Non c’è Oscar senza handicap

Il cinema ha svolto un ruolo essenziale nel rendere la disabilità visibile al grande pubblico. Spesso, tuttavia, lo ha fatto sfruttando gli stessi stereotipi che avrebbe dovuto sovvertire. Il tema è oggetto di un capitolo del volume “Il Superdisabile. Analisi di un stereotipo”.

Il cinema ha svolto un ruolo essenziale nel rendere la disabilità visibile al grande pubblico, ancorché spesso lo abbia fatto sfruttando gli stessi stereotipi che avrebbe dovuto sovvertire.

Freaks è in qualche modo l’opera che nel 1932 apre questa strada: ambientato nel mondo del circo, è interpretato da attori con disabilità reali, a partire dalla coppia di nani protagonista del film di Tod Browning. Hans è fidanzato con Frieda ma si invaghisce della trapezista Cleopatra che, d’accordo con l’“uomo forzuto” Ercole, tenta di ingannare e derubare lo spasimante. In realtà il nanismo non viene legato a una particolare connotazione morale nella pellicola, che diventa anzi l’occasione per mostrare come i mondi dei “normodotati” e delle persone disabili non siano così distanti, come entrambi provino sentimenti e compiano azioni simili, nel bene e nel male. Il film ha però un esito travagliato: la crudezza e il realismo provocano turbamenti e malori ad alcuni spettatori e la Metro Goldwyn Mayerche lo aveva prodott o, pensandolo come un horror di facile incasso, sottopone la pellicola a 26 minuti di tagli, eliminando tra l’altro la scena in cui Ercole viene evirato e il finale dove si esibisce cantando in falsetto. Il film è comunque rimasto un cult delle proiezioni underground e nei primi anni ‘60 è stato ripresentato al Festival di Venezia. Un’altra pellicola del1953 esplicitamente ispirata al circo Barnum, Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille, vince l’Oscar raccogliendo diversi altri riconoscimenti e nomination.

Il cinema del secondo dopoguerra racconta ovviamente anche la menomazione dovuta al conflitto, inserendosi nel filone cinematografico che narra storie di disabilità acquisite in cui i protagonisti sono principalmente di sesso maschile. Basti pensare a I migliori anni della nostra vita, vincitore nel 1947 di ben sette Oscar, in cui no degli attori, Harold Russel che interpreta il reduce Homer Parrish, è veramente privo di entrambe le mani.

Altro capolavoro sulle mutilazioni di guerra è Tornando a casa, diretto da Hal Ashby nel 1978 e interpretato da Jane Fonda e Jon Voight, entrambi premiati con l’Oscar, cui si aggiunge quello per la sceneggiatura. Nel 1989 è la volta di Nato il quattro luglio diretto da Oliver Stone, Oscar per la regia, il cui protagonista è un ex marine in carrozzina che da eroe di guerra si trasforma in militante pacifista. Pellicole in cui corrono in parallelo l’elemento psico-fisico, relativo all’identità mutata e mutilata del personaggio che deve rinunciare alla propria indipendenza e accettare la nuova condizione, e quello sociale, relativo dalla difficoltà del reduce di reinserirsi nel proprio ambiente di vita e nelle relazioni con gli altri.

Tra i moltissimi, un film spartiacque è poi Anna dei miracoli, del 1962, che racconta la sorprendente rieducazione della piccola Helen Keller, cieca e sordomuta dall’età di sei mesi, da parte dell’educatrice Annie Sullivan. Nel 1981 riceve ben otto candidature agli Academy Award The Elephant Man. La storia, che ha un tale successo da approdare anche a Broadway, con David Bowie nei panni del protagonista, ripercorre la vita di Joseph Merrick: nato con la sindrome di Proteo che comporta deformazioni sul corpo e in viso, al punto da andare in giro con un sacco in testa per non spaventare i passanti, mostra una tale sensibilità che la regina Vittoria apre un fondo per pagargli le cure.

Dal 1976, su 269 candidati e 44 vincitori all’Oscar come Miglior film dell’anno, rispettivamente 51 e 14 riguardano storie di disabilità. Ma se allarghiamo l’inquadratura ad altre patologie e categorie premiate le cifre sono ancora più significative. Basti pensare a Tom Hanks malato di AIDS in Philadelphia, migliore attore protagonista; Julianne Moore che racconta l’Alzheimer in Still Alice, migliore attrice protagonista; Al Pacino che conquista l’Academy Award solo all’ottava nomination per l’interpretazione del militare cieco in Scent of a Woman, remake dell’italiano Profumo di donna, dove a vestire la divisa era Vittorio Gassman.

Solo nel 2021 sono stati candidati tre film – The Father, Minari e Sound Of Metal – accomunati dalla disabilità del protagonista o di un personaggio principale. Secondo Rosalba Perrotta, docente di Sociologia presso l’Università di Catania, «l’handicap, al cinema, o diventa celebrazione della differenza, opponendosi agli stereotipi, oppure si fa tramite di una diversa coniugazione delle ideologie dominanti, consolidando i pregiudizi condivisi».

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Il tema della patologia, della disabilità, della malattia, è stato affrontato sul grande schermo nei generi più vari: dal dramma di Million Dollar Baby alla ricostruzione storica de Il paziente inglese; dalle autobiografie,
come La teoria del tutto o Il discorso del re, che narrano rispettivamente le vite dello scienziato Stephen Hawking e del balbuziente re Giorgio VI, alla comicità di Perdiamoci di vista di Carlo Verdone, che con Asia Argento in sedia a rotelle vincerà un David di Donatello; dal premiatissimo horror Il silenzio degli innocenti alla fantascienza con La forma dell’acqua. In quest’ultimo genere la disabilità ha trovato ampio spazio: gli handicap dei supereroi spesso fanno da contrappasso ai loro poteri, come con la cecità
di Daredevil che in qualche modo richiama la figura di Tiresia, profeta e indovino della tragedia greca.

Caso davvero particolare è quello di Christopher Reeve, Superman degli anni ‘80 che, paralizzato dal collo in giù per una caduta da cavallo, ha recitato in carrozzina nel remake del thriller di Alfred Hitchcock La Finestra sul Cortile. Il titolo della sua autobiografia Still Me è un gioco di parole: still significa infatti sia “ancora” che “immobile”. Un altro film costruito sulla reale disabilità dell’interprete è Figli di un Dio minore con cui Marlee Matlin, sorda anche nella realtà, ha vinto la statuetta quale migliore protagonista.

Nella maggioranza dei casi, però, a coprire il ruolo del personaggio disabile viene chiamato un attore “normodotato”, modificandone l’aspetto con allenamenti e diete, oltre che con make up ed effetti speciali. Eddie Redmayne, per interpretare Stephen Hawking, ha perso circa 15 kg e incontrato decine di malati di SLA per osservarne i movimenti. Scelte che causano polemiche inevitabili, espresse dal motto Nothing about us without us: niente che ci riguardi senza di noi.

Katy Sullivan, attrice e campionessa paralimpica priva degli arti inferiori, dopo la scelta di Dwayne Johnson di interpretare il ruolo di un supereroe disabile in Skyscraper ha rivolto un appello alle star hollywoodiane: Sembra esserci una mancanza di sdegno sociale per gli attori normodotati che interpretano personaggi disabili. In effetti, sono spesso celebrati, dai Golden Globes agli Oscar, per aver assunto questo “materiale difficile”. È questa mancanza di autenticità che continua a rendere i disabili
invisibili, me inclusa. […] E i dirigenti e i produttori non sembrano fare nulla per cambiare le cose velocemente, per questo mi rivolgo a te. […] la prossima volta che ti verrà presentata l’opportunità di ritrarre un personaggio la cui esperienza di vita include una sorta di disabilità, per favore considera di dire “No”.

Marco Ferrazzoli, Francesca Gorini, Francesco Pieri, “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” (LuCe Edizioni 2019).

“Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” sul sito di LuCe Edizioni

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