I danni del Tabacco

Paradossalmente, quello antologizzato è uno dei pochi brani dedicati ai danni del tabacco nel monologo di Cechov. Nel resto dell’opera, infatti, il protagonista Njuchin parlerà del rapporto poco sano con la propria moglie.

Come argomento della mia conferenza odierna ho scelto,
per così dire, il danno che reca all’umanità l’uso del tabacco. Sono fumatore anch’io, ma mia
moglie mi ha ordinato di parlare oggi della nefasta influenza del tabacco, e quindi la cosa non si
discute. Del tabacco, e tabacco sia, per me è del tutto indifferente; a loro, gentili signori,
propongo di rapportarsi alla mia presente conferenza con la dovuta serietà, altrimenti non se ne
caverà nulla. Chi fosse spaventato da un’arida conferenza scientifica, chi non l’apprezzasse, può
non ascoltarla e uscire. (Si aggiusta il gilet).Chiedo particolare attenzione ai signori medici qui
presenti, che potranno trarre dalla mia conferenza molte indicazioni utili, visto che il tabacco,
oltre alle sue nefaste influenze, viene usato anche in medicina. Per esempio, se si chiudesse una
mosca in una tabacchiera, probabilmente creperebbe di esaurimento nervoso. Il tabacco è,
essenzialmente, una pianta… Quando tengo una conferenza, di solito ammicco con l’occhio
destro, ma loro non facciano caso; è l’emozione. Sono una persona molto nervosa, parlando in
generale, ma ad ammiccare ho cominciato nel 1889, il 13 settembre, lo stesso giorno in cui a
mia moglie nacque, in un certo senso, la nostra quarta figlia Varvara. Tutte le mie figlie sono
nate il 13 del mese.

Anton Cechov

Fonte: http://copioni.corrierespettacolo.it/wp-content/uploads/2016/12/CECHOV%20Anton__Sul%20danno%20del%20tabacco__null__U(1)__Monologo__1a.pdf

Zio Vanja

Vanja, guardandosi alle spalle, trova di essere deluso della sua vita: le speranze e le illusioni sono ormai cadute. Per questo motivo nel brano antologizzato tenta il suicidio.

ASTROV (grida adirato)
Smettila! (Addolcendosi).Quelli che vivranno cento, duecento anni dopo di noi, ci disprezzeranno perché abbiamo vissuto le nostre vite in modo così stupido e rozzo; quelli, forse, troveranno il modo per essere felici, ma noi… Tu ed io abbiamo un’unica speranza. La speranza che quando riposeremo nelle nostre tombe, vengano a visitarci visioni, magari piacevoli. (Sospirando).Sì, fratello. In tutto il distretto ci sono state soltanto due persone per bene e intelligenti: io e te. Ma nel giro di una decina di anni, la vita filistea, la vita spregevole ha avuto ragione di noi; con le sue putride esalazione ha avvelenato il nostro sangue, e noi siamo diventati volgari come tutti gli altri. (Vivacemente). Ma io non ci casco, comunque. Restituiscimi ciò che mi hai preso.
VOJNICKIJ
Non ti ho preso niente.
ASTROV
Mi hai preso dalla borsa delle medicine una fiala di morfina.
Pausa.
Ascolta, se tu, a qualunque condizione, hai deciso di farla finita, va’ nel bosco e sparati un colpo là. Rendimi la morfina, se no ci saranno chiacchiere, congetture, penseranno che sia stato io a dartela… Già dovrò farti l’autopsia… Pensi che sia interessante?
(Entra Sonja.)
VOJNICKIJ
Lasciami.
ASTROV (a Sonja)
Sof’ja Aleksandrovna, vostro zio ha sottratto dalla mia borsa una fiala di morfina e non la vuole restituire. Ditegli che non è cosa… intelligente, tutto sommato. E io non ho tempo. Devo partire.
SONJA
Zio Vanja, hai preso la morfina?
Pausa.
ASTROV
L’ha presa. Ne sono certo.
SONJA

Restituiscila. Perché ci vuoi spaventare? (Teneramente). Restituiscila, zio Vanja! Io, forse, non sono meno infelice di te, però non mi abbandono alla disperazione. Sopporto e sopporterò, finché la mia vita non finirà da sola… Sopporta anche tu.
Pausa.
Restituiscila! (Gli bacia le mani).Caro, dolce zio, buono, restituiscila (Piange). Sei buono, avrai pietà di noi e la restituirai. Sopporta, zio! Sopporta!
VOJNICKIJ (estrae da un cassetto del tavolo la fiala e la porge ad Astrov)
To’, prendi! (A Sonia). Bisogna lavorare al più presto, al più presto fare qualcosa, altrimenti non posso… non posso…

Anton Cechov

Alessandro Manzoni, I promessi sposi, 1827

Nei Promessi sposi due capitoli, il XXXI e il XXXII, sono interamente dedicati alla peste. Don Rodrigo, a Milano, scopre di essere ammalato. Il Griso lo consegna ai monatti per derubarlo, poi si ammala a sua volta e muore. Renzo, sempre rifugiato nel Bergamasco, guarisce e decide di andare a Milano per cercare Lucia.


E mentre – dice il Ripamonti – i cadaveri sparsi, o i mucchi di cadaveri, sempre davanti agli occhi, sempre tra’ piedi, facevano della città come un solo mortorio c’era qualcosa di più brutto, di più funesto, in quell’accanimento vicendevole, in quella sfrenatezza e mostruosità di sospetti… Non del vicino soltanto si prendeva ombra, dell’amico, dell’’ospite; ma que’ nomi, que’ vincoli dell’umana carità, marito e moglie, padre e figlio, fratello e fratello, eran di terrore: e, cosa orribile e indegna a dirsi! La mensa domestica, il letto nuziale, si temevano, come agguati, come nascondigli di venefizio

[…] Ma le coperte gli parvero una montagna. Le buttò via, e si rannicchiò, per dormire; chè infatti moriva dal sonno. Ma, appena velato l’occhio, si svegliava con un riscossone, come se uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una tentennata; e sentiva cresciuto il caldo, cresciuta la smania. Ricorreva col pensiero all’agosto, alla vernaccia, al disordine; avrebbe voluto poter dar loro tutta la colpa; ma a queste idee si sostituiva sempre da sé quella che allora era associata con tutte, ch’entrava, per dir così, da tutti i sensi, che s’era ficcata in tutti i discorsi dello stravizio, giacchè era ancor più facile prendera in ischerzo, che passarla sotto silenzio: la peste.

[…] Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un’occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d’un livido paonazzo. L’uomo si vide perduto: il terror della morte l’invase, e, con un senso per avventura più forte, il terrore di diventar preda de’ monatti, d’esser portato, buttato al lazzeretto.

Ifigenia in Tauride

Il seguente brano traccia le vicende avvenute al ritorno in patria di Agamennone, il pastore dei popoli: la moglie Clitemnestra, con la complicità del suo amante Egisto, uccide il re. Suo figlio Oreste è chiamato ad uccidere la madre per vendicare il padre.

PILADE
Ma felici sono i mille e mille che morirono
la morte dolceamara per mano del nemico!
Selvaggi orrori e una fine luttuosa
ha preparato invece del trionfo
per i reduci un dio sdegnato e ostile.
La voce degli uomini non viene fino a voi?
Dovunque arriva, diffonde intorno la fama
di fatti inauditi, che sono accaduti.
Così lo strazio che gli atrii di Micene
riempie di sospiri sempre ripetuti,
è un segreto per te? Clitennestra
con l’aiuto d’Egisto ha irretito il marito,
l’ha ucciso il giorno stesso che è ritornato. – –
Sì, tu onori questa casa regale.
Io lo vedo. Il tuo cuore combatte invano
la parola così atroce ed inattesa.
[…]

ORESTE

Il giorno che il padre cadde Elettra
nascose, per salvarlo, il fratello: Strofio,
il cognato del padre, lo accolse volentieri,
lo crebbe accanto al proprio figlio
di nome Pilade, che annodò i vincoli
più belli d’amicizia con il nuovo venuto.
E con la loro età, nella loro anima cresceva
la smania ardente di vendicare la morte
del re. Inattesi, in abito straniero,
raggiunsero Micene, fingendo di portare
la notizia luttuosa della morte d’Oreste
con le sue ceneri. Benevola li accoglie
la regina; loro entrano nella casa.
Oreste rivela a Elettra che è suo fratello;
lei riattizza in lui il fuoco della vendetta,
che alla presenza sacra della madre si era
sopìto. In silenzio lo guida
al luogo dove il padre era caduto,
dove una antica, lieve traccia del sangue
versato con protervia, colorava il suolo
lavato spesso, di funeste strisce sbiadite.
Con la sua lingua di fuoco lei descrisse
tutte le fasi di quell’azione infame,
la sua vita miserabile, da serva,
l’arroganza di quei traditori fortunati
e i pericoli che ora attendevano i fratelli
da parte di una madre divenuta matrigna.
Qui lei lo forza a stringere l’antico pugnale,
strumento di furia atroce nella casa di Tantalo,
e Clitennestra cadde per mano del figlio.

Johann Wolfgang von Goethe

Fonte: http://www.writingshome.com/ebook_files/160.pdf

Il Giocatore

L’anziana Antonida Vasil’evna, in compagnia del protagonista del romanzo, Aleksej Ivànovic, si dedica con fervore al gioco d’azzardo. Dostoevskij descrive in queste pagine memorabili la lenta, progressiva ed inarrestabile metamorfosi dalla curiosità alla ludopatia dell’anziana signora.

La nonna si gettò senz’altro sullo zéro e subito mi ordinò di puntare dodici federici per volta. Puntammo una volta, una seconda, una terza, lo zéro non usciva. «Punta, punta!» mi urtava la nonna impaziente. Io obbedivo.
«Quante volte abbiamo perduto?» ella domandò infine digrignando i denti dall’impazienza.
«Abbiamo già puntato dodici volte, nonna. Abbiamo perduto centoquarantaquattro federici. Ve lo dico, nonna, fino a stasera magari…»
«Taci!» interruppe la nonna. «Punta sullo zéro e punta subito sul rosso mille fiorini. To’, ecco un biglietto.»
Uscì il rosso e lo zéro fece nuovamente cilecca, ci restituirono mille fiorini.
«Vedi, vedi!» sussurrava la nonna «ci han restituito quasi tutto quel che avevamo perduto. Punta di nuovo sullo zéro; punteremo ancora una decina di volte, poi smetteremo.»
Ma alla quinta volta la nonna fu stufa.
«Manda al diavolo questo ignobile zeruccio. To’, punta quattromila fiorini, tutti sul rosso» ordinò.
«Nonna! È molto; e se il rosso non uscisse!» supplicavo; ma la nonna per poco non mi batté. (E del resto tanto mi urtava che quasi si può dire mi picchiasse.) Non c’era che fare, puntai sul rosso tutti i quattromila fiorini vinti poc’anzi. La ruota si mise a girare. La nonna, raddrizzata la persona, stava a sedere calma e orgogliosa, non dubitando della immancabile vincita.
«Zéro» annunciò il croupier.
Sulle prime la nonna non capì, ma quando vide il croupier rastrellare i suoi quattromila fiorini, insieme con tutto quel che c’era sul tavolo, e seppe che lo zéro, che da tanto tempo non usciva e sul quale avevamo perduto quasi duecento federici era balzato fuori, come a farlo apposta, quando la nonna lo aveva appena ingiuriato e abbandonato, mandò un «ah!» e batté insieme le mani da farsi udire in tutta la sala. In giro si rise perfino.«Padri miei! Proprio adesso è saltato fuori il maledetto!» urlava la nonna «ve’, che dannato, che dannato! La colpa è tua! Tutta la colpa è tua!» si scagliò furiosamente contro di me dandomi spintoni. «Sei stato tu a dissuadermi.»
«Nonna, io vi ho detto cose giuste, come posso io rispondere di tutte le probabilità?»

Te le darò io le probabilità!» sussurrava lei minacciosa «vattene, lontano da me.»
«Addio, nonna» e mi voltai per andar via.
«Aleksej Ivanovič, Aleksej Ivanovič, rimani! Dove vai? Be’, perché, perché? Ve’, si è arrabbiato! Scemo! Via, rimani, rimani ancora, via, non adirarti, sono io stessa una scema! Su, dimmi, su, che fare adesso?»
«Io, nonna, non mi prendo la briga di suggerirvi, perché poi incolpereste me. Giocate da voi sola; ordinate, io punterò.»
«Via, via! Su, punta ancora quattromila fiorini sul rosso! Ecco il portafogli, prendi.» Cavò di tasca il portafogli e me lo porse. «Su, prendili in fretta, qui ci sono ventimila rubli in contanti.»
«Nonna» balbettai «tali puntate…»
«Voglio piuttosto morire, ma mi rifarò. Metti!» Puntammo e perdemmo.

Fëdor Dostoevskij

Fonte: Fëdor Dostoevskij, Il Giocatore, traduzione di Alfredo Polledro, Mondadori, 2016

Madame Bovary

Madame Bovary in questo brano ha deciso di darsi la morte con l’arsenico, emulando le grandi eroine del mondo della finzione letteraria d’amore del quale lei è rimasta vittima e prigioniera. La realtà è tuttavia ben diversa dai romanzi d’amore: l’arsenico le procurerà dei dolori inimmaginabili.

Un sapore acre in bocca la svegliò. Intravide Charles e richiuse gli occhi.

Spiava le proprie sensazioni per rendersi conto se cominciasse a star male. Ma no, non ancora. Sentiva il ticchettio della pendola, il rumore del fuoco e Charles, in piedi al suo capezzale, che respirava.

“Ah! È una cosa ben da poco la morte” pensava. “Dormirò e tutto sarà finito!”

Bevve un sorso d’acqua, e si voltò verso il muro. Quell’orribile sapore di inchiostro continuava.

«Ho sete!… Oh! Ho una sete terribile!» sospirò.

«Ma che cos’hai, insomma?» disse Charles, porgendole un bicchiere d’acqua.

«Non è nulla!… Apri la finestra… Soffoco!»

E fu afferrata dalla nausea così d’improvviso che ebbe appena il tempo di prendere il fazzoletto sotto il cuscino.

«Portalo via!» disse con vivacità «Buttalo!»

Charles le fece domande alle quali Emma non rispose. Rimaneva immobile, temendo che la più piccola emozione la facesse vomitare. Sentiva però un freddo di gelo salirle dai piedi fino al cuore.

«Ah! Ecco che comincia!» mormorò.

«Che dici?»

Voltò la testa con un movimento lento, pieno di angoscia, aprendo e chiudendo di continuo la bocca come se avesse avuto sulla lingua qualcosa di molto pesante. Alle otto, i conati di vomito ricominciarono.

Charles osservò sul fondo della bacinella qualcosa di simile a granelli bianchi attaccati alle pareti di porcellana.

«È straordinario! È una cosa stranissima!» ripeteva.

Ma Emma disse ad alta voce:

«No, ti sbagli!»

Allora, delicatamente, quasi la carezzasse, Charles le passò una mano sullo stomaco. Emma gettò un grido acuto. Charles si tirò indietro spaventato.

Poi la signora Bovary si mise a gemere, dapprima debolmente. Grandi brividi le scotevano le spalle e diventava più pallida del lenzuolo nel quale affondava le dita contratte. Il polso, aritmico, era quasi impercettibile, adesso.

Gocce di sudore gemevano dal viso cianotico che sembrava quasi irrigidito nell’esalazione di un vapore metallico. I denti battevano, gli occhi dilatati guardavano vagamente tutto intorno e a ogni domanda Emma rispondeva scotendo il capo; sorrise addirittura una o due volte. A poco a poco i gemiti si fecero più forti. Un urlo soffocato e continuo le sfuggiva; voleva far credere di stare meglio e che ben presto si sarebbe alzata ma le presero le convulsioni, gridava:

«Ah! È atroce, mio Dio!»

Gustave Flaubert

https://www.liberliber.eu/mediateca/libri/f/flaubert/madame_bovary/pdf/flaubert_madame_bovary.pdf

https://www.liberliber.eu/mediateca/libri/f/flaubert/madame_bovary/pdf/flaubert_madame_bovary.pdf

I Demoni

In questa scena del romanzo, un uomo si toglie la vita: Dostoevskij descrive in maniera minuziosa la scenza, ponendo un accento particolare sul sangue e sulla reazione degli accorsi.

Nessuno aveva notato in lui nulla di speciale: era calmo, quieto e affabile. Doveva essersi sparato verso mezzanotte, sebbene, cosa strana, nessuno avesse udito il colpo; se ne erano accorti solo quel giorno, verso l’una, quando dopo aver bussato invano, avevano abbattuto la porta. La bottiglia di Château d’Yquem era stata vuotata a metà; anche d’uva ne rimaneva mezzo piatto. Il colpo era stato sparato
con una piccola rivoltella a tre canne, puntata direttamente al cuore. Di sangue ne era uscito poco; la rivoltella gli era caduta dalle mani sul tappeto. Il ragazzo era mezzo disteso su un angolo del divano. La morte doveva essere stata istantanea; nessun mortale tormento si notava sul suo viso; aveva un’espressione calma, quasi felice, desiderosa di vivere. Tutti i nostri lo contemplavano con avida curiosità. Generalmente in ogni disgrazia del prossimo c’è sempre qualcosa che rallegra l’occhio dell’estraneo, chiunque sia. Le nostre signore guardavano in silenzio, mentre i compagni si distinsero per acume e grande presenza di spirito. Uno osservò che era la miglior fine, e che il ragazzo non avrebbe
potuto escogitare niente di più intelligente; un altro concluse che almeno per un attimo aveva vissuto bene.

Fëdor Dostoevskij

Delitto e Castigo

In questo brano viene descritta la morte di a causa della tubercolosi: l’autore mette in evidenza i sintomi psichici prima della morte della donna.

«Calmatevi, signora, calmatevi,» prese a dire il funzionario. «Venite con me, vi accompagnerò io… Non va
bene così, in mezzo alla folla… Voi vi sentite male…»
«Mio gentile, gentilissimo signore, voi non sapete niente!» gridava Katerìna Ivànovna. «Noi andremo sul
Nèvskij Prospèkt… Sònja, Sònja! Ma dove s’è cacciata? Ecco che piange anche lei! Ma insomma, che cosa avete tutti quanti?… Kòlja, Lènja, dove andate?» esclamò d’un tratto, spaventata. «Oh che sciocchi bambini! Kòlja, Lènja! Ma dove vanno?…»
Era successo che Kòlja e Lènja, spaventati a morte dalla folla e dalle stranezze della madre impazzita, e
vedendo alla fine anche quel soldato che voleva prenderli e portarli chissà dove, a un tratto, come se si fossero messi d’accordo, s’erano afferrati per la mano e se l’eran data a gambe. Katerìna Ivànovna si slanciò, urlando e piangendo, al loro inseguimento. Era uno spettacolo penoso vederla correre, così tutta in pianto e ansimante. Sònja e Pòleèka le corsero dietro.
«Sònja, falli tornare indietro, falli tornare! Che bambini sciocchi e ingrati!… Pòlja! Acchiappali!… Ma se è per voi che io…»
Inciampò in piena corsa e cadde.
«Si è fatta male, sanguina! Oh, Signore!» esclamò Sònja, che si era chinata su di lei.
Tutti accorsero e le si fecero intorno. Raskòlnikov e Lebezjàtnikov furono tra i primi ad accorrere; anche il
funzionario sopraggiunse in fretta, seguito dalla guardia che borbottava: «Che guaio!» facendo un gesto seccato con la mano, convinto ormai che la faccenda gli avrebbe procurato delle noie.
«Circolare! Circolare!» diceva respingendo la gente che si affollava tutt’intorno.
«Sta morendo!» gridò uno.
«È impazzita!» disse un altro.
«Signore, proteggili!» disse una donna, facendosi il segno della croce. «E li hanno poi ripresi, la ragazzina e il bimbo? Eccoli lì, li ha acchiappati quella più grande… Però, che bambini balordi!»
Ma quando ebbero esaminato più attentamente Katerìna Ivànovna, si accorsero che non si era affatto ferita contro una pietra, come aveva pensato Sònja: il sangue che aveva arrossato il selciato le era sgorgato dal petto e dalla
bocca.
«So bene cos’è, l’ho già visto,» mormorava il funzionario a Raskòlnikov e a Lebezjàtnikov. «È la tubercolosi; il
sangue viene fuori e ti soffoca. L’ho già visto coi miei occhi, è accaduto non molto tempo fa a una mia parente; ne sarà
venuto fuori un bicchiere e mezzo… all’improvviso… Ma che dobbiamo fare, visto che sta morendo?»

Fëdor Dostoevskij

L’Idiota

Dopo aver ucciso Nastas’ja, Rogožin si trova in compagnia del principe Myškin. In questo brano l’omicida si incammina sulla strada del delirio.

Il principe sobbalzò sulla sedia in preda a un nuovo terrore. Quando Rogožin tacque di nuovo e di colpo, il principe si chinò in silenzio verso di lui, gli si sedette accanto e col cuore in tumulto e il respiro affannoso prese a scrutarlo. Rogožin non si voltava, sembrava addirittura che si fosse dimenticato di lui. Il principe lo guardava in attesa. Il tempo passava, cominciava ad albeggiare. Rogožin di tanto in tanto si metteva a borbottare forte, bruscamente, gridava, rideva. Il principe allora tendeva la mano tremante verso di lui e gli accarezzava la testa, i capelli, le guance… più di quello non poteva fare! Incominciò di nuovo a tremare forte e gli sembrò che la forza abbandonasse di nuovo le gambe. Una sensazione completamente nuova gli tormentava il cuore con un’angoscia infinita. Frattanto si era fatto giorno. Si allungò sul cuscino, privo di forze ormai, disperato, avvicinò il suo viso a quello pallido e immobile di Rogožin. Le lacrime sgorgavano dai suoi occhi e bagnavano le guance di Rogožin, ma forse allora non era più cosciente delle sue lacrime e non ne sapeva nulla… Ad ogni modo, quando, dopo molte ore, la porta fu aperta e entrò la gente, l’assassino fu trovato completamente privo di conoscenza e in delirio. Il principe era seduto immobile accanto a lui e, ogni volta che il malato gridava o delirava, si affrettava a passargli la mano tremante fra i capelli e sulle guance, per calmarlo con le carezze. Ma non comprendeva più nulla di quanto gli veniva chiesto, non riconosceva la gente che lo circondava e se Schneider in persona fosse giunto dalla Svizzera per visitare l’allievo e paziente d’un tempo, anch’egli, ricordando lo stato in cui il principe a volte si trovava durante il primo anno della sua cura in Svizzera, avrebbe fatto un gesto di scoraggiamento e avrebbe detto come allora:
«Idiota!».

Fëdor Dostoevskij

Fonte: http://www.writingshome.com/ebook_files/221.pdf

Taras Bul’ba

Un koševoj dà utili consigli ai militari per gestire le ferite della guerra: si tratta di un utile prontuario e contemporaneamente di una testimonianza della medicina nei campi militari al tempo di Gogol.

«Ispezionate, ispezionate tutto per bene!», così diceva. «Riparate i carri e gli ingrassatori dei mozzi, provate le armi. Non prendete molto vestiario con voi: una camicia e due paia di brache per ogni cosacco e un vaso di farina d’avena e di miglio macinato – che nessuno ne abbia di più! Sui carri ci saranno tutte le provviste che occorrono. Che

ogni cosacco abbia un paio di cavalli. E che si prendano un duecento coppie di buoi, perché ai guadi e nei luoghi paludosi occorreranno i buoi. Ma soprattutto, panove, mantenete l’ordine. Io so che tra voi vi sono alcuni che, non appena Dio manda qualche bottino, subito si mettono a lacerar seta e preziosi broccati per farsene pezze da piedi. Smettete questa maledetta abitudine, gettate lontano ogni sorta di sottane, prendete soltanto le armi, se ne capitano di buone, e le monete d’oro o d’argento perché occupano poco posto e fanno comodo in ogni caso. E poi, panove, ve lo dico in anticipo: se qualcuno durante la campagna si ubriaca, per lui non ci sarà giudizio. Come un cane ordinerò che sia attaccato al carro per il collo, chiunque egli sia, foss’anche il cosacco più valoroso di tutto l’esercito. Sarà fucilato sul posto come un cane e sarà abbandonato senza sepoltura in pasto agli uccelli, perché chi si dà all’ubriachezza durante la campagna è indegno della sepoltura cristiana. Giovani, obbedite in tutto agli anziani! Se vi scalfisce una pallottola o se vi scuoiano la testa o qualcos’altro con la sciabola, non fate gran caso a ciò. Mescolate una carica di polvere in una tazza di sivucha, bevetela d’un fiato e vi passerà tutto, non vi verrà neppure la febbre; e sulla ferita, se non è troppo grande, metteteci semplicemente della terra, dopo averla impastata con la saliva nel palmo della mano, e la ferita si seccherà. Orsù, dunque, al lavoro, al lavoro, ragazzi, senza affrettarvi, mettetevi per benino al lavoro!».

Nikolaj Vasil’evič Gogol’

Fonte: