Apocalisse. Vivere la catastrofe, immaginare il futuro

Durante la fase più acuta dell’epidemia da Covid-19, gli studiosi dell’Istituto per la storia del pensiero filosofico (Ispf) del Consiglio Nazionale delle ricerche ha riunito nello Speciale “Pandemia. Osservatorio filosofico” una serie di contributi di natura umanistica sul tema. Qui il ricercatore Roberto Evangelista ripercorre l’approccio al tema della crisi nella storia.

Nel corso della sua storia l’umanità ha sempre attraversato crisi enormi. Ricostruire la memoria della civiltà umana vuol dire probabilmente ricostruire il filo delle soluzioni trovate, di volta in volta, per risolvere la possibilità della fine.

Una umanità senza strumenti, chiusa in mondi piccoli e spesso autosufficienti (ma meglio sarebbe dire, autistici) si scontrava facilmente con momenti critici. Difficile, per esempio, era immaginare che il grano falciato ricrescesse; difficile era immaginare la certezza di una discendenza; complicato era gestire la demografia. E se complessa poteva essere la tenuta dei costumi morali di una comunità, impossibile doveva sembrare gestire catastrofi naturali o sconosciute malattie. Non dobbiamo andare troppo lontano, per immaginare cosa può aver significato per le popolazioni precolombiane l’incontro con virus e batteri sconosciuti e portati dai conquistatori.

Spinoza, all’inizio del suo Trattato teologico-politico ci ricorda che se l’uomo potesse con certezza governare gli eventi e gli sconvolgimenti della natura, non sarebbe soggetto ad alcuna superstizione. Questo è vero, ma non significa che la razionalità e la conoscenza della natura sono gli unici strumenti che possono metterci in uno stato di sicurezza. Certo, conoscere la natura aiuta a prevenirne le insidie, ma nel frattempo che la nostra conoscenza aumenta e aumentando si scontra con nuovi e inimmaginabili dubbi, l’umanità ha dovuto, per non abbandonarsi al delirio della superstizione, trovare strategie di reazione che compensassero quella mancanza di conoscenza. Se a questo aggiungiamo, poi, che la conoscenza e il completo governo della natura non li raggiungeremo mai, ecco che evidentemente alcune strategie, diciamo superstiziose, continuano a mantenersi attive e a compensare la nostra conoscenza parziale delle cose.

L’umanità ha trovato una strada per reagire alle crisi: raccontarsi storie. Non bugie, proprio storie, miti, favole. Storie di riscatto, oppure di sconfitta, storie nelle quali si prefiguravano i problemi e le soluzioni di una crisi. Storie nelle quali potevano essere proposte le diverse possibilità, i diversi destini umani, per provarsi a scegliere, a immaginare e magari a costruire un futuro. A questi racconti venivano spesso accompagnate ritualità di diverso genere: rappresentazioni o feste collettive, che rendevano quel racconto operativo, ovvero funzionale a stringere la comunità e interiorizzare un certo tipo di messaggio.

La funzione più importante dei miti non veniva assolta dal contenuto della storia che veniva raccontata. La funzione più importante del mito era il racconto stesso, e la sua condivisione. Italo Calvino, nella sua introduzione a Fiabe italiane, ci ricorda che le fiabe sono vere, perché contengono tutto il catalogo dei destini umani e delle possibilità. Percorrere insieme questo catalogo, però, non voleva dire avere semplicemente una maggiore cognizione di quello che poteva accadere, e prepararsi al peggio. Non importa quanto le favole venissero credute vere, o quanto ci fosse di “materialmente” vero nel loro contenuto; ciò che importava, era rafforzare e confermare il legame sociale, perché questa era l’unica risposta che si poteva dare in assenza di altri mezzi. E non era una risposta banale, né semplice, né tantomeno inefficace. È probabilmente questo tipo di risorsa che in un certo momento ci ha garantito la sopravvivenza: la facoltà di immaginare un futuro anche nei momenti più difficili.

Reagire a una crisi che mette in discussione la nostra presenza come genere umano, ci ha permesso di costruire edifici culturali che hanno fondato le comunità e le società umane. E questo, probabilmente, fa la differenza tra la nostra specie e le altre.

Ma da un certo momento in poi, cambiano molte cose: entrano nuove abitudini, e altre vengono svuotate di significato. D’altra parte, La nascita della famiglia, della società civile e dello Stato di Engels ci ha già permesso di riflettere su quanto il passaggio da una società comunitaria a una società divisa in classi abbia reso l’edificio culturale uno strumento di dominazione: il passaggio da una società matriarcale e comunitaria, a una società patriarcale e suddivisa in dominanti e dominati ha imposto una strutturazione dello Stato, con regole ferree a garanzia delle quali venivano posti sacerdoti o magistrati che amministravano la giustizia divina e umana, funzionale soprattutto a mantenere uno status quo non del tutto naturale.

Rimanendo, però, più ancorati al nostro tempo, ritroviamo, nei lavori principali di Ernesto De Martino (al quale queste righe sono fortemente debitrici) una inoppugnabile ricostruzione della resistenza di istituti culturali propri del mondo popolare e contadino, e del loro essere rivelatori di una posizione di subalternità di chi si trovava ai margini del “miracolo economico”. A fondamento di questo riferimento, c’è l’introduzione di un modo diverso di produzione che ha sconvolto i rapporti sociali. La fine della civiltà feudale e l’alba del mondo borghese ha significato la possibilità di una produzione su larga scala di beni essenziali che precedentemente venivano reperiti e fabbricati con molta difficoltà, e ha anche permesso la liberazione da alcune forme culturali che erano diventate una pesante zavorra, non solo per il nostro spirito.

La diversa organizzazione del lavoro produttivo ha significato un avanzamento scientifico, e questo ci ha permesso di prendere in considerazione l’ipotesi che le forze numinose che guidavano l’umanità produttrice di miti non ci avrebbero più salvato, perché questa incombenza spettava a noi (bisogna riconoscere, senza poter approfondire, che anche il cristianesimo ha avuto un ruolo in questo passaggio). La natura è diventata a mano a mano governabile, e allo stesso tempo gli dei e gli eroi dei miti sono caduti, si sono rivelati per essere solo proiezioni dell’essere umano. Si è avanzata la sottile percezione (non sempre, anzi quasi mai seguita da un atteggiamento coerente) che il peso del nostro destino fosse solo sulle nostre spalle. Ma questa consapevolezza, invece di arricchirci, ci ha in qualche modo impoverito. La distruzione delle vecchie certezze non ci ha permesso di crearne di nuove, e ci siamo trovati di fronte a due vicoli ciechi: ripercorrere le vecchie strade, oppure affidarci a una scienza anonima e senza volto.

Ma la scienza, da sola, non basta. Certo, la nostra vita è migliorata sotto molti aspetti. Ma questo miglioramento nella maggior parte dei casi è solo potenziale. L’uso che facciamo della scienza e della nostra capacità di governare gli eventi è del tutto sottostimato, tanto più che l’accesso al benessere che molte conquiste scientifiche rappresenterebbero è ben lontano dall’essere comune e condiviso. Questa “preclusione al progresso” ci getta in una condizione di miseria culturale, nella quale abbiamo abbandonato il vecchio modo di descrivere la realtà e di risolvere i conflitti comuni, ma non ne abbiamo trovato uno altrettanto efficace, o adeguato alle sfide che sono diventate probabilmente più complesse.

Lo capiamo meglio, se guardiamo a come abbiamo reagito alla pandemia da Coronavirus. Bisogna, per descrivere la nostra reazione, guardare alle immagini giuste. L’eccezionalità dell’evento che in poco tempo ci ha fatto precipitare in una condizione impensabile, ha prodotto un sovraccarico di significazione, per cui qualsiasi episodio, passaggio, parola, ha assunto o sembra assumere il valore di un simbolo. Proverò a fare una selezione di alcune immagini che ho trovato particolarmente significative.

La prima: gli scaffali dei supermercati pieni, a dispetto dei primi “assalti” alle provviste. La merce non manca, anzi per ora (tranne le mascherine e i disinfettanti per le mani) non sono spariti dal mercato i beni di prima necessità. Il problema, ma questa è storia vecchia, è che di merce ce n’è troppa rispetto a quella che si consuma, tanto che ogni giorno assistiamo alla distruzione di merci invendute. La nostra apocalisse si rappresenta così: l’impossibilità di consumare, o almeno di farlo ai ritmi precedenti. Il mercato online non ci soddisfa allo stesso modo, ma soprattutto abbiamo imparato a consumare in casa, in solitudine, togliendo alla valorizzazione della merce l’ultimo aspetto umano. La seconda: i senzatetto di Las Vegas, “parcheggiati” (letteralmente) negli spazi destinati ad automobili che invece si trovano al sicuro e al riparo dentro un garage. La terza (più che un’immagine, un racconto): una minuta domestica di Rio de Janeiro, che affronta un lungo viaggio per raggiungere il suo posto di lavoro. La famiglia presso la quale presta servizio, vuole che riprenda subito a lavorare nonostante loro siano tornati da un viaggio in Italia proprio nei giorni in cui sono emersi i primi casi di infezione da coronavirus. I suoi datori di lavoro hanno contratto il covid ma – potendo accedere a cure migliori – guariranno facilmente; la domestica, invece, ne morirà. La quarta: una donna ucraina che, per affermare la sua esistenza, inizia a urlare e si stende in strada. Abita a Napoli in zona “Fontanelle”, un quartiere molto popolare del centro storico, e da qualche giorno il marito lamenta i sintomi di una infezione da covid e aspetta invano che qualcuno venga a dare assistenza e a somministrare il tampone per determinare la positività al coronavirus. Questa immagine la trovo particolarmente significativa, perché ricorda le reazioni scomposte di fronte alle quali si trova Ernesto De Martino nei suoi viaggi nel meridione italiano, quando vede un mondo popolare letteralmente prigioniero di forme culturali del tutto fuori tempo, che provengono da un passato preindustriale, ma che non servono più a risolvere le crisi ricorrenti (lutti, magri raccolti, espropri e pignoramenti, epidemie di malaria etc.) di un mondo che evidentemente non aveva accesso ai “normali” standard di benessere. La ritualità arcaica che De Martino trova nelle comunità lucane e salentine, nella maggior parte dei casi, è priva di veri e propri riferimenti culturali e, più che una soluzione adottata da una comunità per ristabilire un legame sociale, assomiglia a un delirio privato o collettivo che riflette un disagio destinato a rimanere inespresso, perché si ritrova svuotata dei miti che ne accompagnano la ritualità.

Oggi, di fronte alla crisi, abbiamo pochi strumenti di riscatto, perché anche quelli della scienza risultano molto inefficaci. Se da una parte, non abbiamo strumenti culturali potenti (anche la religione in questo frangente sembra essere arretrata a uno strumento privato, e non ha invaso la sfera civile, come invece avvenuto in altri momenti storici), se siamo disposti a considerare più che plausibile l’inesistenza di forze divine a cui appellarci, se la scienza si è spesso sostituita al mito – assumendone alcune funzioni narrative, certamente -, dall’altra non siamo stati in grado di compensare questa “perdita”.

La realtà è che siamo arrivati a questa emergenza privi degli strumenti adeguati per risolverla, e questo basta a gettarci in una condizione di miseria culturale. Un terremoto, a prescindere dalla sua violenza, fa più danni se trova un territorio preparato alla catastrofe. Allo stesso modo, un virus che non ha una impressionante letalità, diventa una catastrofe generalizzata, perché trova una comunità che ha messo in secondo piano la solidarietà, l’investimento a fondo perduto nei servizi sanitari, e che ha creato tutte le condizioni materiali per soccombere a una disgrazia che di per sé non sarebbe stata catastrofica. Ma oltre a questo, l’avanzamento del progresso scientifico non si è accompagnato a una riorganizzazione dei rapporti sociali in senso stretto, anzi al contrario: è prevalsa l’illusione che l’automazione e il progresso potessero permettere a ciascuno “di fare da sé”. Abbiamo accettato (ma non poteva essere diversamente) di trasportare nella nostra vita quotidiana la condizione di individui assoluti, sciolti da ogni vincolo morale e sentimentale, che la civiltà borghese ha contribuito a spazzare via. Lo abbiamo accettato come società, ma questo non significa che lo abbiamo accettato tutti allo stesso modo (tentativi di controtendenza esistono, ma su questo diremo nelle conclusioni). Perdere il nostro legame sociale ha avuto un ruolo importante nel farci accettare le misure di confinamento come un provvedimento inevitabile (queste misure non nascono come necessarie, lo diventano sulla base di una situazione pregressa). Inoltre, lo sfilacciamento del legame sociale è la causa della nostra insicurezza ed è anche la ragione per la quale ci limitiamo ad affidarci a dati di dubbio valore: le curve epidemiche, i numeri dei morti, i guariti e i nuovi contagi, ci accompagnano ogni giorno e ci illudono di descrivere la realtà in maniera impeccabile, offrendoci la percezione di poter predire il futuro, un futuro che deve apparire vicino, e nel quale tutto tornerà come prima. Un futuro, insomma, davvero troppo vicino al nostro presente.

Ma pur senza gli antichi miti, pur senza l’antica ritualità, anche la nostra epoca si figura la sua fine, e lo fa in un modo del tutto peculiare: l’incapacità di consumare, la rinuncia alla qualità della vita sociale cui eravamo abituati, la fine della scuola, l’impossibilità di avere un sistema di cura sanitaria adeguato, il confinamento nelle case e la possibilità di uscire solo per lavorare e per produrre valore, sono gli spiragli attraverso cui guardiamo il collasso della nostra società. Possiamo benissimo immaginare di muoverci verso un mondo nel quale la didattica a distanza diventerà una normalità, nel quale il diritto all’apprendimento verrà negato a grosse fette di popolazione, nel quale saremo sempre più isolati nelle nostre abitazioni, e chi avrà il “privilegio” di uscire lo farà solo per andare in fabbrica; una versione grigia e oscura del capitalismo che assomiglia all’altra faccia della medaglia di cui abbiamo spesso parlato durante la nostra frenetica vita sociale; una versione “oscura” – oppure, chissà, quella più chiara e reale – del capitalismo che spesso si è affacciata ai nostri occhi di consumatori appassionati, ma che adesso sembra incombere sulla nostra testa come annuncio di un futuro probabile.  

Questo scenario appare tanto più possibile, se ricordiamo, insieme a Marx, che il capitale ha un lato anarchico con cui disperde la sua mania di controllo e permette alle necessità e alle aspirazioni degli individui di svilupparsi, sebbene le lasci insoddisfatte. Infatti, se è capace di “produrre” tempo libero rendendo più alta la produttività del lavoro, deve lasciare che sia la classe dei proprietari a fruire di questa nuova libertà, a scapito di un’altra che invece assiste alla trasformazione del suo tempo di vita in tempo di lavoro[1].Si materializza un’apocalisse che non è la fine della nostra civiltà, ma ne è la fase suprema, la sua “iperrealizzazione”. Non sappiamo se questo avverrà per certo, ma lo vediamo e, anzi, l’impressione è che stiamo rimanendo fermi a contemplarlo. Non riusciamo a pensare un’alternativa, nemmeno come epilogo della nostra civiltà.

È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, scriveva Mark Fisher dieci anni fa. L’impossibilità di immaginare una fine a questo stato di cose, a rapporti sociali e produttivi così congeniati, è la vera e propria cifra ideologica della nostra epoca. Infine, il mito non è morto, e anche la nostra civiltà, anche il capitalismo, ha la sua mitologia, che non interpella nessun dio, ma descrive la perpetuazione di se stesso, il suo continuo perfezionamento, fino a sconvolgere gli stessi equilibri naturali pur di uscirne vittorioso, anche a scapito della stessa vita umana. Abbiamo decretato la morte delle ideologie, e con essa ci siamo condannati a una eterna ripetizione della nostra epoca. Nella visione dell’apocalisse che stiamo vivendo in questi giorni, non arriverà nessuno a salvarci, ma vivremo solo l’esasperazione delle contraddizioni di uno stato di cose che consciamente o inconsciamente ci siamo abituati a pensare come eterno o inevitabile. Il futuro che immaginiamo è davvero troppo vicino al nostro presente, non solo perché la logica dell’utilità impone di non andare troppo avanti nel tempo con l’immaginazione, ma anche perché difettiamo di quella fantasia che ci permettere di dipingere un affresco dei nostri possibili destini.

Naturalmente, questa percezione delle cose potrebbe risolversi in una di quelle “profezie autoavveranti”: con il nostro atteggiamento potremmo, cioè, favorire la trasformazione delle nostre vite in una certa direzione. Ma non possiamo ancora dire cosa succederà. Per fortuna.

La speculazione e la filosofia non ci aiutano a predire il futuro. E nemmeno i modelli matematici (casomai, le loro interpretazioni). Tuttavia capiamo facilmente che mai come adesso non possiamo rifugiarci nel There is no alternative, non possiamo adagiarci all’idea che tutto sarà come prima. Dobbiamo raccontarci una storia diversa. Abbiamo specificato, qualche riga sopra, che non tutti hanno accettato di allentare, di perdere una certa connessione sociale. Spesso le nostre scelte confliggono e resistono a un messaggio dominante che pure ci condiziona, ma che riusciamo a non accettare del tutto. Se così non fosse, non saremmo affezionati alla nostra sopravvivenza, non saremmo in grado di partecipare a iniziative e di mettere in campo azioni collettive che vanno in una direzione diversa.

Non dovrà tornare tutto come prima. Chiedere una sanità pubblica ed efficiente, pretendere anche in una condizione di questo tipo che i parchi restino aperti e che le fabbriche rimangano chiuse senza deroghe, spostare la centralità della nostra vita dal lavoro agli affetti, costruire reti di assistenza territoriali e pretenderne la regolarizzazione, relazionarsi agli altri Paesi in termini di comune e mutua solidarietà, e non in competizione (Cuba e Venezuela hanno mandato squadre di medici in Europa, mentre le nazioni occidentali cercavano di rastrellare le ultime scorte di mascherine rimaste sul mercato[2]), costruire una scuola che potenzi la sua funzione primaria, ovvero garantire il diritto all’apprendimento attraverso il contatto umano e attraverso l’educazione alle relazioni, sembrano cose piccole rispetto alle storie epiche di dei ed eroi; sono queste, però, le immagini reali e umane che prefigurano un futuro diverso, nel quale non saranno solo i ricchi a salvarsi, ma saremo ancora costretti a salvarci tutti insieme, nel quale la vita possa scorrere serena anche di fronte alle difficoltà, per come può farlo una vita a misura di un essere limitato e parziale come l’uomo, che nonostante tutto ancora non merita l’estinzione.

Roberto Evangelista, Cnr-Ispf

[1] «Date l’intensità e la forza produttiva del lavoro la parte della giornata lavorativa sociale necessaria per la produzione materiale sarà tanto più breve, e la parte di tempo conquistata alla libera attività culturale e sociale degli individui sarà tanto maggiore, quanto più il lavoro sarà distribuito proporzionalmente tra tutti i membri della società capaci di lavorare e quanto meno uno strato della società potrà allontanare da sé la necessità di natura del lavoro e addossarla ad un altro strato. Il limite assoluto della riduzione della giornata lavorativa è sotto questo aspetto l’obbligo generale del lavoro. Nella società capitalistica si produce tempo libero per una classe trasformando in tempo di lavoro l’intera vita delle masse». K. Marx, Il Capitale, Roma, 1970, libro I, sezione V, capitolo XV.

[2] Non sono state le uniche iniziative internazionali di solidarietà, ma sono state quelle più importanti e significative, soprattutto considerando la campagna diffamatoria che colpisce questi Paesi.

Il contributo sulle pagine “Pan/démia Osservatorio Filosofico” del Cnr-Ispf

La Tv, da “Malattie imbarazzanti” a “Ballando con le stelle”

La televisione offre spesso un atteggiamento contraddittorio nell’affrontare il rapporto tra normodotati e disabili: lo analizza un capitolo del saggio “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo.”

Anche la televisione è un medium contrassegnato da un atteggiamento ambiguo, che riflette quello del rapporto tra “normodotati” e disabilità. Prendiamo il docu-reality Malattie imbarazzanti: il format inglese in cui un’equipe di medici cerca di aiutare persone con patologie rare, si basa su scene di vita reale o riprese in modo da apparire tali.

I medici raccolgono anche le opinioni della popolazione, facendone emergere la disinformazione, la paura, il pregiudizio. Il successo del programma, vincitore di due premi BAFTA (British Academy of Film and Television Arts), ha portato alla produzione di spin-off come Embarrassing Fat Bodies e Embarrassing Teenage Bodies.

Lo Show dei record è andato in onda dal 2006 su Canale 5 e TV8, salvo interruzione della nuova edizione per via della pandemia. Nel programma dedicato ai più famosi primati censiti nel “Guinness dei primati”, pubblicato dal 1955 e tradotto in venti lingue, hanno trovato spazio made freak come Charlotte Guttenberg, che con il 91,5% del corpo coperto è la donna anziana più tatuata al mondo, e Lizardman (l’uomo lucertola), al secolo Erik Sprague: per ottenere l’aspetto che lo contraddistingue si è sottoposto a circa 700 ore di sedute di tatuaggi, a cui vanno aggiunti i corni in teflon, le modifiche ai denti e l’operazione per rendere la lingua biforcuta come quella dei rettili. Lo stesso Sprague scrive: “Ho deciso di fare della mia diversità un mestiere. Ho lavorato molto per diventare un’attrazione speciale. Mi sentivo un freak anche quando indossavo abiti normali ma prima di trasformarmi la gente non poteva sapere che ero così speciale, adesso basta un’occhiata per capire che sono una persona unica. Quando la gente dal panettiere vede l’uomo lucertola mi piace pensare che questo li scuota dalla monotonia, questo piccolo
tocco di surreale può scuoterli un attimo, restituire loro quel senso di stupore simile a quello che si prova da bambini”.

Come afferma Dick Zigun, fondatore e direttore artistico del Coney Island Circus Sideshow, la spettacolarizzazione della diversità oggi spesso risponde all’esigenza di rimarcare la propria unicità: «Sono le persone che desiderano sentirsi diverse, visibilmente diverse da tutte le altre. In questa società che tende all’omologazione, essere finalmente unici è un obiettivo».

In alcuni casi sono le stesse persone con disabilità reali a voler stupire grazie ai propri record. L’italo-albanese Haki Doku, 49enne paraplegico, ha iscritto il suo nome nel libro in due categorie: il percorso
più lungo compiuto spingendosi su una carrozzina per dodici ore consecutive e il maggior numero di gradini effettuati in discesa in un’ora.

Il programma forse più significativo è però Ballando con le stelle, condotto su Rai Uno da Milly Carlucci e Paolo Belli, importato dal format Strictly Dancing andato in onda per la prima volta su BBC One, in Gran
Bretagna.

Dopo le prime edizioni, gli autori hanno deciso di introdurre nel cast persone con disabilità. La prima è Giusy Versace nel 2014, seguita da Nicole Orlando nel 2016, Oney Tapia nel 2017 e l’ex modella sfigurata con l’acido Gessica Notaro nel 2018. Questa scelta è adottata anche in altri Paesi: nel 2008, all’omonimo programma Usa Dancing with the Stars, ha concorso l’attrice sordomuta premio Oscar Marlee Matlin e, nel 2014, Amy Purdy, una snowboarder paralimpica con protesi in titanio. Due anni dopo, vince la 22° edizione Nyle Di Marco, modello e attore sordo. Nel 2020 al Norwegian Dancing With the Stars ha partecipato per la prima volta una concorrente in carrozzina: Birgit Skarstein, campionessa paralimpica di canottaggio e scii. L’originale inglese ha ospitato nel 2017 Jonnie Peacock, corridore amputato che aveva strappato a Pistorius l’oro nei 100 metri alle Paralimpiadi di Londra, e Lauren Steadman, nata con il braccio destro incompleto e vincitrice di una medaglia d’argento nel paratriathlon a Rio.

In Italia, la trasmissione ha acceso i riflettori anche su altre diversità e fragilità, come l’obesità di Platinette, concorrente nel 2016, e il tumore della presidente di giuria Carolyn Smith: nel momento in cui si è tolta il turbante mostrandosi senza capelli, l’ovazione del pubblico è stata inevitabile. In totale, tra concorrenti, giurati e ospiti, dal 2012 al 2019 almeno una dozzina di personaggi con disabilità di generi diversi sono apparsi in trasmissione.

Alcuni giudizi sono positivi senza riserve. Secondo una recensione de “La Stampa”, Ballando con le Stelle sta dimostrando la capacità di affrontare tematiche scottanti riguardo la malattia, la disabilità ed i problemi sociali;

[…] Dopo la fantastica Giusy Versace, che ha vinto l’edizione 2014, quest’anno tra i partecipanti c’è anche l’atleta paralimpica Nicole Orlando e con lei la condizione della sindrome di Down è diventata finalmente visibile in modo positivo e vitale, come ci aspettavamo. Nella giuria, invece, la bella e sensibile Carolyn Smith è presente senza nascondere di essere alle prese con la chemioterapia. La simpatica Platinette, a suo modo, ha fatto sentire meno sole le persone insovrap peso parlando della sua operazione gastrica e degli sforzi per seguire un’alimentazione sana. Insomma, mi verrebbe da dire in maniera un po’ infantile ed entusiastica “Viva Ballando con le Stelle!”, sperando che l’impegno nei confronti della disabilità e dell’inclusione sociale venga seguito anche da altre trasmissioni televisive.

Altre valutazioni sono ovviamente più perplesse. Come abbiamo già detto, è difficile mettere sulla bilancia vantaggi e svantaggi di simili scelte mediatiche, ma certamente il dibattito in merito è preferibile alla disattenzione verso le disabilità, che in passato connotava spesso il mainstream. Certo è doveroso riflettere sulla qualità dei messaggi, puntare a una comunicazione che non sia meramente inclusiva, ma anche innovativa. E comunque l’enfasi della competizione può legittimamente essere giudicata eccessiva, ma rende il protagonista disabile soggetto alla stessa dinamica competitiva degli altri personaggi.

Il discorso potrebbe poi essere allargato ad altre competizioni nelle quali l’assegnazione della vittoria sembra condizionata dalla “diversità”, più che dai meriti. La scozzese Susan Magdalane Boyle, che conquista il secondo posto e raggiunge la fama internazionale nella trasmissione Britain’s Got Talent, ha difficoltà di apprendimento e di socializzazione dovute a un’asfissia neonatale. In Italia, il balbuziente Edson D’Alessandro vince Tu sì que vales. Il transgender austriaco Thomas Neuwirth, conosciuto con lo pseudonimo di Conchita Wurst, conquista l’Eurovision 2014sul cui palco si presenta come “donna barbuta”.

Sentenze “politicamente corrette”? Diversità sfruttate come investimento in termini di audience e
risonanza mediatica, anziché come costo sociale, quali sono generalmente considerate?

Quesiti evidentemente irrisolvibili.

[…]


Anche al Festival di Sanremo, vetrina mediatica senza pari nel mercato musicale e di costume italiano, i numeri non mancano. Negli ultimi 10anni c’è stato sempre almeno un concorrente o un ospite con disabilità,da Simona Atzori a Bocelli e Bosso. Di fronte alla continuità dell’innovazione impressa dai media, polemiche ed eventuali errori possono essere tutto sommato accettati.

Durante l’edizione 2021 è stato invitato a Sanremo Donato Grande, campione di powerchair football (calcio su sedia a rotelle) assieme a Zlatan Ibrahimovic. Claudio Arrigoni si è sul “Corriere della sera” ha acceso un dibattito attorno al diverso trattamento riservato dal conduttore Amadeus ai due sportivi:
Chiariamo: è stato importante che quell’intervento ci sia stato e Donato fosse presente. Una grande occasione per mostrare che lo sport può essere praticato in qualunque condizione. […] L’analisi però non deve e non può fermarsi qui. Perché non è accettabile che un professionista della comunicazione come Amadeus utilizzi ancora termini come “portatore di handicap” o espressioni come “soffre di disabilità” davanti a milioni di persone. O che legga quattro frasi su non parcheggiare senza permesso sui posteggi
dedicati a chi ha una disabilità, usando quella distanza fra “noi” e “loro”, i “fortunati” che non ne hanno bisogno e i “poverini” che li devono usare. È apparso, ma questa è magari solo un’impressione, che Ibra fosse il campione e Grande un suo tifoso, mentre su quel palco i campioni erano due e sarebbe stato bello far percepire meglio questo aspetto.

Dalla 70esima edizione la kermesse canora ha però impresso davvero una svolta inclusiva. Come accennato prima, per la prima volta le cinque le serate sono state interamente trasmesse in Lis su un canale dedicato di RaiPlay e tutti i brani sono stati interpretati in Lis da 15 performer selezionati da Rai Casting. Per le persone cieche e ipovedenti è stata messa adisposizione un’audio-descrizione. L’impegno della Rai per il progetto “Virtual Lis”, che permette la generazione di contenuti nella lingua dei segni mediante la computer grafica, è stato riconosciuto con la vittoria alla quarta edizione del Diversity Brand Summit. Oltre ai movimenti delle dita e delle mani, è stata posta grande attenzione anche alle espressioni
facciali, elemento fondamentale poiché conferiscono espressività alla comunicazione. Partendo dagli studi sulle soglie di wpm (words per minute) associate a livelli di comprensibilità diversi, è stata invece ideata Stretch Tv, una soluzione tecnologica che consente di rallentare i programmi televisivi per migliorarne la comprensione da parte di persone disabili e anziane. Un lavoro che così spiega il responsabile Campagne sociali Rai, Roberto Natale: “Il servizio pubblico esiste per fare coesione sociale […] e la Rai può davvero provare a incidere sulla mentalità corrente. Come è accaduto con le Paralimpiadi, alle cui ultime edizioni ha dedicato la stessa attenzione qualitativa e quantitativa che ha riservato alle Olimpiadi. Perfino i telecronisti
erano gli stessi. Sono occasioni in cui tocchi con mano quanto la tv generalista possa cambiare nel profondo il senso comune di un Paese. Per non dire della forza emotiva della fiction che, con le sue invenzioni narrative, può aiutare il pubblico a superare le proprie barriere culturali
“.

Marco Ferrazzoli, Francesca Gorini, Francesco Pieri, “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” (LuCe Edizioni 2019).

“Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” sul sito di LuCe Edizioni

Non c’è Oscar senza handicap

Il cinema ha svolto un ruolo essenziale nel rendere la disabilità visibile al grande pubblico. Spesso, tuttavia, lo ha fatto sfruttando gli stessi stereotipi che avrebbe dovuto sovvertire. Il tema è oggetto di un capitolo del volume “Il Superdisabile. Analisi di un stereotipo”.

Il cinema ha svolto un ruolo essenziale nel rendere la disabilità visibile al grande pubblico, ancorché spesso lo abbia fatto sfruttando gli stessi stereotipi che avrebbe dovuto sovvertire.

Freaks è in qualche modo l’opera che nel 1932 apre questa strada: ambientato nel mondo del circo, è interpretato da attori con disabilità reali, a partire dalla coppia di nani protagonista del film di Tod Browning. Hans è fidanzato con Frieda ma si invaghisce della trapezista Cleopatra che, d’accordo con l’“uomo forzuto” Ercole, tenta di ingannare e derubare lo spasimante. In realtà il nanismo non viene legato a una particolare connotazione morale nella pellicola, che diventa anzi l’occasione per mostrare come i mondi dei “normodotati” e delle persone disabili non siano così distanti, come entrambi provino sentimenti e compiano azioni simili, nel bene e nel male. Il film ha però un esito travagliato: la crudezza e il realismo provocano turbamenti e malori ad alcuni spettatori e la Metro Goldwyn Mayerche lo aveva prodott o, pensandolo come un horror di facile incasso, sottopone la pellicola a 26 minuti di tagli, eliminando tra l’altro la scena in cui Ercole viene evirato e il finale dove si esibisce cantando in falsetto. Il film è comunque rimasto un cult delle proiezioni underground e nei primi anni ‘60 è stato ripresentato al Festival di Venezia. Un’altra pellicola del1953 esplicitamente ispirata al circo Barnum, Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille, vince l’Oscar raccogliendo diversi altri riconoscimenti e nomination.

Il cinema del secondo dopoguerra racconta ovviamente anche la menomazione dovuta al conflitto, inserendosi nel filone cinematografico che narra storie di disabilità acquisite in cui i protagonisti sono principalmente di sesso maschile. Basti pensare a I migliori anni della nostra vita, vincitore nel 1947 di ben sette Oscar, in cui no degli attori, Harold Russel che interpreta il reduce Homer Parrish, è veramente privo di entrambe le mani.

Altro capolavoro sulle mutilazioni di guerra è Tornando a casa, diretto da Hal Ashby nel 1978 e interpretato da Jane Fonda e Jon Voight, entrambi premiati con l’Oscar, cui si aggiunge quello per la sceneggiatura. Nel 1989 è la volta di Nato il quattro luglio diretto da Oliver Stone, Oscar per la regia, il cui protagonista è un ex marine in carrozzina che da eroe di guerra si trasforma in militante pacifista. Pellicole in cui corrono in parallelo l’elemento psico-fisico, relativo all’identità mutata e mutilata del personaggio che deve rinunciare alla propria indipendenza e accettare la nuova condizione, e quello sociale, relativo dalla difficoltà del reduce di reinserirsi nel proprio ambiente di vita e nelle relazioni con gli altri.

Tra i moltissimi, un film spartiacque è poi Anna dei miracoli, del 1962, che racconta la sorprendente rieducazione della piccola Helen Keller, cieca e sordomuta dall’età di sei mesi, da parte dell’educatrice Annie Sullivan. Nel 1981 riceve ben otto candidature agli Academy Award The Elephant Man. La storia, che ha un tale successo da approdare anche a Broadway, con David Bowie nei panni del protagonista, ripercorre la vita di Joseph Merrick: nato con la sindrome di Proteo che comporta deformazioni sul corpo e in viso, al punto da andare in giro con un sacco in testa per non spaventare i passanti, mostra una tale sensibilità che la regina Vittoria apre un fondo per pagargli le cure.

Dal 1976, su 269 candidati e 44 vincitori all’Oscar come Miglior film dell’anno, rispettivamente 51 e 14 riguardano storie di disabilità. Ma se allarghiamo l’inquadratura ad altre patologie e categorie premiate le cifre sono ancora più significative. Basti pensare a Tom Hanks malato di AIDS in Philadelphia, migliore attore protagonista; Julianne Moore che racconta l’Alzheimer in Still Alice, migliore attrice protagonista; Al Pacino che conquista l’Academy Award solo all’ottava nomination per l’interpretazione del militare cieco in Scent of a Woman, remake dell’italiano Profumo di donna, dove a vestire la divisa era Vittorio Gassman.

Solo nel 2021 sono stati candidati tre film – The Father, Minari e Sound Of Metal – accomunati dalla disabilità del protagonista o di un personaggio principale. Secondo Rosalba Perrotta, docente di Sociologia presso l’Università di Catania, «l’handicap, al cinema, o diventa celebrazione della differenza, opponendosi agli stereotipi, oppure si fa tramite di una diversa coniugazione delle ideologie dominanti, consolidando i pregiudizi condivisi».

[…]

Il tema della patologia, della disabilità, della malattia, è stato affrontato sul grande schermo nei generi più vari: dal dramma di Million Dollar Baby alla ricostruzione storica de Il paziente inglese; dalle autobiografie,
come La teoria del tutto o Il discorso del re, che narrano rispettivamente le vite dello scienziato Stephen Hawking e del balbuziente re Giorgio VI, alla comicità di Perdiamoci di vista di Carlo Verdone, che con Asia Argento in sedia a rotelle vincerà un David di Donatello; dal premiatissimo horror Il silenzio degli innocenti alla fantascienza con La forma dell’acqua. In quest’ultimo genere la disabilità ha trovato ampio spazio: gli handicap dei supereroi spesso fanno da contrappasso ai loro poteri, come con la cecità
di Daredevil che in qualche modo richiama la figura di Tiresia, profeta e indovino della tragedia greca.

Caso davvero particolare è quello di Christopher Reeve, Superman degli anni ‘80 che, paralizzato dal collo in giù per una caduta da cavallo, ha recitato in carrozzina nel remake del thriller di Alfred Hitchcock La Finestra sul Cortile. Il titolo della sua autobiografia Still Me è un gioco di parole: still significa infatti sia “ancora” che “immobile”. Un altro film costruito sulla reale disabilità dell’interprete è Figli di un Dio minore con cui Marlee Matlin, sorda anche nella realtà, ha vinto la statuetta quale migliore protagonista.

Nella maggioranza dei casi, però, a coprire il ruolo del personaggio disabile viene chiamato un attore “normodotato”, modificandone l’aspetto con allenamenti e diete, oltre che con make up ed effetti speciali. Eddie Redmayne, per interpretare Stephen Hawking, ha perso circa 15 kg e incontrato decine di malati di SLA per osservarne i movimenti. Scelte che causano polemiche inevitabili, espresse dal motto Nothing about us without us: niente che ci riguardi senza di noi.

Katy Sullivan, attrice e campionessa paralimpica priva degli arti inferiori, dopo la scelta di Dwayne Johnson di interpretare il ruolo di un supereroe disabile in Skyscraper ha rivolto un appello alle star hollywoodiane: Sembra esserci una mancanza di sdegno sociale per gli attori normodotati che interpretano personaggi disabili. In effetti, sono spesso celebrati, dai Golden Globes agli Oscar, per aver assunto questo “materiale difficile”. È questa mancanza di autenticità che continua a rendere i disabili
invisibili, me inclusa. […] E i dirigenti e i produttori non sembrano fare nulla per cambiare le cose velocemente, per questo mi rivolgo a te. […] la prossima volta che ti verrà presentata l’opportunità di ritrarre un personaggio la cui esperienza di vita include una sorta di disabilità, per favore considera di dire “No”.

Marco Ferrazzoli, Francesca Gorini, Francesco Pieri, “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” (LuCe Edizioni 2019).

“Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” sul sito di LuCe Edizioni

Il fascino ambiguo del “mostro”

“Mostro” è un termine che nella lingua italiana si colora di molte accezioni diverse: il prodigio, il genio, ma anche l’essere orribile, deforme e però -in quanto tale- in grado di suscitare stupore. Un campionario del quale sono piene la mitologia e la narrativa, fiabe, leggende, cronache, storie e racconti, ma anche la letteratura scientifica. Al tema è dedicato un capitolo del volume “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo”.

Quando un individuo diventa “anormale” per la società? “Mostro” è un termine che nella lingua italiana si colora di molte accezioni diverse: il prodigio, il genio, ma anche l’essere orribile, deforme e però -in quanto tale- in grado di suscitare stupore. Un campionario del quale sono piene la mitologia e la narrativa, fiabe, leggende, cronache, storie e racconti, ma anche la letteratura scientifica. La categoria del “mostruoso” tassonomicamente nasce per contrapposizione, accogliendo il diverso, lo sconosciuto, l’anomalo, l’anormale. Ed esercita un’ambigua fascinazione che spesso diventa atteggiamento giudicante, stigma, allarme.

Nella letteratura i richiami alle disabilità e alle deformità sono frequenti, sin dagli esordi: nell’Olimpo Efesto, dio del fuoco e marito di Afrodite, è descritto come “storpio” e oggetto di burle: «questo ci ricorda che gli zoppi erano originariamente visti come personaggi buffi», avverte Leslie Fiedler, evidenziando la differenza con l’atteggiamento invalso nei secoli seguenti, quando il “diverso” sarà spesso associato a malvagità e timore. Visioni rappresentate, ad esempio, dallo “storpio” e machiavellico sovrano Riccardo III di Shakespeare; da Quilp, il “nano mostruoso” in agguato contro Little Nell nella Bottega dell’antiquario di Charles Dickens; dall’animo inaridito del capitano Achab del Moby Dick di Herman Melville, con una gamba sola; dal suo omologo assassino Long John Silver, nell’Isola del tesoro di Robert Louis Stevenson.

E ancora, il “deforme” e spietato Roger Chillingworth nella Lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne, il
Capitano Uncino ritratto da James Barrie nel Peter Pan, il “gobbo” di Notre Dame de Paris di Victor Hugo. Il campionario negativo delle persone menomate e con deformità è ricco quanto quello compassionevole, presente soprattutto nella letteratura infantile. Si pensi alla sopravvivenza finale del piccolo Tim nella Favola di Natale di Dickens, intenzionata a convincerci che il disagio della disabilità può sempre essere alleviato o risolto dalla filantropia.

Ma, ammonisce Fiedler, «altri racconti incentrati su guarigioni quasi miracolose (come Heidi e il Giardino Segreto) rivelano similitudini impressionanti con le storie basate sulla paura: è il desiderio che non esistano handicappati e che finalmente spariscano tutti».

Lorenzo Montemagno Ciseri, analizzando figure reali, mitologiche e letterarie identifica la dimensione come uno degli elementi determinanti del mostruoso: si pensi solo agli esseri giganteschi e minuscoli in cui si imbatte Gulliver. Tante soprattutto «le figure di giganti che caratterizzano il Medioevo occidentale, a cominciare da quella del mostruoso Grendel nemico dell’umanità e protagonista diabolico del Beowulf» per arrivare alla Commedia di Dante, che cristallizza più di ogni altra opera «nel nostro immaginario le figure dei mostri infernali».

Analoga morbosità, curiosità e interesse letterario si legano alle persone più piccole, come i Pigmei citati già in Omero, mentre Aristotele nei Problemi si interroga sul motivo che porta alla nascita di uomini nani
e, più in generale, di creature più grandi e più piccole, rispondendo che due sono i possibili motivi: lo spazio in cui si sviluppa l’embrione o il suo nutrimento. La poesia “Judge Selah Lively” tratta dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, nella trasposizione di Fabrizio De Andrè del 1971, descrive un nano con una famosa strofa che è forse la più feroce e fedele espressione dello stigma: «una carogna, di sicuro, perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo».

In altri casi l’atteggiamento è quanto meno formalmente diverso. Il reality show “Our Little Family”, in onda anche in Italia con il titolo di “Una famiglia extra small”, vede protagonista Michelle Hamill con i suoi
tre figli, tutti con nanismo. Sempre su Real Time ha avuto un notevole successo, tanto da aver già inanellato nove stagioni, “Questo piccolo grande amore”, serie che racconta la storia di Bill Klein e di Jennifer Arnold, una coppia di persone nane. E rimane nella memoria di tutti gli amanti del jazz il pianista Michel Antoine Petrucciani (1962-1999), con una osteogenesi imperfetta, patologia ereditaria nota come “sindrome delle ossa di cristallo”, spesso definito per contrappasso come un “gigante”.

Da osservare a margine come, con la pandemia di Covid-19, il mondo sia stato sconvolto dall’aggressività di microrganismi, mentre la letteratura distopica e fantascientifica preferisce immaginare nemici macroscopici, in genere più grandi e forti degli esseri umani.

Michel Foucault stabilisce un nesso tra il pregiudizio socio-culturale e le categorie etico-giuridiche:
Il mostro è una violazione delle leggi e della natura che fa cadere il modello di essere umano, la legge si trova davanti all’impossibilità di concettualizzare secondo natura ciò che egli è […] è un essere che non rientra nelle categorie morali e questo stravolge, allarma il diritto che non riesce a funzionare. L’ausilio arriva dal sapere medico che differenzia ciò che è mostruoso per natura, che è più giustificante, da ciò che è mostruoso per la condotta.

Ma anche l’approccio scientifico non risolve la questione, secondo Focault, poiché con le perizie psichiatriche «si seleziona una mostruosità morale e da qui parte la storia di questo concetto che ne porterà un altro: quello della perversione»


Su una tavoletta d’argilla babilonese risalente al 2800 a.C. si distingue tra mostri: per eccesso, ad esempio con sei dita; per difetto, cioè mancanti di un organo; doppi, come i gemelli siamesi. Non meno antiche sono le prime immagini del genere: la Venere di Willendorf, raffigura una donna steatopigia, cioè con una spiccata lordosi lombare.

Secondo Fiedler rappresentazioni simili sono frutto dell’osservazione di esseri umani con anomalie fisiche e per questo eretti a divinità: la famosa statuetta paleolitica simbolo di fertilità, risalente al 23.000-19.000 a.C., «ritrae con precisione quasi clinica» una donna obesa «diencefaloendocrina con ipertonia parasintomatica, sterilità e riduzione della libido», mentre «altri mostri, ritenuti per molto tempo puramente fantastici, possono essere stati dei tentativi di rappresentare anomalie riscontrabili soltanto nei feti abortiti».

La teoria è insomma che «l’osservazione delle malformazioni umane precedette la creazione dei mostri mitici». Nella maggior parte dei casi, però, le nascite di bambini con deformità venivano interpretate come presagio di malaugurio e portavano all’infanticidio. La stessa parola “mostro” porta con sé questa duplicità: il latino monstrum, cioè “segno degli dèi”, rimanda alla stessa radice di monstrare e di monere, ammonire, mettere in guardia.

Con l’Illuminismo la connotazione magico-religiosa del corpo mostruoso comincia a cedere all’analisi scientifica. In particolare Cesare Taruffi, professore di Anatomia patologica nell’Università di Bologna dal
1859 al 1894 e autore della prima “Storia della Teratologia” (dal greco τέρας, “mostro”), inaugura gli studi delle patologie legate a somatizzazioni corporee anomale. E proprio in questo periodo nasce anche il freak show, come se lo spettacolo facesse da versione popolare della speculazione scientifica.

Comunque anche nei secoli successivi e persino oggi, in una società scientificamente molto più avanzata, non di rado si scivola nello stesso ambiguo obiettivo di suscitare attrazione. Varie forme di spettacolarizzazione della diversità sono presenti nel cinema, nella televisione, nei nuovi media,
magari con l’intento di sensibilizzare i pubblici sul tema delle disabilità.

Marco Ferrazzoli, Francesca Gorini, Francesco Pieri, “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” (LuCe Edizioni 2019).

Marco Ferrazzoli, Francesca Gorini, Francesco Pieri, “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” (LuCe Edizioni 2019).

“Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” sul sito di LuCe Edizioni


La psichiatria interroga la fenomenologia. Antichi problemi e nuove prospettive

Il contributo esplora la nascita della disciplina della psicopatologia, e il suo affermarsi come metodo per l’analisi della “complessità” dell’esperienza vissuta.

La psicopatologia fra scienze della natura e scienze dello spirito

Parlare del reale o supposto statuto scientifico o filosofico del pensiero psichiatrico significa, soprattutto, inserirsi profondamente nel dibattito attuale. Questo dibattito sulle condizioni di possibilità della psichiatria come scienza riguarda particolarissimamente i modelli di conoscenza proposti fino ad ora alla psichiatria, modelli costantemente in bilico, per dirla con Dilthey (1883); fra il paradigma delle Scienze della Natura e quello delle Scienze dello Spirito o, per riferirsi ad una dizione più aggiornata e pittoresca, in bilico fra scienze dure e scienze molli. Il nodo problematico che abbiamo indicato come titolo di questo paragrafo ci sembra ben riassunto dalla seguente citazione tratta dagli Studi newtoniani di Koyré (1968):

“…la scienza moderna abbatté le barriere tra cielo e terra, unificando l’universo. E questo è vero. Ma essa realizzò tale unificazione sostituendo al nostro mondo delle qualità e delle percezioni sensibili, un mondo che è il teatro della nostra vita, delle nostre passioni e della nostra morte, un altro mondo: il mondo della quantità, della geometria reificata, nel quale, sebbene vi sia posto per ogni cosa, non vi è posto per l’uomo. Così il mondo della scienza divenne estraneo e si differenziò profondamente da quello della vita, un mondo quest’ultimo che la scienza non era stata capace di spiegare……” (p. 23).

Queste parole riportano la questione ai due modelli di conoscenza originariamente dicotomici proposti da Dilthey e ripresi da Jaspers (1913): lo “spiegare” (Erklären) e il “comprendere” (Verstehen). Il primo riguarderebbe l’area delle “scienze della natura” (scienze fisico-matematiche, scienze biologiche, ecc.), l’altro l’area delle “scienze dello spirito” o scienze umanistiche (storia, psicologia, sociologia, antropologia, filosofia, psichiatria, ecc.).

È certamente la psicopatologia, come già segnalava Jaspers, una disciplina fra le più coinvolte circa l’uso delle due diverse strategie cognitive: 1) l’approccio rigidamente neutrale, alla ricerca delle cause oggettive e ultime del fenomeno (che orbita intorno al concetto di «spiegazione»); 2) l’approccio comprensivo (che il pensiero ermeneutico definirà, una volta per tutte, interpretativo), che teorizza la storicità, la provvisorietà, la soggettività e la finitezza di ogni progetto conoscitivo.

L’incertezza sullo statuto scientifico della psichiatria deriva dal suo collocarsi all’interno di alcuni nodi problematici irrisolti, o per meglio dire, in alcuni obbligati luoghi di transizione della scienza contemporanea. Per ricordarne alcuni: il rapporto mente/corpo in primis, poi gli intricati rapporti di connessione/disgiunzione fra biologia, scienze sociali, antropologia, filosofia ecc.

Questi nodi problematici definiscono diversi livelli di complessità, o prospettive su diversi livelli di complessità.

Una prospettiva storica sulle “trasformazioni” in psichiatria

La psichiatria italiana negli anni ’50, così come la si apprendeva negli ambiti accademici, era agganciata ad un contesto culturalmente povero, appiattito su modelli meccanicistici, banali e ipersemplificati. I testi attraverso i quali si pretendeva di entrare nel mondo complesso della patologia psichiatrica erano per di più “vulgate”, sintesi ipersemplificate della lezione kraepeliniana. Fra i testi consigliati basta citare un nome per tutti, il compendio di psichiatria del Gozzano, diffuso su larga scala in ambito accademico come unico testo didattico. Un testo, a ripensarlo, che finiva per scoraggiare chi, avvicinandosi alla psichiatria, sperava di affrontare in modo adeguatamente problematico le questioni psicopatologiche. I sintomi psichiatrici a connotazione psicotica venivano osservati sotto una luce esclusivamente comportamentale, privi del benché minimo tentativo di interpretazione della loro eco interiore, del loro vissuto antropologico. Ricordiamo “il segno del cappuccio”, “il segno dello specchio”, l’“insalata di parole” ecc., termini caratterizzati da una loro inesplicabile e inquietante connotazione senza perché.

Da allora, anche attraverso la lettura diretta delle fondamentali opere di Edmund Husserl, di M. Heidegge, di S. Kirkegaard e dei grandi psicopatologi tedeschi e francesi, dei fondamentali contributi psicoanalitici,  l’approccio più umanistico alla clinica psichiatrica volle estrapolare dalla riflessione fenomenologica-dinamica gli strumenti metodologici per un approccio antropologicamente fondato e non riduttivo ai fenomeni psicopatologici. La specificità di una  psichiatria capace di aprirsi a questi orizzonti   consiste proprio nel suo riflettere la complessità bio-psico-sociale della mente umana e della sua patologia. Altre professioni – neurologi e psicologi in particolare – hanno certamente un’identità che viene percepita come meglio definita rispetto allo psichiatra, ma questa apparente maggiore chiarezza della loro sfera di competenza traduce l’unidirezionalità della loro visione, non adatta a riflettere la complessità della patologia mental. La psichiatria nella sua capacità di integrare saperi diversi e approcci diversi, rappresenta in questo senso un esempio di straordinario valore a cui l’intera medicina dovrà prima o poi fare riferimento nei suoi persistenti tentativi di ridefinizione e di aggiornamento delle sue  basi concettuali e metodologiche.

La psicopatologia fenomenologica come metodo

La psicopatologia fenomenologica si configura oggi come l’unica strada metodologica che consenta una comprensione antropologicamente fondata dell’esperienza interiore del mondo normale e  patologico, due mondi fra i quali ristabilisce una assoluta continuità. Libera da preoccupazioni eziologiche e nosografiche essa può occuparsi con impegno totale delle strutture di senso intorno alle quali si organizzano tutti i fenomeni psichici.

Gli strumenti di cui si serve sono l’attenzione partecipe, la descrizione e l’analisi delle esperienze interne quali si danno alla coscienza, e la comprensione dei modi attraverso i quali le esperienze interiori si manifestano nella costruzione di un “immaginario” e di un mondo propri.  Di qui la vocazione della disciplina psichiatrica ad interrogarsi sulla varietà, il senso, la progettualità di mondi antropologici possibili, col compito di comprenderli per poterli in qualche modo abitare.

La psicopatologia  può configurarsi anche e soprattutto come metodo per l’analisi della “complessità” dell’esperienza vissuta.

Senza giungere mai a formulazioni compiute e definitive essa consente piuttosto di intravedere la qualità antropologica nella quale ogni fenomeno clinico si riflette continuamente, in modi infinitamente aperti.

 Così intesa la psicopatologia introduce una tonalità antispeculativa e ribadisce un tratto etico: ciò che si esercita attraverso questa disciplina è in definitiva una capacità di ascolto messa in atto da un’attenzione rigorosa e responsabile. Attitudine all’esercizio dell’intersoggettività potrebbe anche definirsi questa metodologia che rappresenta forse l’unica condizione possibile perché il paziente comunichi  allo psicopatologo qualcosa che segretamente gli appartiene. Per questo  appare sempre più necessario coltivare nel giovane psichiatra quello che Bruno Callieri definisce “la fondamentale passione per l’esistenza”.

Questo modello didattico scuote dalle fondamenta un modello tradizionale di apprendimento. Esso richiede l’esercizio di un pensiero multidimensionale, che cerca un rapporto più complesso e consapevole con il proprio oggetto di osservazione.

Questa prospettiva delinea una conoscenza consapevole della propria finitezza e provvisorietà e scopre possibilità sempre nuove di leggere il mondo, soprattutto quello psicopatologico.

Si vuole ora indicare, per chiarire meglio questo  itinerario, cosa si intende  come esercizio quotidiano e coerente di un approccio fenomenologico-dinamico applicato alla clinica psichiatrica. Si intende soprattutto sottolineare l’importanza della psicopatologia fenomenologica come asse portante della ricerca in psichiatria. In essa si può intravvedere la ricerca di una prospettiva globale sull’esperienza umana come portatrice e donatrice di senso, anche (soprattutto) nelle sue manifestazioni-limite come quelle psicopatologiche. Potremo così recuperare, e anche rilanciare, una istanza fondamentale della antropoanalisi applicata alla psicopatologia: quella di essere una scienza di fenomeni antropologicamente fondati, tesa a scavalcare gabbie disciplinari, riduttive antinomie e frammentari, dispersivi tecnicismi. È possibile così tracciare alcune coordinate fondamentali della psicopatologia fenomenologica:

a)         ricerca del senso e della continuità antropologica nei fenomeni psicopatologici;

b)         rilievo determinante conferito all’esperire soggettivo come sola, vera occasione di conoscenza;

c)         assoluto primato dell’incontro interpersonale.

Fare della psicopatologia fenomenologica significa porsi, ancora ed ancora, la stessa nevralgica domanda capace di dare da pensare ad intere generazioni di futuri psicopatologi. Quale valore antropologico si cela dietro ciò che abitualmente percepiamo, ascoltiamo, esperiamo circa i “fenomeni clinici” che di volta in volta ci offre l’infinito orizzonte dei vissuti psicopatologici? Come decodificare l’assolutamente privato, l’indicibile?

Fare della psicopatologia significa, comunque, cercare la continuità nella discontinuità dei diversi agglomerati psicopatologici e leggere questa discontinuità nell’ottica di una “continuità narrativa” che apra alla comprensione di esperienze, eventi, storie ai margini estremi dell’intellegibilità e, qualche volta, della dicibilità. Solo muovendosi in questa direzione il discorso psicopatologico potrà essere in grado di oltrepassare il dato meramente descrittivo per aprirsi alla genesi strutturale e “storica” del fenomeno clinico.

Un esercizio fenomenologico di grande interesse, inteso a rintracciare continuità narrative in funzione di una continuità antropologico-strutturale, capace di illuminare eventi clinici.

Senza giungere mai a formulazioni compiute e definitive essa consente piuttosto di intravedere la qualità antropologica essenziale di un epifenomeno clinico a cui rimanda continuamente in modi infinitamente aperti. Così intesa essa ha più a che vedere con un’attitudine di pensiero, con un “esercizio” ermeneutico paziente, ma inesauribile. Nel porre in questione la soggettività, la psicopatologia fenomenologica esprime una vocazione verso conoscenze non causalistiche e ribadisce un tratto etico: ciò che si esercita attraverso questa disciplina è in definitiva una capacità di ascolto messa in atto da un’attenzione rigorosa e responsabile. Custodire, salvaguardare, lasciar essere saranno i vertici di questo ascolto che esige una attitudine all’astensione e alla attesa. Come scrive Rovatti: “Un simile atteggiamento di ascolto non è un arresto dello sguardo quanto piuttosto una riscoperta del visibile”.

La fenomenologia scuote dalle fondamenta il modello tradizionale di apprendimento. Il pensiero complesso e multidimensionale, che cerca un rapporto più consapevole con il proprio oggetto di osservazione, delinea un nuovo profilo della conoscenza, che nella consapevolezza della propria finitezza e provvisorietà scopre possibilità sempre nuove di leggere il mondo. Questo processo, così lontano dalle forme di apprendimento tradizionali del pensiero scientifico, legate ad un modello del pensare neutrale, affermativo ed onnipotente.

 Il lavoro psicopatologico consiste proprio nella disponibilità a smarrire questa chiarezza non appena la si è acquisita come saldo punto di riferimento”. L’apprendimento di questo metodo e di questa attitudine di pensiero può realizzarsi solo all’interno di una dimensione interpersonale, nello spazio di una relazione che interessi lo psicopatologo e il paziente, l’allievo e il maestro.

La figura del maestro acquista nella prospettiva di una formazione non solo tecnica, ma soprattutto etica, un valore ineguagliabile. Solo il maestro può risvegliare l’allievo ad un problema, solo il maestro ha la capacità di ricreare il problema nella mente del discente e dargli l’essenziale consapevolezza che ogni vera conoscenza è conoscenza personale. E questo vale soprattutto per lo psichiatra.

P. Scudellari, Istituto di Psichiatria “P. Ottonello”, Università di Bologna

 Indicazioni bibliografiche

Amoroso, L. 1983. “La Lichtung di Heidegger come lucus a (non) lucendo”, in Il pensiero debole, a cura di G. Vattimo e P.L. Rovatti, Milano, Feltrinelli.

Bion, W.F. 1973. Attenzione e interpretazione, Armando, Roma.

Bion, W.F. 1981. Il cambiamento catastrofico, Torino, Loescher.

BLANKENBURG W. 1986.- Autismus  – in: Lexicon der Psychiatrie – 83-89, Springer Verlag, Berlin. 

Campo, C. 1987. “Il flauto e il tappeto”, in Gli imperdonabili, Milano, Adelphi.

Gadamer, H. G. 1960. Verità e metodo. Lineamenti di un’ermeneutica filosofica, Milano, Bompiani, 1983.

Heidegger, M. 1942. La dottrina platonica della verità, Torino, SEI, 1988.

Heidegger, M. 1959. In cammino verso il Linguaggio, Milano, Mursia, 1973.

Heidegger, M. 1969. Tempo ed Essere, Napoli, Guida, 1980.

Jaspers, K. 1913. Psicopatologia generale, Roma, Il Pensiero Scientifico, 1965.

Morpurgo, E. 1981.La psicoanalisi  tra scienza e filosofia,  Loescher, Torino.

Muscatello, C.F., Scudellari, P. 1993 “Indicibilità e ascolto” , Riv.Sper. Fren., Vol. CXVII, 784-790, .

Ricoeur, P. 1974. La sfida semeiologica, Roma, Armando.

Ricoeur, P. 1986. Dal testo all’azione, Milano, Jaca Book, 1989.

Rovatti, P.A. 1989. “Le parole della divergenza”, Aut Aut, 234, nov-dic.

Scholem, G.G. 1982. La cabala, Roma, Edizioni Mediterranee.

Trevi, M. 1983. “Sé: soggetto, oggetto, orizzonte”, in Il narcisismo, a cura di N. Ciani, Roma, Borla.

Vattimo, G. 1971. Introduzione a Heidegger, Bari, Laterza, 1982.

Vattimo, G.; Rovatti, P. L. (a cura di). 1983. Il pensiero debole, Milano, Feltrinelli.

Fisiognomica e maschere ceroplastiche di Tenchini

Sebbene le origini della fisiognomica siano antichissime, è solo nel ‘500, con gli studi di Leonardo Da Vinci, che si sviluppa la fisiognomica moderna. Successivamente, con il diffondersi della psicanalisi, la disciplina perde valenza conoscitiva, fino al lavoro di ricerca del medico e antropologo Cesare Lombroso (1835-1909), considerato fondatore dell’antropologia criminale, la moderna criminologia.

                                                    

La fisiognomica si prefiggeva di indagare l’animo umano e le caratteristiche psicologiche di un individuo tramite lo studio del suo aspetto fisico esteriore.

 Si ritiene che le origini della fisiognomica siano antichissime: Platone definiva il corpo come tomba o prigione dell’anima, mentre per Aristotele l’anima era la capacità che consente all’organismo di vivere e non può essere separata dal corpo stesso. Entrambi concepivano il corpo come riflesso dell’anima.

 Tuttavia, la fisiognomica moderna nasce nel ‘500, con Leonardo Da Vinci (1452-1519), grazie ai suoi studi sui “Moti dell’animo” a partire dai tratti del volto. Leonardo, nella parte terza del suo “Trattato della Pittura”, al punto 290, sottolinea l’importanza del sapere esprimere i moti interiori nell’arte e scrive:

“Farai le figure in tale atto, il quale sia sufficiente a dimostrare quello che la figura ha nell’animo; altrimenti la tua arte non sarà laudabile”.

Tra il 1500  e il 1505 anche Albrecht Dürer (1471 – 1528) si concentra sullo studio della teoria delle proporzioni umane e di conseguenza si avvicina alla fisiognomica. Si era reso conto che le informazioni fornite da Vitruvio nel “De architectura” non erano sufficienti per stabilire leggi di proporzione universalmente valide.  Nel 1512/1513 pubblica il suo trattato scientifico Quattro Libri sulle Proporzioni. Scritto, progettato e curato dall’artista stesso, è il primo tentativo di applicare la scienza delle proporzioni anatomiche umane all’estetica. Il lavoro rivela almeno una trentina di fisionomie corporee diverse per uomini, donne, bambini e soggetti anziani, che mostrano l’unicità delle forme corporee o, come diceva Durer:

“…molte forme di bellezza relativa… condizionata dalla diversità di educazione,vocazione e predisposizione naturale”… e quindi presentare “i limiti più vasti della natura umana e… tutti i tipi di figure possibili: figure “nobili” o “rustiche”, femminili o volpine, timide o allegre”.  

 Questi studi su lineamenti, espressioni del viso e proporzioni corporee accompagnarono teorie e idee della scienza psicologica fino alla fondazione della psicoanalisi, che fece perdere valenza conoscitiva alla fisiognomica. Tuttavia, la fisiognomica fu ripresa dal medico e antropologo Cesare Lombroso (1835-1909), considerato fondatore dell’antropologia criminale, la moderna criminologia. Lombroso affermava che alcune caratteristiche fisiche particolari (grandi mandibole, naso schiacciato, zigomi sporgenti), potessero essere tipiche dei criminali, cui si associavano aspetti di scarso senso morale, cinismo, apatia. E’ interessante notare che,  nella sua opera sull’Uomo Delinquente, Lombroso fornisce un atlante fotografico di ritratti che diventarono modelli di riferimento delinquenziale per decenni, inaugurando l’uso delle fotografie segnaletiche, una pratica poi standard nell’identificazione e schedatura dei criminali.

Tuttavia, le fotografie bidimensionali e in bianco e nero presentano alcune limitazioni interpretative mentre vi è evidenza che studiare su preparati anatomici a grandezza naturale e quasi totalmente rispondenti alla realtà aumenta la capacità di riconoscimento del soggetto. Plausibilmente, questa è una delle ragioni alla base delle Maschere Fisiognomiche dell’anatomico e psichiatra Lorenzo Tenchini, di cui Cesare Lombroso fu professore all’Università di Pavia, durante la sua formazione in Medicina e Chirurgia.

 La metodologia usata dal Tenchini per le sue Maschere è rimasta un mistero per oltre 120 anni e solo nell’ultimo decennio studi internazionali del gruppo del Prof. Roberto Toni del DIMEC-UNIPR sulle Maschere Fisiognomiche della Collezione conservata a Parma hanno definitivamente fatto luce sul verosimile procedimento di preparazione, alquanto peculiare, di cui è possibile avere dettagli nelle pubblicazioni specialistiche menzionate nella Bibliografia di presentazione della Collezione Tenchini di questa Esposizione (v. sito web specifico) e nel Catalogo della Mostra Internazionale tenutasi a Parma nel 2017 proprio sulla Collezione Tenchini (in vendita presso l’area espositiva delle Maschere al primo piano del Rettorato).

Un’affascinante connessione con il lavoro fisiognomico di Tenchini si può rintracciare nell’opera di Madame Tussaud, che aveva iniziato come artista della cera circa 100 anni prima, durante la Rivoluzione Francese. I suoi ritratti in cera, oggi visibili a Londra, miravano a tracciare la cronaca degli eventi del suo tempo, comportando anche una valenza didattica, come le maschere di Tenchini avrebbero voluto essere “fotografie segnaletiche tridimensionali”, utili per riconoscimento e prevenzione di devianze e crimini.

Roberta Ballestriero, Accademia di Belle Arti di Venezia        

Attraverso l’arte e le discipline umanistiche è possibile conoscere lo sviluppo dei metodi di cura e i ruoli degli operatori sanitari nel corso dei secoli. Tale bagaglio è un prezioso patrimonio per la professione medico e sanitaria, perché crea empatia e una corretta relazione con il paziente. Il volume di Vincenza Ferrara, docente presso l”Università Sapienza di Roma, illustra la storia di questa complessa materia e le sue applicazioni


Le Medical humanities cosa sono e a cosa servono? Lo spiega il volume “L’arte come strumento per la formazione in area medica e sanitaria” (Aracne editore), scritto da Vincenza Ferrara, docente presso l”Università Sapienza di Roma e pioniera nell’insegnamento di questa disciplina che è una “sinergia” di materie di studio assai differenti. “La definizione, utilizzata in un campo interdisciplinare della medicina e in generale della cura, include la letteratura, filosofia, storia e religione, le scienze sociali (antropologia, psicologia e sociologia), le arti (letteratura, teatro, film e arti visive) e la loro applicazione sia nell’educazione medica che nella pratica clinica”, spiega l’autrice. Già nel 1994, in un articolo scientifico apparso negli Stati Uniti, veniva sottolineato che l’assistenza infermieristica non può svilupparsi da un background basato esclusivamente sulle scienze fisiche e sociali. Il personale sanitario, grazie a questi studi, può ridurre il gap nel rapporto con i pazienti e “umanizzare” la cura, superando una visione esclusivamente biomedica della professione. Dal 2014 è stata istituito presso l’Università di Roma un gruppo di ricerca per applicare il metodo nell’ambito della Medical education, cui è dedicato un laboratorio diretto dalla stessa Ferrara; è stata attivata una sperimentazione nei corsi di laurea in Medicina, Scienze infermieristiche e nella formazione specifica in Medicina generale.

Nello scorrere le pagine del libro sorprende rilevare quanto resti archeologici, sculture, dipinti, possano testimoniare lo sviluppo della scienza medica e l’affinarsi dello sguardo dell’artista nel ritrarre anche le imperfezioni del corpo umano, elementi che consentono di comprendere la diffusione di alcune patologie nel passato, campo di indagine dell’icodiagnostica. Basta andare nell’antica Grecia, dove gli anatomisti chiedevano aiuto agli artisti, “la dissezione era praticata sui corpi degli animali, mentre era vietato esplorare l’anatomia umana per motivi sociali e religiosi… Solo due medici ellenistici, che hanno operato ad Alessandria d’Egitto circa tra il 330 e il 240 a.C., sono noti non solo per l’uso della dissezione sistematica dei cadaveri, ma anche per la pratica della vivisezione sperimentale condotta sui condannati a morte: Erofilo ed Erasistrato”.

Nel Discobolo (copia del secolo II d.C. da originale greco del V secolo a.C.), conservato al Museo nazionale romano in Palazzo Massimo, ammiriamo i gruppi muscolari dell’atleta ritratti nell’atto di partecipare al movimento. Nei corso dei secoli, molti pittori – da Leonardo da Vinci a Michelangelo a Raffaello – hanno approfondito l’esame delle parti del corpo. Nel XVI secolo Bartolomeo Passarotti realizzò il dipinto “Lezione di anatomia per artisti” (Galleria Borghese, Roma) e Rembrandt nel 1632 raffigurò il dottor Tulp mentre mostra l’anatomia del braccio di un condannato a morte (Mauritshuis, L’Aia). L’autrice cita altri esempi di legame tra arte e medicina, che si traducono nelle modalità di riprodurre e conservare i corpi, quali la ceroplastica anatomica e la recente plastinazione, messa a punto da Gunther von Hagens. La rappresentazione della cura nell’arte, conclude Ferrara, è stimolante anche per lo sviluppo dell’empatia e della relazione tra personale di cura e paziente.

Sandra Fiore



Vincenza Ferrara, “L’arte come strumento per la formazione in area medica e sanitaria”, Aracne (2020)

Fonte Almanacco CNR-Recensioni-Le Humanities per la pratica medica

L’arte vista con occhio clinico



Prosegue il viaggio di Giorgio Weber, professore ordinario e direttore dell’Istituto di anatomia e istologia patologica nell’Università di Siena dal 1968 al 1993, nell’indagine dell’arte vista non con l’occhio del critico e dell’esteta, ma con quello dell’anatomopatologo


Dopo il primo volume del 2011, ‘Mal d’arte’ in cui aveva cominciato il suo percorso di contaminazione tra l’ambito scientifico e quello artistico, Weber torna con ‘Le voci della materia. Patologo tra gli artisti’ a porre ulteriori interrogativi e osservazioni, sottolineando come la malattia abbia un ruolo chiave nella resa emozionale delle opere.

L’attenzione si focalizza quindi sullo storpio dell’affresco inserito da Masaccio nella Cappella Brancacci, sul corpo del putto del Chiostro Verde in Santa Maria Novella a Firenze, sulle mani segnate dall’artrite nel ritratto con cui Pontormo omaggia Cosimo il Vecchio e sul pallore sinistramente cianotico che caratterizza il celebre volto della Venere di Botticelli.

L’analisi dell’anatomopatologo, oltre a coinvolgere artisti come Albrecht Dürer, Paolo Uccello, Lucien Freud e Francis Bacon, si concentra sulle produzione letterarie di autori come Ariosto, Omero e Petrarca. L’intento è quello di creare un ponte tra la raffigurazione estetica e l’evoluzione scientifica, in maniera provocatoria e coinvolgente.

Weber Giorgio, Le voci della materia. Patologo tra gli artisti, Mauro Pagliai Editore

Tito Lucrezio Caro, De rerum Natura, I a.C

Questo era più miserabile e doloroso, che quando ciascuno vedeva se stesso avvinto dal male, da esserne votato alla fine, perdutosi d’animo, giaceva con cuore dolente, e lì stesso perdeva la vita guardando immagini di morte.


Ora spiegherò quale sia la causa delle malattie e donde

la forza maligna possa sorgere d’un tratto e arrecare esiziale

strage alla stirpe degli uomini e alle torme degli animali.

Anzitutto, sopra ho insegnato che esistono semi

di molte cose che per noi sono vitali,

e per contro è necessario che ne volino molti altri che causano

malattia e morte. Quand’essi per casuale incontro

si son raccolti e han perturbato il cielo, l’aria si fa malsana

Dapprima avevano il capo in fiamme per il calore

e soffusi di un luccichìo rossastro ambedue gli occhi.

La gola, inoltre, nell’interno nera, sudava sangue,

e occluso dalle ulcere il passaggio della voce si serrava,

e l’interprete dell’animo, la lingua, stillava gocce di sangue,

infiacchita dal male, pesante al movimento, scabra al tatto.

Poi, quando attraverso la gola la forza della malattia

aveva invaso il petto ed era affluita fin dentro il cuore afflitto

dei malati, allora davvero vacillavano tutte le barriere della vita.

Il fiato che usciva dalla bocca spargeva un puzzo ributtante,

simile al fetore che mandano i putridi cadaveri abbandonati.

Questo era più miserabile

E doloroso, che quando ciascuno vedeva se stessoe

avvinto dal male, da esserne votato alla fine,

perdutosi d’animo, giaceva con cuore dolente,

e lì stesso perdeva la vita guardando immagini di morte.

E benché sulla terra giacessero insepolti mucchi di corpi

su corpi, tuttavia gli uccelli e le fiere o fuggivano

balzando lontano, per evitare l’acre puzzo,

oppure, se li assaggiavano, languivano per morte imminente.

E infatti ormai né la religione, né la maestà degli dèi

contavano molto: il dolore presente aveva il sopravvento.


Tucidide, Guerre del Peloponneso, V sec a.C

Un testo storico, scientifico, se lo giudicassimo con i parametri di oggi. I dettagli della descrizione anticipano modalità e concetti moderni


Erano nell’Attica solo da pochi giorni, quando il morbo cominciò a manifestarsi per la prima volta tra gli Ateniesi, benché si dicesse che anche prima fosse scoppiato in molti luoghi, nelle vicinanze di Lemno e in altre terre, e non si ricordava che ci fosse stata da nessuna parte né una pestilenza simile (a questa), né una tale strage di uomini. I medici nulla potevano, per fronteggiare questo morbo ignoto, che tentavano di curare per la prima volta, ma morivano più degli altri, in quanto più (degli altri) si avvicinavano (ai malati), né serviva nessun’altra tecnica umana; per quanto si formulassero suppliche nei templi o si ricorresse agli oracoli e a cose del genere, tutto si rivelò inutile, alla fine rinunciarono a questi tentativi, vinti dal morbo funesto.

Dica dunque riguardo a ciò ciascuno a seconda delle sue conoscenze sia il medico sia il profano, da che cosa era probabile che essa fosse sorta, e (dica) quali cause di un simile sconvolgimento ritiene siano capaci di avere una forza (tale da provocare) il cambiamento (dello stato di salute); io invece dirò quale fu e in base a quali sintomi uno, dopo un’attenta osservazione, sarebbe massimamente in grado di riconoscerla sapendone in precedenza qualche cosa, casomai scoppiasse una seconda volta, quei sintomi mostrerò, poiché io stesso ne fui affetto e vidi altri malati.

[…] il corpo, a toccarsi esteriormente, non era né troppo caldo né pallido, ma rossastro, livido, fiorito di piccole pustole e ulcere; […] la maggior parte morivano dopo nove o sette giorni per l’ardore interno, ancora in possesso di qualche forza; oppure, se scampavano, con lo scendere della malattia negli intestini, e col prodursi di una forte ulcerazione e il sopraggiungere di una diarrea violenta, i più morivano in seguito, sfiniti per questa ragione.