Il cancro dal “brutto male” all’outing. E all’alba delle Car-T

Riportiamo dal sito dell’Associazione Culturale Clara Maffei un articolo sulla Notte dei ricercatori che si è svolta venerdì 27 settembre 2019 in tutta Europa e, in particolare, su Ern Apulia, uno dei progetti approvati dall’Unione Europea per questa grande manifestazione di divulgazione scientifica, svoltosi a Lecce, nella splendida cornice del complesso monastico degli Olivetani. Nell’ambito delle conferenze organizzate per la Notte da Cnr-Nanotec e Unisalento, si è svolta una presentazione della mostra sulla “Rappresentazione della medicina e della malattia nella letteratura e nell’arte”


Nell’ambito della Notte dei ricercatori che si è svolta venerdì 27 settembre in tutta Europa, e in particolare di Ern Apulia, uno dei progetti approvati dall’Unione Europea per questa grande manifestazione di divulgazione scientifica, si è svolta a Lecce, nella splendida cornice degli Olivetani, un complesso monastico che è divenuto l’hub degli exhibit e delle conferenze organizzate per la Notte da Cnr-Nanotec e Unisalento, una presentazione della mostra sulla “Rappresentazione della medicina e della malattia nella letteratura e nell’arte”. L’esposizione – composta da sei stanze con 18 pannelli e da teche con oggetti del Museo di Storia della medicina dell’Università di Roma La Sapienza – è stata allestita per il Festival della scienza di Genova 2018, e accolta con un successo merito soprattutto delle molte collaborazioni che hanno consentito di realizzarla, a partire da quelle degli Uffici stampa e comunicazione, informazione e Urp del Cnr. La mostra è poi stata oggetto di una tesi di laurea discussa da Rossella Casciello presso la cattedra di Teoria e tecnica della divulgazione della conoscenza, all’Università di Roma Tor Vergata, ed è stata allestita successivamente a Pisa in occasione del 50nnale dell’Istituto di fisiologia clinica Cnr.

Il tema rientra nella cosiddetta medicina narrativa e sintetizza un materiale quasi sterminato, un archivio di centinaia di fonti che partono ovviamente da latini e greci, in particolare da questi secondi per i quali la parola peste aveva anche il significato più ampio di epidemia. I classici guardano alla peste con una duplice ottica: di nemesi (secondo Omero le divinità diffondono l’epidemia come punizione per punire le infrazioni commesse dagli uomini) ma anche naturale, potremmo dire scientifica. Si pensi alla precisione con cui Tudicidide, ma anche Lucrezio, descrivono oggettivamente gli aspetti epidemiologici e somatici delle malattie contagiose. Non a caso Susan Sontag, in uno dei libri più celebri in questo ambito, parla di “malattia come metafora”. Questa connotazione concreta e simbolica assieme rimane peraltro anche nelle epoche successive, per esempio in Boccaccio e Manzoni (che fa della peste il Deus ex machina della sua opera: la celebre “scopa” di Don Abbondio), anche quando il rischio legato al contagio viene contrastato dalle sempre migliori misure igieniche, sanitarie, terapeutiche. La cosa diviene evidente nel ‘900 con autori quali Camus, Malaparte, Mann, dove la peste assurge a simbolo del nazismo, della guerra e dell’abbrutimento morale.
Una svolta nella medicina narrativa avviene con la rivoluzione freudiana, di cui si sta tornando a discutere in questo periodo, in occasione dell’80esimo dalla morte di Sigmund Freud: la profonda revisione critica della psicanalisi, ad opera soprattutto delle neuroscienze e dell’imaging, che hanno ricondotto a cause organiche e chimico-fisiche gran parte dei processi che un tempo definivamo “mentali” e psichici, non inficia l’importanza della riflessione sul valore della parola nel rapporto tra terapeuta e paziente, sulla “parola che cura”, alla quale la psicanalisi ci ha spinto. Una riflessione che – nella psichiatria – si è anche tradotta in senso politico con la riforma Basaglia, che nella seconda metà del ‘900 ha portato l’Italia all’avanguardia rispetto alle pratiche del contenimento, della reclusione, del nascondimento e delle vere e proprie torture cui venivano sottoposti i malati di mente, che in qualche modo Basaglia trasforma da “pazzi da legare” a “pazzi con cui parlare”.

Di questa rivoluzione sociale e terapeutica, direttamente e indirettamente, si sono resi protagonisti letterari autori come Svevo, Berto, Pirandello, Campana: talvolta lambendo – per esempio con Alda Merini – una sorta di “mistica della follia”, di mitologia della “pazzia creativa”, intrepretata come stato “altro” e alternativo, se non addirittura superiore, alla “normalità”. In realtà il mondo della sofferenza psichica è reale e doloroso almeno quanto quello della malattia organica. Peraltro, il medico-scrittore Mario Tobino ha sempre sostenuto, a livello letterario e clinico, la possibilità di un diverso modello di cura ospedaliera, purché si concedessero alle strutture i mezzi e il personale necessari, in opere quali “Le libere donne di Magliano”. E comunque, a distanza di decenni, resta irrisolto lo scarico di gran parte del peso della cura e dell’assistenza dei malati sulle famiglie: il disagio psichico è forse il primo caso con cui si è posto il problema dei caregiver, oggi esploso con l’aumento dell’età media e delle malattie neurodegenerative.
Anche con la cecità, altra “stanza” della mostra illustrata a Lecce, ci troviamo a metà tra realtà e metafora. Omero è cieco, Tiresia è un non vedente, per quanto riguarda gli occhi del corpo, ma come profeta è stato dotato dagli dèi della vista del futuro: in realtà si tratta di due disgrazie che non si compensano, ma si sommano tra loro. Sul piano letterario, questo handicap dà il “la” dal punto di vista letterario a un’esplosione del registro simbolico – Saramago, Borges, Wells con il “Paese dei ciechi”, Hofmann con la “Parabola dei ciechi”… – ma soprattutto patetico, solo che si pensi alle opere di Dickens e Bronte (nel “Jane Eyre”, di nuovo, la malattia è il Deus ex machina che consente il lieto fine dell’opera).

Nella narrativa è però sempre possibile un doppio registro, persino quando si parla dei bambini e di una branca della medicina perturbante come poche, quale la pediatria. Collodi vs de Amicis, potremmo dire, contrapponendo “Cuore” e “Pinocchio”. Ma pensiamo anche alla distanza che corre tra Dickens e Cronin da un lato e Molière dall’altro. Oppure a “Braccialetti rossi”, seriale televisivo di grande successo che in fondo– se guardassimo aridamente al plot – potremmo ridurre a una serie di storie d’amore adolescenziali, che sceneggiatori e produttori hanno però avuto il coraggio di ambientare in un reparto di oncologia pediatrica. Con “Braccialetti rossi” arriviamo alla rivoluzione comunicativa odierna, seguendo un percorso che va dal “brutto male” all’“outing”. Il cancro è un tema molto presente in letteratura con scrittori quali Buzzati, Verga e Solzenicyn, che nelle loro opere focalizzano il terribile “momento zero” della diagnosi, quando le parole diventano pietre ed è davvero difficile trovare “le parole per dirlo”.

Nonostante ciò, anche in questo caso c’è chi riesce a fare del geniale sarcasmo come Luis Bunuel, regista che in una scena de “II fantasma della libertà” trasforma surrealmente il rifiuto della diagnosi da parte del paziente. Per lungo tempo in oncologia hanno prevalso l’eufemismo, le perifrasi, il silenzio, da parte di malati e famiglie, e i tecnicismi come lesione, neoplasia, nodulo da parte dei medici. Oggi siamo in una fase del tutto diversa, quella del coming outing di Nadia Toffa ma anche di Emma Marrone, Mihailovic, Lea Pericoli (la tennista fu il primo personaggio pubblico ad aver reso pubblica la propria condizione di malata): una scelta, ormai una tendenza, che ha le sue contraddizioni e rischia di indurre ottimismo eccessivo, di confondere i termini e i concetti, che lambisce la retorica del “dono”, della malattia che “migliora”. Ma che induce anche a condividere, che esorta alla sincerità e questo è un progresso importante della comunicazione.

Con queste considerazioni la parola è passata ad Attilio Guarini, ematologo all’Istituto tumori Giovanni Paolo II di Bari, che ha parlato delle CAR-T (Chimeric Antigens Receptor Cells-T), cellule modificate in laboratorio a partire dai linfociti T: una nuova strategia di cura che sfrutta il sistema immunitario per combattere alcuni tipi di tumore come linfomi aggressivi a grandi cellule e leucemie linfoblastiche acute a cellule B. Guarini definisce le CAR-T la “vis sanatrix naturae”, il “farmaco vivente”, proprio perché prodotto a partire dalle cellule dello stesso paziente. Ma anche “l’alba di una nuova era”, che il medico ha voluto come titolo della sua presentazione, aprendo alla speranza che il metodo possa illuminare a giorno la cura dei tumori liquidi e anche solidi. Lo sviluppo di nuove tecnologie per la produzione di CAR-T è parte integrante delle attività di ricerca condotte dal TecnoMed Puglia, il “TecnoPolo per la Medicina di Precisione” coordinato da Giuseppe Gigli, direttore del Cnr Nanotec di Lecce. Si tratta di un trattamento estremamente complesso e costoso, non sempre applicabile ma, laddove possibile, dai risultati davvero molto incoraggianti.
Ern Apulia è un progetto europeo coorrdinato da Unisalento. L’evento ha aperto la nuova stagione della rassegna divulgativa “Jam session Nanotec: note di scienza su scala nanometrica”, un progetto Cnr Nanotec di Gabriella Zammillo, realizzato in collaborazione con Liberrima.

Marco Ferrazzoli


Fonte: Associazione Clara Maffei


Il racconto delle epidemie svela le nostre paure

Un articolo dell’Almanacco della scienza illustra brevemente la mostra dell’Ufficio stampa del Cnr “Racconti e ritratti di medicina e malattia”, allestita a Genova e Pisa rispettivamente nel 2018 e nel 2019. Analizzando in particolare come il tema del contagio è stato affrontato nelle varie forme di narrazione letteraria, visuale e artistica che si sono succedute nei secoli. Un viaggio che segue l’evoluzione scientifica e clinica della medicina, da un lato, e della narrazione della malattia, dall’altro


Malattie e contagi ricorrono in letteratura sin dall’antichità: l’Iliade, considerata il punto di inizio della narrazione occidentale, esordisce con il racconto della pestilenza provocata da Apollo, adirato con gli Achei accampati sotto la città di Troia. Le epidemie venivano interpretate come un segno dell’ira della divinità, una punizione inflitta agli uomini per aver violato un ordine morale o giuridico. Ma anche comeun fenomeno naturale che rende evidenti i limiti dell’uomo nei confronti della natura: ne troviamo testimonianza nelle accurate descrizioni della peste a opera di Tucidide (V secolo a.C.) nelle “Guerre del Peloponneso” o, alcuni secoli dopo, di Tito Lucrezio Caro nel “De rerum natura”.

Analizzare come il tema è stato affrontato nelle varie forme di narrazione letteraria, visuale e artistica che si sono succedute nei secoli è uno dei fili narrativi della mostra dell’Ufficio stampa del Cnr “Racconti e ritratti di medicina e malattia”, allestita a Genova e Pisa rispettivamente nel 2018 e nel 2019, i cui contenuti sono riassunti in una pagina dedicata del portale dell’Ente. Un vero e proprio viaggio che segue l’evoluzione  da un lato l’evoluzione scientifica e clinica della medicina, dall’altro della narrazione della malattia.

Il tema della punizione divina non cessa con l’acquisizione di nuove conoscenze razionali. In tempi più vicini a noi, Boccaccio parla nel “Decameron” della “mortifera pestilenza […] a nostra correzione mandata per nostre inique opere, da giusta ira di Dio”. E ancora nell’800 Manzoni attribuisce alla peste un ruolo provvidenziale: il morbo, infatti, provoca la morte di Don Rodrigo e permette, come noto, il lieto fine dei “Promessi sposi”.

Ancora nel ‘900, nonostante il decisivo progresso della medicina, la circolazione di virus mantiene una valenza simbolica molto forte. La malattia in molti autori subisce una trasformazione metaforica, diventando simbolo del male spirituale e morale che pervade la società, soprattutto in coincidenza di particolari crisi storiche. In “Morte a Venezia” di Thomas Mann (1912), ad esempio, o ne “La pelle” (1949) di Curzio Malaparte, in cui gli eserciti alleati liberano Napoli ma privandola della fiera dignità mostrata durante la guerra. Altra opera prepotentemente tornata alla ribalta in tempi di Coronavirus è “La peste” di Albert Camus (1947), dove attraverso il morbo l’autore affronta l’orrore del nazional-socialismo appena sconfitto, un topos letterario perfetto per parlare di odio, sopraffazione, ingiustizia.

Oggi, mentre l’epidemia da Covid ha una dimensione tragicamente reale, queste pagine del passato recente e remoto ci ricordano che nell’idea del nemico sconosciuto – il virus è un rappresentante ideale – risiedono sempre le nostre paure più profonde.

Francesca Gorini


Fonte: Almanacco CNR – Focus, Distopia

Briciole. Storia di un’anoressia

Alessandra Arachi, nata a Roma nel 1964, giornalista al Corriere della Sera, con Feltrinelli ha
pubblicato: “Briciole. Storia di un’anoressia” (1994), da cui è stato tratto l’omonimo film per tv con la regia
di Ilaria Cirino (2004). Ne pubblichiamo un breve stralcio. Le altre sue opere sono: “Leoncavallo
blues” (1995), “Unico indizio: la normalità. L’Italia a sud dell’Italia” (1997), “Coriandoli nel deserto” (2012). Ha pubblicato inoltre “Non più briciole” (Longanesi 2015), “Lunatica. Storia di una mente bipolare” (Rizzoli, 2006) e il romanzo “E se incontrassi un uomo perbene?” (Sonzogno, 2007)


« Comincia con tre polpette al sugo questa storia. Tre polpette di carne di vitello vomitate nel bagno di casa con la porta spalancata. “Anoressia mentale”, sarebbe stata la diagnosi psichiatrica. Mio padre non avrebbe mai voluto crederlo.
[…]
Gambe lunghe, ma non magre. Non a sufficienza per me che soltanto scheletrica avrei potuto avere il
mondo ai miei piedi.
[…]
È difficile credere all’anoressia mentale. Chi la osserva da fuori non riesce a concepire che il cibo possa
diventare un nemico all’improvviso. Chi la vive non capisce più come sia possibile per le persone riuscire a
mangiare senza pensieri, senza ansia, senza angoscia.
[…]
E ho scoperto quanto è meravigliosa la vita quando al mattino apri gli occhi e riesci a vedere che fuori dalle finestre c’è la luce. E che è una luce chiara, limpida. Finalmente ho vinto. Ho vinto io. »


La Repubblica – Il dramma dell’ anoressia



Un’epidemia che colpisce lo spirito

In questa pagina, un breve saggio critico su “La pelle” di Curzio Malaparte. Come contributi aggiuntivi, suggeriamo un’intervista con Rita Monaldi e Francesco Sorti, autori di un giallo storico ispirato a Malaparte, “Morte come me”, e un contributo dalla rivista Domus su “Casa come me”, villa-icona del Novecento, perfetta espressione della visione architettonica di Malaparte


Il gruppo di lettura Casa d’altri, insieme a Nicola Lagioia, si è riunito in un nuovo incontro online per confrontarsi sul controverso romanzo di Curzio Malaparte, “La pelle”. Nel delineare i tratti salienti della vita di un personaggio discutibile e ambiguo, Nicola ha sottolineato come in Italia la parabola biografica di Malaparte abbia influenzato la valutazione della sua opera, proiettando un’ombra sulla sua attività letteraria, mentre all’estero sia considerato uno dei protagonisti del Novecento europeo.
Curzio Malaparte è il nome d’arte di Kurt Suckert, nato a Prato e soprannominato l’Arcitaliano perché avrebbe incarnato qualità e difetti del popolo italiano, primo fra tutti il trasformismo, che era una scelta dettata da ragioni di convenienza, ma anche un tratto distintivo del suo temperamento. Fascista della prima ora, Malaparte entrò più avanti in contrasto con il regime: venne mandato al confino, dove continuò comunque a godere della protezione di alcuni gerarchi. Dopo l’8 settembre 1943 si unì come ufficiale di collegamento alle truppe americane, per cambiare ancora orientamento nel dopoguerra, avvicinandosi a Togliatti. Nel ’57, dopo una diagnosi di tumore ai polmoni, lasciò in eredità la propria casa al Partito comunista cinese e in punto di morte si convertì alla religione cattolica.

Pubblicato a puntate in Francia tra il ’47 e il ’48, uscito in Italia nel ’49, al centro di una trilogia sulla decadenza dell’Europa iniziata con Kaputt e proseguita con Il ballo al Kremlino, “La pelle” racconta l’esperienza di Malaparte al seguito degli alleati a partire dalla liberazione di Napoli.
Nicola ha osservato come il libro possa essere considerato una non-fiction novel, una forma ibrida tra romanzo, reportage letterario e giornalismo, una rielaborazione letteraria della realtà più intensa e complessa di una semplice cronaca. L’altro genere letterario anticipato dalla Pelle è quello dell’autofiction: l’io narrante è Malaparte stesso, senza nemmeno un alter ego a fargli da schermo.
All’inizio il titolo avrebbe dovuto essere La peste, cambiato a causa della pubblicazione nel ’47 del libro di Albert Camus; mentre però la peste di Camus è una metafora del nazifascismo, quella di Malaparte è la corruzione, una malattia morale portata dagli eserciti alleati a Napoli, e da lì diffusa per l’Europa: i napoletani, che durante la guerra avevano combattuto con dignità, dopo la liberazione si vendevano per salvare la propria pelle.
La Napoli della Pelle non è una città ma un continente letterario, un luogo di immaginario potentissimo e al tempo stesso immobile: è il centro della paralisi, della tragedia e dell’abiezione, e proprio per questo luogo ideale per la letteratura.

Un tema ricorrente nel libro è il rapporto tra la civiltà degli europei vinti – verticale, profonda, consapevole dell’abisso in cui è precipitata, e per questo perduta – e la civiltà orizzontale, ingenua e inconsapevole, degli americani vincitori, che in quanto tali non hanno bisogno di interrogarsi. Alla riflessione sulle macerie di un’idea di Europa amata da Malaparte si accompagna una sorta di elegia su una tradizione letteraria.
Il dialogo che si è intrecciato dopo l’introduzione di Nicola ha messo in rilievo diversi aspetti, a partire dalla profonda e struggente pietas, espressa con accenti lirici, che prevale sui momenti in cui viene raccontata l’abiezione, l’uomo che perde la sua humanitas: Malaparte riesce a darci una lezione di umanità lì dove l’umanità sembra essere negata, anche se scrive in un secolo in cui l’idea di uomo – frammentata, disgregata – è molto diversa rispetto all’epoca in cui il sentimento della pietas nasce e viene elaborato, anche dal punto di vista letterario.
Alcune lettrici hanno sottolineato la sua sofferenza davanti a un processo storico, sentito come ineluttabile, che evolve grazie alla violenza, il suo amore per i vinti accanto alla ripugnanza per l’uomo nel suo miserabile trionfo.
Qui Nicola ha collegato “La pelle” con un libro apparentemente molto distante, La Storia di Elsa Morante, mettendo in luce come entrambi scelgano di scrivere la storia dal punto di vista delle vittime e non dei vincitori, perché solo coloro sui quali la storia ha inciso più a fondo il proprio marchio ne sono i veri testimoni. Lo stesso ragionamento, ma più vertiginoso, lo fa Primo Levi nei Sommersi e i salvati, dove sostiene di non essere lui il vero testimone: i testimoni integrali sono quelli che non sono tornati, o che sono tornati muti, totalmente annichiliti.

Anche per quanto riguarda il potere, l’oggetto privilegiato della narrazione nella letteratura moderna sono quasi sempre le persone che ne subiscono le conseguenze, come se chi detiene il potere fosse il centro di una tromba d’aria, che è l’unico luogo immobile, dove non succede niente.
È stato ricordato anche come Malaparte nel capitolo ambientato a Firenze non ponga l’accento sulla liberazione, sulla rinascita di un paese distrutto: analogamente a Fenoglio, racconta una guerra civile in cui, dal punto di vista narrativo e umano, c’erano dei ragazzi, con le loro complessità e fragilità, che si uccidevano tra loro.
Il rapporto tra civiltà europea e americana è stato ripreso nella conversazione, evidenziando come il candore degli americani, più che nel loro pudore, consista nella loro incapacità di concepire il male come qualcosa di irrimediabile, nel loro incrollabile ottimismo: convinti che tutto si può combattere, che si può guarir della miseria, della fame, del dolore, che v’è rimedio a ogni male, mancano del senso del tragico, che è il grande bagaglio – ma anche la grande zavorra – degli europei, dotati invece di una consapevolezza innata dovuta ad alcuni millenni di civiltà alle spalle e al trauma della guerra vissuta sul proprio suolo.

Tra le lettrici e i lettori c’è chi ha considerato “La pelle” un libro ancora più disperato di Addio alle armi perché, anche se non ha un finale tragico, racconta un mondo perduto, e chi ha visto un momento non proprio di catarsi, ma comunque di speranza, nella morte di un ufficiale alleato: io sentii, per la prima volta nella mia vita, che un essere umano era morto per me.
L’appuntamento, partecipato e coinvolgente, con Casa d’altri è stato l’occasione per riscoprire la forza linguistica e immaginativa di uno scrittore capace di raccontare una malattia dello spirito paurosamente attuale.

Alessandra Sirotti

Curzio Malaparte, “La pelle”, Adelphi (2010, 6ªediz)

Fonte: MinimumLab


Almanacco CNR – Faccia a faccia

DomusWeb – Curzio Malaparte: la storia e i retroscena di Casa come me

Grazia e delirio

Nel suo dotto contributo, il critico e storico della letteratura Giancarlo Vigorelli contestualizza la “Storia della colonna infame” non solo nella maturazione spirituale di Alessandro Manzoni ma anche nel contesto letterario italo-francese, suggerendo spunti e confronti di grande interesse


[…]
…. diciamo allora che la Colonna è un romanzo, una scheggia di romanzo, che è cristiano soltanto à rébours, è il romanzo dello smarrimento dell’uomo e Dio, allora, non si sa se si è nascosto o piuttosto se è stato trafugato? Infatti, questo secondo romanzo breve, brusco ed intenso è un po’ la ricerca e la richiesta di là delle incrostazioni private o legali di una pur credibile giustizia, di una alfine conseguibile verità, una verità anche soltanto umana, ove almeno la decenza e la onestà dell’uomo sia a sufficienza probabile e provata, insomma quell’attestato pur parziale di verità da scalfire alla congerie della menzogna propria e di tutti. Che era poi di radice la umana preoccupazione del Manzoni, e chissà che questa non sia l’origine autentica della sua insistita crisi, come dicevo, tra verità e poesia e – più evidentemente e sul piano letterario – tra storia e romanzo.
[…]
La peste, allora, questo flagello di tutti e per tutti, finiva così ad essere il necessario scenario, persino di scusa, persino di giustificazione, del trionfo ovunque del male dell’uomo: direi che quel male ne era quasi mitigato, sovraeccitandogli intorno uno spettacolo di tanta corruzione e di tanto contagio. Insomma, né sfondo né inserto, come potrebbe essere per esempio la Rivoluzione Francese in Balzac; e anche in Verga la malaria non è un accidente e una miseria di più. Così questa peste, non fortuitamente (e non sorprenda), viene a prendere dal Rovani in giù quasi un senso ed un consenso metaforico allusivo. È troppo dire che i lazzaretti del Manzoni sono – da noi – una lontana introduzione persino degli ospedali di Baudelaire? Direi di sì, se si passa a leggere gli scapigliati lombardi.

Giancarlo Vigorelli



Alessandro Manzoni, “Storia della colonna infame”, Bompiani 1985 Milano

Sciascia e gli untori

Leonardo Sciascia, in un saggio scritto per la “Storia della colonna infame”, individua con grande acutezza alcuni meccanismi psicologici e sociali, soggiacenti alle dicerie in merito alla diffusione del contagio. Lo scrittore siciliano mette qui in campo la sua capacità di analisi non solo da “collega” di Manzoni ma anche da osservatore dei fatti della sua epoca e della storia della sua terra d’origine


La credenza che peste e colera venissero artatamente sparsi tra le popolazioni è antica. La registra Livio per, come ricorda Pietro Verri nelle sue “Osservazioni sulla tortura” che, appunto muovono dai funesto casi cui la credenza dette luogo nel 1630. “Veggiano i saggi Romani stessi al tempo in cui erano rozzi cioè l’anno di Roma 428 sotto Claudio Marcello e Cajo Valerio attribuire la pestilenza che gli afflisse a’ veleni apprestati da una troppo inverosimile congiura di marrone romane”. Al tempo in cui erano rozzi: perché pare che meno rozzi tra loro più non sia insorta quella credenza. E c’è da credere si fosse del tutto spenta nei secoli successivi e fino al XIII e XIV. Non ne troviamo traccia, infatti, nei cronisti che pure abbondano di notizie sulle epidemie pestifere del due e del trecento. Nelle loro pagine le tremende epidemie non trovano altra causa che il volere di Dio o l’influsso degli astri; e la propagazione del morbo ad altro non è attribuita che agli scambi e ai viaggi. Per tutti Giovanni Boccaccio
[…]
Quel che sappiamo quasi con certezza qui ed ora è che nel secolo XIV nessuno avanza il sospetto di una peste manufatta e diffusa da persone convenientemente immunizzate per decisione del potere (visibile o invisibile) o di una associazione cospirativa contro il potere o di un gruppo delinquenziale che si propone nella calamità più facile depredazione; mentre nel secolo XVII un tale sospetto non solo viene formulato ma arriva alla certezza medica e giuridica, tramandandosi – non più per fortuna sul piano della scienza medica e leguleia – fino a un tempo cui arrivano i nostri ricordi. Del colera del 1885-86 e della “spagnola”, ultima mortale epidemia che si è avuta in Italia subito dopo la guerra del ’15-18, abbiamo infatti sentito favoleggiare come di provvedimenti per così dire malthusiani; e della “spagnola” venuta dopo il grande macello della guerra si diceva fosse effetto di un conto da cui ancora risultava eccedenza di popolazione, essendo la guerra per errato calcolo finita un po’ prima di quanto doveva: e dunque la correzione da parte dei governi per quel tanto né più né meno che ci voleva a far tornare il conto.
[…]
Che si potesse come oggi, in un laboratorio batteriologico, manufare la peste e diffonderla, intanto era questione controversa. Il Tadino medico ci credeva: ma allora non c’era differenza tra uno che si diceva o dicevano medico e una qualsiasi persona colta. Le conoscenze del Tadino in fatto di medicina non erano né diverse né superiori a quelle di un don Ferrante: il quale risulta personaggio comico, caricatura nelle pagine dei Promessi Sposi, con senno di poi ma è in effetti il ritratto del Tadino tal quale. Anzi: il Tadino vedeva la peste scendere dalle stelle e andare a finire nelle ampolle degli untori; don Ferrante invece si fermava alle stelle e morì prendendosela con le stelle e non con gli untori.

Leonardo Sciascia



Alessandro Manzoni, “Storia della colonna infame”, Bompiani (1985)

Alessandro Manzoni o l’ipotesi di un realismo cattolico

Alberto Moravia si sofferma, in un saggio su Manzoni, sulla funzione simbolica che la peste assume nei “Promessi sposi”. Il contributo è pubblicato in premessa alla “Storia della colonna infame”, nell’edizione Bompiani del 1985


[…]
…. la peste è la corruzione per eccellenza per antonomasia; con i suoi bubboni, le sue febbri, il suo sfacelo fisico, essa è il simbolo di tutto ciò che non è sano né integro: con il suo diffondersi misterioso e inarrestabile essa è l’immagine stessa del male morale, contro il quale è impossibile difendersi. A sua volta, per aver fatto della peste, unico tra gli scrittori di tutto il mondo e di tutti i tempi, uno degli argomenti principali del suo romanzo, il Manzoni è per antonomasia il dipintore dell’epidemia, ossia della corruzione. Ma c’è peste e peste; la celebrità della peste de ‘I promessi sposi’, al contrario delle analoghe descrizioni del Boccaccio e del Defoe, si deve al fatto che essa è realmente sentita dal Manzoni come un fenomeno anzitutto morale; un po’ come le sette piaghe d’Egitto nell’Antico Testamento.
Così descrivendo la peste, il Manzoni si trova per così dire nel suo elemento, quello di una corruzione metafisica e universale che non risparmia niente e nessuno. Anche in questa parte della peste, come già in quella della Monaca di Monza, il Manzoni tocca i punti più alti della sua arte, come per esempio nel celebre episodio della madre che consegna ai monatti la sua bambina morta.


Alberto Moravia



Alessandro Manzoni, “Storia della colonna infame”, Bompiani Milano (1985)

Bianciardi, prefatore di Buzzati

Lo scrittore e giornalista Luciano Bianciardi realizza, per l’edizione di Mondadori del 1958 dei “Sessanta racconti” del collega Dino Buzzati, un testo breve e incentrato in gran parte sui due nei quali la malattia la fa da protagonista assoluta: “Sette piani” e “Una cosa che comincia per elle”. Evidenziando il crescente terrore che, in entrambi i casi, pervade chi ne è colpito


Si al settimo piano le forme leggerissime al sesto le leggere al quinto le poco gravi e così giù e giù. Al piano terreno i casi disperati. In tal modo si evitava che i malati leggerissimi come lui Giuseppe Corte fossero turbati dallo stato preagonico dei dannati. E i medici sorridenti lusinghieri tutti li a rassicurarlo che in un paio di settimane lo dimetteranno. Ma naturalmente va in tutt’altro modo. In capo a dieci giorni si presenta il capo-infermiere a chiedere in via puramente amichevole un trasferimento al piano di sotto. Qui al settimo le camere scarseggiano e ci sarebbe da sistemare una gentile signora con due bambini. Naturalmente il trasferimento che al nostro amico Corte non garba gran che non ha alcuna motivazione medica. È un semplice trasloco momentaneo. E lui ai compagni di degenza tiene a precisare che si trova in mezzo a loro per una questione puramente formale …

[…]

E la vita è sempre una cosa che comincia per elle. Rammenti tu l’uomo cui l’altro giorno chiedesti soccorso a spingere il tuo carro? Rammenti che aveva un campanello al collo? Tu credi dunque che fosse uno zingaro? Credi pure quel che ti pare ma intanto applicati ai-polsi queste due sanguisughe visto che hai bisogno di un salasso. Ebbene l’uomo che ti diede soccorso è una cosa che comincia per elle. È un lebbroso e ora anche tu sei un lebbroso una cosa che comincia per elle. E anche tu avrai un campanello al collo e ti verranno tolti tutti i tuoi beni te ne andrai in giro ramingo poi altri diventeranno lebbrosi come te ineluttabilmente.

Luciano Bianciardi

Dino Buzzati “Sessanta racconti”, Mondadori Milano (1958)

Manzoni il nichilista

Un saggio indaga in senso critico la religiosità del romanzo manzoniano, secondo l’autore del brano, “I promessi sposi” sono un’opera “pervasa da un micidiale nichilismo anticristiano”, del quale si ravvisano le tracce anche nella descrizione della peste. Una visione opposta a quella di Niccolò Tommaseo, secondo cui la contingenza drammatica ha il solo scopo di far emergere la pietas cristiana: “Il Manzoni trova in quel libro, raccolti intorno a Federigo, i fatti d’un potente senza nome, d’una monaca strana, d’una sommossa, d’una fame, d’una peste; e, nella peste, le cure di alcuni uomini pii”


Nella bolgia della peste succede qualcosa di diverso e di infinitamente più significativo ai nostri fini.
[…]
L’esito disastroso della processione viene letto dalla gente come una vittoria del diabolico che ha prevalso sugli attesi effetti magici della salma di San Carlo. In questo atteggiamento la morte non viene misteriosamente da Dio ma dal Demonio che si serve degli untori cioè del nostro prossimo.
[…]
L’esito del ricorso alla religione nella prova suprema della peste è qualcosa che va oltre la disfatta che ha i segni della pazzia un marchio peggiore di quello della peste. Lo spettacolo è quello di un’intera città di un’intera comunità umana che lotta non contro la peste ma contro un nemico invisibile insidioso inafferrabile perché alleato del Demonio: gli untori le streghe.
[…]
Non c’è cenno di solidarietà cristiana: la comunità cristiana non esiste. I “cristiani” si mettono assieme solo per la processione che appare uno dei punti culminanti del delirio. Ancora una volta: perché la peste ha generato tutte le follie dell’odio e non quelle della carità? Perché l’enorme energia che si sprigiona nelle catastrofi non prende la strada dell’amore? Perché tanta paura del Demonio se Cristo è con noi? Perché i pastori lasciano andare il gregge allo sbando in questo modo? Dov’è la Provvidenza?
[…]
Non solo dicevamo i monatti sono in una numerosa compagnia. Ciò che produce il salto quantitativo è l’entrata in scena di altre decine di migliaia di feroci saccheggiatori che assieme ai monatti si avvengano su un’umanità indifesa esercitando su di essa una violenza che possiede quei connotati sadici e vigliacchi di cui abbiamo detto: i soldati che calano in massa e dirigendosi verso meridione attraversano e devastano la Lombardia.
[…]

Aldo Spranzi


“L’altro Manzoni”, Ares (2008)

Céline, demonio antisemita e angelo dei malati

Lo scrittore francese è un personaggio controverso: la sua trilogia lo ha reso celebre e amato dai lettori ma le posizioni espresse in “Bagattelle per un massacro” lo hanno reso un “maledetto” inviso a molti. Non è certo la sua l’unica figura della letteratura in cui si mescolano il valore artistico e la scorrettezza politica, ma nel caso di Louise Ferdinand Destouches si aggiunge un terzo elemento di interesse: l’attività di medico svolta anche negli ultimi anni di vita in modo letteralmente e simbolicamente periferico, marginale, assieme agli ultimi. Lo ricordiamo attraverso un testo che ricorda proprio questa duplicità


[…]
«Il personaggio Céline non potrà mai diventare simpatico a nessun lettore […] Tutto il suo dramma sta […] nella mancanza di equilibrio tra l’intelligenza piena della realtà e la sua resistenza morale»; una realtà sua, fatta però di allucinazioni prodotte dalla realtà vera, e una sua morale negativa che è ispirata e si rivolge a uomini contraffatti che recitano e vivono indossando una maschera mostruosa plasmata dai propri vizi, quelli dichiarati e quelli taciuti. «Céline bisogna prenderlo tutto insieme …» accettando la sua esacerbazione verbale come insostitui

bile mezzo di ricerca. Questo è il giudizio sofferto, ma chiaro e condivisibile, delineato da Carlo Bo, eminente critico cattolico, in un famoso saggio sull’autore di Viaggio al termine della notte (trad. it. Corbaccio 1933), anteposto alla traduzione italiana della sua seconda opera letteraria uscita in Francia nel 1936, Morte a credito (Garzanti 1964). Si tratta di un giudizio utile perché, a differenza delle condanne senza appello espresse da personaggi come Sartre e Moravia, non fomenta la messa all’indice di tutte le opere di questo autore e nel contempo sollecita una condanna senza attenuati delle sue derive antiebraiche e collaborazioniste con i nazisti. Non può infatti essere richiesta a tutti la capacità di un Cesare Cases, lui grande germanista letterato ed ebreo, che, dovendo ammettere che quella di Céline è un’opera straordinaria di ricognizione umana che non ha avuto seguito e che il Viaggio è una delle proposte più forti, il maggior romanzo del Novecento, si spinge a sostenere che quando egli usa il termine “ebreo” indirizzando a questi un odio allucinante, in realtà intende additare al pubblico ludibrio gli emblemi più brutali della modernizzazione capitalistica e cioè l’impero del denaro, la standardizzazione della vita quotidiana, la tecnocrazia, la burocrazia, l’America e l’Unione Sovietica, tutto o quasi tutto. È lo stesso Cases tuttavia che sintetizza meglio il suo pensiero quando dice che Cèline deve essere trattato come qualcuno da stampare al mattino e da fucilare nel primo pomeriggio.



Una vita vissuta
Tutti gli scritti di Céline, quelli letterari e quelli medici, hanno una forte derivazione autobiografica, una biografia complessa, pericolosa, straripante. Precocemente viaggia, impara inglese e tedesco e si impiega in diverse ditte commerciali. Volontario nella Prima guerra mondiale, viene ferito a un braccio e riformato: da questo momento e per tutta la vita soffrirà d’insonnia, di angoscia e di acufeni; nel 1916 dirige per nove mesi una piantagione di cacao in Camerun, quindi lavora in Francia nella redazione di una rivista di divulgazione scientifica.
Nel 1918 si iscrive alla facoltà di medicina di Rennes e si laurea nel 1924 con una tesi “romanzata” su Semmelweis, avendo come tutor il suocero e usufruendo di facilitazioni come reduce; in questo stesso periodo è attivo in una campagna antitubercolare della Fondazione Rockfeller.
Fa per un periodo il ricercatore all’Institut Pasteur; dal 1924 al 1928 lavora per la Società delle nazioni, branca “salute”, e viaggia da Ginevra a Liverpool, in Africa, in Italia (a Roma incontra Mussolini in persona che gli parla delle sue campagne antimalariche), a Cuba, negli Stati Uniti e in Canada (dove guida una delegazione di medici sudamericani in visite, tra l’altro, alle fabbriche Ford e Westinghouse) e dopo di nuovo in Europa; in alcuni di questi spostamenti fa anche il medico di bordo. Alla fine del 1927 apre uno studio medico a Clichy dove, a eccezione di un periodo trascorso all’ospedale Laennec, svolge con poche gratificazioni la professione di medico di base nei confronti di una clientela molto povera, disperata, ma contemporaneamente è assunto in un servizio municipale di igiene pubblica, pratica «una medicina collettiva terapeutica» e sperimenta, per conto di alcune società farmaceutiche, dei farmaci, compreso un medicamento contro i dolori mestruali, partecipando attivamente alla Società di medicina di Parigi. Compie viaggi in Germania, Gran Bretagna, nei Paesi Scandinavi e a Vienna; nel 1944, dopo la liberazione della Francia, ripara in Germania con i membri del governo collaborazionista di Vichy e, quindi, in Danimarca, dove passerà in prigione quattordici mesi e risiederà sino al 1951, quando l’amnistia gli consentirà il ritorno in Francia con una condanna per “indegnità nazionale” con la confisca dei beni. Vivrà con la moglie Lucette e numerosi animali a Meudon, a circa 10 chilometri da Parigi, dove continuerà fino alla fine la sua attività di medico, anche se poche erano le persone che accettavano di farsi curare da lui.




Destouches ovvero Céline
In sintesi, Louis-Ferdinand Auguste Destouches (1894-1932) è il medico che diventerà scrittore; Louis-Ferdinand Céline (1932-1961), pseudonimo mutuato dalla nonna materna con il quale pubblica, nel 1932, la sua prima opera letteraria, Viaggio al termine della notte, è lo scrittore medico.
Difficilmente tuttavia apprezzando cumulativamente la vita e le opere dei due personaggi, a differenza di come ha fatto qualche critico, si potrà pensare a una separatezza, a una doppia personalità, del medico e dello scrittore.
Altrettanto difficilmente si potrà pensare all’antisemitismo teorizzato e praticato come a un episodio isolato, espressione di una sorta di terza personalità (1937-1941) illustrato soltanto da tre pamphlet:
Bagatelle per un massacro (trad. it., Corbaccio 1938),
La scuola dei cadaveri (trad. it., Edizioni Soleil 1997),
La bella rogna (trad. it., Fata Morgana 1981).

Ancora difficile sarebbe pensare, come ha suggerito qualcuno, che è esistito un Destouches-Céline comunista, o per lo meno simpatizzante comunista, solo sino al 1937, quando, dopo una visita in Unione Sovietica, formalmente per reclamare e spendere i diritti dei suoi libri tradotti, pubblica un terribile pamphlet antisovietico, Mea culpa (trad.it, Scheiwiller 1975).
Infine, travagliati ma non indice di sicuro pentimento dell’adesione al nazismo, risultano le ultime prove letterarie, la Trilogia del Nord (Da un castello all’altro, Nord, Rigodon), tradotte in Italia nei primi anni Settanta e oggi disponibili in un unico volume (Einaudi 2010). Dunque abbiamo a che fare con un individuo dotato di una certa coerenza, anche spregevole, che solleva, parlandone senza ritegno, problemi personali, sociali da lui direttamente interpretati, importanti e irrisolti e con prospettive che non fanno scorgere nulla di buono, alcuna soluzione, operando abitualmente in maniera politicamente e moralmente scorretta.
Alla fine Céline risulta essere tante cose assieme: populista, volontario in guerra, pacifista, anticolonialista, cosmopolita, anarchico e nichilista, animalista, medico dei poveri, irreligioso e antimassone, igienista e temperante (non beve e non fuma), riservato, affettuoso; tutte queste cose e anche il contrario di esse, o di quasi tutte. È per tali motivi che l’autore e l’uomo Céline è ammirato da alcuni, una ristretta élite intellettuale, osannato da scalmanati che evocano principalmente il suo antiebraismo, guardato con timore dalla maggioranza.
Prima di affrontare gli scritti più direttamente medici e igienici di Céline è opportuno soffermarsi sul Viaggio, un affresco dell’umanità, quella della guerra, dell’industrializzazione, delle colonie, del lavoro industriale, dell’alienazione metropolitana, della miseria delle periferie, delle aridità delle coscienze. In questo scenario si muove lo sconsolato e ironico medico Ferdinand Bardamu che, ferito durante la Prima guerra mondiale e in convalescenza a Parigi, conosce l’americana Lola; si ritrova in Africa; incorre in una serie di avventure sia tragiche sia buffe; raggiunge fortunosamente l’America e si arruola nel servizio immigrazione e nell’industria automobilistica; ritrova Lola, si fa prestare fraudolentemente del denaro e torna in Francia; apre uno studio medico in provincia, dove conoscerà una realtà macabra. Bardamu, dopo un tortuoso ma vitale percorso, iniziato nel buco nero della guerra sbocca al fondo, nel buco ancora più oscuro della morte. La narrazione, incalzante è ricca di esercizi fonici, di slittamenti semantici, di paratassi, di puntini che non assumono soltanto il significato della sospensione. Quelli che seguono sono delle citazioni (tratte dalle edizione dall’Oglio del 1962) scelte perché esprimono più da vicino impressioni o concetti medici molto influenti nell’opera complessiva:


– « I malati non mancavano, ma non c’erano molti che potessero o volessero pagare. La medicina è una cosa ingrata. Quando ci si fa pagare dai ricchi s’ha l’aria d’essere un domestico, e dai poveri ci si diventa un ladro. ‘Onorari’! Quella è una parola! Non ne hanno già abbastanza per mangiare o per andare al cine, i malati, e volete ancora cavarci dei baiocchi per pagare gli ‘onorari’? Soprattutto proprio nel momento che tiran le cuoia. Non è comodo. Si lascia perdere. Si diventa cortesi. E s’è fottuti. » [pag. 277]

– « I miei clienti invece erano degli egoisti, dei poveri, dei materialisti concentrati nei loro progettacci di pensione, ottenuta con lo sputo sanguigno e positivo. Il resto era loro indifferente, persino le stagioni erano loro indifferenti. In fatto di stagioni sentivano e volevano conoscere solo quella che aveva un rapporto con la tosse e la malattia. » [pag. 348]


Numerose sono poi, sempre nel Viaggio, le sentenze riguardanti l’esperienza alla Ford di Detroit che assumono un significato sostanzialmente diverso da come gli stessi argomenti vengono trattati negli scritti più propriamente igienici e in quelli che qualcuno, forse arditamente, chiama di medicina del lavoro. Nell’opera letteraria il lavoro standardizzato, quello osservato e descritto alla Ford di Detroit, viene condannato, se ne rilevano gli eccessi e gli effetti perversi intollerabili, la disumanità che disumanizza, la passività e la subalternità in cui cadono e sono tenuti gli operai. In questo contesto sono inserite espressioni forti di condanna del taylorismo: «Il girone infernale del lavoro», «rimbambimento industriale» («gâtisme industriel»), «Atrocità materiale della fabbrica» e ciò anni prima che altri autori, da Sinclair a Chaplin, descrivessero o rappresentassero le stesse condizioni. Ecco alcuni esempi:


 – « Quel che ci trovavano di buono da Ford, m’ha spiegato un vecchio russo in via di confidenze, è che si accettava qualunque persona e qualunque cosa ‘Solo, stai attento – m’ha aggiunto perché mi sapessi regolare – non bisogna far grane da lui, ché se pianti grane ti scaraventano alla porta in quattr’e quattr’otto, e sarai in quattr’e quattr’otto sostituito da una delle macchine meccaniche che hanno sempre a portata di mano e allora non ci hai più mezzo di rientrarci!’ » [pag. 235]

– « Non vi serviranno a nulla i vostri studi qui, ragazzo mio! Voi non siete venuto qui per pensare, ma per fare i gesti che vi si comanderà d’eseguire … Non abbiamo bisogno di immaginativi nell’officina. L’è di scimpanzè che abbiamo bisogno. Un consiglio ancora. Non parlate mai più della vostra intelligenza! Ci saranno altri che penseranno per voi! Tenetevelo per detto. » [pag. 236]

– « Tutto tremava nell’immenso edificio e anche noi dai piedi alle orecchie possedute da quel tremore, le scosse venivano da vetri e dal pavimento e dalla ferraglia, vibrate dall’alto in basso. Si diventava macchine per forza e con tutta la propria carne ancor tremante in quel rumore di rabbia enorme che prendeva il di dentro e il giro della testa e più e più in basso agitava le trippe e risaliva agli occhi in leggeri colpi precipitati, infiniti, continui. A misura che s’avanzava, perdevamo dei compagni. Si faceva loro un sorrisetto lasciandoli come se tutto quel che succedeva fosse pura cortesia. Non si poteva più né parlare né sentire. Ne rimanevamo ogni volta tre o quattro intorno a una macchina. » [p. 236-237]



La tesi di laurea in medicina di Destouches
La tesi di laurea in medicina inizia con un colpo di fulmine, uno stratagemma storico-narrativo rappresentato dal clamore della rivoluzione, «Mirabeau gridava così forte che Versailles ebbe paura»; l’Europa partorisce con dolore una nuova era, febbrile e solo dopo anni si instaura una epoca di “convalescenza”; è in questa contesto che nasce Semmelweis. La conclusione è piuttosto lirica, ma centrata su di una inconfutabile verità storica:


« Fu un grandissimo cuore e un grande genio medico. Egli rimane, senza alcun dubbio, il precursore clinico dell’antisepsi, perché i metodi da lui preconizzati per evitare la febbre puerperale sono ancora, e sempre saranno d’attualità. La sua opera è eterna. Tuttavia nella sua epoca, venne assolutamente misconosciuta. … sembra che la sua scoperta superasse le forze del suo genio. E questo fu forse la causa profonda di tutte le sue sventure. »
[Il dottor Semmelweis, Adelphi 1975, p. 102-103]



Come scrive Guido Ceronetti nella sua acrobatica e scoppiettante postfazione, Céline evoca «la religione laica dell’affamato d’anima che cercava qualcuno da adorare, il santo, il profeta, l’eroe» [pag. 111] e dimostra ampiamente che si tratta di «una squisita agiografia laica, che racconta un solo miracolo e dopo poco pagine precipita il suo santo nel martirio finale» [pag. 112]. È una storia romanzata di grande impatto condotta dall’autore con licenze letterarie poco apprezzate da storici della medicina accademici. Sherwin B. Nuland (Il morbo dei dottori. La strana storia di Ignàc Semmelweis, Codice Edizioni, Torino 2004) nella sua bibliografia la liquida con due parole: «alquanto confusa» (pag. 145). Altri autori si sono impegnati, ma senza ledere minimamente il valore intrinseco e comunicativo dell’opera, a elencare numerosi errori od omissioni riguardanti date, nomi, percentuali di ammalate e di morti; in particolare vengono contestati alcuni aspetti della persecuzione del medico ungherese e più di tutti il finale truculento, quello della autoinoculazione e del suicidio […].


Finale di partita che merita di essere letto:

«C’era un cadavere, sul marmo, al centro, per una dimostrazione, Semmelweis, impadronitosi di uno scalpello, si apre un varco fra gli allievi, rovesciando varie sedie, si accosta al marmo, e, prima che si riesca a impedirglielo, incide la pelle del cadavere, taglia nei tessuti putridi, abbandonato ai suoi impulsi, strappando lacerti di muscoli che poi scaglia lontano. Accompagna le sue mosse con esclamazioni e frasi sconnesse … fruga con le dita e con la lama al tempo stesso in una cavità cadaverica gocciolante di umori. Con un gesto più brusco degli altri si taglia in profondità. La ferita sanguina. Grida. Minaccia. Viene disarmato. Circondato. Ma è troppo tardi … si è infettato mortalmente. » [pag. 98]


I testi “igienici” e di “medicina sociale” di Destouches-Céline
Una raccolta degli scritti medici di Céline è stata pubblicata per la prima volta da Gallimard nel 1977 (Semmelweis et autres écrits médicaux, a cura di J-P. Dauphin e H. Godard, Cahier Céline 3) Si tratta di tutti quelli conosciuti, adeccezione di uno (La santé publique en France, Monde, n. 92, 8 mars 1930, 35-36). Solo una parte di questi testi sono tradotti in italiano in un volume dal titolo di fantasia (I Sotto uomini, Testi sociali, a cura di Giuseppe Leuzzi, Shakespeare and Co., 1993) e cioè:
Nota sull’organizzazione sanitaria degli stabilimenti Ford a Detroit, del 1925);
Nota sul servizio sanitario della Compagnia Westinghouse a Pittsburgh, del 1925;
Per abbattere la disoccupazione abbatteranno i disoccupati? (Le Mois, 1 février 1933, 57-60);
La medicina alla Ford (Lectures 40, n°4, 1 août 1941 et n. 5, 15 août 1941);
Le assicurazioni sociali e una politica economica della salute pubblica (La Presse Medicale, n. 94, 24 novembre 1928, 1499-1501).


Nella raccolta italiana compaiono anche due brevi scritti assenti nella raccolta francese, Luisiana I e Luisiana II del 1925, relazioni dattiloscritte come le altre dello stesso anno scritte da Céline in occasione del suo viaggio per conto della Società delle nazioni e conservate nell’archivio storico dell’Organizzazione mondiale della sanità di Ginevra. Sono disponibili dunque solo in francese gli altri testi:
A propos du service sanitaire des usines Ford à Detroit, Bulletins et Mémoires de la Société de medécine de Paris, n. 10, 26 mai 1928, 303-312;
Essai de diagnostic et de thérapeutique méthodiques ‘en série’ sur certains malades d’un dispensaire, Bulletins et mémoires de la Société de medécine de Paris, n. 6, 22 mars 1930, 163-168;
Mémoire pour le cours des hautes etudes, 1932 (inedito sino al 1977).


Si tratta complessivamente di un corpus che èstato studiato a fondo da più autori francesi negli ultimi anni e ultimamente con una monografia da David Labreure (Louis Ferdinand Céline, une pensée médicale, Editions Publibook, 2009). Dettagliata è anche l’analisi fatta in precedenza da Philippe Roussin (Destouches avant Céline: le taylorisme et le sort de l’utopie hygiéniste. Une lecture des écrits médicaux des années vingt, Sciences Sociales et Santé, 1988, 3-4, 5-48).


La lettura degli scritti “medici” di Céline più o meno influenzata dagli scritti specialistici riportati sopra porta a fare alcune considerazioni essenziali.
Si tratta nella quasi totalità di quella che alcuni chiamano “letteratura grigia”, d’occasione (come le relazioni prodotte in occasione del viaggio negli stati Uniti del 1925), in alcuni casi rielaborata in anni successivi; oppure si tratta dei testi di interventi svolti in riunioni di società scientifiche e sono frutto della propria esperienza professionale che, in qualche caso, offre il destro alla formulazione di una teoria generale.
Un nucleo preponderante di questi scritti fa riferimento al lavoro e si capisce che l’autore è stato profondamente colpito dalla novità e dall’importanza di ciò che verrà inteso come fordismo. Si dimostra convinto della ineluttabilità del lavoro come condizione di guerra permanente, della fabbrica come campo di battaglia, dei lavoratori come soldati prima votati al sacrificio e poi reduci invalidi. Ed ecco il rimedio a questo stato di cose: l’igiene non può che divenire «una medicina militare» capace di gestire gli invalidi, di mantenerli nei luoghi di lavoro sfruttando ancora delle capacità residue che si deve materializzare proprio nella organizzazione produttiva inaugurata da Ford. Viene prefigurato un «capitalismo organizzatore» che eroga, a partire dalle grandi fabbriche, una «medicina razionalizzata, preventiva, collettiva». I malati cronici, gli invalidi, i reduci di ogni tipo di guerra dovranno essere inseriti o rimanere nella produzione con una speciale sorveglianza sanitaria dove i medici dell’azienda sono anche sociologi che si recano a casa dei lavoratori per curarli ed educarli: il medico, a differenza di come opera il paternalismo cattolico, deve saper riconoscere nella malattia la colpa individuando le condotte da correggere. Ne risulta un “igienismo industriale” improntato alla congruenza tra razionalizzazione della medicina e razionalizzazione del lavoro che riconduce alle aziende moderne, e non allo stato liberale, la possibilità di aver cura dello stato sanitario della popolazione. Applicando in pieno una tale ipotesi, secondo l’autore, si risolverebbe alle radici il problema delle assicurazioni sociali, il cui compito sarebbe svolto in tutto e per tutto dalle aziende. Viene così enunciata un’utopia igienistico-produttivistica, un controllo feroce della manodopera e il controllo sociale, gli stessi che hanno ispirato Metropolis, il film di Fritz Lang del 1927.

Il titolo dello scritto del 1933 Per abbattere la disoccupazione abbatteranno i disoccupati? è tanto accattivante quanto deludente risulta la lettura del testo. Dopo una visita in Germania Céline indaga le cause del «gran casino» in cui vive tale nazione e afferma che il problema è costituito «anzitutto e soprattutto» dalla massa sottoproletaria, definita come «la miseria tedesca» che sopravvive solo grazie all’assistenza statale; le ingenti risorse utilizzate per sfamare i disoccupati e le loro famiglie potrebbero infatti – a detta dello scrittore – risollevare il Paese dalla crisi economica se diversamente investite; per il futuro Céline auspica che «nella cerchia di Hitler si trovi il dittatore alla disoccupazione che organizzi infine questa miseria anarchica e la stabilizzi a un livello ragionevole».

Franco Carnevale

Fonte: E&P – Epidemiologia e prevenzione, rivista dell’associazione italiana di epidemiologia (2012)



Almanacco – Recensione del libro “Céline segreto” della vedova Lucette Céline


Enciclopedia Treccani online: Céline, Louis-Ferdinand