Vorrei che tu fossi qui

Un bestseller americano di Jodi Picoult racconta una storia fiction che forse non si discosta tanto dalla nostra realtà degli anni della pandemia


La vita di Diana O’Toole scorre su binari sicuri: si sposerà entro i trent’anni, avrà figli entro i trentacinque e dalla caotica New York si trasferirà in una tranquilla villetta nei sobborghi, il tutto facendo carriera nello spietato mondo delle aste d’arte. È sicura che il suo fidanzato Finn, specializzando in Chirurgia, le farà la proposta di matrimonio durante la fuga romantica alle Galápagos che hanno organizzato, pochi giorni prima del suo trentesimo compleanno. Giusto in tempo. Ma un virus che sembrava lontanissimo compare all’improvviso in città e, alla vigilia della partenza, Finn le dà una brutta notizia: non può assentarsi dall’ospedale. Così, a malincuore, Diana decide di partire senza di lui: chi rinuncerebbe alla prospettiva di una spiaggia assolata su un’isola esotica? Ben presto, però, si ritrova in completa solitudine in un luogo remoto, e quella che doveva essere una vacanza da sogno si trasforma in un incubo. Ma a volte c’è bisogno che vada tutto storto perché alla fine tutto si risolva nel migliore dei modi…
Dall’autrice bestseller Jodi Picoult un nuovo, appassionante romanzo che ha dominato le classifiche di vendita americane. Presto un film Netflix, Vorrei che fossi qui ci fa riflettere su quanto le nostre priorità possano cambiare e su come anche le certezze più salde possano essere stravolte.

Stefano Tummolini

Fonte: Fazi Editore

Il Gabbiano

La scena che antologizziamo è tratta dalla parte terminale dell’opera teatrale. Treplev, distrutto da ogni fronte, ed in particolare quello amoroso, decide di suicidarsi.

A destra, fuori scena, un colpo di rivoltella; tutti sussultano.
ARKADINA (spaventata)
Cos’è stato?
DORN
Niente. Deve essere esploso qualcosa nella mia cassetta dei medicinali. Non vi agitate. (Esce da destra, ritorna dopo mezzo, minuto). È proprio così. È scoppiata una boccetta di etere. (Canticchia).”Di nuovo incantato io sto innanzi a te…”.
ARKADINA (sedendosi al tavolo)
Uff, che paura. Mi ha fatto venire in mente, quando… (Nasconde il viso nelle mani).Mi si è persino annebbiata la vista…
DORN (sfogliando una rivista, a Trigorin)
Due mesi fa qui avevano pubblicato un articolo… una lettera dall’America, ora io vi vorrei pregare tra l’altro… (prende Trigorin per la vita e lo conduce verso la ribalta). … poiché questo problema mi sta molto a cuore… (Con tono più basso, a mezza voce).Portate via Irina Nikolaevna. Konstantin Gavriloviè si è ucciso…

Anton Cechov

Ifigenia in Tauride

Il seguente brano traccia le vicende avvenute al ritorno in patria di Agamennone, il pastore dei popoli: la moglie Clitemnestra, con la complicità del suo amante Egisto, uccide il re. Suo figlio Oreste è chiamato ad uccidere la madre per vendicare il padre.

PILADE
Ma felici sono i mille e mille che morirono
la morte dolceamara per mano del nemico!
Selvaggi orrori e una fine luttuosa
ha preparato invece del trionfo
per i reduci un dio sdegnato e ostile.
La voce degli uomini non viene fino a voi?
Dovunque arriva, diffonde intorno la fama
di fatti inauditi, che sono accaduti.
Così lo strazio che gli atrii di Micene
riempie di sospiri sempre ripetuti,
è un segreto per te? Clitennestra
con l’aiuto d’Egisto ha irretito il marito,
l’ha ucciso il giorno stesso che è ritornato. – –
Sì, tu onori questa casa regale.
Io lo vedo. Il tuo cuore combatte invano
la parola così atroce ed inattesa.
[…]

ORESTE

Il giorno che il padre cadde Elettra
nascose, per salvarlo, il fratello: Strofio,
il cognato del padre, lo accolse volentieri,
lo crebbe accanto al proprio figlio
di nome Pilade, che annodò i vincoli
più belli d’amicizia con il nuovo venuto.
E con la loro età, nella loro anima cresceva
la smania ardente di vendicare la morte
del re. Inattesi, in abito straniero,
raggiunsero Micene, fingendo di portare
la notizia luttuosa della morte d’Oreste
con le sue ceneri. Benevola li accoglie
la regina; loro entrano nella casa.
Oreste rivela a Elettra che è suo fratello;
lei riattizza in lui il fuoco della vendetta,
che alla presenza sacra della madre si era
sopìto. In silenzio lo guida
al luogo dove il padre era caduto,
dove una antica, lieve traccia del sangue
versato con protervia, colorava il suolo
lavato spesso, di funeste strisce sbiadite.
Con la sua lingua di fuoco lei descrisse
tutte le fasi di quell’azione infame,
la sua vita miserabile, da serva,
l’arroganza di quei traditori fortunati
e i pericoli che ora attendevano i fratelli
da parte di una madre divenuta matrigna.
Qui lei lo forza a stringere l’antico pugnale,
strumento di furia atroce nella casa di Tantalo,
e Clitennestra cadde per mano del figlio.

Johann Wolfgang von Goethe

Fonte: http://www.writingshome.com/ebook_files/160.pdf

Madame Bovary

Madame Bovary in questo brano ha deciso di darsi la morte con l’arsenico, emulando le grandi eroine del mondo della finzione letteraria d’amore del quale lei è rimasta vittima e prigioniera. La realtà è tuttavia ben diversa dai romanzi d’amore: l’arsenico le procurerà dei dolori inimmaginabili.

Un sapore acre in bocca la svegliò. Intravide Charles e richiuse gli occhi.

Spiava le proprie sensazioni per rendersi conto se cominciasse a star male. Ma no, non ancora. Sentiva il ticchettio della pendola, il rumore del fuoco e Charles, in piedi al suo capezzale, che respirava.

“Ah! È una cosa ben da poco la morte” pensava. “Dormirò e tutto sarà finito!”

Bevve un sorso d’acqua, e si voltò verso il muro. Quell’orribile sapore di inchiostro continuava.

«Ho sete!… Oh! Ho una sete terribile!» sospirò.

«Ma che cos’hai, insomma?» disse Charles, porgendole un bicchiere d’acqua.

«Non è nulla!… Apri la finestra… Soffoco!»

E fu afferrata dalla nausea così d’improvviso che ebbe appena il tempo di prendere il fazzoletto sotto il cuscino.

«Portalo via!» disse con vivacità «Buttalo!»

Charles le fece domande alle quali Emma non rispose. Rimaneva immobile, temendo che la più piccola emozione la facesse vomitare. Sentiva però un freddo di gelo salirle dai piedi fino al cuore.

«Ah! Ecco che comincia!» mormorò.

«Che dici?»

Voltò la testa con un movimento lento, pieno di angoscia, aprendo e chiudendo di continuo la bocca come se avesse avuto sulla lingua qualcosa di molto pesante. Alle otto, i conati di vomito ricominciarono.

Charles osservò sul fondo della bacinella qualcosa di simile a granelli bianchi attaccati alle pareti di porcellana.

«È straordinario! È una cosa stranissima!» ripeteva.

Ma Emma disse ad alta voce:

«No, ti sbagli!»

Allora, delicatamente, quasi la carezzasse, Charles le passò una mano sullo stomaco. Emma gettò un grido acuto. Charles si tirò indietro spaventato.

Poi la signora Bovary si mise a gemere, dapprima debolmente. Grandi brividi le scotevano le spalle e diventava più pallida del lenzuolo nel quale affondava le dita contratte. Il polso, aritmico, era quasi impercettibile, adesso.

Gocce di sudore gemevano dal viso cianotico che sembrava quasi irrigidito nell’esalazione di un vapore metallico. I denti battevano, gli occhi dilatati guardavano vagamente tutto intorno e a ogni domanda Emma rispondeva scotendo il capo; sorrise addirittura una o due volte. A poco a poco i gemiti si fecero più forti. Un urlo soffocato e continuo le sfuggiva; voleva far credere di stare meglio e che ben presto si sarebbe alzata ma le presero le convulsioni, gridava:

«Ah! È atroce, mio Dio!»

Gustave Flaubert

https://www.liberliber.eu/mediateca/libri/f/flaubert/madame_bovary/pdf/flaubert_madame_bovary.pdf

https://www.liberliber.eu/mediateca/libri/f/flaubert/madame_bovary/pdf/flaubert_madame_bovary.pdf

Taras Bul’ba

Un koševoj dà utili consigli ai militari per gestire le ferite della guerra: si tratta di un utile prontuario e contemporaneamente di una testimonianza della medicina nei campi militari al tempo di Gogol.

«Ispezionate, ispezionate tutto per bene!», così diceva. «Riparate i carri e gli ingrassatori dei mozzi, provate le armi. Non prendete molto vestiario con voi: una camicia e due paia di brache per ogni cosacco e un vaso di farina d’avena e di miglio macinato – che nessuno ne abbia di più! Sui carri ci saranno tutte le provviste che occorrono. Che

ogni cosacco abbia un paio di cavalli. E che si prendano un duecento coppie di buoi, perché ai guadi e nei luoghi paludosi occorreranno i buoi. Ma soprattutto, panove, mantenete l’ordine. Io so che tra voi vi sono alcuni che, non appena Dio manda qualche bottino, subito si mettono a lacerar seta e preziosi broccati per farsene pezze da piedi. Smettete questa maledetta abitudine, gettate lontano ogni sorta di sottane, prendete soltanto le armi, se ne capitano di buone, e le monete d’oro o d’argento perché occupano poco posto e fanno comodo in ogni caso. E poi, panove, ve lo dico in anticipo: se qualcuno durante la campagna si ubriaca, per lui non ci sarà giudizio. Come un cane ordinerò che sia attaccato al carro per il collo, chiunque egli sia, foss’anche il cosacco più valoroso di tutto l’esercito. Sarà fucilato sul posto come un cane e sarà abbandonato senza sepoltura in pasto agli uccelli, perché chi si dà all’ubriachezza durante la campagna è indegno della sepoltura cristiana. Giovani, obbedite in tutto agli anziani! Se vi scalfisce una pallottola o se vi scuoiano la testa o qualcos’altro con la sciabola, non fate gran caso a ciò. Mescolate una carica di polvere in una tazza di sivucha, bevetela d’un fiato e vi passerà tutto, non vi verrà neppure la febbre; e sulla ferita, se non è troppo grande, metteteci semplicemente della terra, dopo averla impastata con la saliva nel palmo della mano, e la ferita si seccherà. Orsù, dunque, al lavoro, al lavoro, ragazzi, senza affrettarvi, mettetevi per benino al lavoro!».

Nikolaj Vasil’evič Gogol’

Fonte:


“La cognizione del dolore”, Carlo Emilio Gadda

Romanzo composto tra il 1938 e il 1941, inizialmente pubblicato a puntate sulla rivista Letteratura, rimase incompiuto a causa dell’imperversare della guerra e venne pubblicato solo nel 1963 dall’editore Einaudi. Nelle opere di Gadda alla contaminazione dei generi (lirico, grottesco, tragico…) si accompagna sempre quella dei linguaggi (termini di uso non comune, espressioni dialettali, linguaggi settoriali). In questo brano si narra l’incontro di Gonzalo Pirobutirro con la madre, dolorosamente consapevole della malattia psichica (il male oscuro) che tormenta il figlio. La donna, anziana e malata, sta cercando di improvvisare una cena per il figlio, reduce da un viaggio di lavoro: ognuno si chiude nel mutismo e si trincera nella propria solitudine


« L’alta figura di lui si disegnò nera nel vano della porta-finestra, di sul terrazzo, come l’ombra d’uno sconosciuto: e, dietro a lui, nel cielo, due stelle parevano averlo assistito fin là. Diòscuri splendidi sopra una fascia d’amaranto, lontana, nel quadrante di bellezza e di conoscenza: fraternità salva! La madre lo scorse, ma non poté vederne il viso contro il rettangolo di luce. Egli allora entrò, e recava una piccola valigia, la solita, quella di cartone giallo da quaranta centavos, come d’un venditore ambulante di fazzoletti. Nella stessa mano, arrotolato, il vecchio ombrello. La madre disse “oh! Gonzalo, come stai? Oh! guarda!” e proferì con un singhiozzo di gioia i nomi delle due stelle, a mani giunte, a guisa di saluto. Ma pensò che la prima sola valeva, nella correlazione di fortuna e d’astri per simbolo di una presenza terrena; poiché l’altra, così fulgida, così pura, non era se non un pensiero lontano della notte.
Il figlio la salutò appena, come ogni volta, stanco. Neppure le sorrise. Ella non insisté a cercarne lo sguardo, non chiese del viaggio, né dell’uragano.
[…]
Le sue mani rigide, quasi inerti, non arrivavano a prendere con esattezza; le riuscì difficile d’insinuare il cilindro di cristallo nella sua ghiera precisa, di ottone lucido, come una trina dei costumi desueti: e questa invece lo doveva ritenere alla base. Si sarebbe seduta, tremava… ma bisognò pensare al figliolo… Quando la lampada poté rischiarare la stanza, al fine, le parve di dover cadere… L’ultimo sguardo del crepuscolo, già lontanissimo, abbandonava il mobilio, con riflessi radenti e freddi sulla credenza, su qualche vassoio di metallo. Quel pallore della lucerna, invero, non ci aveva aggiunto di molto. Richiuse i vetri come le riuscì; ch’era molto alta finestra, sul terrazzo; abbrividendo.
[…]
Andò in cucina a preparargli qualcosa da cenare. Era assolutamente necessario, anche a dimostrazione della validità funzionale della villa: tanto più, poi, che la villa era sprovveduta di cuoca o d’una qualunque fante. Altrimenti egli avrebbe colto quel pretesto ad accendersi circa la inanità della campagna: e sarebbe incorso nelle peggiori bizze ed ubbìe: (la cosa, oramai, un triste rito: la povera madre lo sapeva bene). Avrebbe ripetutamente scorbacchiato e rimaledetto la villa, insieme col mobilio, coi candelieri, con la memoria del padre che l’aveva costruita; incoronando di vituperî osceni tutti i padri e tutte le madri che lo avevano preceduto nella serie, su, su, su, fino al fabbricatore di Adamo. Sarebbe trasceso alle bestemmie, ch’ella non poteva udire: ad accuse troppo vere, forse, per essere udibili: coinvolgendo nella turpitudine pazza che lo animalava in quei momenti financo il sacro nome di Pastrufacio (il Garibaldi del Maradagàl).
[…]
La madre, viceversa, fin da quando i muratori ci accudivano nel ’99, aveva incorporato in sé, subito, – avvampante splendore di giovinezza – il trionfo serpentesco della “sua” villa sopra le rivali keltikesi che non credevano alla possibilità di una villa: (degli spelacchiatissimi Pirobutirro).
E quell’orgoglio, quel tirso di brace che le era venuto fatto, in un giorno lontano, di potersi infilare a metà dell’anima alla facciazza delle pseudo-cognate e delle pseudo-nipoti, quello poi era cresciuto ad ebbrezza e ad onnipotenza raggiante, dentro un evo fulgido, allucinato, senza più misura né termine: l’idea del possesso e della supposta vittoria tracannata come un cognac di fuoco e di vita a ogni nuovo mattino, a ogni giorno splendido. Quello le era bastato, durante quarant’anni, a scongiurare la disperazione, ad acculare al di là d’ogni strazio e d’ogni miseria, d’ogni sdrucita maglia de’ suoi bimbi, d’ogni scampanìo, d’ogni gloria, d’ogni tenca, lo sporco sogghigno della morte.
[…]
in cucina non v’era quasi nulla, da potergli preparare nemmeno un ovo. Lo stentòreo deretano delle galline del Giuseppe ci perveniva piuttosto raramente, a una così gloriosa estromissione. Ne teneva più d’una, ma facevan l’ovo a turno: e spesso, poi, marinavano il turno. Il figlio si sarebbe imbestialito anche di ciò: e allora bisognava sorvolare, sulle ova. Già altra volta era accaduto che s’infuriasse, per quella inadempienza dei polli del Serruchón porco: e aveva accusato il gallo di morosità genetica e di perversione, le galline d’esser lesbiche, e tr…; poi la furia s’era schiarita in una reminiscenza di Livio “gallinam in marem, gallum in foeminam se se vertisse…”. E, atrocemente, sghignazzando, aveva brindato alla salute del gallo! ma non disse affatto alla salute, disse una parte del corpo: aveva inneggiato, (irridendo lei, la mamma), al gallo bardassa
[…]
Carlo Emilio Gadda

Fonte:
“La cognizione del dolore”: Gonzalo torna a casa – citazioni
Citazioni e frasi celebri

Andrea Vianello, la parola ritrovata

Ricominciare a vivere dopo un grave ictus che tra l’altro gli ha tolto l’uso della voce, il suo strumento di lavoro. Il giornalista radio-televisivo – ora recuperato grazie a un intervento e a una lunga riabilitazione – sente la “responsabilità di mobilitarmi perché ci siano più prevenzione e attenzione verso questa patologia”. Ha cominciato a farlo confortando gli altri pazienti durante le cure e scrivendo un libro. Ma ha anche scoperto un mondo di operatori adiacente alla medicina che non è normato adeguatamente e come scienza e conoscenza siano spesso considerate alla pari di una posizione qualsiasi. “Con il Coronavirus abbiamo imparato ad affidarci agli esperti, speriamo non si torni al precedente clima antiscientista”

Rialzarsi dopo una scivolata con lo scooter. Ricominciare a vivere dopo una grave malattia ed essere giunti in punto di morte. Ripartire verso l’obiettivo della normalità, dopo il lockdown e con una pandemia ancora tutt’altro che sconfitta. Andrea Vianello conosce tutte e tre queste esperienze. La prima è la più banale e la citiamo solo perché diede a intervistatore e intervistato l’occasione di conoscersi. L’ultima la sta cominciando in questo periodo, assieme a tutti gli altri italiani. Sulla seconda ha scritto un libro, “Ogni parola che sapevo” (Mondadori), dove descrive un incidente terribile e paradossale per un giornalista radiofonico e televisivo, conduttore di programmi come “Radio anch’io”, “Agorà” e “Mi manda Rai Tre”: un ictus che tra l’altro gli toglie l’uso della parola, il suo strumento di lavoro.

“L’ictus, l’operazione condotta da un medico coraggioso, conscio che sotto i ferri rischiavo la morte, la lunga riabilitazione al Santa Lucia di Roma… Ho pensato spesso a come sarebbero andate le cose se l’incidente fosse successo oggi, quando tutta la Sanità è comprensibilmente concentrata sul Covid-19. Sono in contatto con medici, soprattutto lombardi, che mi hanno spiegato come abbiano dovuto quasi monopolizzare il loro lavoro nella battaglia contro questo nemico misterioso, aggressivo e letale”.

Le cose – per l’ictus – sono andate benissimo, lei si è ripreso in modo eccellente. Durante le cure non ha mai avvertito un surplus di attenzione dovuto alla sua notorietà?

No, sinceramente no. Il mio ruolo pubblico è emerso in un altro modo, che chiamerei di responsabilità. Durante la mia permanenza all’ospedale Santa Lucia, durata più di un anno, si è creato un clima amicale e i pazienti man mano mi hanno preso come punto di riferimento. Conoscendomi come giornalista, mi chiedevano consigli o anche solo conforto, magari dicendo ‘Andre’, che dici, ce la faccio?’. E io cercavo di rispondere infondendo coraggio, fiducia, prima di tutto sorridendo. Da lì è nata in me una nuova consapevolezza: vorrei spendere la mia relativa notorietà mobilitandomi perché ci siano più prevenzione e attenzione verso l’ictus, una patologia a mio avviso sottovalutata nella comunicazione pubblica e che apporta invece invalidazioni terribili, anche se spesso recuperabili.

Il libro è stato un passo in questa direzione?

Senz’altro, anche se rilevo – da parte dei personaggi pubblici, e non solo – una sempre più diffusa tendenza a raccontare le proprie malattie, in contrasto con la riservatezza su questo tema, che un tempo sfiorava persino l’omertà. Credo che tale trasparenza sia positiva, poiché la malattia non è una colpa di cui vergognarsi.

 In “Ogni parola che sapevo” lei però azzarda una causa precisa per quanto le è accaduto…

Non posso e voglio muovere accuse a nessuno, ma il mio ictus – per la precisione ho subito un’ischemia con versamento di sangue nella parte destra del cervello, quella che tra l’altro comanda la parola – è avvenuto dopo che mi ero sottoposto a una manipolazione per la cervicale. E la causa accertata è stata la disseccazione della carotide. Ho poi scoperto, studiando la letteratura scientifica, che questa coincidenza è frequente. A questo punto, obietto solo che questo mondo di operatori adiacente alla medicina, e sempre più frequentato dai pazienti, non è normato adeguatamente: a danno dei malati, che rischiano di finire letteralmente tra le mani di persone impreparate, e degli operatori qualificati, che non hanno modo di distinguersi. Queste pratiche possono essere utili come supporto della medicina che chiamiamo ufficiale, ma solo se sono affidate a professionisti riconosciuti, anche a livello di ordine: oggi invece, senza saperlo, ci potrebbe capitare di rivolgerci a persone che non hanno titoli adeguati per esercitare la loro attività. Una proposta di legge al riguardo c’è, ma come spesso succede si è persa nei meandri parlamentari”.

Lei lambisce così il tema delle cosiddette “medicine alternative”, spesso seguite con atteggiamento polemico contro la scienza, la sanità e la medicina, e talvolta purtroppo consistenti in mera cialtroneria. In questi tempi, è un tema particolarmente caldo.

Intanto credo che la questione non riguardi soltanto la scienza ma tutta la conoscenza, cioè che ci sia una progressiva crisi delle competenze, che in alcuni ambiti, come i social network, sono sovente considerate alla pari di una qualsiasi posizione. Tanto più in questi tempi di Coronavirus, penso si debba fare e credo si stia facendo un grande sforzo per comunicare le conoscenze scientifiche corrette, purtroppo ancora insufficienti per debellare la pandemia. Lo ravviso da parte delle istituzioni scientifiche e pubbliche e di molti media: per esempio la mia azienda – io sono un uomo Rai al cento per cento – sta facendo un buon lavoro. Certo, si può e si deve sempre migliorare.

Potrebbe essere questo un suo futuro ruolo? 

Sono rientrato al lavoro da poco e per ora preferisco restare dietro le quinte, anche perché le difficoltà nell’uso della parola non sono del tutto scomparse. E poi nella mia carriera ho alternato i ruoli di conduzione alla direzione di Rai Tre, mi sento di poter stare sia dietro sia davanti alla telecamera. Per quanto riguarda la necessità di una corretta informazione sul riconoscimento delle competenze nel dibattito mediatico, volevo però aggiungere che il tema ci investe anche come cittadini: temo che, passata la attuale paura, che ci ha spinto ad affidarci agli esperti per chiedere soluzioni, si torni al precedente clima antiscientista, che pervade anche alcuni ambiti istituzionali.

A giudicare da questa conversazione, le sue leggere incespicature la rendono un oratore ancora più accattivante. Forse potrebbe proprio dedicarsi a un programma dedicato alle disabilità, vista la consapevolezza che ha acquisito?

Questa sua considerazione sul mio modo di parlare me l’hanno già fatta altri, dopo l’intervista rilasciata nel programma di Massimo Gramellini e la presentazione del libro tenuta al Maxxi di Roma. Comunque sul mio futuro professionale ho tempo di riflettere, assieme alla Rai. Per quanto riguarda la mia sensibilità ai problemi sociali, è precedente all’ictus e nei miei programmi ho cercato di coltivarla. Tra l’altro l’Italia conta una ricchezza da record, la sua longevità e quindi la sua popolazione anziana, pertanto parlare di disabilità significa allargare il discorso all’assistenza di una quota molto ampia di persone. La questione si è posta anche rispetto al Covid-19, com’è noto: la spending review nel sistema socio-sanitario può trasformarsi in una sorta di cinica selezione anagrafica.

Il suo presente è stato condizionato, come quello di tutti, dalle norme di isolamento contro la pandemia. Come lo ha vissuto?

Come tutti, appunto. Da un lato recuperando alcune gioie della vita domestica e famigliare, dall’altro adattandomi all’intensificarsi dei rapporti tramite dispositivi e sistemi tecnologici, che a mio avviso non termineranno con il Covid-19: ci dovremo abituare a lavorare, studiare, confrontarci di più da remoto. Certo, un po’ di stress, di angoscia, di noia, le ho sofferte.

E come vede il futuro, in generale?

Non nascondiamocelo, la coperta è corta. Non sarà semplice compensare le indispensabili cautele sanitarie, che richiederanno tempi lunghi, con la necessità di riprendere prima possibile le attività produttive, i servizi e di dare impulso a un’economia che già prima di questa catastrofe non brillava. In Italia in modo particolare.

Andrea Vianello

https://almanacco.cnr.it/articolo/689/andrea-vianello-la-parola-ritrovata

Tutto chiede salvezza

È la settimana dei mondiali del ’94, cinque uomini la passano nel reparto di psichiatria a seguito di un trattamento sanitario obbligatorio, meglio conosciuto come TSO. Daniele, appena ventenne, è la voce narrante, che racconta l’emarginazione, la paura, il dolore, ma anche la tenerezza, il conforto e la saggezza di uomini che implorano solo salvezza.

Ho paura, vorrei vicino a me la mia famiglia, la mia casa, la mia stanza. So perché mi trovo qui, so quello che è successo. La vergogna, i sensi di colpa, il ricordo di ieri sera mi travolge, vorrebbe tramutarsi in pianto. Ma non ce la faccio. […]

Mi piacerebbe dire a mia madre ciò che mi serve veramente, sempre la stessa cosa, da quando ho urlato il primo vagito al mondo. Quello che voglio per tanto tempo non è stato semplice da dire, tentavo di spiegarlo con concetti complicati, ho trascorso questi primi vent’anni di vita a studiare le parole migliori per descriverlo. E di parole ne ho usate tante, troppe, poi ho capito che dovevo procedere in senso contrario, così, di giorno in giorno, ho iniziato a sfilarne una, la meno necessaria, superflua. Un poco alla volta ho accorciato, potato, sino ad arrivare a una parola sola. Una parola per dire quello che voglio veramente, questa cosa che mi porto dalla nascita, prima della nascita, che mi segue come un’ombra, stesa sempre al mio fianco. Salvezza. Questa parola non la dico a nessuno oltre me. Ma la parola eccola, e con lei il suo significato più grande della morte.
Salvezza. Per me. Per mia madre all’altro capo del telefono. Per tutti i figli e tutte le madri. E i padri. E tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri. La mia malattia si chiama salvezza, ma come? A chi dirlo? […]

“Che cura può esiste per come è fatta la vita, voglio di’, è tutto senza senso, e se ti metti a parla’ di senso ti guardano male, ma è sbagliato cerca’ un significato? Perché devo avere bisogno di un significato? Sennò come spieghi tutto, come spieghi la morte? Come se fa ad affrontare la morte di chi ami? Se è tutto senza senso non lo accetto, allora vojo mori’.” […]

“Lei prima ha detto che il mio problema potrebbe essere semplicemente chimico, magari fosse così, se fosse solo una questione di chimica basterebbe aggiungere, o diminuire, io sarei il ragazzo più felice del mondo, ma per ora tutto quello che ho provato non ha cambiato niente.” […]

“Lo stregone è arrivato» mi fa Mario, guardando in direzione della porta. La sua definizione mi fa sorridere.
«Perché stregone?»
«Perché dalla punta dei piedi sino al collo la scienza qualcosa ha capito, ma di qui sopra» e si indica la testa, «ancora niente, stiamo ancora al tempo della stregoneria, sono mutati i riti, le formule magiche, le erbe sono diventate pasticche, ma la verità è che la medicina brancola nel buio, magari domani si svegliano e ci dicono che la malattia che ci avevano affibbiato non è così certa, che il meccanismo d’azione di questa o quella cosa non è come avevano sempre pensato.” […]

“Questi sono posti che non vanno tanto a braccetto con la ragione, ma il rispetto verso gli altri è il primo comandamento, tanto ci pensiamo noi a farci del male.” […]

“Qui dentro la condanna non è il TSO, magari fosse quello, la vera pena affibbiata dal destino sta nella reiterazione del vissuto, come le repliche di uno spettacolo, un’eterna prima teatrale.” […]

“A te dico più o meno la stessa cosa: fidati pure dei farmaci, dei medici, ma non smettere di lavorare su te stesso, di fare di tutto per conoscerti meglio.” […]

“Per esempio ho capito che l’intelligenza è sopravvalutata, come la stupidità sottovalutata, che bene e male esistono veramente, che l’uomo può perdere tempo prezioso in mille modi stupidi, il più stupido di tutti è giudicare gli altri, perché è troppo facile, perché non serve né a noi né agli altri” […]

“Un uomo che contempla i limiti della propria esistenza non è malato, è semplicemente vivo. Semmai è da pazzi pensare che un uomo non debba mai andare in crisi.” […]

Forse, questi uomini con cui sto condividendo la stanza e una settimana della mia vita, nella loro apparenza dimessa, le povere cose di cui dispongono, forse loro, malgrado tutte le differenze visibili e invisibili, sono la cosa più somigliante alla mia vera natura che mi sia mai capitato d’incontrare. […]

La vera pazzia è non cedere mai. Non inginocchiarsi mai.

Daniele Mencarelli

Daniele Mencarelli, “Tutto chiede salvezza”, Mondadori, Milano, 2020

Giuda – Il tumore di una diciottenne

Affidare alla scrittura il racconto di un percorso di malattia è un’esperienza sempre più diffusa e frequente. Nel caso di “Giuda” (Edizioni della Meridiana), all’autrice, giovanissima, viene diagnosticato un raro linfoma. Il diario, spiega, “serviva a me, al mio bisogno di fare sapere al mondo che avevo un cancro”


Marina Massone ha solo 18 anni quando le viene diagnosticato un raro tumore maligno del sangue, un linfoma T gamma delta, patologia che colpisce più frequentemente il genere maschile in età superiore ai sessant’anni, con solo il 10% di probabilità di sopravvivenza.
Fino a quel momento, la sua vita è quella di una ragazza solare e sportiva, pattinatrice su ghiaccio a ottimi livelli, nata e cresciuta ad Aosta tra famiglia e amici, diplomata in Canada per poi intraprendere un percorso di studi internazionali presso un ateneo olandese. Poi, dopo una serie di inspiegabili febbri e una crescente anemia, l’incontro con “Giuda” – così lei battezza la malattia – e l’inizio di una nuova realtà fatta di ospedali, esami, chemioterapia, fino al trapianto di midollo da parte del fratello Federico, operazione che la salverà.
Un percorso in cui Marina utilizza la scrittura come mezzo per mantenere un equilibrio e una direzione: “Scrivere è stato meglio di una seduta dallo psicologo, di un bicchiere di vino, di una corsa all’aria aperta. Ho scritto per digerire le informazioni che ricevevo, capirle, rielaborarle e farle mie. Ho scritto per prendere distanza da quello che mi capitava e vedere come il personaggio che avevo creato – che ero in realtà io stessa – trovava sempre un modo per andare avanti. Così mi si disegnava davanti agli occhi la strada da seguire e riuscivo a vivere un presente intenso come mai prima”.
Nel libro si piange e si ride: Marina racconta la sua storia senza filtri, guardandosi dentro lucidamente, alternando la disperazione alla consolazione, abissi di malessere e slanci di ritrovata energia, fiducia – nei medici ma anche nella sua “capacità di farcela”- rabbia e pensieri “da grande“, come la consapevolezza di non poter avere figli, fino alla serenità ritrovata nelle piccole cose, come il semplice ricominciare a fare ginnastica all’aria aperta dopo quattro cicli di terapia.
La decisione di rendere pubbliche le sue pagine arriva solo dopo il centesimo giorno dal trapianto di midollo osseo, data che segna il superamento del rischio di andare incontro a gravi complicazioni dopo l’operazione e, quindi, simbolicamente, la guarigione. In questo lungo percorso, il diario – nato “egoista”- (“serviva a me, al mio bisogno di fare sapere al mondo che avevo un cancro”), diventa una testimonianza di altruismo e uno strumento di sensibilizzazione al tema della donazione del midollo osseo. “È un’operazione sicura e non invasiva, nel nostro Paese esiste un Registro dei donatori: più persone sono iscritte, maggiori possibilità si avranno di trovare un donatore compatibile con il paziente che ha bisogno del trapianto”.
Nelle ultime pagine, Marina si congeda da Giuda con una lettera dalla quale traspare tutta la forza dei suoi 22 anni: “Non ho cambiato il mio approccio alla vita, come spesso si pensa che possa accadere dopo una malattia: io amavo la vita prima di Giuda, l’ho amata durante e la amo anche adesso”.

F.G.


Marina Massone, “Giuda”, Edizioni della Meridiana (2021)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Alle soglie

In questo componimento Guido Gozzano, all’epoca molto malato , descrive l’inquietudine provocata dalle visite mediche alle quali viene sottoposto e l’arrendevolezza al possibile incontro con “quella Signora dall’uomo detta la Morte”.

I.

Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,

mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo,

pur chiuso nella tua nicchia, ti pare sentire di fuori

sovente qualcuno che picchia, che picchia… Sono i dottori.

Mi picchiano in vario lor metro spiando non so quali segni,

m’auscultano con gli ordegni il petto davanti e di dietro.

E sentono chi sa quali tarli i vecchi saputi… A che scopo?

Sorriderei quasi, se dopo non bisognasse pagarli.

“Appena un lieve sussulto all’apice… qui… la clavicola…”

E con la matita ridicola disegnano un circolo azzurro.

“Nutrirsi… non fare più versi… nessuna notte più insonne…

non più sigarette… non donne… tentare bei cieli più tersi:

Nervi… Rapallo… San Remo… cacciare la malinconia;

e se permette faremo qualche radioscopia…”

II.

O cuore non forse che avvisi solcarti, con grande paura,

la casa ben chiusa ed oscura, di gelidi raggi improvvisi?

Un fluido investe il torace, frugando il men peggio e il peggiore,

trascorre, e senza dolore disegna su sfondo di brace

e l’ossa e gli organi grami, al modo che un lampo nel fosco

disegna il profilo d’un bosco, coi minimi intrichi dei rami.

E vedon chi sa quali tarli i vecchi saputi… A che scopo?

Sorriderei quasi, se dopo non fosse mestiere pagarli.

III.

Mio cuore, monello giocondo che ride pur anco nel pianto,

mio cuore, bambino che è tanto felice d’esistere al mondo,

mio cuore dubito forte– ma per te solo m’accora –

che venga quella Signora dall’uomo detta la Morte.

(Dall’uomo: ché l’acqua la pietra l’erba l’insetto l’aedo

le danno un nome, che, credo, esprima una cosa non tetra.)

È una Signora vestita di nulla e che non ha forma.

Protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma.

Tu senti un benessere come un incubo senza dolori;

ti svegli mutato di fuori, nel volto nel pelo nel nome.

Ti svegli dagl’incubi innocui, diverso ti senti, lontano;

né più ti ricordi i colloqui tenuti con guidogozzano.

Or taci nel petto corroso, mio cuore! Io resto al supplizio,

sereno come uno sposo e placido come un novizio.

Guido Gustavo Gozzano. “Alle soglie”. (I colloqui. Traves,1911)