Groviglio di sentimenti

“Gomitoli di memoria” è un viaggio “fra realtà e fantasie” che Maria Paola Graziani, alias Airamp Lever, sceglie per la sua protagonista. In queste pagine, soprattutto in quelle dedicate a bulimia ed anoressia, si coglie direttamente l’esperienza professionale dell’autrice, psicologa e già ricercatrice dell’Istituto di scienza dell’alimentazione del Cnr


“Quando si ritrova il bandolo e lo si riesce a districare dagli ingarbugliati nodi, la vita si presenta come una vera avventura al pari di una sceneggiatura piena di colpi di scena, di colori e di ombre che, pur fra realtà e fantasie, appare comprensibile”. Questo è il viaggio “fra realtà e fantasie” che Maria Paola Graziani, alias Airamp Lever, sceglie per la protagonista dei suoi ‘Gomitoli di memoria’.
Il racconto è un intreccio tra la storia personale di Lei e i luoghi fisici custodi della sua memoria su cui, tra tutti, spicca una Roma lontana, piegata sia fisicamente che moralmente dalla guerra. La ricostruzione storica e la riflessione scientifica sono le due sponde che accompagnano questo viaggio nella memoria. Un cammino lungo dieci momenti dell’esistenza senza un apparente rapporto di consequenzialità, in cui trovano spazio l’incontro prematuro con la morte, l’amore, la solitudine, la lotta, le madri di gioia e gli amici dell’infanzia.
Tutto, dai luoghi agli oggetti, perfino gli odori, ha un ordine interno, quasi a scandire il tempo delle scelte, delle nuove curiosità, della vita. Così la riflessione si avvicenda alla narrazione ed è con Jo, amico d’infanzia e interlocutore muto che la accompagna nelle sue elaborazioni più intime, che Lei riflette sul significato di simboli e modelli culturali, dal dopoguerra fino alla ‘società liquida’.
E, ancora, la magia dell’incontro con lo Zahir che, “impadronitosi dell’altro, detta le regole del gioco e l’importanza delle ricompense e delle delusioni, il limite e la barriera”; la sua “memoria intellettuale”, il dolore della separazione e, infine, il tempo dell’accettazione. Pensieri che generano nuovi pensieri e nuove domande, in un salto continuo dal passato al presente.
Il dolore è sullo sfondo, come “il grande tema che gira intorno al nostro universo”. Il dolore del distacco dai propri cari e la sofferenza per “le domande senza risposta” che restano, ma che non impedisce di risalire verso una ritrovata consapevolezza di sé fino alla rinnovata capacità di progettare il domani. Ed è in queste pagine, come in quelle dedicate a bulimia ed anoressia, che più direttamente si coglie l’esperienza professionale dell’autrice, psicologa e già ricercatrice dell’Istituto di scienza dell’alimentazione del Cnr.
Voltarsi indietro per comprendere e non per abbandonarsi al dolore o alla gioia di momenti ormai andati. Voltarsi e riconoscersi negli eventi passati, perché “noi siamo i nostri ricordi” e “… narrare forse, resta uno dei pochi percorsi che allentano il dolore e danno suono ai silenzi della memoria”.

Monica Di Fiore


Airamp Lever, “Gomitoli di memoria”, Nuova Cultura (2014)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Storia di fede, libri e anoressia

La fede religiosa, la politica, l’anoressia e la cultura si intrecciano in “Sarà bella la vita”. A scriverlo è Monica Mondo, una giornalista che definisce il libro un “romanzo”, anche se vi racconta in prima persona la propria esperienza di rifiuto del cibo, con le sue profonde e complesse motivazioni, nelle quali trova posto anche una sorta di patologico senso della vicinanza a chi ha fame perché non ha di che mangiare


La fede religiosa, la politica, l’anoressia e la cultura si intrecciano in un libro breve, ‘Sarà bella la vita’ di Monica Mondo, che l’autrice e l’editore Marietti 1820 definisce come “romanzo” ma che sarebbe invece più appropriato chiamare ‘testimonianza’. A scriverlo è infatti una giornalista che racconta in prima persona il rifiuto del cibo, dalle sue profonde e complesse motivazioni, nelle quali forse trova posto anche una sorta di patologico senso della vicinanza a chi ha fame perché non ha di che mangiare, fino alla completa uscita dal tunnel grazie, di nuovo, a un concerto di stimoli positivi.
La cornice è rappresentata da una serie di citazioni, letterarie e musicali, che attestano la provenienza dell’autrice da una famiglia in cui libri e giornali costituivano un oggetto di lavoro quotidiano e che rappresentano gli spunti per inquadrare ricordi di persone e fatti. Si inanella così una trama esile ma estremamente intensa e significativa, soprattutto la generazione che ha vissuto, o almeno visto, in prima persona gli anni plumbei dell’odio ideologico.
Essere scampata al terrorismo, come pure alla droga, avere trovato accoglienza da parte di un prete sensibile, avere provato l’inevitabile sentimento di amore-odio per i terapeuti sono solo alcuni dei passaggi attraverso i quali Mondo riesce a vincere l’anoressia. Oggi, adulta e madre nonostante le pessimistiche previsioni di sterilità dei medici, può guardare a quei ricordi di bambina e ragazza con una maturità tranquilla che le consente di trasformarli in racconto.

Marco Ferrazzoli


Monica Mondo, “Sarà bella la vita”, Editore Marietti-1820 (2012)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Anoressia e bulimia, mali dell’anima

I Disturbi del comportamento alimentare (Dca) come anoressia e bulimia nervosa colpiscono, secondo dati Aidap (Associazione italiana disturbi dell’alimentazione edel peso), dai due ai tre milioni di italiani, di cui il 90% donne. « Il tema è presente anche in letteratura. Nel romanzo “Il cavaliere inesistente” di Italo Calvino, Agilulfo, il valoroso combattente del re Carlomagno, è infatti senza corpo », spiega Franco Bonaguidi dell’Istituto di fisiologia clinica (Ifc) del Cnr di Pisa. « Quando un giorno il re passa in rassegna le truppe, Agilulfo tiene con la visiera dell’elmo abbassata senza mostrare il volto al re, spiegando: ‘Perché non esisto’. Agilulfo vive il suo corpo come inesistente mentre il suo spirito abita nell’imperatore. Questa scissione aiuta a comprendere quello che può accadere nell’adolescenza quando il disagio sfocia in una situazione patologica »


C’è chi controlla in modo ossessivo il proprio peso, sminuzzando il cibo in pezzi sempre più piccoli e rifiutando alimenti ipercalorici. E chi, invece, si abbandona ad abbuffate ‘compulsive’, solitamente in solitudine e di nascosto, ricorrendo poi a vomito autoindotto, uso di lassativi o diuretici, per non accumulare chili in più. Entrambi gli atteggiamenti sono annoverati tra i Disturbi del comportamento alimentare (Dca) come anoressia e bulimia nervosa. Queste patologie psichiatriche complesse colpiscono, secondo dati Aidap (Associazione italiana disturbi dell’alimentazione edel peso). dai due ai tre milioni di italiani, di cui il 90% donne, anche se negli ultimi anni sono sempre più frequenti i casi di maschi anoressici, sia adolescenti sia di mezz’età.

“La comparsa dei Disturbi del comportamento alimentare è legata a un distorto rapporto con il cibo e il proprio corpo: per il quale il pasto diventa un campo di battaglia tra desideri e conflitti e tra sensazioni contrastanti”, spiega Franco Bonaguidi dell’Istituto di fisiologia clinica (Ifc) del Cnr di Pisa, che continua a fornire cifre fornite dall’Aidap. “Ad ammalarsi sono soprattutto giovani (il 5% sono donne tra i 13 e i 35 anni), bambini (il 21% delle femmine, il 15% dei maschi tra gli 11 e i 17 anni) e adulti (il 20% con più di 35 anni). E, cosa ancor più drammatica, un adolescente su dieci non ce la fa a uscirne”.
L’anoressia è una malattia complessa in cui interagiscono fattori genetici, ambientali, sociali e psicologici, che si manifestano con l’ossessiva necessità di avere un corpo sempre più magro attraverso il digiuno. Un ideale di bellezza paradossale, che in realtà è una negazione del corpo e della sua autonomia.
“In alcuni casi, nell’adolescente anoressico si riattualizza un disturbo che si radica nei conflitti con la figura materna, dove le fantasie narcisistiche della genitrice invadono la vita del bambino, passando attraverso il controllo del corpo” chiarisce Bonaguidi. L’adolescente tratta e controlla il proprio corpo allo stesso modo in cui la madre ha trattato il suo nel passato”.

Chi soffre di questa visione distorta del corpo (dismorfofobia) vede difetti inesistenti o accentuati, fino a ricorrere alla chirurgia plastica o, nei casi più gravi, all’isolamento e al suicidio. In altri casi, il disturbo non è così radicato, ma fa parte della costellazione depressiva.
“Il tema è presente anche in letteratura. Nel romanzo ‘Il cavaliere inesistente’ di Italo Calvino, Agilulfo, il valoroso combattente del re Carlomagno, è infatti senza corpo”, continua lo psicologo del Cnr. “Quando un giorno il re passa in rassegna le truppe Agilulfo tiene con la visiera dell’elmo abbassata senza mostrare il volto al re, spiegando: ‘Perché non esisto’. Agilulfo vive il suo corpo come inesistente mentre il suo spirito abita nell’imperatore. Questa scissione aiuta a comprendere quello che può accadere nell’adolescenza quando il disagio sfocia in una situazione patologica: si avverte un sentimento di estraneità verso il fisico, frequente in questa età. L’adolescente, infatti, vive con conflitto i cambiamenti dell’organismo, la scoperta della sessualità, l’accesso all’età adulta, la privazione dell’onnipotenza infantile. Una trasformazione che può introdurre elementi di perdita e di angoscia”.

La malattia anoressica-bulimica esprime dunque un profondo malessere psichico che deve essere ascoltato e curato, fin dai suoi primi sintomi, in opportune sedi specialistiche. “In questa malattia la psiche sembra prendere la sua rivincita: l’immagine del corpo trasfigurato e negato della persona affetta da anoressia, diventa l’urlo di dolore, la raffigurazione del profondo e crescente disagio psicologico della nostra società”, conclude Bonaguidi.

Silvia Mattoni


Fonte: Almanacco CNR – Salute

L’anoressia si vince con gli altri

Roma, una ragazza, una donna, un diario. L’incontro tra Domitilla e Lucia. Bastano questi elementi, alla giornalista scientifica Margherita De Bac, per costruire il suo ultimo romanzo “Per fortuna c’erano i pinoli”. Domitilla è una ragazza di 24 anni, riservata. Lucia è un’avvocata quarantenne. Il racconto svela a poco a poco il segreto di Domitilla: senza bisogno di nominarla, l’anoressia entra nel racconto pian piano


Roma, una ragazza, una donna, un diario. L’incontro tra Domitilla e Lucia. Bastano questi elementi, alla giornalista scientifica Margherita De Bac, per costruire il suo ultimo romanzo “Per fortuna c’erano i pinoli”.

Domitilla è una ragazza di 24 anni, riservata, dal carattere “legnoso”, una di quelle persone che “non sono gradite alla massa… perché vanno comprese e la comprensione non è una qualità comune”. Per questo ha pochi amici e preferibilmente adulti, che “sanno ascoltare”. Lucia è un avvocato quarantenne, una divorzista che ama scrutare la vita degli altri e ascoltarli, perché “a volte gli individui compiono azioni sorprendenti senza rendersene conto”.
Il racconto svela a poco a poco il segreto di Domitilla: senza bisogno di nominarla, l’anoressia entra nel racconto pian piano, accompagnata da stralci di un diario a tratti ossessivo e a tratti disperato. Ci si potrebbe fermare qui, pensando di aver letto un libro che, prendendo a pretesto l’incontro tra due donne, racconta una tra le più insidiose malattie sociali: il disturbo del comportamento alimentare.
Ma Margherita De Bac non parla solo della malattia. Racconta anche del potere delle relazioni umane, come fossero l’altra faccia della patologia. Il disagio di Domitilla dipende dalla sua sensibilità e da un profondo senso di inadeguatezza, perché il suo “specchio sono gli altri” e l’approvazione degli altri “è un bisogno necessario”. È così che “l’eterna ricerca di conferme” condiziona i suoi rapporti. Innanzitutto quello con se stessa e con la sua disperata ricerca della normalità e dalla propria identità.
C’è poi il rapporto di Domitilla con Lucia, la donna adulta che aiuta la giovane protagonista a uscire dalla sua gabbia senza aver paura di essere giudicata. E ancora quello con Marco, due personalità diverse che finalmente si riconoscono. Stima, amicizia, amore.
Solo passando attraverso queste esperienze affettive, solo aprendosi al rapporto con gli altri la ragazza riesce a sciogliere il rapporto con sé e a controllare il suo disturbo senza averne più paura.

Monica Di Fiore


Margherita De Bac, “Per fortuna c’erano i pinoli”, Newton Compton (2014)


Fonte: Almanacco CNR


Newton Compton – Persona: Margherita De Bac

Corriere della Sera – L’incontro: Un libro contro l’anoressa di Margherita De Bac


Briciole. Storia di un’anoressia

Alessandra Arachi, nata a Roma nel 1964, giornalista al Corriere della Sera, con Feltrinelli ha
pubblicato: “Briciole. Storia di un’anoressia” (1994), da cui è stato tratto l’omonimo film per tv con la regia
di Ilaria Cirino (2004). Ne pubblichiamo un breve stralcio. Le altre sue opere sono: “Leoncavallo
blues” (1995), “Unico indizio: la normalità. L’Italia a sud dell’Italia” (1997), “Coriandoli nel deserto” (2012). Ha pubblicato inoltre “Non più briciole” (Longanesi 2015), “Lunatica. Storia di una mente bipolare” (Rizzoli, 2006) e il romanzo “E se incontrassi un uomo perbene?” (Sonzogno, 2007)


« Comincia con tre polpette al sugo questa storia. Tre polpette di carne di vitello vomitate nel bagno di casa con la porta spalancata. “Anoressia mentale”, sarebbe stata la diagnosi psichiatrica. Mio padre non avrebbe mai voluto crederlo.
[…]
Gambe lunghe, ma non magre. Non a sufficienza per me che soltanto scheletrica avrei potuto avere il
mondo ai miei piedi.
[…]
È difficile credere all’anoressia mentale. Chi la osserva da fuori non riesce a concepire che il cibo possa
diventare un nemico all’improvviso. Chi la vive non capisce più come sia possibile per le persone riuscire a
mangiare senza pensieri, senza ansia, senza angoscia.
[…]
E ho scoperto quanto è meravigliosa la vita quando al mattino apri gli occhi e riesci a vedere che fuori dalle finestre c’è la luce. E che è una luce chiara, limpida. Finalmente ho vinto. Ho vinto io. »


La Repubblica – Il dramma dell’ anoressia



I bambini rachitici di De Amicis

Una pagina di Cuore mostra le condizioni di salute degli scolari di fine Ottocento in Italia. Il medico, a scuola, visita i bambini e ne osserva le carenze e le deformità che ne determinano l’emarginazione sociale.

Erano una sessantina, tra bambini e bambine… povere ossa torturate! Povere mani, poveri piedini rattrappiti e scontorti! Poveri corpicini contraffatti! […] Alcuni, visti da davanti, son belli, e paion senza difetti; ma si voltano… e vi danno una stretta all’anima. C’era il medico che li visitava. Li metteva ritti sui banchi e alzava i vestitini per toccare i ventri enfiati e le giunture grosse; ma non si vergognavano punto, povere creature; si vedeva che erano bimbi assuefatti a essere svestiti, esaminati, rivoltati per tutti i versi.[…] Ma chi può dire quello che soffrirono durante il primo deformarsi del corpo, quando col crescere della loro infermità, vedevano diminuire l’affetto intorno a sé, poveri bambini, lasciati soli per ore ed ore nell’angolo di una stanza o d’un cortile, mal nutriti, e a volte anche scherniti, o tormentati per mesi. […] Parecchi non potevano alzarsi dal banco, e rimanevan lì, col capo ripiegato sul braccio, accarezzando le stampelle con la mano.

[…] – Vieni,- ripetè l’infermiere entrando. Il ragazzo si fece animo e lo seguito, gettando sguardi paurosi a destra e a sinistra, sui visi bianchi e smunti dei malati, alcuni dei quali avevano gli occhi chiusi e parevano morti, altri gurdavan per aria con gli occhi grandi e fissi, come spaventati. Parecchi gemevano come bambini. Il camerone era oscuro, l’aria impregnata d’un odore acuto di medicinali. Due suore di carità andavano attorno con delle boccette in mano.

Arrivato in fondo al camerone, l’infermiere si fermò al capezzale d’un letto, aperse le tendine e disse: – ecco tuo padre.

Il ragazzo diede in uno scoppio di pianto, e lasciato cadere l’involto, abbandonò la testa sulla spalla del malato, afferandogli con una mano il braccio che teneva disteso immobile sopra la coperta, il malato non si scosse.

Edmondo De Amicis

Testo completo

Edmondo De Amicis, Cuore (1886)

Le Metamorfosi o Asino d’Oro

Il testo è tratto dal “romanzo” di Apuleio Le Metamorfosi o L’Asino d’Oro, che tratta delle avventure cui deve andare incontro il protagonista del libro, Lucio, trasformato in asino per la propria stolta curiosità. L’Asino Lucio nel suo vagare incontra esempi di grande virtù e di bassissima scelleratezza, che l’autore dipinge con tinte fosche. Il brano antologizzato rappresenta uno di questi ultimi casi: Lucio si trova ad assistere ad un caso di omicidio.

X. II
Alcuni giorni dopo, ricordo che si scoprì proprio lì un delitto orribile, un crimine efferato, di cui voglio accennarvi in questo mio libro perché possiate conoscerlo anche voi.
Il padrone di casa aveva un figlio, molto istruito e per questo modesto e virtuoso, tanto che anche tu, lettore, avresti gradito averne uno come lui.
La madre era morta da molto tempo e il padre s’era risposato e da questo secondo matrimonio aveva avuto un figliolo che allora poteva contare dodici anni.
Ma la matrigna che nella casa del marito si faceva notare più per la sua bellezza che per i buoni costumi, o perché lei era corrotta per natura o perché il destino la spingeva all’infamia più degradante, certo è che mise gli occhi sul figliastro.
Bada bene, lettore, io sto raccontandoti di una tragedia non di una commediola e che quindi dal socco ora si passa al coturno.
La donna, finché l’amore era sul nascere e quindi poco esigente, seppe resistere ai suoi deboli stimoli e soffocare facilmente in silenzio la tenue passione; ma quando il crudele iddio cominciò a divamparle in cuore e a diffondere come una smania per le sue intime fibre, ella cedette, e, fingendo un mortale languore nascose la ferita dell’animo dando ad intendere d’esser malata.
Tutti sanno che il deperimento del volto è comune agli ammalati come agli innamorati: viso pallido, occhi languidi, gambe fiacche, sonni inquieti, respiro sempre più affannoso, via via che cresce la pena.
A vederla pareva che lei si agitasse soltanto per un attacco di febbre e, invece, piangeva anche. E quanta ignoranza nei medici: cosa volevano dire il polso frequente, le vampe al viso, il respiro ansimante, il continuo voltarsi e rivoltarsi ora su un fianco ora sull’altro?
Santo cielo! Com’è facile capire, anche senza essere un medico, cosa vuol dire quando uno brucia e non ha

febbre, solo se si ha un po’ d’esperienza nelle cose d’amore.
III
La donna, dunque, nella sua eccitazione, non riuscendo più oltre a contenersi, decise di rompere il lungo silenzio e mandò a chiamare il figlio, nome questo che, se avesse potuto, per non arrossire, se lo sarebbe volentieri cancellato dalla mente.
Il giovane non indugiò a obbedire all’ordine della matrigna ammalata e con la fronte segnata dalla tristezza e dal cruccio, come quella di un vecchio, con tutto il dovuto rispetto entrò nella camera della moglie di suo padre e della madre di suo fratello.
La donna, però, depressa dal lungo tormentoso silenzio, fu ripresa dai dubbi e le parole che un momento prima aveva ritenute adatte per la circostanza, ora le sembravano sconvenienti e, trattenuta da un senso di vergogna, non sapeva da dove cominciare.
E quando il giovane, non sospettando di nulla, le chiese con deferenza che male avesse, lei, approfittando che, malauguratamente, erano soli, divenne audace e scoppiando in un pianto dirotto, coprendosi il volto con un lembo della veste, con voce trepidante, così gli parlò brevemente: «Tu sei la causa, l’origine del mio male, ma tu sei anche il rimedio, la mia sola salvezza. I tuoi occhi, fissando i miei, mi son penetrati dentro fin nel profondo dell’animo e vi hanno acceso un fuoco che mi brucia tutta e che non riesco più a estinguere. Muoviti a pietà d’una donna che muore di te e non farti scrupolo per tuo padre a cui, in fondo, salvi la moglie che altrimenti morrebbe. Del resto io ti amo anche perché nel tuo volto ritrovo il suo. Non aver timore, siamo soli e c’è tutto il tempo per far quello che ormai è inevitabile; e poi, le cose che non si vengono a sapere è come se non fossero mai accadute.»
IV
Il giovane rimase sconvolto da quella inattesa rivelazione e sebbene fosse inorridito dinanzi a un crimine così mostruoso, pensò di non esasperare la donna con un netto rifiuto ma di calmarla con vaghe promesse e, intanto, di prender tempo.
Così le dette tutte le assicurazioni possibili e immaginabili, le disse di tirarsi su, di rimettersi in salute e di attendere che suo padre si assentasse per qualche viaggio perché allora essi si sarebbero goduti a loro agio.
Così le disse e subito si sottrasse alla insidiosa presenza della matrigna e andò difilato a trovare il suo maestro, un vecchio di molta esperienza e di gran senno, pensando che in una così grave sciagura familiare fosse urgente un qualche saggio consiglio.
I due ragionarono a lungo e insieme convennero che l’unico rimedio era quello di sottrarsi con la fuga alla tempesta che il destino avverso addensava su quella casa.
Ma la donna che non ce la faceva più ad aspettare, con un pretesto qualsiasi e con straordinaria abilità riuscì a convincere il marito a recarsi subito in certe sue proprietà molto distanti di lì. Fatto questo, ancor più eccitata perché vedeva appagata in anticipo la sua speranza, pretese che il ragazzo, come le aveva promesso, si concedesse alla sua libidine.
Ma il giovane, ora con una scusa ora con un’altra, cercò di eludere l’infame convegno, tanto che la donna comprendendo chiaramente da tutti quei pretesti che egli non aveva alcuna intenzione di mantenere la sua promessa, con estrema volubilità, mutò il suo nefando amore in un odio ben più terribile. E chiamato un suo schiavo che s’era portato in dote, uno scellerato capace di tutti i delitti, lo mise a parte delle sue criminali intenzioni, e a entrambi non parve cosa migliore che uccidere lo sventurato ragazzo.
Così la matrigna mandò subito quel delinquente a procurarsi un veleno a effetto istantaneo che, accuratamcnte sciolto nel vino, doveva togliere di mezzo il figliastro innocente.
V
Mentre quei due criminali s’accordavano sul momento più opportuno per dargli da bere il veleno, il ragazzo più giovane, proprio il figlio di quella perfida donna, rientrò a casa dalle lezioni del mattino e, fatta colazione e sentendo sete, vide quel bicchiere di vino in cui era stato messo il veleno e, non sospettando quale insidia nascondesse, bevve tutto d’un fiato.
Così il ragazzo bevve la morte destinata al fratello e, di schianto, crollò esanime a terra.
Accorse sgomenta tutta la servitù e la stessa madre alle grida del maestro sconvolto da quella repentina tragedia, e subito apparve chiaro che si trattava di veleno e ognuno cominciò a fare le più svariate supposizioni sugli autori di quell’orribile delitto.

Ma quella femmina perversa, esempio più che unico della malvagità delle matrigne, non fu punto turbata dalla morte improvvisa del figlio, non sentì alcun rimorso per quel delitto, per la sventura della sua famiglia, per il dolore del marito, per il lutto che avrebbe avvolto la casa, ma trasse spunto da questa disgrazia per portare a compimento la sua vendetta.
Inviò subito un corriere per informare della sciagura il marito che era in viaggio e, quando questi rientrò a precipizio, con un’audacia senza pari, disse che era stato il figliastro ad assassinare con il veleno suo figlio. E in questo, se vogliamo, mentiva fino a un certo punto, perché, in effetti, il ragazzo aveva rivolto su di sé la morte destinata all’altro; epperò aggiunse che il fratello minore era stato ammazzato dal figliastro perché lei non s’era concessa alle sporche voglie di quest’ultimo che aveva tentato di farle violenza.
Inoltre, ancora non contenta di queste turpi menzogne, aggiunse che quando s’era visto smascherato, l’aveva minacciata con la spada.
Sgomento per la perdita dei suoi due figli il povero padre si sentì come travolto da un’immane catastrofe.
Il figlio più piccolo se lo vedeva infatti seppellire sotto i suoi occhi e l’altro sapeva che glielo avrebbero condannato a morte per incesto e omicidio. Eppure verso quest’ultimo, per le false lacrime di una moglie troppo amata, sentiva ormai un odio profondo.
VI
S’erano appena concluse con la sepoltura le cerimonie funebri che il povero vecchio con il viso ancora scavato dal pianto e i capelli bianchi sporchi di cenere, lasciò il sepolcro del figlio e raggiunse il tribunale. Qui, fra le lacrime e le implorazioni, gettandosi ai piedi dei decurioni, ignaro delle frodi della perfida moglie, scongiurò con tutta l’anima che l’altro suo figlio fosse condannato a morte, dichiarandolo colpevole di incesto per aver violato il talamo paterno, un fratricida per l’uccisione del fratello, un assassino per aver minacciato di morte la matrigna.
E tanta fu la pietà, tanto lo sdegno che egli suscitò nei senatori e fra il popolo che di fronte ad accuse così schiaccianti e palesi e a prove così deboli e incerte portate a sua difesa, tutti gridarono che bisognasse tagliar corto con le lungaggini procedurali e che quel pericolo pubblico fosse condannato pubblicamente alla lapidazione.
Ma i magistrati temendo di esporsi a un rischio troppo grande se da un banale motivo di sdegno il tumulto popolare avesse preso dimensioni tali da minacciare lo stesso ordine cittadino, da un verso si raccomandarono ai decurioni, dall’altro convinsero il popolo perché si istruisse un processo secondo tutte le regole della procedura nel rispettò della tradizione, si esaminassero le prove portate dall’una e dall’altra parte e si pronunziasse una sentenza regolare, non all’uso dei barbari o dei selvaggi o come fanno i tiranni e i prepotenti che condannano un cittadino senza nemmeno ascoltarlo; questo anche per non dare, in un’età di prosperità e di pace, un esempio di crudeltà.
VII
Quando ciascuno si fu seduto al posto che gli assegnava il suo rango, nuovamente il banditore si fece sentire e chiamò il primo accusatore, poi, a gran voce, anche l’imputato, mentre avvertiva gli avvocati, secondo la legge Attica e la procedura dell’Areopago a non dilungarsi in esordi e a non appellarsi alla pietà popolare.
Che le cose fossero andate così io lo seppi dopo da alcune persone che continuarono a parlarne; quale poi sia stata la requisitoria del pubblico accusatore e con quali argomenti l’imputato si sia difeso e poi le arringhe e le discussioni, io non so proprio, confinato com’ero nella stalla, e quindi non sono in grado di riferirvelo; perciò su queste carte riporterò soltanto quello che ho potuto accertare.
Dunque, terminati i dibattiti, fu deciso che la verità e l’attendibilità delle accuse fossero accertate da prove sicure per non giungere a una condanna così grave su semplici sospetti e che, quindi, era necessario far venire in tribunale quel famoso servo, il solo che a detta di tutti, sapeva com’erano andate effettivamente le cose.
Ma quel delinquente, per nulla turbato dall’esito incerto di un processo così importante, né dalla maestà della curia riunita al completo e tanto meno dalla sua coscienza sporca, cominciò a raccontare un sacco di fandonie facendole passare per pura verità, che cioè quel giovane, infuriato per la repulsa della matrigna, lo aveva chiamato e per vendicarsi gli aveva chiesto di uccidere il figlio della donna promettendogli un grosso premio in cambio del suo silenzio; e che siccome lui s’era rifiutato, lo aveva minacciato di morte; che gli aveva consegnato il veleno da far bere al fratello, preparato con le sue mani, ma che poi, sospettando che egli non compisse il delitto e si tenesse la tazza come prova, alla fine l’aveva porta al ragazzo lui stesso.
Con queste dichiarazioni che quel miserabile fece con un’aria tutta spaventata e come se dicesse le cose più vere di questo mondo, il processo ebbe termine.
Questo saggio consiglio venne accolto e subito il banditore ebbe l’incarico di radunare i senatori nella curia.

VIII
Fra i decurioni non vi fu più nessuno disposto alla benevolenza. Di fronte all’evidenza tutti ritennero di dover proclamare il giovane colpevole e degno di essere cucito nel sacco.
La sentenza fu unanime ed era già stata trascritta sulle schede che ciascuno si apprestava a metter nell’urna di bronzo secondo la consuetudine di sempre, dove, una volta deposte, avrebbero irrevocabilmente segnato la sorte del reo e rimesso la sua testa al carnefice, quando un senatore, uno dei più anziani, stimato da tutti per la sua rettitudine e medico di grande prestigio, coprendo con la mano la bocca dell’urna per evitare una votazione affrettata, così parlò alla corte:
«Mi consola il fatto di aver vissuto così a lungo sempre nella vostra stima e perciò non posso consentire che, condannando costui sotto falsa accusa si commetta un vero e proprio assassinio, né che voi, chiamati a esercitare la giustizia sotto il vincolo del giuramento, fuorviati dalle menzogne di uno schiavo, diventiate voi stessi spergiuri. Almeno per quel che mi riguarda, io non posso calpestare il timore degli dei e venir meno alla mia coscienza pronunciando una condanna ingiusta.
«Perciò ascoltatemi e saprete come sono andate veramente le cose.
IX
«Questo furfante, non molto tempo fa, mi si presentò con cento monete d’oro sonanti dicendomi che aveva urgente bisogno di un veleno a pronto effetto per un malato che, colpito da un male inguaribile, voleva farla finita con una vita di sofferenze.
«Io, però, mi accorsi che questo sciagurato s’impappinava, adduceva confusi pretesti e così mi convinsi che stava macchinando qualche delitto.
«Allora gli detti il veleno, certo che glielo detti, ma prevedendo quanto prima un’inchiesta, non ritirai il compenso che mi aveva offerto: ‘Sta a sentire,’ gli dissi, ‘nel caso che qualcuna di queste monete fosse falsa o fuori corso, domani le controlleremo davanti a un banchiere.’
«Lui ci cascò e sigillò il denaro, così quando l’ho visto comparire in tribunale, ho detto a un mio schiavo di correre in bottega a prendere il sacchetto e di portarlo qui. Eccolo, io ve lo esibisco. E se lo guardi anche lui e dica che non e il suo sigillo. E allora, com’è che si può accusare il fratello se il veleno l’ha comprato costui?»
X
Allora questo mascalzone fu preso da un tremito convulso, perse il suo colorito naturale e divenne cadaverico, cominciò a sudar freddo per tutto il corpo e a non star fermo un momento con i piedi, a grattarsi continuamente la testa, a borbottare nella bocca semichiusa parole incomprensibili, così che ognuno capì che qualcosa sulla coscienza doveva avercela.
C’è da dire, però, che egli riprese quasi subito il controllo di sé e furbo com’era, cominciò a negare, anzi ad accusare il medico di mendacio.
Allora questi, vedendo che oltre l’autorità della corte si offendeva l’onorabilità della sua persona, raddoppiò la sua foga oratoria per confondere quel farabutto tanto che, su ordine dei magistrati, i pubblici ufficiali afferrarono le mani di quell’infame schiavo, gli strapparono l’anello di ferro e lo confrontarono con il sigillo del sacchetto: il raffronto confermò il sospetto iniziale. Si passò allora alla tortura e, all’uso greco, non gli furono risparmiati la ruota e il cavalletto. Ma egli oppose una resistenza eccezionale e non si piegò né alle frustate né al fuoco.
XI
Allora il medico: «No, non permetterò, perdio, non posso permettere che voi contro ogni giustizia condanniate a morte questo giovane innocente e che costui, prendendosi beffa di questo tribunale, sfugga alla pena che si merita per l’orrendo delitto commesso.
«Eccovi, allora, la prova decisiva del fatto in questione.
«Dunque, quando vidi che questo sciagurato insisteva per avere un veleno a effetto fulminante, subito riflettei che come medico io non potevo dare a un tizio qualunque sostanze che facessero morire ben sapendo che la medicina serve a guarire gli uomini non a ucciderli; però, temendo che se io gli avessi negato il veleno, non è che col mio rifiuto gli avrei tolta l’occasione di porre in atto il suo crimine in quanto egli se lo sarebbe procurato da un altro o avrebbe usato, alla fin fine, la spada o un’altra arma, io glielo diedi, ma era un sonnifero, quello famoso che si estrae dalla mandragora e che fa piombare in un letargo simile alla morte.

«Non c’è da stupirsi, quindi, se questo furfante sopporta la tortura; egli la ritiene ancora il male minore perché sa che per lui non c’è più speranza e che, secondo le leggi degli antenati, lo aspetta la pena di morte.
«Ma se è vero che quel ragazzo ha bevuto la pozione preparata da me, è vero anche che egli è vivo e che ora riposa e dorme e che fra poco, quando si ridesterà dal suo sonno profondo, tornerà alla luce del giorno.
«Se, invece, egli è morto bisognerà che voi cerchiate altrove le cause del suo decesso.»
XII
Con questo discorso il vecchio ebbe partita vinta e subito tutti si recarono di corsa al sepolcro dove giaceva composto il corpo del ragazzo. Non ci fu un senatore, un nobile, o anche uno solo del popolo che, spinto dalla curiosità, non vi accorresse. Ed ecco il padre, alzato con le proprie mani il coperchio della bara, vide che il figlio, proprio allora, stava destandosi dal profondo letargo e tornava dalla morte alla vita; e strettoselo forte fra le braccia, senza riuscire a dir parola per la troppa gioia, lo mostrò al popolo; poi, così com’era ancora avvolto nelle vesti funebri, lo portò in tribunale e la verità venne fuori e piena luce fu fatta sugli intrighi dell’infame servo e dell’ancor più infame moglie.
La matrigna fu condannata all’esilio perpetuo, il servo al patibolo e il bravo medico, su proposta unanime, in premio di quel sonno provvidenziale, s’ebbe le monete d’oro.
E fu proprio la mano della divina provvidenza a far concludere così l’avventura straordinaria e clamorosa di quel vecchio che dopo aver corso il pericolo di vedersi privato dei suoi due giovani figli, in poco tempo, anzi nel giro di qualche istante, si ritrovò padre di entrambi.

Apuleio

Fonte: Apuleio, Metamorfosi, a cura di Nino Marziano, Garzanti, Milano, 2008

Cosa mangiano gli americani?

Un libro che è al tempo stesso una guida pratica alle scelte alimentari e un dossier rigoroso di inchiesta sull’impatto delle nostre scelte sull’ambiente.

Il saggio di Peter Singer e Jim Mason può essere letto secondo due piani diversi, ma proprio per questo utilmente complementari: il reportage documentaristico e l’inchiesta di analisi e di denuncia rispetto alle ‘conseguenze etiche delle nostre scelte alimentari’.

Noi – è la tesi degli autori, parafrasando Feuerbach – siamo ciò che decidiamo di mangiare. Si parte quindi da tre famiglie statunitensi, campionatura di target abissalmente lontani: Jake e Lee in Arkansas, disinvolti consumatori di junk food; Jim e Mary Ann, media e contraddittoria coppia del Connecticut; JoAnn e Jo, vegani del Kansas. Seguite durante la spesa, la preparazione e la consumazione del pasto, esse offrono uno spaccato interessante ma tenuto in ombra della civiltà più mediatica del mondo. In un film, telefilm, video o libro americano, infatti, il lunch, dinner o break è spesso ridotto a scenario o contorno degli eventi principali, amputando e distorcendo la nostra comprensione.

L’alimentazione di 200 milioni di persone è inevitabilmente varia e alterna incultura diffusa (grassi animali saldamente in testa) e notevoli passi in avanti sul piano della sensibilità per le ricadute salutistiche. Ma è choccante, nella sua semplicità, sentir raccontare a una rappresentante della middle class come la madre le preparasse ‘degli spaghetti che chiamava gli spaghetti rossi, ma in realtà erano arancioni’, mescolando ketchup, latte e formaggini in una salsa da versare sulla pasta insieme con la carne in scatola. Un comportamento che per la cultura gastronomica mediterranea si avvicina al maltrattamento di minori e ricorda tristemente la scena dei ‘macaroni’ di Alberto Sordi.

Singer e Mason ripercorrono puntigliosamente la filiera che parte dal desco per giungere fino alle produzioni industriali e artigianali di carne e pesce, secondo il tipo di inchiesta resa nota da “Report” di Milena Gabanelli. Gli autori reclamano maggior attenzione per la vita degli animali allevati e macellati: tesi condivisibilissima, magari senza arrivare all’equiparazione assoluta tra gli esseri viventi altrove sostenuta da Singer, uno dei più ascoltati ed estremisti guru animalisti.

Marco Ferrazzoli

Peter Singer e Jim Mason, “Come mangiamo” (Il Saggiatore, 2016)

https://www.ilsaggiatore.com/libro/come-mangiamo/#:~:text=Come%20mangiamo%20%E2%80%93%20testo%20che%20unisce,s%C3%A9%20e%20per%20gli%20altri.

Mezzogiorno di cuoco

La carne Montana, dell’omonima azienda milanese, rappresenta un’icona della “rivoluzione” alimentare degli anni ’60, e seguire la sua storia permette di ripercorrere i cambiamenti della nostra società e della nostra dieta.

E’ uno slogan celebre, immediatamente riconoscibile, per gli ex bambini che sono vissuti sotto la tutela serale di Carosello: “Mezzogiorno di cuoco”. Con questa battuta terminavano regolarmente gli spot della Carne Montana, prodotto inscatolato che ha rappresentato molto di più, in termini commerciali, di una semplice opzione alimentare: il piatto pronto si inseriva nell’evoluzione sociale, nella ‘liberazione’ della donna dalle incombenze domestiche, nell’acquisizione di uno stile di vita più libero, nell’imitazione di alcuni modelli americani. Non a caso, il protagonista della pubblicità è il pistolero Gringo, l’ambientazione tipica del western, con incruenta sparatoria e il ‘cattivo’ Black Jack. Questa storia viene raccontata, con la lucidità oggettiva dello studioso ma anche la partecipazione emotiva dell’ex bambino degli anni ’60, da Giuseppe Romano.

La carne è un alimento centrale nella dieta alimentare. Attraverso un’azienda come Montana, nata a Milano 55 anni fa, possiamo raccontare come siamo cambiati, decennio dopo decennio. Quanta strada abbiamo fatto noi italiani da allora a oggi e quanto ci hanno aiutato tecnologie e scoperte come il frigorifero e la conservazione dei cibi? Mangiavamo poca carne nell’ultimo dopoguerra. Così poca che doveva arrivarci dagli Stati Uniti in pacchi dono nei quali la scatoletta di corned beef era un bene prezioso. Ma carne in scatola se ne produceva anche in Italia e Montana era stata tra le prime imprese a farlo e a pubblicizzarlo. Sarebbero arrivati presto i tempi della televisione, e con essi di Carosello e di Gringo, il celebre cowboy che ha reso epica la “scatoletta”. Col passare dei decenni l’Italia sta meglio e la dieta si arricchisce. Il racconto riserva nuovi capitoli a fenomeni come il fast food, le mense aziendali, i supermercati, le obesità di ritorno, le diete salutiste, l’invasione delle multinazionali. Anche Montana – che dall’inizio è stata e resterà una storia esemplare d’imprenditoria italiana – rispecchia il cambiamento e Gringo va in pensione: mangiare carne significa ormai offrire al consumatore una dieta variata e accurata sotto il profilo salutistico. E il racconto di noi stessi, attraverso l’alimentazione e la pubblicità che la descrive, non è mai stato più vivace.

Marco Ferrazzoli

Giuseppe Romano, “Mezzogiorno di cuoco” (Marsilio, 2008)

“Il quarto cavaliere”: breve storia di epidemie, pestilenze e virus

Un saggio storico sulla convivenza tra l’uomo e malattie infettive, una riflessione sul ruolo delle pestilenze negli equilibri tra le civiltà umane, reso ancor più attuale alla luce degli sconvolgimenti causati dalla recente pandemia.

Uno dei saggi giustamente rimasti più celebri nella recente esegesi storica è “Armi, acciaio e malattie” di Jared Diamond, nel quale, sin dal titolo, un ruolo fondamentale viene assegnato alle epidemie nella evoluzione storica delle civiltà che ci hanno preceduto. Su questo elemento, “Il quarto cavaliere”, facendo riferimento alla celebre metafora dell’Apocalisse, esce adesso negli Oscar Mondadori un saggio specifico di Andrew Nikiforuk che traccia proprio una “breve storia di epidemie, pestilenze e virus”. Si tratta in realtà di uno studio dei primi anni ’90, come chiarisce l’autore in una nota nella quale precisa l’intento etico della sua opera: “Spero di spingere i lettori a condurre una vita più sana e a combattere per comunità più verdi, liberandosi dalle illusioni tecnologiche”. Un motto programmatico piuttosto deciso ed estremo, come si vede, che il giornalista canadese ripete incessantemente nei vari capitoli, spingendosi ad assiomi francamente sconcertanti come quello di annoverare tra “le grandi menzogne del XX secolo” quella che “gli antibiotici, i medici e i vaccini ci abbiano salvato”. Da un lato, insomma, l’autore si schiera decisamente contro lo scientismo e il progresso tecnologico, dall’altro rivanga come epoca aurea quella in cui l’umanità affrontava una vita di mera, dura sopravvivenza: “Gli uomini del passato, raccoglitori di noci con la lancia sotto il braccio, erano esemplari magnifici”, mentre i loro successori coltivatori “relativamente sedentari, erano individui curvi e affamati. Mangiavano troppi carboidrati e i loro denti marcivano”. Tutto questo, dunque, molto prima che arrivassero i fast food…

Se si prescinde da questo tipo di considerazioni, però, il libro è davvero interessante per la messe di informazioni storiche che fornisce in ordine al ruolo che malattie ed epidemie hanno assunto nello squilibrare i rapporti di forza tra gli Stati, le culture e le civiltà umane. Per esempio, quella sorprendente per cui “la malaria ha ucciso la metà degli uomini, donne e bambini che sono deceduti sulla terra” fino all’ultima guerra mondiale. Ciò su cui Nikiforuk ha certamente ragione è che il caso e l’eterogenesi hanno sempre giocato un ruolo determinante nel progresso umano, ad esempio la lebbra è sempre stata condizionata da fattori igienici e dunque, indirettamente, dalla disponibilità di tessuti per potersi cambiare più frequentemente d’abito: fu dunque la peste, diminuendo in modo spaventoso il numero di persone e aumentando le pecore e la lana pro-capite ad aiutare la scomparsa della lebbra in Europa. Tranne quella del Nord, dove essa restò diffusa molto più a lungo, in Norvegia addirittura fino a fine ‘800.

Marco Ferrazzoli

Andrew Nikiforuk, “Il quarto cavaliere” (Mondadori, 2008)

https://www.mondadoristore.it/quarto-cavaliere-Breve-Andrew-Nikiforuk/eai978880457834/