Il padre, dalla Bibbia alla psicanalisi

Un saggio dedicato al tema dell’interpretazione psicanalitica della figura paterna, partendo da Freud per poi approfondire il pensiero di due studiosi che da questo si discostarono, Carl Gustav Jung e Jacques Lacan.

‘Il nome del padre’ richiama inequivocabilmente un segno religioso, ma anche un aspetto fondamentale dell’interpretazione psicanalitica.

Il saggio dedicato a questo tema da Giuliana Kantzà prende le mosse proprio dall’appartenenza ebraica di Sigmund Freud, per poi approfondire il distacco dalla originaria formulazione freudiana su tale tema che connotò il pensiero di Carl Gustav Jung e Jacques Lacan.

Il padre, in Freud, è uno dei soggetti principali della formazione della psiche, un protagonista di quell’imprinting infantile che segnerebbe in modo indelebile la nostra personalità per tutto il resto della vita. Il padre è al centro del tabù dell’incesto che, secondo il fondatore della psicanalisi, fa da perno alla nostra struttura relazionale. Ed è proprio dalla sua uccisione ad opera dei figli che, sul piano simbolico, le società si sono evolute secondo la forma che conosciamo.

Il dissenso di Jung, che trasferì sul piano mitico la ragione di gran parte dei meccanismi psicologici individuati da Freud, fu vissuto dai due studiosi in modo piuttosto traumatico anche sul piano personale. Toccò poi a Lacan rielaborare l’insegnamento freudiano, facendone la lente di lettura delle società contemporanee. Ma all’origine resta sempre il padre veterotestamentario al quale Freud, al di là del professato laicismo, era legato in modo ‘non puramente casuale’.

Marco Ferrazzoli

Giuliana Kantzà, “Il nome del padre nella psicanalisi” (Ares, 2008)

La scheda sul sito di Ares Edizioni

Quanto costa curare un anziano?

Da un medico di base con oltre trent’anni di pratica, una riflessione sull’esperienza del distacco e sul tema dei costi economici delle cure in relazione all’età dei pazienti.

Iona Heath è un medico di base con oltre trent’anni di pratica in uno dei quartieri più poveri di Londra.

Da questo suo libro sui “Modi di morire”, pertanto, ci si attenderebbe soprattutto il senso di un’esperienza ‘vissuta’ (per quanto quest’espressione possa apparire involontariamente ironica) rispetto all’evento finale e assoluto che, ogni anno, tocca 56 milioni di persone direttamente e indirettamente circa 300 milioni, cioè il 5 per cento della popolazione umana.

‘I costi del trattamento sanitario cui l’avevano appena sottoposta erano stati uno spreco inutile e penoso’, scrive ad esempio il dottor Heath dopo la scomparsa di una paziente novantenne. Ora, che dal dibattito sul diritto di decidere della propria sorte e di rifiutare ogni accanimento terapeutico, si passi a questionare sui costi economici delle cure in relazione all’età dei pazienti, appare una deriva di tipo salutistico e anagrafico piuttosto rischiosa.

E’ vero che la convinzione ‘di avere diritto a una salute perfetta’ è pericolosa, che anima ‘pretese eccessive’, tra le quali si possono annoverare anche le diffuse esagerazioni in merito all’utilità della ‘medicina preventiva’. Ma da qui a stabilire che gli anziani possano essere abbandonati senza cure, ce ne passa.

Marco Ferrazzoli

Iona Heath, “Modi di morire” (Bollati Boringhieri, 2008)

La scheda sul sito dell’editore

Un cancro chiamato Cameo

La storia di un uomo nel suo percorso di rievocazione e autoanalisi di fronte al cancro che lo ha colpito: un destino che lo porta inevitabilmente a ripercorrere la propria esistenza.

“Cameo” di Raffaele Crovi è un’opera di mestiere, godibilissima alla lettura, ma priva di una forza narrativa autentica, perennemente indecisa e oscillante tra la contemplazione descrittiva e il malcelato intento autobiografico.

Protagonista ne è Nando Mortara: ebreo, convertito per opportunità (nel 1939: i genitori sarebbero stati deportati e uccisi) e poi tornato alla fede originaria per ‘protesta’, di formazione psichiatra ma senza essere mai riuscito ad affrontare l’impegno di una attività terapeutica ospedaliera.

Un ‘non personaggio’, tipico di molta narrativa minimalista, che non a caso nel corso del libro sembra pigramente, rassegnatamente lasciare il posto al cancro che lo ha colpito: un destino, più che una disgrazia, davanti al quale ripercorrere la propria esistenza è inevitabile, quasi scontato.

Marco Ferrazzoli

Raffaele Crovi, “Cameo” (Mondadori, 2006)

La scheda sul sito dell’editore

Pozzuoli ai tempi del colera

Il romanzo storico di Rosario Zanni ci porta a Pozzuoli alla fine del XIX secolo, quando il colera causò centinaia di vittime.

La presenza delle epidemie nella letteratura è imponente: scenario e deus ex machina narrativo, esse consentono spesso agli autori di rinforzare emotivamente il racconto, oppure di creare le location ideali per far emergere caratteri e storie private dei loro personaggi. Solo immaginare “I promessi sposi” e il “Decamerone” boccaccesco senza la peste, oppure Verga senza la malaria e il colera, sarebbe impossibile.

Ora, Stampa Alternativa propone nella sua Collana Eretica “Mal’aria”, un romanzo storico su ‘Colerosi, affamati e ribelli di fine ‘800’ scritto da Rosario Zanni. Ci troviamo a Pozzuoli, a fine XIX secolo, quando il colera causò centinaia di vittime. La famiglia Pollio deve però combattere, oltre che con l’epidemia, con le rapine ai casotti del dazio, il movimento anarchico, gli stupri, l’emigrazione e il carcere. Difficile non pensare ai vinti verghiani, almeno per contrappasso, visto che la vicenda è segnata da un’ambizione incomprimibile di rivolta e riscatto.

La scrittura di Zanni è molto efficace, classica nel periodare, grazie anche alle frequenti incursioni semidialettali e al sapiente uso dell’anacoluto. Ne fanno fede già le prime righe del libro. “I negozi venivano chiusi, le strade erano deserte, la contrada Ospizio completamente abbandonata, infelicissime condizioni igieniche della parete inferiore del quartiere Castello e del quartiere Teatro, non da meno i quartieri del Largo a mare e dei vichi Torre, bisognosi di una portentosa basalatura e di lavori di condutture in ferro per la canalizzazione. I bambini scalzi e nudi, alcuni più grandi coperti di piccoli cenci che fungevano da mutande, rotolavano lungo le strade ricoperte di acque immonde di latrina e di rifiuti domestici con aria meno baldanzosa del consueto”.

Marco Ferrazzoli

Rosario Zanni, “Mal’aria” (Stampa Alternativa, 2008)

Nel paese dei ciechi

In una comunità delle Ande ecuadoriane abitata solo da persone non vedenti, è il protagonista a diventare ‘minorato’: oltre a essere molto meno abile nell’uso di altre facoltà quali tatto e udito, non riesce a spiegare in cosa consista la facoltà della vista, che solo lui possiede.

Racconto ostentatamente, forse eccessivamente, allegorico, ‘Nel Paese dei Ciechi’ racconta la breve avventura di un vedente che, vagando per le Ande ecuadoriane, capita in una vallata abitata solo da persone che non vedono e che hanno costruito la loro comunità sull’uso degli altri sensi, nei quali sono diventati tanto abili da poter condurre tutte le normali attività sociali.

La mancanza della vista li ha però indotti a un sovvertimento del ritmo giorno-notte, che per loro consiste in caldo-freddo, inducendoli a preferire il secondo per il lavoro, e alla totale amputazione, dal loro orizzonte concettuale, delle stesse idee per noi legate alla percezione e alla rappresentazione visiva.

Per questo, il contatto con lo straniero vedente si trasforma in un paradossale capovolgimento: è lui il ‘minorato’, non solo perché è molto meno abile nell’uso del tatto o dell’udito, ma anche perché i tentativi del protagonista di spiegare in cosa consista questa facoltà che solo lui possiede vengono interpretate come stravaganze oniriche, fantasie di un disturbato mentale, psicosi fuorvianti.

Persino nel confronto fisico, Nuñez fatica a imporre il vantaggio fornitogli dalla sua particolarità. L’unica abitante del Paese dei Ciechi ad apprezzare la sua originalità è Medina-saroté, non a caso considerata dai suoi concittadini una ‘svantaggiata’, poiché ancora conserva tracce dei bulbi oculari che, nella loro curiosa ‘evoluzione’, gli altri abitanti ormai non possiedono più e che, proprio per questo, è considerata da Nuñez l’unica ragazza apprezzabile.

La breve favola triste di Wells termina nella stessa cupezza che ne connota tutto lo sviluppo e il significato. In essa, come nelle altre sue più celebri opere, su tutte ‘La guerra dei mondi’, lo scienziato e narratore inglese trasferisce le proprie competenze naturalistiche in una visione surreale, onirica, inquietante.

Marco Ferrazzoli

Herbert George Wells, Il Paese dei ciechi (Adelphi, 2008 – quinta edizione)

La scheda sul sito dell’editore

Wedekind, educatore tragico e ‘osceno’

Considerato il capolavoro drammaturgico di Wedekind, “Risveglio di primavera” pone l’accento sulla scoperta, da parte degli adolescenti, del mondo degli adulti.

“Risveglio di primavera” è una delle più note opere drammaturgiche di Frank Wedekind, che Bertolt Brecht considerava, insieme con Tolstoj e Strindberg, ‘uno dei grandi educatori dell’Europa nuova’.

Scritto nel 1890, fu rappresentato però solo nel 1906 a Berlino, in versione riveduta e censurata a causa del suo contenuto ritenuto ‘osceno’. In effetti, il dramma pone l’accento sulla scoperta, da parte degli adolescenti, del mondo degli adulti: il titolo sta a indicare proprio l’affacciarsi delle nuove generazioni su una cultura dominante che viene però loro meramente imposta nella sua ipocrita stupidità.

“Frühlings Erwachen” affronta dunque il tema dei diritti della giovinezza che occupano impetuosi anche altre opere teatrali di Wedekind, “Lulù” tra tutte, con l’obiettivo di combattere i valori borghesi ottocenteschi, mitteleuropei in particolare. Il conflitto tra eros e morale descritto dall’autore fece sobbalzare la società guglielmina, anche per il linguaggio tagliente e per le situazioni grottesche nelle quali sono collocati i personaggi, destinati alla tragedia.

Moritz morirà suicida per i sensi di colpa nei confronti dei propri genitori, Wendla per un aborto praticato furtivamente, mentre Melchior è condannato al riformatorio e al bivio tra la reintegrazione e la fuga dalla socialità convenuta.

Ufficio stampa Cnr

Frank Wedekind, “Risveglio di primavera” (Il Melangolo, 2007)

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Il laico Soldati va a Lourdes

Appena ventottenne, Mario Soldati intraprende un viaggio a Lourdes per un’inchiesta giornalistica: il risultato è un reportage disincantato e, a tratti, spietato.

Nel 1934 Mario Soldati intraprese un viaggio a Lourdes: non per devozione, ma per un’inchiesta giornalistica.

Uno scrittore laico e un luogo di fede e di miracoli, raccontati con rigidissimi parametri razionalistici che oggi farebbero inorridire gli ‘atei devoti’ o i ‘teo-con’. Soldati non nasconde i suoi pregiudizi, li rivendica, con un’onestà intellettuale che nella Torino del tempo costituisce un coraggioso atto di anticonformismo.

Gli preme di evidenziare il classismo che il pellegrinaggio non annulla certo. Alla partenza, in mezzo alla città che conta, sparge subito sarcasmo a piene mani: “Di colpo, irrimediabilmente, mi trovai in mezzo ai preti” e a “poveri speciali, sono poveri cattolici”. Mette in discussione la sussiegosa filantropia cittadina, erede di De Amicis (un laico socialista, per inciso) più che di Don Bosco, ma – come un investigatore del Cicap a un congresso di guaritori – osserva criticamente anche la fede popolare.

Il pellegrinaggio è sofferenza e sacrificio solo per pochi malati gravissimi e per tutti gli altri, infermi inclusi, è occasione di fare un viaggio, “di divertirsi senza far nulla di male, compiendo anzi un’opera santa, acquistando meriti del Paradiso” scrive, sottolineando una contaminazione tra devozione e svago che non si capisce dove sia contraddittoria.

A Lourdes, il ventottenne Soldati trova una città allegra e continua a scandalizzarsi: “Se Assisi porta l’impronta dello spirito, Lourdes porta quella dello spiritismo”. Ma davvero il mistero deve necessariamente incarnarsi sempre nella semplicità francescana? Mettendo a fuoco il misticismo con lo sguardo spietato e disincantato del reportage, l’autore non vede ciò che non può vedere. ‘Un viaggio a Lourdes’ è accompagnato, in questa nuova edizione, da tre documenti che lo completano e lo spiegano.

Di Soldati, nel centenario della nascita, si ricorda anche l’uscita del Meridiano Mondadori che raccoglie cinque romanzi, di due Oscar (‘Vino al vino’ e ‘Le due città’), di ‘Un sorso di Gattinara e altri racconti’ per Interlinea e, infine, di ‘Amori miei’, raccolta di contributi edita da La Stampa.

Un profluvio di testi, doveroso omaggio a un grande protagonista della cultura italiana del ‘900.

Marco Ferrazzoli

Mario Soldati, “Un viaggio a Lourdes” (a cura di Salvatore Silvano Nigro, Sellerio editore Palermo, 2006)

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Cosa mangiano gli americani?

Un libro che è al tempo stesso una guida pratica alle scelte alimentari e un dossier rigoroso di inchiesta sull’impatto delle nostre scelte sull’ambiente.

Il saggio di Peter Singer e Jim Mason può essere letto secondo due piani diversi, ma proprio per questo utilmente complementari: il reportage documentaristico e l’inchiesta di analisi e di denuncia rispetto alle ‘conseguenze etiche delle nostre scelte alimentari’.

Noi – è la tesi degli autori, parafrasando Feuerbach – siamo ciò che decidiamo di mangiare. Si parte quindi da tre famiglie statunitensi, campionatura di target abissalmente lontani: Jake e Lee in Arkansas, disinvolti consumatori di junk food; Jim e Mary Ann, media e contraddittoria coppia del Connecticut; JoAnn e Jo, vegani del Kansas. Seguite durante la spesa, la preparazione e la consumazione del pasto, esse offrono uno spaccato interessante ma tenuto in ombra della civiltà più mediatica del mondo. In un film, telefilm, video o libro americano, infatti, il lunch, dinner o break è spesso ridotto a scenario o contorno degli eventi principali, amputando e distorcendo la nostra comprensione.

L’alimentazione di 200 milioni di persone è inevitabilmente varia e alterna incultura diffusa (grassi animali saldamente in testa) e notevoli passi in avanti sul piano della sensibilità per le ricadute salutistiche. Ma è choccante, nella sua semplicità, sentir raccontare a una rappresentante della middle class come la madre le preparasse ‘degli spaghetti che chiamava gli spaghetti rossi, ma in realtà erano arancioni’, mescolando ketchup, latte e formaggini in una salsa da versare sulla pasta insieme con la carne in scatola. Un comportamento che per la cultura gastronomica mediterranea si avvicina al maltrattamento di minori e ricorda tristemente la scena dei ‘macaroni’ di Alberto Sordi.

Singer e Mason ripercorrono puntigliosamente la filiera che parte dal desco per giungere fino alle produzioni industriali e artigianali di carne e pesce, secondo il tipo di inchiesta resa nota da “Report” di Milena Gabanelli. Gli autori reclamano maggior attenzione per la vita degli animali allevati e macellati: tesi condivisibilissima, magari senza arrivare all’equiparazione assoluta tra gli esseri viventi altrove sostenuta da Singer, uno dei più ascoltati ed estremisti guru animalisti.

Marco Ferrazzoli

Peter Singer e Jim Mason, “Come mangiamo” (Il Saggiatore, 2016)

https://www.ilsaggiatore.com/libro/come-mangiamo/#:~:text=Come%20mangiamo%20%E2%80%93%20testo%20che%20unisce,s%C3%A9%20e%20per%20gli%20altri.

Mezzogiorno di cuoco

La carne Montana, dell’omonima azienda milanese, rappresenta un’icona della “rivoluzione” alimentare degli anni ’60, e seguire la sua storia permette di ripercorrere i cambiamenti della nostra società e della nostra dieta.

E’ uno slogan celebre, immediatamente riconoscibile, per gli ex bambini che sono vissuti sotto la tutela serale di Carosello: “Mezzogiorno di cuoco”. Con questa battuta terminavano regolarmente gli spot della Carne Montana, prodotto inscatolato che ha rappresentato molto di più, in termini commerciali, di una semplice opzione alimentare: il piatto pronto si inseriva nell’evoluzione sociale, nella ‘liberazione’ della donna dalle incombenze domestiche, nell’acquisizione di uno stile di vita più libero, nell’imitazione di alcuni modelli americani. Non a caso, il protagonista della pubblicità è il pistolero Gringo, l’ambientazione tipica del western, con incruenta sparatoria e il ‘cattivo’ Black Jack. Questa storia viene raccontata, con la lucidità oggettiva dello studioso ma anche la partecipazione emotiva dell’ex bambino degli anni ’60, da Giuseppe Romano.

La carne è un alimento centrale nella dieta alimentare. Attraverso un’azienda come Montana, nata a Milano 55 anni fa, possiamo raccontare come siamo cambiati, decennio dopo decennio. Quanta strada abbiamo fatto noi italiani da allora a oggi e quanto ci hanno aiutato tecnologie e scoperte come il frigorifero e la conservazione dei cibi? Mangiavamo poca carne nell’ultimo dopoguerra. Così poca che doveva arrivarci dagli Stati Uniti in pacchi dono nei quali la scatoletta di corned beef era un bene prezioso. Ma carne in scatola se ne produceva anche in Italia e Montana era stata tra le prime imprese a farlo e a pubblicizzarlo. Sarebbero arrivati presto i tempi della televisione, e con essi di Carosello e di Gringo, il celebre cowboy che ha reso epica la “scatoletta”. Col passare dei decenni l’Italia sta meglio e la dieta si arricchisce. Il racconto riserva nuovi capitoli a fenomeni come il fast food, le mense aziendali, i supermercati, le obesità di ritorno, le diete salutiste, l’invasione delle multinazionali. Anche Montana – che dall’inizio è stata e resterà una storia esemplare d’imprenditoria italiana – rispecchia il cambiamento e Gringo va in pensione: mangiare carne significa ormai offrire al consumatore una dieta variata e accurata sotto il profilo salutistico. E il racconto di noi stessi, attraverso l’alimentazione e la pubblicità che la descrive, non è mai stato più vivace.

Marco Ferrazzoli

Giuseppe Romano, “Mezzogiorno di cuoco” (Marsilio, 2008)

Queneau e il suo romanzo… con meteo

L’epopea della famiglia Nabonide in un’opera visionaria e avventurosa, scritta nell’arco di quindici anni.

L’uscita di “Tempi duri, Saint Glinglin!” è un’operazione di coraggiosa raffinatezza letteraria, e smentisce l’assioma editoriale classista che riduce la Newton a semplice ‘ristampatrice’ di classici in volumoni a prezzo stracciato, su carta scadente e in corpi tipografici illeggibili. Il romanzo di Raymond Queneau esce nella collana dei “Grandi tascabili economici” con introduzione del critico letterario Renato Minore, traduzione e postfazione di Francesco Bergamasco, che si è sobbarcato un lavoro non semplice.

L’autore francese è notoriamente bizzarro e irregimentabile nei canoni letterari tradizionali. Ma mentre la sua fantasia, in opere come il celeberrimo “Esercizi di stile”, può essere seguita con divertito alleggerimento, in “Saint Glinglin” la complessità dell’opera richiede al lettore un impegno notevole, essendo frutto di una gestazione durata ben 15 anni, dal 1933 al ’48, e di una ispirazione dichiaratamente joyciana: ‘Ho voluto imitare l’Ulisse, cioè un romanzo con una struttura, con una forma fissa’, scrive Queneau a una lettrice. A tanto, si aggiungano poi le eruzioni lessicali e stilistiche tipiche dello scrittore e alcuni problemi di traduzione, a cominciare da quello che rischia di far equivocare il titolo: Saint Glinglin, cui è dedicata la ricorrenza che scandisce il tempo nella Città Natale, deriva da un’espressione che significa ‘alle calende greche’ o, come si direbbe gergalmente a Roma, ‘il giorno del poi, l’anno del mai’.

L’avventura è dunque ardua, ma interessante, e corredata da alcuni elementi di particolare curiosità come l’azione del coprotagonista Jean, che ha elaborato un sistema per far cambiare il tempo. Con il risultato che nella Città Natale non piove più.

Marco Ferrazzoli

Raymond Queneau, “Tempi duri, Saint Glinglin!” (Newton, 2007)