I pazzi salutano Clarisse

La tragica realtà di un reparto psichiatrico dove si intrecciano il lavoro del medico, di Clarisse, dei malati e di ciò che avviene nella loro mente.

Un “reparto tranquillo”, – spiegò il medico.

C’erano soltanto donne; avevano i capelli sciolti sulle spalle e i loro visi erano repulsivi, con lineamenti molli, enfiati, deformi.

Una di esser corse subito dal medico e gli consegnò una lettera.

E’ sempre la stessa storia, – disse Friedenthal e lesse forte:

-“Adolfo mio adorato! Quando vieni? Mi hai dimenticata?” –

La donna, più che sessantenne, ascoltava con aria ebete. – La spedirai subito, vero? – ella pregò – Certo! – promise il dotto Friedenthal e sotto i suoi occhi strappò la lettera ammiccando alla sorvegliante. Clarisse lo rimproverò: – Come può agire così? – esclamò con sdegno – I malati bisogna prenderli sul serio!

Venga via! – esortò Friedenthal. – Non mette conto di fermarsi qui. Se vuole le posso mostrare centinaia di lettere simili. Avrà osservato che la vecchia è rimasta indifferente quando ho strappato il suo biglietto.

Clarisse era allibita perché ciò che diceva il dottore era vero ma le sconvolgeva le idee.

(Cfr. Lechon, Il difficile problema del rispetto del paziente psichico)

sovente sono grandi artisti, molto moderni.

E ammalati? – dubitò Clarisse.

– Perché no? – sospirò Friedenthal pateticamente.

“Dunque anche un’arte rispettabile e rispettata come l’accademia ha una sorella rinnegata, defraudata e tuttavia quasi identica in manicomio?”

Nei letti della nuova stanza eran seduti o buttati una serie di orrori. Tutto di quei corpi era storto, imbrattato, contraffatto o paralitico. Dentature guaste. Teste ciondolanti. Crani troppo grandi, troppo piccoli e tutti deformi. Mascelle cascanti, colanti di saliva, bocche macinanti a vuoto, animalescamente, senza cibo né parole. (…)

Le sale dei gravemente affetti da idiozia sono fra gli spettacoli più raccapriccianti che si possan trovare nelle brutture di un manicomio, e Clarisse si sentì sprofondare in una tenebra fitta e spaventosa dove non distingueva più nulla.

Il dottor Friedenthal la seguiva spiegando: – Idiozia familiare amaurotica – Sclerosi ipertrofica tuberosa. – Idiozia timica.

Il generale che s’era stufato di vedere ebeti e lo stesso supponeva di Ulrich, guardò l’orologio e disse: – Dov’eravamo rimasti? 

il dottor Friedenthal (…)

Era abituato a quel, trantran. Ordine come in una caserma o in ogni altra comunità, alleviamento delle principali sofferenze e incomodi, prevenzione dei peggioramenti evitabili, ogni tanto un miglioramento, una guarigione: questi erano gli elementi della sua attività quotidiana. (…)

Adesso entriamo in un reparto di agitati, – annunziò Friedenthal, e già s’avvicinavano a uno schiamazzo, a un grido, che pareva erompere da un’immensa gabbia d’uccelli. (…)

Tutti i pazzi roteavano gli occhi e le braccia, eccitati e urlanti (…)

Alcuni erano liberi, altri erano legati all’orlo dei letti con cinghie che lasciavano pochissimo gioco alle mani. (…)

Infine il pazzo disse lentamente: – E’ il settimo figlio dell’Imperatore.

Stumm von Bordwehr diede una gomitata a Ulrich.

– Non è vero, – contraddisse Friendenthal, e continuando il gioco si rivolse a Clarisse coll’invito: – Gli dica lei stessa che s’inganna.

– Non è vero, amico mio, – mormorò Clarisse, che per la commozione quasi non riusciva a parlare.

Robert Musil

Trecani Enciclopedia Online

Robert Musil, “L’uomo senza qualità” (1930-1942)

La parabola dei ciechi

Hofmann mostra cosa i più provano davanti alla disabilità:paura, disgusto e pietà.

[…] Non ti vediamo affatto, guardiamo solo nella direzione da cui proviene la tua voce, sciocchino.

Comunque, dice il bambino a chi-ha-bussato, non sono tutti ciechi.

Tutti, dice chi-ha-bussato, altrimenti non verrebbero dipinti. Una sera d’estate, in cui faceva molto caldo ed essi sedevano sotto un ciliegio, sono arrivati degli uccelli. Si sono appollaiati sulle loro spalle e con il becco gli hanno cavato gli occhi.

Che tipo di uccelli?

Cornacchie o corvi.

Ed essi non hanno reagito?

Accadde tutto molto rapidamente, dice chi-ha-bussato.

È vero?, chiede il bambino e si gira di nuovo verso noi.

Si, vero, diciamo, e annuiamo.

E perché vi hanno cavato gli occhi?

Perché abbiamo ucciso i loro piccoli.

E perché avete ucciso i loro piccoli? 

Non potevamo più sentire lo schiamazzo, o comunque pensavamo di non esserne capaci.

Solo che alcuni sostengono che non si è trattato di corvi o di cornacchie, ma di taccole, dice chi-ha-bussato.

[…] Hei, tu, chiediamo procedendo, ci sono uomini qui?

Si, dice il bambino.

Quanti?

Devo contarli?

No. Press’a poco.

Forse dieci.

Dove?

Davanti alle loro case.

E che cosa vogliono?

Vedervi.

Allora ci guardano?

Sì.

Adesso?

Sì, adesso.

Ah, va bene, diciamo. E, come sempre quando ci osservano, a fatica ci avviciniamo l’uno all’altro, e volgiamo lo sguardo ostentatamente verso l’alto, e ci rendiamo conto di essere guardati, sia da vicino che da lontano. Un mostro marino noi siamo, quando passiamo così per i villaggi, un insieme che si muove con difficoltà, silenzioso e indistinto. Quando si espone alla vista, s’imbatte nella paura, nel disgusto e nella pietà.

[…] Pietà per i ciechi, gridiamo e agitiamo i bastoni affinchè ci scansino. (se poi non temono più i nostri bastoni, gli mostreremo gli occhi.) Chiediamo allora dei corvi, e chiediamo anche della stagione, perché non siamo mai sicuri. Di certo è una giornata fredda, ma che significa in una regione con un inverno così lungo? Chiediamo: primavera? Primavera, dicono loro. Chiediamo : fra breve? Sì, fra breve. E allora primavera, pensiamo e cerchiamo di annusare nel vento un po’ di tepore, mentre rinfrancati avanziamo lentamente. Forse è la piazza del villaggio, quella per la quale ci trasciniamo, ma forse non lo è.

Devo guidarvi?, chiede il bambino, ma noi non rispondiamo. Gridiamo : pietà per i ciechi.

Sì, prendili per mano e portali al tavolo con il cibo, dice chi-ha-bussato, saranno affamati.

Sempre affamati, diciamo.

[…] ecco il cibo, dice il bambino, è tutto per voi. E prende le nostre mani e le posa sul pane e sulle pentole e ci spinge intorno al tavolo. Cerchiamo tastoni il cibo per sapere che cosa c’è. Mettiamo persino le mani nel latte che sta vicino al mangiare, tiepido ci scorre addosso. Ma questo lo conosciamo. Di continuo prendiamo cose che non abbiamo previsto. Se addirittura non afferriamo qualcosa che non esiste.

[…] Ehi, gridiamo, che c’è da guardare così a bocca aperta?

Non guardano a bocca aperta, dice chi-ha-bussato.

E se noi sentiamo che guardano a bocca aperta?

Non guardano a bocca aperta, dice lui.

Ah, diciamo, che facciano pure. E prendiamo prima da questa poi da quella scodella, prima cibi freddi, poi bollenti e poi ancora tiepidi. Arriva un venticello e siamo contenti di avere i nostri camiciotti. Con il cucchiaio prendiamo anche la broda, che è dolce, non salata, e la infiliamo in bocca. Guarda come si sbrodolano, dicono.

Sì, diciamo, ci sbrodoliamo.

Allora ridono e dicono: continuate così. A sudare e a ingozzarvi.

Grazie, diciamo.

[…] strano che egli voglia dipingere proprio noi, pensiamo. Perché la gente non ci vede volentieri neanche non dipinti, cioè così come siamo. Già da lontano, quando ci vede arrivare, ci scansa, si appiattisce passandoci accanto. Perché al contrario dei nostri compari, gli storpi, noi non portiamo fortuna. Se dipendesse dalla gente, ci scaverebbe una profonda buca nella terra, ci getterebbe dentro e la ricoprirebbe per bene, per eliminarci, altro che dipingerci. Altro che fissarci dipingendoci, duplicarci attraverso la pittura.

[…] Va bene, diciamo. Allora, chiediamo, hai il tuo bastone?

Sì, dice Ripolus, il mio bastone è qui. E con questo cammina tastoni sul terreno, affinché noi lo si possa sentire. 

Bene, diciamo, e ora tendilo, perché tu sappia dove metti i piedi. Perché anche noi si sappia dove mettiamo i piedi, quando ti seguiamo. Tendilo, Ripolus, tendilo, gridiamo.

Sì, dice Ripolus, ora lo tendo. E dove andiamo? Chiede, dopo che abbiamo camminato per un po’. Perché la terra del signore, che per tutti è infinita per noi è ancora più grande. E tuttavia siamo sempre in grado di andare avanti, solo ci si chiede per dove. Perché è certo che non andiamo solo diritto, ma anche qua e là, e non solo in avanti, ma anche indietro o in tondo. Ben presto il villaggio pi piccolo si fa interminabilmente lungo, e uno di noi si attacca all’altro o si appoggia al bastone e deve prendere per bene fiato se vuole continuare. Una gruccia non sarebbe male. Con il suo aiuto voleremmo a bassa quota, teste insaccate, sopra la terra. Ma questo significa essere zoppi, non solo ciechi come noi. Accontentiamoci dunque di ciò che abbiamo, avanziamo strisciando con i nostri bastoni! O brandiamoli contro ciò che ci sbarra il passo, gli uomini, il loro bestiame, i loro carri.

Gert Hofmann

Treccani Enciclopedia Online

Gert Hofmann, “La parabola dei ciechi” (1985)

Cieca di Sorrento

Vicenda tormentata e avventurosa, piena di colpi di scena, nella Napoli dell’Ottocento.

Il marchese Rionero, giovane diplomatico napoletano, durante un viaggio governativo a Parigi conosce e s’innamora di Albina, vaga e nobile fanciulla, che poi sposa a Napoli. Una bambina, Beatrice è il primo ed unico frutto del loro amore.

Durante un viaggio diplomatico del marchese, Albina e Beatrice restano sole nella loro villa di Portici dove una notte avviene un fatto atroce. Un ladro penetra nella camera dove dormono madre e bambina per involare un cassettino contenente gioielli d’immenso valore. Albina si sveglia al rumore del ladro e si sveglia pure Beatrice che comincia a piangere per lo spavento, il ladro per farla tacere la sta per pugnalare, ma la madre le fa da scudo e un colpo di coltello al cuore la finisce; il ladro omicida s’invola con il cassettino dei gioielli e Beatrice in preda alle convulsione e allo spavento, la mattina la trovano semiviva. Ma la bambina però non era morta, ma una orrenda convulsione nervosa le aveva strappato la parte più cara della vita. Beatrice era cieca.

Il ladro omicida era un giovane calabrese, Nunzio Pisani, che aveva lasciato il suolo nativo per cercare fortuna a Napoli; suo complice fu il notaio Tommaso Basileo, che grazie alla sua attività notarile aveva saputo delle ricchezze che si trovavano nella casa di Portici ed era anche riuscito a conoscere il giorno opportuno per compiere il furto, appunto durane l’assenza del marchese. Dopo il furto i due complici si dividono e il cassetto delle gioie rimane nella mani del calabrese che lo mette al sicuro, sotterrandolo sotto una quercia, e né a notizie al notaio tramite una lettera, raccomandandogli di far pervenire la sua parte alla famiglia in Calabria nel caso in cui fosse stato scoperto catturato. Evento che avviene; il Pisani viene catturato, processato, e ritenuto colpevole di furto e omicidio viene condannato a morte e afforcato, senza rilevare il nome del complice né dove ha nascosto i gioielli.

Il notaio recupera in seguito il tesoro, ma si guarda bene di far recapitare la parte spettante al suo complice, 10.000 ducati, alla sua famiglia. Diciassette anni più tardi Gaetano, figlio di Nunzio, decide di trasferirsi anch’egli, insieme ad una sorella e un’anziana nonna, a Napoli, per avere notizie del padre, ma soprattutto per continuare i suoi studi in medicina. Scopre che il padre è morto giustiziato per furto e omicidio, ma ignora il nome della vittima Albina, il cui consorte Rionero, insieme alla piccola cieca, dopo il tragico avvenimento, si è ritirato in una villa nella quiete Sorrento, dove conducono una vita molto ritirata. Il marchese si dedica completamente a sua figlia, e non manca di consultare i migliori specialisti, nella speranza di veder un giorno guarita la figlia dalla cecità.

Gaetano per pura combinazione diventa commesso nella curia del notaio Tommaso Basileo, e sempre per una felicissima combinazione gli viene tra le mani la lettera che Nunzio Pisani inviò al notaio dove invitava il complice a dare metà del furto dei gioielli alla sua famiglia nel caso fosse caduto nelle mani della giustizia. Grazie a questa lettera Gaetano entra in possesso della parte del bottino che gli spetta, aumentato dagli interessi maturati in 17 anni, e riesce a carpire la somma di 20.000 ducati all’avaro notaio che il seguito muore di crepacuore. Gaetano è diventato ricco e siccome la sorella prima e la nonna poi erano morte, libero di sé, comincia un viaggio di studio, prima in Italia e poi in Europa, e alla fine si ferma in Inghilterra dove diventa ricco e famoso grazie alla sua arte.

In questa nazione cambia pure i connotati e diventa Oliviero Blackman, ricco di sostanze e di doti mediche, ma con un carattere schivo e cinico, dovuto in parte anche dalle sue sembianze fisiche decisamente brutte: è gobbo, deforme e strabico.

Un nobile napoletano, in viaggio di piacere a Londra lo convince a venire in Italia, a Sorrento da un suo amico, il marchese Rionero che ha una figlia cieca, ed è in cerca di un abile specialista per far guarire la figlia. Oliviero accetta l’invito del nobile e fa il viaggio in Italia e arriva a Sorrento, dove conosce Rionero e Beatrice, e qui succede una cosa che Oliviero non avrebbe mai pensato: s’innamora della vaga Beatrice. Dopo averla visitata, capisce che la ragazza può guarire in seguito ad un suo intervento. Così pone al marchese una condizione terribile, ridare la vista alla figlia, ma in cambio la ragazza deve essere sua! Il marchese si trova in una posizione estremamente imbarazzante, anche perché la ragazza è promessa sposa di un tal cav. Amedeo Santoni, un opportunista, che non ama la bella cieca, ma ambisce alle sue ricchezze e a suo titolo nobiliare, ed anche il Marchese non è attratto dalle brutte fattezze del medico inglese.

L’indecisione di Rionero si risolve dopo che scopre che la figlia non ama Amedeo, e soprattutto dopo che riesce a scoprire le ambigue mire del Santoni. Così il marchese, dopo aver avuto il consenso dalla figlia, che brama riacquistare la vista, anche se deve poi sposare un deforme, accetta le condizioni di Oliviero. Beatrice, grazie all’intervento agli occhi riacquista la vista. Per lei si riapre un mondo nuovo dopo 17 anni di buio. Oliviero dal canto suo subisce una trasformazione morale notevole, anche grazie all’esempio del marchese Rionero, persona esemplare, e diventa devoto e sociale.

Arriva il giorno delle sospirate nozze, tutto sembra procedere per il meglio, ma pochi momenti prima che i due sposi si devono recare nella stanza nuziale e quando il padre abbraccia per l’ultima volta la figlia, scopre che sul suo dito Oliviero ci ha posto lo stesso anello che egli aveva messo al dito della moglie Albina. Si viene così a scoprire che sua figlia Beatrice ha sposato Gaetano Pisani, il figlio dell’assassino di sua madre. Infatti l’anello che Oliviero Blackman, alias Gaetano Pisani, faceva parte dei gioielli involati da suo padre 17 anni prima alla misera Albina. Beatrice che ha assistito alla scena sviene e cade in deliquio. Nel corso della notte, Gaetano sta per suicidarsi con del veleno, ma viene fermato in tempo dal marchese che ha bisogno ancora di lui: Beatrice sta morendo. Il marchese comunque perdona a Gaetano di esser figlio dell’assassino di sua moglie, per lui è sempre Oliviero Blackman, lo sposo di sua figlia. Beatrice sembra riprendersi, «ma la scena dell’anello avea gettato nel seno di Beatrice il germe dell’atroce morbo che la troncava lo stame di vita».

Infatti dopo pochi mesi la vaga Beatrice muore lasciando pieni di cordoglio Rionero e Gaetano che otto giorni dopo la morte di Beatrice, lasciano Napoli a bordo di un vapore che li porta nelle Americhe avendo deciso di onorare la memoria di Beatrice amando e consolando i loro fratelli che piangono.

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Francesco Mastriani, “La cieca di Sorrento” (1952)

Il grillo del focolare

La novella di Charles Dickens si svolge intorno alle vicende di una famiglia umile e, soprattutto, all’amore di un padre per sua figlia cieca.

Ho detto che Caleb e la sua povera figliuola cieca vivevano l’; ma avrei dovuto dire invece che Caleb ci viveva, ma la sua povera figliuola cieca viveva in un altro posto, in una casa incantata[…] […] Caleb non era uno stregone; ma possedeva soltanto l’unica arte magica che ancora ci rimane: la magia di un amore devoto e immortale.

[…] la fanciulla cieca non seppe mai che il soffitto era scolorito, le pareti coperte di macchie e qua e là prive di intonaco; che vi erano grandi crepature mai otturate […] non seppe mai che il ferro era rugginoso, il legno marcio […] che i pochi capelli di Caleb incanutivano ogni giorno di più […] non seppe mai che essi avevano un padrone freddo, esigente ed egoista; non seppe mai, per dirla breve, che Tackleton era Tackleton. Viveva credendo nell’esistenza di un umorista eccentrico, il quale si divertiva a scherzare con loro, era l’angelo custode delle loro vita, ma sdegnava di ricevere anche una sola parola di ringraziamento.

[…] <<Io non posso permettermi di cantare>>, disse Tackleton. <<sono felice che voi lo possiate, e spero che possiate anche permettervi di lavorare. Non mi pare che si possa avere il tempo per l’una e l’altra cosa.>>

<<Se tu potessi soltanto vederlo, Berta, come mi sta strizzando l’occhio>> mormorò Caleb. <<Gli piacciono tanto gli scherzi! Se tu non lo conoscessi, potresti quasi credere che parli sul serio, no?>>

La fanciulla cieca sorrise e accennò di sì col capo.

[…] <<è sempre così allegro e scherzoso con noi!>> gridò Berta sorridendo.

<< Oh, ci siete anche voi>>, risposte Tackleton. << Povera idiota!>>

Era realmente convinto che fosse un’idiota, e fondava questa sua convinzione, non so se consciamente o inconsciamente, sul fatto che essa gli era affezionata.

[…] << Cara Mary, un momento, un momento! Ancora un’altra cosa, Parlami con dolcezza. So che dici la verità; non vuoi certo ingannarmi adesso, non è vero?>> […] <<Mary quarda dall’altra parte della stanza, là dove eraamo poco prima, e dove ora è mio padre, mio padre così compassionevole e così affettuoso verso di me, e dimmi che cosa vedi.>>

<<Vedo>> disse Dot, che l’aveva compresa perfettamente, <<un vecchio seduto su una sedia e appoggiato dolorosamente alla spalliera, con la faccia che riposa su una mano come se attendesse di esser confortato dalla sua figliuola>>

[…] << è un vecchio logorato dalle preoccupazioni e dal lavoro; è un uomo misero, umiliato, preoccupato, canuto. Lo vedo in questo momento, completamente abbattuto, lottare contro non so che cosa.[…] […] La cieca si allontanò da lei e, cadendo in ginocchio davanti a lui, prese quella testa canuta e se la attirò al seno.

<< ho ritrovato la vista. Questa è la mia vista>>, grido. <<Sono stata cieca e ora ho gli occhi aperti. Non l’avevo mai conosciuto! E pensare che avrei potuto morire, senza aver mai veduto veramente il padre che mi ha voluto tanto bene!>>

<< […] quanto più sei canuto e logoro, tanto più mi sei caro papà. Nessuno deve mai più dire che sono cieca. Non c’è una ruga nel suo viso, non c’è capello sulla sua testa che sarà dimenticato nelle mie preghiere e nei miei ringraziamenti al Cielo!>>

Charles Dickens

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Charles Dickens, “Il grillo del focolare” (1845)

Canto di Natale

Nel Canto di Natale di Charles Dickens, Tim, bambino storpio, che si aiuta con una stampella per camminare, confida nello spirito natalizio per essere accettato dalla comunità dei fedeli.

Così Marta si nascose ed entrò il piccolo Bob, il padre, con almeno tre piedi di sciarpa, senza contare la frangia, che gli pendeva davanti e i vestiti logori, rammendati e spazzolati che sembravano nuovi, e Tiny Tim sulle spalle. Povero Tim, portava una piccola stampella e aveva le membra sostenute da una struttura di ferro.

[…] <<Come si è comportato Tim?>>, chiese la signora Cratchit, dopo essersi burlata di Bob per la sua credulità e dopo che Bob si fu saziato di tenersi stretta la figlia.

<<Buono come l’oro>>, disse Bob, <<e anche più buono. Qualche volta si mette a pensare, giacchè passa tanto tempo a sedere solo solo, e pensa le cose più strane che si possano immaginare. Tornando a casa, mi ha detto che sperava che la gente lo avesse visto in chiesa, perché era storpio e per loro poteva essere un piacere ricordarsi nel giorno di Natale di Colui che fece camminare gli storpi e vedere i ciechi>>

Nel dire queste parole, la voce di Bob tremava e si mise a tremare ancor più quando disse che Tim stava facendosi forte e coraggioso.

Si udì sul pavimento il rumore della sua piccola stampella, e Tiny Tim tornò indietro prima che fosse stata detta un’altra parola, scortato dal fratello e dalla sorella fino al suo panchetto accanto al fuoco.

[…] <<Dio ci benedica, ciascuno di noi!>>, disse Tim per ultimo. Stava seduto sul suo panchetto vicinissimo al padre, e Bob teneva nella propria la sua esile manina, come se avesse amato quel bambino, desiderato di tenerselo accanto e temuto che potessero portarglielo via.

<<Spirito>>, disse Scrooge, con un interessamento che non aveva mai provato prima di allora, <<dimmi se Tim vivrà.>>

<<Vedo una sedia vuota>> replicò lo Spirito, <<nell’angolo di quel misero caminetto e una gruccia senza proprietario, conservata con ogni cura. Se queste ombre rimangono inalterate nel futuro il bimbo non morirà.>>

<<No, no>>, disse Scrooge. <<Oh no, Spirito buono. Dimmi che sarà risparmiato.>>

<<Se queste ombre rimangono inalterate nel futuro, nessun altro della mia razza>>, replico lo Spirito, <<lo troverò più qui, ma che importa? Se deve morire, è meglio che muoia e faccia diminuire la popolazione in sovrappiù.>>

Nel sentire lo Spirito citare le sue stesse parole, Scrooge chinò la testa e si sentì schiacciato dal pentimento e dal rimorso.

Charles Dickens

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Charles Dickens, “Canto di Natale” (1843)

Un antropologo su Marte. Sette racconti paradossali

Oliver Sacks presenta sette persone diverse, con le loro peculiarità, il loro vissuto e le straordinarie abilità sviluppate da ciò che per i più è una menomazione. Non casi, ma singoli individui da cui imparare ancora il potenziale creativo derivato dalla patologia.

 

Egli sapeva dire il colore di ogni cosa con una straordinaria precisione (era in grado di indicare non solo il nome del colore, ma anche il numero con il quale era riportato in un catalogo Pantone che aveva usato per anni). E così riusciva a identificare senza esitazione il verde del tavolo da bigliardo di van Gogh. Il signor I. sapeva quali fossero i colori di tutte le sue pitture preferite, ma non poteva più vederli, né con gli occhi, né con la mente: probabilmente la sua conoscenza del colore si fondava ora esclusivamente sulla memoria verbale. […]

In seguito, egli affermò che né «grigio» né «plumbeo» trasmettevano, sia pur lontanamente, le reali sembianze del suo mondo. Ciò che egli percepiva non era il solito «grigio»: si trattava di altre qualità percettive che non hanno equivalenti nell’esperienza e nel linguaggio ordinari. […]

Il signor I. non rappresentava solo un caso relativamente puro di acromatopsia cerebrale (quasi non contaminato da altri difetti nella percezione della forma, del movimento o della profondità), ma era anche un testimone esperto dotato di un’intelligenza superiore, capace di disegnare e di riferire quel che vedeva. […]

 

Quando lo videro, furono travolti dall’orrore: il loro ragazzo, che ricordavano snello e con i capelli lunghi, era diventato grasso e calvo; aveva stampato sul volto un perenne sorriso «ebete» (questo fu almeno il termine usato dal padre per descriverlo); continuava a borbottare brevi frammenti di canzoni o di versi, o commenti «idioti», mostrando ben poche emozioni profonde («come se fosse stato svuotato, senza più niente dentro» disse il padre); aveva perso interesse per gli eventi del presente; era disorientato – e completamente cieco. […]

Greg fu ricoverato in ospedale, visitato e trasferito in neurochirurgia. Gli esami avevano evidenziato un enorme tumore in posizione mediana, che stava distruggendo l’ipofisi, il chiasma e i tratti ottici e andava estendendosi in tutte le direzioni, verso i lobi frontali, i lobi temporali e il diencefalo. In sede chirurgica si scoprì che il tumore era un meningioma di natura benigna, che però era cresciuto fino ad avere le dimensioni di un piccolo pompelmo o di un’arancia; sebbene i chirurghi fossero riusciti a rimuoverlo quasi del tutto, non poterono cancellare il danno che esso aveva già arrecato. […]

Per me, questo aspetto della cecità di Greg, la sua singolare inconsapevolezza della propria condizione, il suo non sapere più il significato di parole come «vedere» o «guardare», erano fonte di grande perplessità. Tutto questo sembrava indicare la presenza di qualcosa di più strano e più complesso di un semplice «deficit»; sembrava piuttosto testimoniare una qualche alterazione radicale della struttura stessa della conoscenza, della coscienza e dell’identità. […]

I lobi frontali sono la parte più complessa del cervello; essi infatti non sono interessati alle funzioni «inferiori» del movimento e della sensazione, ma a quelle superiori di integrazione complessiva del giudizio e del comportamento, dell’immaginazione e dell’emozione; in altre parole, alla formazione di quell’identità unica che siamo soliti chiamare «personalità» o «sé». […]

 

Incontrai per la prima volta il dottor Carl Bennett a una conferenza scientifica sulla sindrome di Tourette che si teneva a Boston. Il suo aspetto era impeccabile: sulla cinquantina, di corporatura media, con barba e baffi appena brizzolati, sobriamente vestito con un abito scuro; impeccabile, sì, finché d’improvviso non si lanciava in un affondo, si allungava a toccare il pavimento o cominciava a sobbalzare e a saltellare. Fui colpito sia dai suoi tic bizzarri, sia dalla sua calma dignitosa. Quando espressi la mia incredulità sulla professione che aveva scelto, Bennett mi invitò ad andarlo a trovare e a trattenermi un po’ da lui, a Brànford, nella Columbia Britannica, dove egli viveva ed esercitava; così avrei potuto seguirlo nei giri di visite e in sala operatoria, l’avrei visto in azione. […]

 

Ma quando Virgil aprì il suo occhio dopo essere stato cieco per quarantacinque anni, e avendo alle spalle quasi soltanto l’esperienza visiva di un bambino di pochi mesi (peraltro ormai da tempo dimenticata), non c’erano ricordi visivi che potessero sostenere la sua percezione; non c’era alcun mondo di esperienza e significato ad attenderlo. Virgil vedeva, ma ciò che vedeva non aveva coerenza alcuna. La sua rètina e il suo nervo ottico erano attivi, trasmettevano impulsi, ma il suo cervello non riusciva a comprenderli; come dicono i neurologi, Virgil era agnosico. […]

Il comportamento di Virgil non era certo quello di un vedente, e tuttavia non era più nemmeno quello di un cieco. […]

 

Proprio mentre doveva prendere la tormentosa decisione, Franco fu colpito da una strana malattia, che infine lo portò al ricovero in un sanatorio. Ancora oggi, è tutt’altro che chiaro di quale malattia si trattasse. Certo ci fu la crisi della decisione, accompagnata da speranza e paura; ma ci furono anche febbre alta, delirio, dimagrimento e forse convulsioni; fu fatta l’ipotesi che Franco soffrisse di una tubercolosi, o di una psicosi, o di qualche disturbo neurologico. Ma nessuno comprese mai davvero che cosa fosse accaduto, e la natura della patologia rimane tuttora un mistero. Quel che è certo, comunque, è che al culmine della malattia, con il cervello forse stimolato dall’agitazione e dalla febbre, Franco cominciò ad avere, ogni notte e per tutta la notte, sogni straordinariamente realistici. […]

Per quanto dotato di una grandissima immaginazione, Franco non aveva mai avuto prima di allora visioni di tale intensità – immagini sospese in aria come apparizioni che gli promettevano una «riappropriazione» di Pontito. Ora esse sembravano dirgli: «Dipingici. Rendici reali». […]

 

Oggi è chiaro che la condizione patologica che chiamiamo autismo è sempre esistita e, pur essendo poco frequente, ha mietuto le sue vittime in tutte le epoche e le culture, suscitando sempre nella mente popolare un’attenzione ora divertita, ora timorosa o perplessa (e forse anche generando archetipi e personaggi mitici: quello dell’individuo strano e diverso, del bambino portato dalle fate, o di quello stregato da un incantesimo). […]

In quella via, dunque, ci imbattemmo in un’auto la cui targa si leggeva «autism» (c’era una probabilità su un milione, che potesse capitare). La indicai a Stephen: «Che cosa c’è scritto?».

Faticosamente, Stephen lesse una lettera alla volta: «A-U- T-I-S-M-2».

«Sì,» lo incoraggiai «e si legge…?».
«U… U… Utism» balbettò.
«Quasi, ma non proprio. Non “utism”: autism. Che cos’è l’autismo?».
«È quello che c’è sulla targa di quell’auto» rispose, e non si andò oltre. […]

 

È strano, ma moltissime persone, quando parlano di autismo, si riferiscono solo ai bambini e mai agli adulti, come se a un certo punto – non si sa come – i bambini sparissero dalla faccia della terra. Ma se è vero che all’età di due o tre anni l’autismo può comportare un quadro devastante, è anche vero che alcuni ragazzini autistici, contrariamente alle aspettative, riescono pian piano ad acquisire discrete capacità di linguaggio e qualche abilità sociale, perfino a conseguire apprezzabili risultati intellettuali; possono, insomma, diventare esseri umani autonomi, capaci di una vita almeno in apparenza piena e normale (anche se sotto la superficie può persistere un’individualità autistica profonda). […]

Temple mi disse che riusciva a comprendere le emozioni «semplici, forti, universali», ma che era sconcertata da quelle più complesse o simulate. «Molto spesso» mi confidò «mi sento come un antropologo su Marte».

 

Oliver Sacks

 

Oliver Sacks, “Un antropologo su Marte. Sette racconti paradossali”, Adelphi Edizioni, Milano, 1995.

https://www.adelphi.it/libro/9788845911453

Vedere voci. Un viaggio nel mondo dei sordi

 

Oliver Sacks, neurologo di fama mondiale, fa luce su una realtà a lungo messa in ombra, quella dei sordi. Con la sua incredibile capacità narrativa, condita da dosi rare di sensibilità e di empatia, l’autore ci invita a fare un passo oltre la medicalizzazione e a porre lo sguardo alle infinite possibilità dell’essere umano, alle straordinarie sfide (linguistiche e non), a una lingua, quella dei segni, a lungo ostracizzata, e a una cultura degna di nota.

 

 

È sorprendente quanto poco sappiamo sulla sordità, che Samuel Johnson definì «una delle più disperate tra le calamità umane»; siamo assai più ignoranti di quanto lo fosse una persona colta del 1886 o del 1786. Ignoranti e indifferenti. Negli ultimi mesi ho provato a parlare della sordità a un grandissimo numero di persone e quasi sempre mi sono sentito rispondere frasi come: «La sordità? Non ci ho mai riflettuto molto, a dire il vero. Non conosco nessun sordo. Perché, c’è qualche cosa di interessante da sapere sulla sordità?». Anch’io avrei risposto allo stesso modo, fino a qualche mese fa. […]

 

 

Il termine «sordo» è vago, o meglio, è così generico che non permette di distinguere i moltissimi gradi della sordità, gradi che hanno un’importanza qualitativa, e perfino «esistenziale». Ci sono le persone «dure di orecchio» (o «sordastri»), quindici milioni circa nella popolazione degli Stati Uniti, che riescono a udire in parte quanto viene detto, con l’aiuto di un apparecchio acustico e di una certa dose di buona volontà e di pazienza da parte dei loro interlocutori. Molti di noi hanno un genitore o un nonno appartenente a questa categoria – un secolo fa avrebbero usato il cornetto acustico; oggi usano le moderne protesi. Vi sono poi i «sordi gravi», molti dei quali lo sono in conseguenza di una malattia alle orecchie o di un incidente subìto nei primi anni di vita; ma per loro, come per i duri di orecchio, udire le parole altrui è ancora possibile, soprattutto con gli apparecchi acustici disponibili oggi o in fase di messa a punto, congegni estremamente perfezionati, computerizzati e «personalizzati». Infine vi sono i «sordi profondi» (“stone deaf”) ai quali nessun futuro ritrovato tecnologico permetterà mai di udire le parole degli altri. I sordi profondi non possono conversare nel modo abituale: devono o leggere le labbra (come faceva David Wright) o usare la lingua dei segni, o fare entrambe le cose. Non importa solo il grado della sordità, importa anche e soprattutto l’età, o lo stadio, in cui essa sopraggiunge. […]

 

 

Si può forse sostenere che la sordità sopraggiunta in età adulta sia «preferibile» alla cecità, ma nascere sordi è, o almeno può essere, infinitamente peggio che nascere ciechi. Il sordo prelinguistico, infatti, non potendo udire i suoi genitori, rischia di restare gravemente ritardato, se non minorato per sempre, nell’acquisizione del linguaggio, se non si interviene fin dai primissimi anni o mesi di vita. Ed essere menomato nel linguaggio, per un essere umano, è una delle calamità più disperate, perché è solo attraverso il linguaggio che entriamo in pieno possesso della nostra umanità, che comunichiamo liberamente con i nostri simili, che acquisiamo e scambiamo informazioni. Se non siamo in grado di fare tutte queste cose, saremo per sempre singolarmente menomati e isolati – quali che siano i nostri desideri, i nostri sforzi o le nostre capacità innate. Possiamo addirittura essere a tal punto impotenti a realizzare le nostre capacità intellettuali da apparire mentalmente deficienti (10). E’ per tale ragione che i sordi congeniti, i «sordomuti» (11), furono ritenuti degli idioti per migliaia di anni e considerati da una legislazione miope come soggetti «incapaci» – di ereditare, di sposarsi, di ricevere un’istruzione, di svolgere un lavoro non banalmente ripetitivo – e si videro rifiutare i diritti umani fondamentali. Solo verso la metà del Settecento si cominciò a porre rimedio a questa situazione, allorché (forse per il più diffuso atteggiamento illuminato, o forse per un brillante slancio di empatia) la figura del sordo e la sua situazione subirono un radicale mutamento. […]

 

 

Si sviluppa, quindi, nei segnanti, un modo nuovo e straordinariamente complesso di rappresentare lo spazio; una nuova “sorta” di spazio, uno spazio formale, che non ha corrispettivo in quanti non usano i Segni (56). Ciò riflette uno sviluppo neurologico del tutto nuovo. […]

 

 

È come se l’emisfero sinistro dei segnanti «si facesse carico» di un dominio di percezione visivo-spaziale, lo modificasse, lo affinasse, in un modo che non ha precedenti, rendendo possibili un linguaggio e una concettualizzazione visivi. […]

 

 

Essere sordo, essere nato sordo, pone l’individuo in una situazione fuori dall’ordinario; egli è esposto a uno spettro di possibilità linguistiche, quindi di possibilità intellettuali e culturali, che il resto di noi, parlanti nativi in un mondo di parlanti, può a malapena cominciare a immaginare. Noi non siamo linguisticamente deprivati, non ci troviamo di fronte a una sfida linguistica, come i sordi; noi non corriamo mai il pericolo di esser privi di qualsiasi forma di linguaggio o di presentare una grave incompetenza linguistica; ma nemmeno scopriamo linguaggi radicalmente nuovi, né li creiamo.

 

 

Oliver Sacks

 

 

www.cts-pisa.it/cts2018/wp-content/uploads/2018/02/vedere-voci-libro.pdf

 

 

Oliver Sacks, “Vedere voci. Un viaggio nel mondo dei sordi”, Adelphi Edizioni, Milano, 1989.

 

Una sincera, spudorata storia di sla

La cruda e realistica autobiografia di una malata di sla: “L’ultima estate” è un’opera a metà tra diario e letteratura, una collezione di fatti, persone e pensieri raccontati con spudorata sincerità.

Il caso editoriale del 2008 è stato quello di Paolo Giordano con ‘La solitudine dei numeri primi’, quello di quest’anno, Cesarina Vighy de ‘L’ultima estate’: due esordienti. Un fattore comune non infrequente, si pensi a come torni anche in ‘Mille anni che sto qui’ di Mariolina Venezia e per la Benedetta Cibrario di ‘Rossovermiglio’. È chiaro che le opere prime conservano una freschezza letteraria che gli ‘scrittori di professione’ facilmente perdono, preferendo (loro o gli editori) riciclare i cliché rivelatisi vincenti. Ed ecco dunque l’incetta di premi: il quartetto citato ha fatto strage di Campiello e Strega.

Ma il caso della Vighy ha una particolarità, curiosamente opposta a quella di Giordano: ad un giovanissimo è infatti succeduta una signora over 70. Le due ‘rivelazioni’ sono agli antipodi non solo per l’anagrafe: all’aitante ricercatore che ha dimostrato grande equilibrio, anche nel gestire l’immediato ed eclatante risultato, si contrappone una malata di sla, cui proprio l’approssimarsi della fine ha impresso la spinta risolutiva per darsi alla letteratura; a un romanzo nel quale la malattia (psichica) dei protagonisti viene trattata con estrema freddezza (è questo l’aspetto che ha talvolta respinto i lettori de ‘La solitudine dei numeri primi’), fa pendant la scelta della Vighy redigere una cruda e realistica autobiografia partendo dalla situazione di paziente irrecuperabile.

Quest’ultimo aspetto, però, è prevalso eccessivamente nelle interpretazioni di molti critici e commentatori. ‘L’ultima estate’ non è uno dei tanti ‘diari’ di malati che ormai si stipano nelle proposte editoriali (un genere nel quale gli affetti da sla sono particolarmente presenti). È vero che il rapporto con le progressive difficoltà fisiche e con le cure tornano spesso nelle pagine e riempiono quelle finali, ma la cifra del libro sta più in generale nella sua spudorata sincerità, possiamo dire semmai che l’età e le cattive condizioni rendono l’autrice efficacemente disinibita.

Agghiacciante, ad esempio, la rievocazione della “visita alle faiseuses d’anges”, l’aborto giovanile che viene così descritto: “Pallida, seduta ingloriosamente sul bidè, non sembravo certo una regina” (e omettiamo la macabra espulsione del feto). Con lo stesso tono, la Vighy collaziona fatti e persone non memorabili – “Cleopatro Colabianchi, l’unico uomo al mondo che portasse questo nome” – ricorrendo a qualche insistita civetteria letteraria: “spencolandomi tra i banchi alla ricerca della mia preziosa matita col gommino”. Il rischio della banalità, insomma, non sempre viene evitato: “E’ così che, nelle famiglie, si diventa prigionieri uno dell’altro, legati in una rete robustissima che non sai se fatta più d’amore o di odio”; “continuavo a piangere: non per il dolore che non c’era più, ma per la perdita, il lutto”.

Una lettura piacevole, ma non di più, grazie soprattutto alla sua trasversalità di genere. Solo, non si capisce l’illuminazione di cui questo libro ha goduto rispetto ad altri, contemporanei, connotati dalla medesima capacità di intersecare dato biografico e letterario. Ad esempio il piacevolissimo ‘Mondo privato e altre storie’ di Marta Dassù (Bollati Boringhieri, pp. 149, 10 euro): un “taccuino poco diplomatico” “scritto per insonnia” da una esperta di relazioni internazionali, insieme diario rivolto a un ipotetico “dottore” e anamnesi della complicata evoluzione identitaria della sinistra italiana.

Marco Ferrazzoli

Cesarina Vighy, “L’ultima estate” (Fazi, 2009)

Il libro sul sito di Fazi Editore

Quanto costa curare un anziano?

Da un medico di base con oltre trent’anni di pratica, una riflessione sull’esperienza del distacco e sul tema dei costi economici delle cure in relazione all’età dei pazienti.

Iona Heath è un medico di base con oltre trent’anni di pratica in uno dei quartieri più poveri di Londra.

Da questo suo libro sui “Modi di morire”, pertanto, ci si attenderebbe soprattutto il senso di un’esperienza ‘vissuta’ (per quanto quest’espressione possa apparire involontariamente ironica) rispetto all’evento finale e assoluto che, ogni anno, tocca 56 milioni di persone direttamente e indirettamente circa 300 milioni, cioè il 5 per cento della popolazione umana.

‘I costi del trattamento sanitario cui l’avevano appena sottoposta erano stati uno spreco inutile e penoso’, scrive ad esempio il dottor Heath dopo la scomparsa di una paziente novantenne. Ora, che dal dibattito sul diritto di decidere della propria sorte e di rifiutare ogni accanimento terapeutico, si passi a questionare sui costi economici delle cure in relazione all’età dei pazienti, appare una deriva di tipo salutistico e anagrafico piuttosto rischiosa.

E’ vero che la convinzione ‘di avere diritto a una salute perfetta’ è pericolosa, che anima ‘pretese eccessive’, tra le quali si possono annoverare anche le diffuse esagerazioni in merito all’utilità della ‘medicina preventiva’. Ma da qui a stabilire che gli anziani possano essere abbandonati senza cure, ce ne passa.

Marco Ferrazzoli

Iona Heath, “Modi di morire” (Bollati Boringhieri, 2008)

La scheda sul sito dell’editore

La grande poesia di Piersanti, tra natura e malattia

Nostalgia e ricordo, dolore di un padre e incomunicabilità di un figlio: i sentimenti profondamente autentici, tracciati dalla penna dell’autore in una emozionante raccolta poetica.

Capita raramente di imbattersi in un libro di poesia che, come “L’albero delle nebbie” di Umberto Piersanti, ci riavvicini alla grande sorgente classica e alla non meno grande tradizione otto-novecentesca italiana. Una poesia in cui si colgono echi di Ovidio, Pascoli, Carducci… una volta per una citazione, un’altra per lo stile o per il tema: ma tutto questo senza che si profili mai l’ombra del plagio, al contrario, in una rielaborazione personalissima, intima nell’afflato e nel ricordo eppure oggettiva fino al cinismo nella descrizione della realtà.

I temi affrontati nel libro sono due: le Cesane che hanno fatto da sfondo ad altri libri di Piersanti e il figlio Jacopo, malato di un’incomunicabilità inaccessibile anche per i suoi affetti più vicini. Nei versi più legati alla terra natìa, la particolare campagna appenninica del Montefeltro, l’autore si dispiega in una serie di indicazioni e descrizioni storiche, famigliari ed ambientali: dalla guerra ai riti domestici, fino alla dolce litania di specie animali e vegetali. E’ soprattutto nel paesaggio che il ricordo reale si fonde con un immaginario evocativo, profondamente nostalgico. Nella parte dedicata al figlio, invece, emerge lo strazio di un padre impotente che pure trova, dentro la propria sofferenza, la forza e la ragione sufficienti per vivere. I due temi, poi, si mescolano progressivamente, fino quasi a rincorrersi l’un l’altro nella terza parte del libro.

E’ davanti a opere come queste che si spiega come Piersanti abbia ottenuto una candidatura al Nobel per la letteratura.

Marco Ferrazzoli

Umberto Piersanti, “L’albero delle nebbie” (Einaudi, 2008)