul petto e che anche questo, il suo marchio rosso, è soltanto il segno di ciò  che l’ha inaridito nel profondo del cuore! C’è qualcuno qui che mette in dubbio il castigo di Dio su un peccatore?  Guardate! Guardate la terribile testimonianza!»

Con un gesto convulso strappò il paramento sacro dal petto. Ecco la rivelazione! Ma sarebbe irriverente  descriverla. Per un attimo lo sguardo della moltitudine inorridita si concentrò sullo spaventoso miracolo, mentre il  ministro si ergeva con il volto avvampante di trionfo, come chi, nello spasimo di un dolore acutissimo, abbia conseguito la vittoria. Poi si abbatté sul palco! Hester lo sollevò un poco e gli sostenne la testa contro il proprio petto. Il vecchio  Roger Chillingworth si inginocchiò al suo fianco, con un volto vuoto e vacuo, che sembrava privo di vita. «Mi sei sfuggito!», ripeté più di una volta. «Mi sei sfuggito!»

[…]

Perla gli baciò le labbra. Si spezzò l’incantesimo. La grande scena di dolore, nella quale la bimba selvaggia  aveva avuto la sua parte, aveva risvegliato tutta la sua tenerezza, e, mentre cadevano sulle guance del padre, le lacrime  erano il pegno che sarebbe cresciuta in mezzo alla gioia e al dolore umano, non per combattere contro il mondo, ma per  essere donna nel mondo. Anche verso sua madre si era compiuta la missione di Perla, quale messaggera di angoscia. «Hester», disse il pastore, «addio!»

«Non ci incontreremo più?», sussurrò lei piegando il volto sul suo. «Non trascorreremo insieme la nostra vita  immortale? Sì, sì, ci siamo riscattati a vicenda con tanto dolore! Guardi lontano nell’eternità con quei luminosi occhi  morenti. Dimmi quello che vedi».

«Silenzio, Hester, silenzio!», disse con tremula solennità. «La legge che abbiamo infranto! Il peccato rivelato  in modo così orribile! Che soltanto questo sia nei tuoi pensieri! Ho paura! Ho paura! Forse, quando abbiamo  dimenticato il nostro Dio – quando abbiamo violato la deferenza reciproca per l’anima dell’altro – da quel momento è  stato vano sperare di poterci incontrare nell’aldilà in una unione eterna e pura. Dio sa ed è misericordioso! Ha  dimostrato misericordia soprattutto nella mia afflizione. Infliggendomi questa tortura da portare sul cuore! Mandando  quel terribile vecchio tenebroso a tenerla sempre incandescente! Portandomi a questa morte di ignominia davanti a tutti! Se una sola di queste agonie fosse mancata, sarei stato perduto per sempre! Sia lodato il suo nome! Sia fatta la sua  volontà! Addio!»

Quest’ultima parola accompagnò l’estremo respiro del ministro. La moltitudine, in silenzio fino a quel  momento, proruppe in uno strano, profondo clamore di smarrimento e di stupore, incapace di esprimersi se non con quel mormorio che rimbombava sordo dietro lo spirito dipartito.

Nathaniel Hawthorne

Fonte: hawtorne_lettera scarlatta

Gustave Flaubert – Tre racconti

 

Tre racconti è l’ultima produzione narrativa compiuta di Gustave Flaubert. Un cuore semplice, La leggenda di San Giuliano Ospitaliere e Erodiade, costituiscono questa piccola antologia che ben riassume le sfumature e le capacità dell’autore francese. Infatti, nonostante le tre storie differiscono l’una dall’altra per ambientazione geografica e storica, riescono ad esprimere a pieno lo stile dello scrittore francese, capace di descrivere e dar vita a realtà e personaggi tra loro così lontani.

 

Era la prima volta della loro vita, la signora Aubain non aveva una natura espansiva. Felicita gliene fu riconoscente come di un favore, e da allora in poi la amò con una devozione animale e una venerazione religiosa.

La bontà del suo cuore si espanse.

Quando udiva nella strada i tamburi di un reggimento in marcia, si metteva sulla porta con una brocca di sidro, e offriva da bere ai soldati. Curò alcuni colerosi. Proteggeva i polacchi; e ce ne fu perfino uno che dichiarava di volerla sposare. Ma litigarono; perché una mattina, di ritorno dall’angelus, lo trovò in cucina, dove si era introdotto, e servito una salsa che stava tranquillamente mangiando.

Dopo i polacchi, fu la volta del vecchio Colmiche, di cui si diceva che avesse commesso delle atrocità nell’83. Viveva sulla riva del fiume, nei ruderi di un porcile. I ragazzini lo guardavano attraverso le fessure del muro, e gli gettavano i sassi che cadevano sul pagliericcio, dove se ne stava coricato, continuamente scosso dal catarro, con i capelli lunghissimi, le palpebre infiammate, e su un braccio un tumore più grosso della testa. Lei gli procurò un po’ di biancheria, cercò di pulirgli il tugurio, sperava di sistemarlo nello stanzino del forno, senza che desse fastidio alla signora. Quando il cancro scoppiò lei glielo medicò tutti i giorni, ogni tanto gli portava un po’ di focaccia, lo sistemava al sole su un fascio di paglia; e il povero vecchio, sbavando e tremando, la ringraziava con voce spenta, temeva di non vederla più, tendeva le mani appena la vedeva allontanarsi. Morì; lei fece dire una messa per la pace della sua anima. In quello stesso giorno, le capitò una grande felicita: all’ora di cena, il negro della signora di Larsonniere si presento, portando il pappagallo, con il trespolo, la catenella e il lucchetto. Un biglietto della baronessa annunziava alla signora Aubain che, siccome suo marito era stato promosso prefetto, partivano la sera stessa; e la pregava di accettare quell’uccello, come un ricordo, e in segno della sua deferenza.

 

Gustave Flaubert

 

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Gustave Flaubert, Tre racconti (1877)

Canto di Natale

Nel Canto di Natale di Charles Dickens, Tim, bambino storpio, che si aiuta con una stampella per camminare, confida nello spirito natalizio per essere accettato dalla comunità dei fedeli.

Così Marta si nascose ed entrò il piccolo Bob, il padre, con almeno tre piedi di sciarpa, senza contare la frangia, che gli pendeva davanti e i vestiti logori, rammendati e spazzolati che sembravano nuovi, e Tiny Tim sulle spalle. Povero Tim, portava una piccola stampella e aveva le membra sostenute da una struttura di ferro.

[…] <<Come si è comportato Tim?>>, chiese la signora Cratchit, dopo essersi burlata di Bob per la sua credulità e dopo che Bob si fu saziato di tenersi stretta la figlia.

<<Buono come l’oro>>, disse Bob, <<e anche più buono. Qualche volta si mette a pensare, giacchè passa tanto tempo a sedere solo solo, e pensa le cose più strane che si possano immaginare. Tornando a casa, mi ha detto che sperava che la gente lo avesse visto in chiesa, perché era storpio e per loro poteva essere un piacere ricordarsi nel giorno di Natale di Colui che fece camminare gli storpi e vedere i ciechi>>

Nel dire queste parole, la voce di Bob tremava e si mise a tremare ancor più quando disse che Tim stava facendosi forte e coraggioso.

Si udì sul pavimento il rumore della sua piccola stampella, e Tiny Tim tornò indietro prima che fosse stata detta un’altra parola, scortato dal fratello e dalla sorella fino al suo panchetto accanto al fuoco.

[…] <<Dio ci benedica, ciascuno di noi!>>, disse Tim per ultimo. Stava seduto sul suo panchetto vicinissimo al padre, e Bob teneva nella propria la sua esile manina, come se avesse amato quel bambino, desiderato di tenerselo accanto e temuto che potessero portarglielo via.

<<Spirito>>, disse Scrooge, con un interessamento che non aveva mai provato prima di allora, <<dimmi se Tim vivrà.>>

<<Vedo una sedia vuota>> replicò lo Spirito, <<nell’angolo di quel misero caminetto e una gruccia senza proprietario, conservata con ogni cura. Se queste ombre rimangono inalterate nel futuro il bimbo non morirà.>>

<<No, no>>, disse Scrooge. <<Oh no, Spirito buono. Dimmi che sarà risparmiato.>>

<<Se queste ombre rimangono inalterate nel futuro, nessun altro della mia razza>>, replico lo Spirito, <<lo troverò più qui, ma che importa? Se deve morire, è meglio che muoia e faccia diminuire la popolazione in sovrappiù.>>

Nel sentire lo Spirito citare le sue stesse parole, Scrooge chinò la testa e si sentì schiacciato dal pentimento e dal rimorso.

Charles Dickens

Treccani Enciclopedia Online

Charles Dickens, “Canto di Natale” (1843)

I bambini rachitici di De Amicis

Una pagina di Cuore mostra le condizioni di salute degli scolari di fine Ottocento in Italia. Il medico, a scuola, visita i bambini e ne osserva le carenze e le deformità che ne determinano l’emarginazione sociale.

Erano una sessantina, tra bambini e bambine… povere ossa torturate! Povere mani, poveri piedini rattrappiti e scontorti! Poveri corpicini contraffatti! […] Alcuni, visti da davanti, son belli, e paion senza difetti; ma si voltano… e vi danno una stretta all’anima. C’era il medico che li visitava. Li metteva ritti sui banchi e alzava i vestitini per toccare i ventri enfiati e le giunture grosse; ma non si vergognavano punto, povere creature; si vedeva che erano bimbi assuefatti a essere svestiti, esaminati, rivoltati per tutti i versi.[…] Ma chi può dire quello che soffrirono durante il primo deformarsi del corpo, quando col crescere della loro infermità, vedevano diminuire l’affetto intorno a sé, poveri bambini, lasciati soli per ore ed ore nell’angolo di una stanza o d’un cortile, mal nutriti, e a volte anche scherniti, o tormentati per mesi. […] Parecchi non potevano alzarsi dal banco, e rimanevan lì, col capo ripiegato sul braccio, accarezzando le stampelle con la mano.

[…] – Vieni,- ripetè l’infermiere entrando. Il ragazzo si fece animo e lo seguito, gettando sguardi paurosi a destra e a sinistra, sui visi bianchi e smunti dei malati, alcuni dei quali avevano gli occhi chiusi e parevano morti, altri gurdavan per aria con gli occhi grandi e fissi, come spaventati. Parecchi gemevano come bambini. Il camerone era oscuro, l’aria impregnata d’un odore acuto di medicinali. Due suore di carità andavano attorno con delle boccette in mano.

Arrivato in fondo al camerone, l’infermiere si fermò al capezzale d’un letto, aperse le tendine e disse: – ecco tuo padre.

Il ragazzo diede in uno scoppio di pianto, e lasciato cadere l’involto, abbandonò la testa sulla spalla del malato, afferandogli con una mano il braccio che teneva disteso immobile sopra la coperta, il malato non si scosse.

Edmondo De Amicis

Testo completo

Edmondo De Amicis, Cuore (1886)

Pinocchio

Il povero Pinocchio è vivo o morto? Tre medici si susseguono per accertarsi delle condizioni del burattino, ma solo la Fata riuscirà a trovare la chiave per la sua guarigione.

[…] I medici arrivarono subito, uno dopo l’altro: arrivò, cioè, un Corvo, una Civetta e un Grillo-parlante.

-vorrei sapere da lor signori,- disse la Fata, rivolgendosi ai tre medici riuniti intorno al letto di Pinocchio- vorrei sapere da lor signori se questo disgraziato burattino sia morto o vivo!…

A quest’invito, il Corvo, facendosi avanti per il primo, tastò il polso a Pinocchio: poi gli tastò il naso, poi il dito mignolo dei piedi: e quando ebbe tastato ben bene, pronunziò solennemente queste parole:

-a mio credere il burattino è bell’e morto: ma se per disgrazie non fosse morto, allora sarebbe indizio sicuro che è sempre vivo!

-Mi dispiace- disse la Civetta- di dover contraddire il Corvo, mio illustre amico e collega: per me, invece, il burattino è sempre vivo: ma se per disgrazia non fosse vivo, allora sarebbe segno che è morto davvero!

[…] A questo punto si sentì nella camera un suono soffocato di pianti e di singhiozzi. Figuratevi come rimasero tutti, allorché, sollevati un poco i lenzuoli, si accorsero che quello che piangeva e singhiozzava era il povero Pinocchio.

-Quando il morto piange, è segno che è n via di guarigione—disse sollenemente il Corvo.

-Mi duole di contraddire il mio illustre amico e collega,-soggiunse la Civetta – ma per me, quando il morto piange è segno che gli dispiace a morire.

Appena i tre medici furono usciti di camera, la Fata si accostò a Pinocchio, e, dopo averlo toccato sulla fronte, si accorse che era travagliato da un febbrone da non si dire.

Allora sciolse una certa polverina bianca in mezzo al bicchier d’acqua, e porgendolo al burattino gli disse amorosamente:

-Bevila, e in pochi giorni sarai guarito.

Pinocchio guardò il biacchiere, storse un po’ la bocca, e poi domandò con voce di piagnisteo:

-è dolce o amara?

Carlo Collodi

Treccani Enciclopedia Online

Carlo Lorenzini, Pinocchio (1883)

Giovanni Pascoli – Myricae

La cecità è un tema molto presente nelle poesie di Giovanni Pascoli, e fa parte di “tristezze” all’interno della raccolta Myricae del 1891

 

XII

I ciechi

Siedono lungo il fosso, al solleone,
fuor dello stormeggiante paesello.
Passa un trotto via via tra il polverone,
una pesta, un alterco, uno stornello:

e da terra una grave salmodia
si leva, una preghiera, al lor cospetto.
— Il nostro pane — gemono via via:
il nostro, il nostro: tu, Gesù, l’hai detto.

 

Si nota la rappresentazione dolente dei ciechi, ignorati dai passanti, con la loro preghiera chiedono agli occhi di Gesù di essere considerati come tutti gli altri, ed avere diritto al pane quotidiano cme tutti, come clor dai quali vengono ignorati.

 

link: http://myricaepoesie.blogspot.com/2013/06/myricae-27.html

Ippolito Nievo – Confessioni di un italiano

In forma di autobiografia,  il protagonista Carlo Altoviti, racconta le vicende del Risorgimento Italiano e dell’Unità d’Italia. Sottolineiamo qui la descrizione di Carlino, un patriota cieco, per cui la ripresa della vista è metafora della ripresa della visione del paese Italia

 

Carlino è un patriota che ha perso la vista in carcere. “Il quarto mese cominciai a vedere quel pezzetto di mondo traverso una nebbia. Al quinto cominciò a calare un gran buio”. Data l’infermità, viene graziato della pena e si reca in esilio, a Londra, dove viene curato da un medico, Vianello, anch’egli profugo. Lo accompagna la Pisana, che gli si dedica con un eroismo che giunge al sacrificio: “Si sentiva morire e parlava di convalescenza, aveva il fuoco d’una febbre micidiale e compativa il mio male come se il suo non fosse degno che se ne parlasse… Quanto avrei pagato un barlume di luce per intravvedere le sue sembianze”. Il medico, l’amico, il compagno Lucilio è un realista: “Son invecchiato nella professione eppure ancora ieri mattina ho lasciato un malato che sembrava in via di miglioramento e la sera l’ho trovato morto”. Le premesse non sembrerebbero ottimistiche, ma l’operazione riesce: “Lucilio esaminò attentamente i miei occhi e dettomi che erano coperti da cateratte e che entro pochi mesi sarebbero maturate per l’operazione della quale non dubitava punto che sarebbe meravigliosamente riuscita… Oh il gran dono è la luce! Non l’apprezza degnamente che chi l’ha perduta”. Così, nella malattia si stringe un sodalizio politico, si cementa una fede comune, tornare a vedere come tornare in Italia.

M.Ferrazzoli

 

Confessioni di un italiano

Ippolito Nievo

 

Link: https://www.ibs.it/confessioni-d-italiano-libro-ippolito-nievo/e/9788811379577

I Miserabili

I tempi odierni tengono in noi ben viva la percezione della difficoltà di gestire i pazienti afflitti da malattie contagiose. Medesimo problema, in condizioni notevolmente ridotte, si presenta a monsignor Bienvenu nel XIX secolo. Ma monsignor Bienvenu stupisce ogni lettore con un atto di amore davvero incredibile.

Il palazzo vescovile di D. era attiguo all’ospedale. Era un vasto e bell’edificio in pietra, costruito all’inizio del secolo scorso da monsignor Henri Puget, dottore in teologia della facoltà di Parigi, abate di Simore e, nel 1712, vescovo di D. Quel palazzo era una vera e propria dimora principesca. Tutto vi aveva un aspetto maestoso: gli appartamenti del vescovo, i saloni, la corte d’onore, vasta, con porticato secondo l’antica moda fiorentina, i giardini, folti di magnifici alberi. Nella sala da pranzo, una lunga e splendida galleria situata al pianterreno e che si apriva sui giardini, monsignor Henri Puget aveva offerto, il 29 luglio 1714, un pranzo ufficiale ai monsignori Charles Brûlart di Genlis, arcivescovo principe di Embru, Antoine de Mesgrigny, cappuccino, vescovo di Grasse, Philippe de Vendôme, gran priore di Francia, abate di St-Honoré de Lérins, François de Berton de Crillon, vescovo barone di Vence, César de Sabran de Forcalquier, vescovo signore di Glandève e Jean Soanen, prete dell’oratorio; i ritratti di questi sette reverendi personaggi ornavano quella sala, e la data memorabile, 29 luglio 1714, era scolpita a lettere d’oro su una lapide di marmo bianco. L’ospedale era una casa stretta e bassa, a un sol piano, con un giardinetto. Tre giorni dopo il suo arrivo il vescovo visitò l’ospedale. Terminata la visita fece dire al direttore di voler essere così gentile da raggiungerlo a casa sua. «Quanti malati avete ora, signor direttore dell’ospedale?».
«Ventisei, monsignore».
«Proprio quanti ne avevo contati».
«I letti sono un po’ addossati l’uno all’altro», soggiunse il direttore.
«Proprio quello che avevo notato».
«Le corsie non sono che stanze ed è difficile cambiar l’aria».
«Mi sembrava».
«E poi, quando c’è un raggio di sole, il giardino è troppo angusto per i convalescenti».
«È proprio quello che mi stavo dicendo».
«Nelle epidemie (quest’anno, per esempio, abbiamo avuto il tifo; due anni fa la miliare) cento ammalati a volte, e non si sa come provvedere».
«Proprio quello che pensavo».
«Che volete, monsignore, bisogna rassegnarsi!», disse il direttore.
Questa conversazione avveniva nella sala da pranzo-galleria; al pianterreno. Il vescovo rimase silenzioso un poco, poi si volse bruscamente verso il direttore dell’ospedale:
«Signore, quanti letti credete possano stare in questa sala?».
«La sala da pranzo di monsignore?», esclamò il direttore sorpreso.
Il vescovo percorreva la sala con lo sguardo, quasi facesse con gli occhi calcoli e misure.
«Almeno venti letti!», disse come parlando a se stesso, poi, alzando la voce:
«Sentite, signor direttore, di certo c’è un errore. Voi siete ventisei persone in cinque o sei camerette. Noi qui, in tre, abbiamo posto per sessanta… ci dev’essere uno sbaglio, vi dico, voi occupate casa mia e io la vostra. Rendetemi la mia casa. È questa la vostra».
Il giorno dopo i ventisei poveri ammalati venivano sistemati nel palazzo del vescovo e il vescovo era all’ospedale. Monsignor Myriel non possedeva nulla, la sua famiglia era stata rovinata dalla Rivoluzione. Sua sorella godeva di una rendita vitalizia di cinquecento franchi che, al presbiterio, bastava solo alle sue spese personali. Myriel percepiva dallo Stato, come vescovo, un appannaggio di quindicimila franchi. Il giorno stesso in cui andò ad abitare all’ospedale, monsignor Myriel stabilì, una volta per sempre, d’impiegare tale somma nel modo seguente. Copiamo una nota scritta di suo pugno.

Victor Hugo

I fratelli Karamazov

Fëdor Pavlovič decide, dopo essere stato abbandonato dalla prima moglie, di risposarsi con Sof ‘ja Ivanovna. L’incompatibilità di due caratteri nettamente distinti genera uno squilibrio emotivo all’interno dell’animo della giovane moglie, conducendola ad una forma di isteria.

Fëdor Pavlovič ben presto si sposò per la seconda volta. Il secondo matrimonio durò circa otto anni. Pescò la sua seconda consorte, Sof ‘ja Ivanovna, anche lei molto giovane, in un altro governatorato nel quale era passato per via di un piccolo appalto in società con un certo ebreo. Sebbene Fëdor Pavlovič gozzovigliasse, bevesse e si desse alla bella vita, tuttavia non smetteva mai di occuparsi di investire il proprio capitale e concludeva sempre con successo i suoi affarucci anche se, ovviamente, senza farsi tanti scrupoli. Sof ‘ja Ivanovna era figlia di un oscuro diacono ed era rimasta orfana e senza parenti sin dall’infanzia; era cresciuta nella ricca casa della sua benefattrice, educatrice e despota, l’illustre vegliarda vedova del generale Vorochov. Non conosco i dettagli, ho solo sentito dire che una volta avevano tolto la mite, placida, umile educanda dal cappio che aveva appeso a un chiodo in un ripostiglio, tanto le riusciva difficile sopportare il carattere bisbetico e gli eterni rimproveri di quella vecchia, che, forse, non era cattiva ma tiranneggiava intollerabilmente il prossimo per noia. Fëdor Pavlovič chiese la mano della ragazza, raccolsero informazioni su di lui e lo cacciarono via e allora lui, come nel primo matrimonio, propose la fuga all’orfanella. È molto, molto probabile che lei stessa non lo avrebbe seguito per nulla al mondo se per tempo ne avesse saputo di più sul suo conto. Ma il fatto accadeva in un altro governatorato e poi che cosa poteva capire una ragazzina di sedici anni che avrebbe preferito annegarsi nel fiume piuttosto che continuare a vivere dalla sua benefattrice? E così la poverina cambiò una benefattrice per un benefattore. Fëdor Pavlovič questa volta non ottenne neanche il becco di un quattrino perché la generalessa montò su tutte le furie, non dette nulla e per di più li maledisse entrambi; questa volta però egli non aveva programmato di ottenere nulla, era stato sedotto esclusivamente dalla straordinaria bellezza dell’innocente fanciulla e, soprattutto, dalla sua aria innocente che aveva un fascino particolare per un lascivo e, fino a quel momento, depravato estimatore solo del tipo più volgare di bellezza femminile. «Quegli occhietti innocenti allora mi tagliarono l’anima come la lama di un rasoio», raccontava in seguito con il suo solito ghigno ripugnante. Del resto, in un uomo depravato come lui anche quello poteva essere motivo di attrazione lasciva. Non avendo ricevuto alcuna ricompensa, Fëdor Pavlovič non fece tante cerimonie con la consorte e, sfruttando il fatto che ella, per così dire, era “in torto” dinanzi a lui e che lui l’aveva quasi “tolta dal cappio” e sfruttando, soprattutto, la straordinaria mitezza e umiltà di lei, egli addirittura calpestò le più elementari regole della decenza matrimoniale. In casa, alla presenza stessa della moglie, c’era un andirivieni di donne di malaffare e si organizzavano orge. Come nota caratteristica dirò che il servo Grigorij, un moralista cupo, ottuso e testardo, che aveva odiato la precedente padrona di casa, questa volta prese le parti della nuova padrona, la difendeva e litigava per lei con Fëdor Pavlovič in un modo quasi inammissibile da parte di un servo; una volta addirittura disperse con la forza un’orgia e tutte le svergognate che vi erano convenute. In seguito a tutto questo, alla disgraziata giovane donna, vissuta nel terrore sin da piccola, venne una specie di malattia nervosa femminile che si riscontra con maggiore frequenza nel popolino, fra le donne di campagna, che, per via di questo male, vengono chiamate klikusi. A causa di questa malattia, che provocava terribili attacchi isterici, la malata di tanto in tanto perdeva persino la ragione.

Fëdor Dostoevskij

Fonte: dostoevskij_karamazov