In questo racconto, Buzzati descrive questa sconosciuta malattia (peste canina) e i suoi strani sintomi. Le poche conoscenze circa questa nuova epidemia generavano preoccupazione generale che sfociò in un “decreto del governatore” che proibii gli assembramenti, unita a ipocondria e allarmismi veri…O presunti.
Paurosissimo delle malattie, io le sento venire da lontano. (…)
Di questa malattia si raccontava una quantità di cose strane. Secondo alcuni proveniva dal cuore impenetrabile dell’Africa, altri invece dicevano che fosse stata provocata da un sacrilegio in Terrasanta. La chiamavano canina non perché colpisse i cani ma perché nella fase dell’incubazione, che durava uno o due giorni, l’ammalato emanava un forte odore. (…) Spesso ricordava il cane. (…) Un effluvio specialissimo, indefinibile a parole; che era lo stesso marchio della peste. E pochissimi erano in grado di distinguerlo. (…) medici o infermieri, o suore che erano vissuti in Africa o in Oriente. Altri sintomi denotavano l’esplodere della peste vera e propria. (…) Ma ce n’era uno tipico e fatale: l’uomo colpito dal contagio non era più capace di un discorso organizzato (…)
Perciò la si chiamava anche peste sillabica. (…)
Esisteva, è vero, un vaccino capace di stroncare l’infezione: ma doveva essere iniettato al tempo giusto, nel corso dell’incubazione, né prima né dopo; guai se si tardava; guai anche se lo si propinava, per errore, a una persona sana; se in seguito costui si contagiava, il vaccino non sarebbe più servito a niente. L’allarme fu gettato all’improvviso. Un decreto del governatore, alludendo in modo vago a pericoli di epidemie, proibì gli assembramenti e gli spettacoli, chiuse i locali pubblici, impose il controllo dei viaggiatori eccetera. In poche ore tutta la popolazione seppe. E già si udivano le sirene delle autoambulanze chiamata qua e là a trasportare i moribondi. Fu il terrore. (…)
Per fortuna io ero amico del professore Ettore Tiriaca, il clinico famoso (…)
Scoppiata l’epidemia, divenni l’ombra stessa del Tiriaca. (…) Col mio terrore di essere infettato, sentivo un odore dopo l’altro, immaginandomi che venissero da me. Il Tiriaca mi rassicurava: “Ma io non sento niente” (…)
Una sera – ero invitato a pranzo – appena entrato a casa Tiriaca, sento odore di tartufo. Magnifico, dico a me stesso, perché di tartufi sono ghiotto. (…)
“Ma dimmi, professore… come mai quest’odore di tartufi” “Tartufi?… Io non sento odore di tartufi… (…)
“Non sarò mica io per caso a …?” Lui mi annusa col suo grande naso, sorridendo. “Tu sei su una brutta china, caro mio… Di questo passo finirai dritto al manicomio” “Professore non inquietarti, l’odore c’è, ti giuro… E io ti sono amico… Io te lo volevo dire… ascolta… non potrebbe darsi che … non potrebbe darsi che a odorare di tartufo… insomma non potresti essere tu?”
Il Tiriaca mi fissa, il sorriso gli si è fermato sulle labbra, non capisce se io voglio scherzare. Gli viene forse un dubbio? No. Si mette anzi a ridere di gusto. “Non mi illudevo che tu mi stimassi un luminare” dice “ma almeno che io non fossi un asino del tutto… Se mi fossi impestato, per capirlo credi forse che avrei bisogno dell’odore?” (…)
Per la prima volta io non gli credo, le sue parole non danno più sollievo. E intanto l’odore va crescendo, la casa ne è ammorbata, io cerco di andarmene al più presto. (…)
Anche la notte passa. Alle otto e mezzo salgo dal Tiriaca per accompagnarlo in clinica. Entrato, annuso. L’odore di tartufo non c’è più. Meno male, mi dico, si vede che era tutta suggestione. In quel mentre arriva il professore. “Beh, come la va? Senti ancora la presenza di tartufi? Ti sei calmato?… Ieri sera dopo che te ne sei andato, non credere, io non ci ho pensato su… e ho capito da dove ghe ghe quell’odore, in parte credo che sia… in parte… mah… invece, eh già… sgabusè toil gragiueaaa…” la frase si perse in un groviglio incomprensibile. (…)
La sera stessa fuggii dalla città (…)
E già è passato un mese. A quest’ora, se io fossi rimasto contagiato, il male sarebbe pur venuto fuori. Invece io sto bene, non emetto odori, parlo speditamente vero che parlo con la massima scioltezza? Il brutto sarebbe infatti se all’improvviso cominciassi anch’io a barbugliare, confondendomi, allora si sippo po potrei dirmi spaccirmi…
Dino Buzzati. “Romanzi e racconti”. A cura di Giuliano Gramigna. I Meridiani Mondadori, 1975
Scritto dall’editor e critica letteraria, Giovanna De Angelis, stroncata prematuramente nel 2013 da un male che ha voluto raccontare in questo unico e postumo romanzo, il cui tema centrale è proprio la malattia della protagonista, Francesca, in lotta contro un ‘mostro’ incurabile
La giovane protagonista vive a Roma e fa la traduttrice, è sposata con Cosimo, ha una madre assente, un’amica attenta e frequenta il vecchio professore dell’università a cui la lega la passione per la traduzione. Un giorno incontra Diego, un ricercatore universitario, con il quale inizia una storia, fatta di poche parole e incontri sessuali che si consumano su un “divano letto tappezzato di velluto a coste verde scuro”. Di colpo, arriva la malattia, il dolore, che “è solo di chi lo prova e di nessun altro”, e l’ospedale con la sua routine, “la terapia, il reparto che riapre le porte, una mascella di ferro, plastica e vetro pronta a masticarla e a risputarla fuori barcollante e col sangue pulito”. Francesca vive da ammalata senza rinunciare a combattere per mantenere la sua identità e per ottenere un’altra possibilità. La narrazione in terza persona del libro, diviso in due parti – ‘Il vento’ e ‘Lo schianto’ – si alterna a brevi pagine di diario dove la malattia non viene esibita, ma diventa un osservatorio da cui scrutare la vita degli altri. Una lettura che propone la sofferenza della protagonista in modo delicato e aiuta a guardare oltre, per dare il giusto peso alle cose.
Nel suo ‘Verso il bianco’, lo psicologo e psicoterapeuta Paolo Miorandi racconta la vicenda umana e letteraria dello scrittore svizzero a partire dalla foto che ne ritrae il corpo esanime nella neve. Una morte che lo stesso Walser aveva anticipato alcuni decenni prima in un proprio romanzo. E che giunge dopo ventitré anni di ricovero in manicomio
Lo psicologo e psicoterapeuta Paolo Miorandi racconta nel suo ‘Verso il bianco’ la vicenda umana e letteraria di Robert Walser. Lo fa analizzando alcune foto, a partire da quella scattata dalla polizia che ritrae lo scrittore svizzero morto, riverso nella neve, a breve distanza dalle orme della sua ultima passeggiata (percorso che oggi fa parte del Robert Walser Pfad, sentiero letterario inaugurato nel 1986). La cosa incredibile è che alcuni decenni prima Walser aveva descritto questa stessa scena, con precisione quasi assoluta, nel suo ‘I fratelli Tanner’: il giovane Simon, protagonista del romanzo, “sale verso il monte, la neve scricchiola sotto la suola delle sue scarpe […] A metà della salita, Simon vede un uomo sdraiato sulla neve in mezzo al sentiero […] Il corpo è rigido e senza vita […] Simon riconosce l’uomo: è Sebastian, il poeta […] Un riposo splendido – continua Simon rivolgendosi al poeta sdraiato nella luce bianca – questo giacere e irrigidirsi sotto i rami degli abeti nella neve. È il meglio che tu potessi fare”.
La morte che Walser aveva in qualche modo vaticinato giunge dopo ventitré anni di ricovero nel manicomio di Herisau, dove lo scrittore è stato condotto dalla maggiore delle due sorelle, Lisa, che si dichiara impossibilitata ad accudirlo e che è impaurita da certi comportamenti sessuali del fratello. Robert la ricambierà rifiutandosi di incontrarla quando lei, gravemente malata, esprimerà il desiderio di vederlo. A completare lo scenario della disgraziata famiglia, il fratello Ernest, anch’egli internato e morto in manicomio per dementia praecox: finito “dalla parte in cui non c’è più il sole”, scrive Robert. Se si aggiunge che “probabilmente Walser è morto vergine” a causa “di una forma nervosa di impotenza”, coltivando – come il suo collega Gottfried Keller, anima che sente particolarmente affine – la convinzione che “la favola del corteggiamento è sempre la stessa: comincia soave e piacevole e finisce penosamente”, il quadro di un’assoluta desolazione sentimentale ed emotiva è completo. Ma l’internamento e la scomparsa di Walser si inquadrano in qualche modo anche in quella Svizzera che la scrittrice Fleur Jaeggy ha definito “un’arcadia della malattia”, dove “qualcosa di malato e torbido” si agita “dietro ai giardini curati e alle finestre dai davanzali perennemente fioriti”. Il libro è il resoconto di una sorta di pellegrinaggio che Miorandi conduce a Herisau e nei luoghi walseriani, attratto dalla capacità dello scrittore di “trasformare la sconfitta in qualcosa che non so nominare ma che ha il chiarore di una disarmante conclusiva bellezza”. Pur essendo un paziente calmo, Walser in manicomio rifiuta qualunque privilegio e, in particolare, l’opportunità che gli viene offerta di scrivere, dicendo di trovarsi lì “per fare il matto”. Al giovane medico che se lo prende a cuore, risponde: “In clinica ho quel che mi occorre, la pace”. Una pace “semplice e ben scandita” da ritmi lenti e regolari in cui si alternano la sveglia, il lavoro, i pasti, il riposo. “A Herisau lavora alla costruzione della propria invisibilità” e di questa silente sofferenza restano solo “i microgrammi”, cioè “cinquecentoventisei piccoli fogli contenuti in una scatola da scarpe” e scritti in una grafia minutissima, quasi illeggibile. “Walter Benjamin ha scritto che le storie di Walser iniziano laddove terminano le fiabe”, ricorda Miorandi: “Il lampo di inquietante felicità che ci trasmettono è dovuto al fatto che sono guariti e poco importa che si tratti di una guarigione temporanea e che in ogni momento possano precipitare nuovamente nella follia”.
‘Le grandi epidemie’ di Barbara Gallavotti evidenzia come gli agenti infettivi siano stati capaci di uccidere più uomini di qualsiasi armata sulla Terra e si chiede: “Chi vincerà alla fine?”. La risposta è che uno dei principali alleati di questi nostri temibili e minuscoli avversari è il sentimento irrazionale che porta da un lato a diffidare dei vaccini e dall’altro ad assumere con leggerezza gli antibiotici. Mentre il corretto uso di queste innovazioni è la migliore arma a nostra disposizione
La letteratura divulgativa su virus, batteri, microbi, vettori e agenti patogeni è amplissima. Solo per citare randomicamente alcuni titoli degli ultimi lustri, va da ‘Epidemie’ di Giovanni Rezza a ‘Pillola del giorno prima. Vaccini, epidemie, catastrofi, paure e verità’ di Marco Malvaldi e Roberto Vacca; da ‘Batteri spazzini e virus che curano’ e ‘Occhio ai virus’ del nostro Giovanni Maga a testi opportunamente rivolti ai lettori più giovani come ‘Le difese del mio corpo’ di Laurent Degos e ‘Virus, microbi e vaccini’ di Clara Frontali; da monografie su specifiche patologie come ‘Aids. Breve storia di una malattia che ha cambiato il mondo’ di Cristiana Pulcinelli a ‘Metafisica della peste’ di Sandro Givone. Il tema delle patologie epidemiche e infettive è poi protagonista di saggi fondamentali come ‘Quarto cavaliere – Storia di epidemie, pestilenze e virus’ di Andrew Nikiforuk e ‘Armi, acciaio e malattie’ di Jared Diamond.
Quest’ultimo titolo, in particolare, è citato nella bibliografia dell’ultimo arrivato in questa cospicua e importante galleria saggistica: ‘Le grandi epidemie’ di Barbara Gallavotti, per il quale la giornalista di Superquark ha preso spunto da un’intervista di Francesco Maria Galassi, professore di Paleopatologia alla Flinders University in Australia e che si arricchisce di un’introduzione in cui Piero Angela evidenzia come i microrganismi siano “stati capaci di uccidere più uomini di qualsiasi armata sulla Terra”, nonostante (o forse proprio perché) siano “nostri parenti”, addirittura “i nostri più lontani progenitori”. I batteri sono stati infatti “i primi ad arrivare sulla Terra e saranno con ogni probabilità gli ultimi ad andarsene”, affermazione con cui il nostro massimo divulgatore focalizza la questione centrale del libro: “Chi vincerà alla fine l’eterna guerra fra gli esseri umani e gli agenti infettivi?”, si chiede Gallavotti in conclusione del volume. Rispondendo che, comunque, “non abbasseremo mai la guardia” e avvertendo che uno dei principali alleati di questi nostri avversari temibili e minuscoli (i batteri misurano millesimi di millimetro e i virus sono molto più piccoli) è la paura, il sentimento che “spinse i genovesi a lasciare precipitosamente Caffa e altri ad abbandonare le città appestate nel tentativo di sfuggire a un morbo che in realtà portarono con loro”. E che in tempi più recenti “ha indotto il governo del Sudafrica per diversi anni a sposare tesi negazioniste riguardo all’Hiv come causa dell’Aids”, che temendo gli untori “in innumerevoli casi” non ha fatto che produrre altre vittime innocenti, che sospetta dei migranti come ambasciatori di nuove o vecchie malattie. Ma le paure forse più attuali e rischiose sono quelle, in qualche modo opposte, che ci portano da un lato a diffidare dei vaccini e dall’altro ad “assumere con leggerezza farmaci inappropriati, ad esempio antibiotici”. Se “Tutta la storia dell’umanità è stata una lunga battaglia contro i microbi responsabili delle malattie infettive”, che però abbiamo “combattuto per decine di migliaia di anni solo con gli strumenti messi a disposizione dall’evoluzione”, infatti, fortunatamente “negli ultimi decenni abbiamo messo a punto strumenti in grado di proteggerci dalle infezioni”, cioè vaccini e antibiotici. Influenza, morbillo, vaiolo, tifo, colera, sifilide hanno sterminato generazioni, compiuto genocidi, sin dai tempi raccontati da Tucidide, passando per il contatto tra europei e popolazioni amerindie, hanno cambiato il corso della storia, colpendo personaggi come Cesare Borgia, William Shakespeare e Friedrich Nietzsche. Ancora tra il 1918 e il 1919 l’influenza spagnola provocò tra 50 e 100 milioni di morti, più della contestuale guerra mondiale. E nel Novecento il vaiolo, prima di essere definitivamente sconfitto, ha causato 300-500 milioni di vittime… Ma oggi abbiamo due tipi di farmaci fondamentali, “i vaccini, capaci addirittura di prevenire le malattie, e gli antibiotici, in grado di contrastare le principali infezioni batteriche”. Peccato che “i vaccini rischiano di essere resi inefficaci dalla decisione di alcuni di non servirsene e gli antibiotici da quella di usarli male”. Certo, virus e batteri hanno una straordinaria capacità di sviluppare ceppi resistenti, quella che combattiamo è “una rincorsa tra ricercatori e germi patogeni”, avverte cauto Angela. Ma per sperare di vincerla dobbiamo usare le armi che abbiamo in modo adeguato e convinto. Senza paura (per non usare altri termini).
Il racconto di una doppia avventura intellettuale e personale straordinaria: quella di James Murray, direttore dell’Oxford English Dictionary, e del dottor William Chester Minor, tra i più prolifici collaboratori dell’Oed, internato in manicomio in quanto affetto da follia omicida. Assieme ai due, molti altri personaggi interessanti vissuti nella cornice di un’opera monumentale e fondamentale
È il racconto di un’avventura intellettuale e di una vicenda privata (doppia) straordinarie: quella del professor James Murray, direttore editoriale dell’Oxford English Dictionary (Oed), e quella del dottor William Chester Minor, uno dei più prolifici collaboratori del Dizionario con decine di migliaia di schede, oltre cento alla settimana. Il libro di Simon Winchester, divenuto non a caso il plot di un recente film, presenta poi non pochi altri elementi di attualità e interesse: evidenzia come tassonomia e storicizzazione dei lemmi siano tra i problemi metodologici fondamentali di qualunque impresa culturale; illustra il moderno approccio vittoriano verso la malattia mentale (“caratteristica mescolanza di severità e illuminismo”, la definisce l’autore); il cosiddetto Oed rappresenta un pionieristico esperimento di citizen science, considerazione che abbiamo già espresso sull’Almanacco riguardo ad alcuni divulgatori italiani dell’epoca; infine, entrambi i protagonisti sono capaci di incarnare al meglio lo spirito della libera ricerca e della curiosità intellettuale anche in quanto ‘non accademici’, un po’ come Marconi.
Il senso del libro sta soprattutto nell’incontro tra i due, nella scoperta che sconvolge Murray quando finalmente sta per incontrare il suo collaboratore: “Me ne rincresce signore ma non sono io. Non è affatto come pensate. In realtà io sono il direttore del manicomio criminale di Broadmoor. Il dottor Minor è qui senza dubbio. Ma è un detenuto. È ricoverato da più di vent’anni”. L’uomo che più aveva contribuito all’Oxford English Dictionary è un pazzo omicida, affetto da una follia esplosa a seguito dei traumi subiti come ufficiale medico nella Guerra di secessione, durante la quale fu tra l’altro costretto a marchiare a fuoco un irlandese disertore, ma dovuta probabilmente a tare genetiche, visto che due fratelli di Minor si sono suicidati. “Eppure, con la follia, venivano anche le parole”. Peraltro, Minor non è l’unica persona con problemi mentali che collaborò al dizionario, considerando anche Fitzedward Hall e soprattutto Frederick Furnivall, il segretario della Philological Society. È anche grazie a queste persone geniali e stravaganti se, dopo un lavoro di decenni, vede la luce quest’opera monumentale – 414.825 lrmmi; 1.827.306 citazioni, sei milioni di schede restituite dai volontari, due tonnellate di materiale nel solo 1879 – e fondamentale: basti dire che Voltaire la propose ai francesi come modello di un loro dizionario e che, l’autore usa un esempio fulminante, Shakespeare “non poteva, come si dice in inglese, look up ‘cercare’ un termine”. Di personaggi interessanti se ne incontrano insomma molti nel volume. Da Alexander Melville Bell, “padre dell’infinitamente più famoso Alexander Graham”, a Henry Sweet, cui Bernard Shaw si sarebbe ispirato per uno dei personaggi di Pigmalione; dal “Killer Pazzo”, che oggi occupa una delle stanze abitate da Minor a Broadmoor, a Ezra Pound e John Hinckley, l’uomo che tentò di assassinare il presidente Reagan, entrambi internati come Minor nella casa di cura St. Elizabeth a Washington; da Daniel Defoe a Jonathan Swift, i “fari della letteratura inglese” che avevano lamentato la mancanza di un dizionario come l’Oed (Swift, in particolare, era indignato per l’uso della forma “couldn’t” nella lingua scritta, dov’è oggi comunemente accettata). Fino a Winston Churchill, che come ministro dell’Interno firmò la scarcerazione condizionale di Minor. Ma la ricchezza umana e intellettuale del “professore” e del “pazzo” è tale da lasciare poco spazio ai comprimari. Per quanto “di primo acchito” sembrino contrassegnati “più dalle differenze […] che dalle somiglianze”, i due sono davvero speculari e simili. Tant’è che dopo il loro incontro “entrambi avranno creduto per un momento di avvicinarsi a se stessi riflessi in uno specchio”, vista tra l’altro la loro “barba: in entrambi i casi bianca, lunga e a due punte, con folti baffi e basette”. Non c’è da meravigliarsi se ne nacque “un’amicizia lunga e salda” che rese Murray e consorte i due più infaticabili supporti per il povero Minor, che negli ultimi anni arrivò persino ad auto-evirarsi dopo un doloroso percorso di schizofrenia, paranoie, fobie e fissazioni (assieme, va detto, alla vedova della sua vittima, che dopo averlo conosciuto non fece mancare il proprio aiuto all’assassino del marito). In parte la relazione tra i due è la “romantica e piacevole invenzione” di un giornalista americano, che fu la principale fonte sulla vicenda finché nel 1977 K. M. Elisabeth Murray mise mano alla biografia del nonno. Ora Winchester ha prodotto un’opera completa di cui l’ottima traduzione italiana edita da Adelphi consente di apprezzare anche lo stile letterario. L’autore si muove in quel territorio di confine tra romanzo e saggio che è la chiave di molta della migliore letteratura odierna, si pensiall”Imperatore del male’ o alla biografia di Hermann Rorschach, riuscendo a mantenere la minuzia documentale evitando la prolissità di alcuni saggisti anglo-americani: in questo, il libro ricorda la produzione di un grande critico come il nostro Pietro Citati.
Con questa composizione, Baudelaire usa la cecità quale metafora per descrivere i concittadini parigini. Parigi la città a cui tutto il mondo guardava come esempio di novità e civiltà, abitata però da uomini “ciechi” perché “la divina scintilla è fuggita” dai loro occhi.
Contemplali, anima mia; essi sono davvero orribili! Simili ai manichini; vagamente ridicoli; Terribili, singolari come i sonnambuli; mentre dardeggiano non si sa dove i loro globi tenebrosi
I loro occhi, in cui s’è spenta la scintilla divina Come se guardassero lontano, restano levati Al cielo; non li si vede mai verso i selciati, Chinare, pensosamente, la loro testa appesantita.
Essi attraversano così il nero sconfinato, Questo fratello del silenzio eterno. O città! Mentre che attorno a noi tu canti, ridi e sbraiti,
Innamorata del piacere fino all’atrocità, Guarda! anch’io mi trascino! ma, più inebetito d’essi, Io dico: Cosa chiedono al Cielo, tutti questi ciechi?.
Charles Baudelaire. “I ciechi”. (I fiori del male, 1857)
Il libro di Alberto Garlini racconta il lungo e profondo rapporto inttrattenuto con uno dei massimi poeti italiani, inchiodato su una carrozzina da un incidente di moto. Il libro ha due meriti: omaggiare un esponente fondamentale della poesia in lingua e dialettale e aver costruito, con la narrazione della loro amicizia, un vero romanzo e una vera autobiografia, dove disagio corporeo e psicologico trovano una via di catarsi parallela
Ma gli ippopotami cantano? La domanda potrebbe sorgere spontanea leggendo il titolo del libro di Alberto Garlini “Il canto dell’ippopotamo”, ma ci porterebbe fuori strada, lungo il pur appassionante tema etologico ed evoluzionistico delle azioni che consideriamo o meno esclusiva umana: ridere (memorabile al riguardo il dialogo tra Jorge e Guglielmo ne “Il nome della rosa”), piangere, utilizzare strumenti tecnologici (di cui abbiamo parlato recensendo “Umani” di Adam Rutherford) e, appunto, cantare. Azione che si esplica in un ventaglio di forme amplissimo e fondamentale, tanto da divenire persino oggetto di contesa come accade in questi giorni a Sanremo. Ma la frase, in realtà, con l’opera di Garlini c’entra poco o, meglio, serve nella sua casuale insignificanza a rappresentare un periodo e un aspetto della depressione di cui l’autore racconta: il rapporto stoccolmiano vittima-carnefice che instaura con una donna almeno altrettanto squilibrata, affetta da un egocentrismo pseudoartistico e particolarmente amante, appunto, degli slogan a effetto. Vera e principale protagonista del libro è in realtà colei che della canzone è in qualche modo sorella, anche se il loro rapporto è estremamente controverso, e cioè la poesia, vista attraverso il lungo e profondo rapporto che Garlini ha intessuto con Pierluigi Cappello. Uno dei massimi poeti italiani, accomunabile sicuramente a Pier Paolo Pasolini, quanto meno per la comune friulanità, ma forse anche a Dario Bellezza e Valentino Zeichen per la stretta, ambigua, irrisolvibile connessione tra l’attività letteraria e la biografia “estrema”: omosessuale morto di Aids Bellezza, “baraccato” del quartiere romano Flaminio Zeichen, inchiodato su una carrozzina da un incidente di moto Cappello, hanno tutti vissuto le loro non lunghe esistenze tra il plauso della critica e degli intellettuali, il successo del magro ma appassionato pubblico della poesia contemporanea, le ristrettezze e difficoltà economiche e materiali. Cappello sarebbe stato poeta anche camminando sulle proprie gambe, ma ovviamente non sarebbe stato lo stesso poeta. E a Garlini vanno riconosciuti due meriti. Il primo è quello di riservare un contributo fondamentale a un esponente fondamentale della poesia in lingua e dialettale (l’autore sceglie e suggerisce, in tutta l’opera, “Parole povere”), che si aggiunge al film che gli è stato dedicato da Francesca Archibugi e allo splendido romanzo autobiografico del poeta “Questa libertà”, in cui il racconto della caduta nella paralisi corporea è di un’efficacia agghiacciante proprio per la sua assoluta assenza di enfasi. L’altro è di aver costruito, con la narrazione della sua amicizia, un vero romanzo e una vera autobiografia dove il disagio corporeo di uno e quello psicologico dell’altro trovano nella poesia una via di catarsi parallela, adiacente, se non coincidente date le forti differenze letterarie che intercorrono tra i due protagonisti del libro.
Impossibile leggere questo romanzo senza riferirsi al contesto attuale. Il protagonista è un inventore di barzellette. Tra le pagine sono disseminati continuamente dubbi e considerazioni analoghi ai nostri di oggi
È uscito in pieno anno di pandemia il romanzo di Fulvio Abbate “La peste nuova” ed è ovviamente impossibile leggerlo senza riferirsi al contesto attuale. Il protagonista è Guido Battaglia, un inventore di barzellette: questo il suo “impiego ufficiale nel collocamento dello spettacolo tragico della città”. Il suo compito è inventare “l’ultima risolutiva salvifica” barzelletta che serva “a proteggere le città”. Ma oltre a questo personaggio, evidentemente metaforico del ruolo dell’intellettuale nella società contemporanea, se ne affacciano altri che è difficile non rimandare all’attualità, per esempio l’ufficiale sanitario che consegna “i moduli obbligatori entrati in vigore dove segnare i propri spostamenti”.
Tra le pagine sono continuamente disseminati dubbi e considerazioni a dir poco analoghi ai nostri di oggi. “Guardati intorno vedi la città quanto credi che potrà ancora reggere? Questa nuova epidemia è gigantesca incalcolabile fuori dalla portata dell’umano”. “Quanto a Dio nelle circostanze estreme mostra la propria assenza la sua non esistenza”. “Nelle settimane di peste, quando l’unica notizia accampata nei media riguardava il batterio e le possibilità di sconfiggerlo, l’attesa di un vaccino, la penuria di mascherine sterili, ammesso che queste potessero proteggere realmente le persone, insieme alla cura nel lavarsi le mani con liquidi disinfettanti”. “Anche la Procura aveva indagato su irregolarità nel ricovero di pazienti in strutture private”. “Dalla città del Vaticano direttamente dal profilo Twitter del pontefice confermarono che l’Angelus della domenica successiva si sarebbe svolto in collegamento video”. “Irresponsabili o increduli che ancora ignorano la gravità delle circostanze” e che “trovavano il tempo di immaginare alcune allegorie per nulla scientifiche della peste”. “Il pensiero degli ospedali ormai colmi di ricoverati mi ha riportato agli ultimi giorni di vita di mio padre”. Il “comunicato seguito da un tweet” della Prefettura “dove pur continuando a definire seria la situazione si accennava a tenui segnali di miglioramento” di regressione del contagio”. In altri punti del libro si colgono invece riferimenti, più o meno espliciti, a contagi del passato. “Sul muro accanto all’ingresso della casa dove vivevo è apparso un doppio cerchio giallo segnato a spray. Il presidio medico d’intervento e valutazione dell’epidemia aveva individuato un focolaio”. “Un amico omosessuale raccontava che nei giorni più drammatici dell’Aids molti gay si ritrovavano in circolo ognuno a masturbare se stesso”. Un altro protagonista de “La peste nuova”, a proposito, è il sesso, che entra nella storia attraverso un’oggettistica da porno-shop, “i vibratori, i dildi e le protesi falliche” e profferte di scambio: “Amore interessato, è vero, ma tu in caso di buona riuscita verresti ripagato, conviene pure a te […] Ci sembra il minimo proporti la nostra scommessa dunque il destino della città è nelle tue mani”. Più alate, letteralmente, altre figurazioni come quella di “una mousse che, spalmata sulle scapole, in poche settimane avrebbe fatto crescere le ali a ogni acquirente” dal “cuore puro, come libero, non cuore prigioniero”. Qualcuno, prendendo spunto dal preparato, “aveva proposto la costruzione di un nuovo aeroporto da dove abbandonare la città quando la situazione sarebbe precipitata definitivamente. Un’idea che certo consorzio di imprenditori privati, assenti al ritegno, accolse senza remore, dando così inizio allo spianamento di un terreno e alla messa in opera di un capannone coperto dove intrattenersi nell’attesa del peggio”. Il romanzo nasce dalla riscrittura radicale di “La peste bis”, apparso in libreria nel gennaio 1997. L’omaggio a Camus resta intatto quale fonte di precisazione e, spiega l’autore: “Il dramma concreto quotidiano della pandemia da Covid-19, insieme agli obblighi della quarantena, dell’esilio domestico con la desertificazione del paesaggio urbano, sono stati una semplice sollecitazione”.
Lo scrittore francese è un personaggio controverso: la sua trilogia lo ha reso celebre e amato dai lettori ma le posizioni espresse in “Bagattelle per un massacro” lo hanno reso un “maledetto” inviso a molti. Non è certo la sua l’unica figura della letteratura in cui si mescolano il valore artistico e la scorrettezza politica, ma nel caso di Louise Ferdinand Destouches si aggiunge un terzo elemento di interesse: l’attività di medico svolta anche negli ultimi anni di vita in modo letteralmente e simbolicamente periferico, marginale, assieme agli ultimi. Lo ricordiamo attraverso un testo che ricorda proprio questa duplicità
[…] «Il personaggio Céline non potrà mai diventare simpatico a nessun lettore […] Tutto il suo dramma sta […] nella mancanza di equilibrio tra l’intelligenza piena della realtà e la sua resistenza morale»; una realtà sua, fatta però di allucinazioni prodotte dalla realtà vera, e una sua morale negativa che è ispirata e si rivolge a uomini contraffatti che recitano e vivono indossando una maschera mostruosa plasmata dai propri vizi, quelli dichiarati e quelli taciuti. «Céline bisogna prenderlo tutto insieme …» accettando la sua esacerbazione verbale come insostitui
bile mezzo di ricerca. Questo è il giudizio sofferto, ma chiaro e condivisibile, delineato da Carlo Bo, eminente critico cattolico, in un famoso saggio sull’autore di Viaggio al termine della notte (trad. it. Corbaccio 1933), anteposto alla traduzione italiana della sua seconda opera letteraria uscita in Francia nel 1936, Morte a credito (Garzanti 1964). Si tratta di un giudizio utile perché, a differenza delle condanne senza appello espresse da personaggi come Sartre e Moravia, non fomenta la messa all’indice di tutte le opere di questo autore e nel contempo sollecita una condanna senza attenuati delle sue derive antiebraiche e collaborazioniste con i nazisti. Non può infatti essere richiesta a tutti la capacità di un Cesare Cases, lui grande germanista letterato ed ebreo, che, dovendo ammettere che quella di Céline è un’opera straordinaria di ricognizione umana che non ha avuto seguito e che il Viaggio è una delle proposte più forti, il maggior romanzo del Novecento, si spinge a sostenere che quando egli usa il termine “ebreo” indirizzando a questi un odio allucinante, in realtà intende additare al pubblico ludibrio gli emblemi più brutali della modernizzazione capitalistica e cioè l’impero del denaro, la standardizzazione della vita quotidiana, la tecnocrazia, la burocrazia, l’America e l’Unione Sovietica, tutto o quasi tutto. È lo stesso Cases tuttavia che sintetizza meglio il suo pensiero quando dice che Cèline deve essere trattato come qualcuno da stampare al mattino e da fucilare nel primo pomeriggio.
Una vita vissuta Tutti gli scritti di Céline, quelli letterari e quelli medici, hanno una forte derivazione autobiografica, una biografia complessa, pericolosa, straripante. Precocemente viaggia, impara inglese e tedesco e si impiega in diverse ditte commerciali. Volontario nella Prima guerra mondiale, viene ferito a un braccio e riformato: da questo momento e per tutta la vita soffrirà d’insonnia, di angoscia e di acufeni; nel 1916 dirige per nove mesi una piantagione di cacao in Camerun, quindi lavora in Francia nella redazione di una rivista di divulgazione scientifica. Nel 1918 si iscrive alla facoltà di medicina di Rennes e si laurea nel 1924 con una tesi “romanzata” su Semmelweis, avendo come tutor il suocero e usufruendo di facilitazioni come reduce; in questo stesso periodo è attivo in una campagna antitubercolare della Fondazione Rockfeller. Fa per un periodo il ricercatore all’Institut Pasteur; dal 1924 al 1928 lavora per la Società delle nazioni, branca “salute”, e viaggia da Ginevra a Liverpool, in Africa, in Italia (a Roma incontra Mussolini in persona che gli parla delle sue campagne antimalariche), a Cuba, negli Stati Uniti e in Canada (dove guida una delegazione di medici sudamericani in visite, tra l’altro, alle fabbriche Ford e Westinghouse) e dopo di nuovo in Europa; in alcuni di questi spostamenti fa anche il medico di bordo. Alla fine del 1927 apre uno studio medico a Clichy dove, a eccezione di un periodo trascorso all’ospedale Laennec, svolge con poche gratificazioni la professione di medico di base nei confronti di una clientela molto povera, disperata, ma contemporaneamente è assunto in un servizio municipale di igiene pubblica, pratica «una medicina collettiva terapeutica» e sperimenta, per conto di alcune società farmaceutiche, dei farmaci, compreso un medicamento contro i dolori mestruali, partecipando attivamente alla Società di medicina di Parigi. Compie viaggi in Germania, Gran Bretagna, nei Paesi Scandinavi e a Vienna; nel 1944, dopo la liberazione della Francia, ripara in Germania con i membri del governo collaborazionista di Vichy e, quindi, in Danimarca, dove passerà in prigione quattordici mesi e risiederà sino al 1951, quando l’amnistia gli consentirà il ritorno in Francia con una condanna per “indegnità nazionale” con la confisca dei beni. Vivrà con la moglie Lucette e numerosi animali a Meudon, a circa 10 chilometri da Parigi, dove continuerà fino alla fine la sua attività di medico, anche se poche erano le persone che accettavano di farsi curare da lui.
Destouches ovvero Céline In sintesi, Louis-Ferdinand Auguste Destouches (1894-1932) è il medico che diventerà scrittore; Louis-Ferdinand Céline (1932-1961), pseudonimo mutuato dalla nonna materna con il quale pubblica, nel 1932, la sua prima opera letteraria, Viaggio al termine della notte, è lo scrittore medico. Difficilmente tuttavia apprezzando cumulativamente la vita e le opere dei due personaggi, a differenza di come ha fatto qualche critico, si potrà pensare a una separatezza, a una doppia personalità, del medico e dello scrittore. Altrettanto difficilmente si potrà pensare all’antisemitismo teorizzato e praticato come a un episodio isolato, espressione di una sorta di terza personalità (1937-1941) illustrato soltanto da tre pamphlet: – Bagatelle per un massacro (trad. it., Corbaccio 1938), – La scuola dei cadaveri (trad. it., Edizioni Soleil 1997), – La bella rogna (trad. it., Fata Morgana 1981).
Ancora difficile sarebbe pensare, come ha suggerito qualcuno, che è esistito un Destouches-Céline comunista, o per lo meno simpatizzante comunista, solo sino al 1937, quando, dopo una visita in Unione Sovietica, formalmente per reclamare e spendere i diritti dei suoi libri tradotti, pubblica un terribile pamphlet antisovietico, Mea culpa (trad.it, Scheiwiller 1975). Infine, travagliati ma non indice di sicuro pentimento dell’adesione al nazismo, risultano le ultime prove letterarie, la Trilogia del Nord (Da un castello all’altro, Nord, Rigodon), tradotte in Italia nei primi anni Settanta e oggi disponibili in un unico volume (Einaudi 2010). Dunque abbiamo a che fare con un individuo dotato di una certa coerenza, anche spregevole, che solleva, parlandone senza ritegno, problemi personali, sociali da lui direttamente interpretati, importanti e irrisolti e con prospettive che non fanno scorgere nulla di buono, alcuna soluzione, operando abitualmente in maniera politicamente e moralmente scorretta. Alla fine Céline risulta essere tante cose assieme: populista, volontario in guerra, pacifista, anticolonialista, cosmopolita, anarchico e nichilista, animalista, medico dei poveri, irreligioso e antimassone, igienista e temperante (non beve e non fuma), riservato, affettuoso; tutte queste cose e anche il contrario di esse, o di quasi tutte. È per tali motivi che l’autore e l’uomo Céline è ammirato da alcuni, una ristretta élite intellettuale, osannato da scalmanati che evocano principalmente il suo antiebraismo, guardato con timore dalla maggioranza. Prima di affrontare gli scritti più direttamente medici e igienici di Céline è opportuno soffermarsi sul Viaggio, un affresco dell’umanità, quella della guerra, dell’industrializzazione, delle colonie, del lavoro industriale, dell’alienazione metropolitana, della miseria delle periferie, delle aridità delle coscienze. In questo scenario si muove lo sconsolato e ironico medico Ferdinand Bardamu che, ferito durante la Prima guerra mondiale e in convalescenza a Parigi, conosce l’americana Lola; si ritrova in Africa; incorre in una serie di avventure sia tragiche sia buffe; raggiunge fortunosamente l’America e si arruola nel servizio immigrazione e nell’industria automobilistica; ritrova Lola, si fa prestare fraudolentemente del denaro e torna in Francia; apre uno studio medico in provincia, dove conoscerà una realtà macabra. Bardamu, dopo un tortuoso ma vitale percorso, iniziato nel buco nero della guerra sbocca al fondo, nel buco ancora più oscuro della morte. La narrazione, incalzante è ricca di esercizi fonici, di slittamenti semantici, di paratassi, di puntini che non assumono soltanto il significato della sospensione. Quelli che seguono sono delle citazioni (tratte dalle edizione dall’Oglio del 1962) scelte perché esprimono più da vicino impressioni o concetti medici molto influenti nell’opera complessiva:
– « I malati non mancavano, ma non c’erano molti che potessero o volessero pagare. La medicina è una cosa ingrata. Quando ci si fa pagare dai ricchi s’ha l’aria d’essere un domestico, e dai poveri ci si diventa un ladro. ‘Onorari’! Quella è una parola! Non ne hanno già abbastanza per mangiare o per andare al cine, i malati, e volete ancora cavarci dei baiocchi per pagare gli ‘onorari’? Soprattutto proprio nel momento che tiran le cuoia. Non è comodo. Si lascia perdere. Si diventa cortesi. E s’è fottuti. » [pag. 277]
– « I miei clienti invece erano degli egoisti, dei poveri, dei materialisti concentrati nei loro progettacci di pensione, ottenuta con lo sputo sanguigno e positivo. Il resto era loro indifferente, persino le stagioni erano loro indifferenti. In fatto di stagioni sentivano e volevano conoscere solo quella che aveva un rapporto con la tosse e la malattia. » [pag. 348]
Numerose sono poi, sempre nel Viaggio, le sentenze riguardanti l’esperienza alla Ford di Detroit che assumono un significato sostanzialmente diverso da come gli stessi argomenti vengono trattati negli scritti più propriamente igienici e in quelli che qualcuno, forse arditamente, chiama di medicina del lavoro. Nell’opera letteraria il lavoro standardizzato, quello osservato e descritto alla Ford di Detroit, viene condannato, se ne rilevano gli eccessi e gli effetti perversi intollerabili, la disumanità che disumanizza, la passività e la subalternità in cui cadono e sono tenuti gli operai. In questo contesto sono inserite espressioni forti di condanna del taylorismo: «Il girone infernale del lavoro», «rimbambimento industriale» («gâtisme industriel»), «Atrocità materiale della fabbrica» e ciò anni prima che altri autori, da Sinclair a Chaplin, descrivessero o rappresentassero le stesse condizioni. Ecco alcuni esempi:
– « Quel che ci trovavano di buono da Ford, m’ha spiegato un vecchio russo in via di confidenze, è che si accettava qualunque persona e qualunque cosa ‘Solo, stai attento – m’ha aggiunto perché mi sapessi regolare – non bisogna far grane da lui, ché se pianti grane ti scaraventano alla porta in quattr’e quattr’otto, e sarai in quattr’e quattr’otto sostituito da una delle macchine meccaniche che hanno sempre a portata di mano e allora non ci hai più mezzo di rientrarci!’ » [pag. 235]
– « Non vi serviranno a nulla i vostri studi qui, ragazzo mio! Voi non siete venuto qui per pensare, ma per fare i gesti che vi si comanderà d’eseguire … Non abbiamo bisogno di immaginativi nell’officina. L’è di scimpanzè che abbiamo bisogno. Un consiglio ancora. Non parlate mai più della vostra intelligenza! Ci saranno altri che penseranno per voi! Tenetevelo per detto. » [pag. 236]
– « Tutto tremava nell’immenso edificio e anche noi dai piedi alle orecchie possedute da quel tremore, le scosse venivano da vetri e dal pavimento e dalla ferraglia, vibrate dall’alto in basso. Si diventava macchine per forza e con tutta la propria carne ancor tremante in quel rumore di rabbia enorme che prendeva il di dentro e il giro della testa e più e più in basso agitava le trippe e risaliva agli occhi in leggeri colpi precipitati, infiniti, continui. A misura che s’avanzava, perdevamo dei compagni. Si faceva loro un sorrisetto lasciandoli come se tutto quel che succedeva fosse pura cortesia. Non si poteva più né parlare né sentire. Ne rimanevamo ogni volta tre o quattro intorno a una macchina. » [p. 236-237]
La tesi di laurea in medicina di Destouches La tesi di laurea in medicina inizia con un colpo di fulmine, uno stratagemma storico-narrativo rappresentato dal clamore della rivoluzione, «Mirabeau gridava così forte che Versailles ebbe paura»; l’Europa partorisce con dolore una nuova era, febbrile e solo dopo anni si instaura una epoca di “convalescenza”; è in questa contesto che nasce Semmelweis. La conclusione è piuttosto lirica, ma centrata su di una inconfutabile verità storica:
« Fu un grandissimo cuore e un grande genio medico. Egli rimane, senza alcun dubbio, il precursore clinico dell’antisepsi, perché i metodi da lui preconizzati per evitare la febbre puerperale sono ancora, e sempre saranno d’attualità. La sua opera è eterna. Tuttavia nella sua epoca, venne assolutamente misconosciuta. … sembra che la sua scoperta superasse le forze del suo genio. E questo fu forse la causa profonda di tutte le sue sventure. » [Il dottor Semmelweis, Adelphi 1975, p. 102-103]
Come scrive Guido Ceronetti nella sua acrobatica e scoppiettante postfazione, Céline evoca «la religione laica dell’affamato d’anima che cercava qualcuno da adorare, il santo, il profeta, l’eroe» [pag. 111] e dimostra ampiamente che si tratta di «una squisita agiografia laica, che racconta un solo miracolo e dopo poco pagine precipita il suo santo nel martirio finale» [pag. 112]. È una storia romanzata di grande impatto condotta dall’autore con licenze letterarie poco apprezzate da storici della medicina accademici. Sherwin B. Nuland (Il morbo dei dottori. La strana storia di Ignàc Semmelweis, Codice Edizioni, Torino 2004) nella sua bibliografia la liquida con due parole: «alquanto confusa» (pag. 145). Altri autori si sono impegnati, ma senza ledere minimamente il valore intrinseco e comunicativo dell’opera, a elencare numerosi errori od omissioni riguardanti date, nomi, percentuali di ammalate e di morti; in particolare vengono contestati alcuni aspetti della persecuzione del medico ungherese e più di tutti il finale truculento, quello della autoinoculazione e del suicidio […].
Finale di partita che merita di essere letto:
«C’era un cadavere, sul marmo, al centro, per una dimostrazione, Semmelweis, impadronitosi di uno scalpello, si apre un varco fra gli allievi, rovesciando varie sedie, si accosta al marmo, e, prima che si riesca a impedirglielo, incide la pelle del cadavere, taglia nei tessuti putridi, abbandonato ai suoi impulsi, strappando lacerti di muscoli che poi scaglia lontano. Accompagna le sue mosse con esclamazioni e frasi sconnesse … fruga con le dita e con la lama al tempo stesso in una cavità cadaverica gocciolante di umori. Con un gesto più brusco degli altri si taglia in profondità. La ferita sanguina. Grida. Minaccia. Viene disarmato. Circondato. Ma è troppo tardi … si è infettato mortalmente. » [pag. 98]
I testi “igienici” e di “medicina sociale” di Destouches-Céline Una raccolta degli scritti medici di Céline è stata pubblicata per la prima volta da Gallimard nel 1977 (Semmelweis et autres écrits médicaux, a cura di J-P. Dauphin e H. Godard, Cahier Céline 3) Si tratta di tutti quelli conosciuti, adeccezione di uno (La santé publique en France, Monde, n. 92, 8 mars 1930, 35-36). Solo una parte di questi testi sono tradotti in italiano in un volume dal titolo di fantasia (I Sotto uomini, Testi sociali, a cura di Giuseppe Leuzzi, Shakespeare and Co., 1993) e cioè: – Nota sull’organizzazione sanitaria degli stabilimenti Ford a Detroit, del 1925); – Nota sul servizio sanitario della Compagnia Westinghouse a Pittsburgh, del 1925; – Per abbattere la disoccupazione abbatteranno i disoccupati? (Le Mois, 1 février 1933, 57-60); – La medicina alla Ford (Lectures 40, n°4, 1 août 1941 et n. 5, 15 août 1941); – Le assicurazioni sociali e una politica economica della salute pubblica (La Presse Medicale, n. 94, 24 novembre 1928, 1499-1501).
Nella raccolta italiana compaiono anche due brevi scritti assenti nella raccolta francese, Luisiana I e Luisiana II del 1925, relazioni dattiloscritte come le altre dello stesso anno scritte da Céline in occasione del suo viaggio per conto della Società delle nazioni e conservate nell’archivio storico dell’Organizzazione mondiale della sanità di Ginevra. Sono disponibili dunque solo in francese gli altri testi: – A propos du service sanitaire des usines Ford à Detroit, Bulletins et Mémoires de la Société de medécine de Paris, n. 10, 26 mai 1928, 303-312; – Essai de diagnostic et de thérapeutique méthodiques ‘en série’ sur certains malades d’un dispensaire, Bulletins et mémoires de la Société de medécine de Paris, n. 6, 22 mars 1930, 163-168; – Mémoire pour le cours des hautes etudes, 1932 (inedito sino al 1977).
Si tratta complessivamente di un corpus che èstato studiato a fondo da più autori francesi negli ultimi anni e ultimamente con una monografia da David Labreure (Louis Ferdinand Céline, une pensée médicale, Editions Publibook, 2009). Dettagliata è anche l’analisi fatta in precedenza da Philippe Roussin (Destouches avant Céline: le taylorisme et le sort de l’utopie hygiéniste. Une lecture des écrits médicaux des années vingt, Sciences Sociales et Santé, 1988, 3-4, 5-48).
La lettura degli scritti “medici” di Céline più o meno influenzata dagli scritti specialistici riportati sopra porta a fare alcune considerazioni essenziali. Si tratta nella quasi totalità di quella che alcuni chiamano “letteratura grigia”, d’occasione (come le relazioni prodotte in occasione del viaggio negli stati Uniti del 1925), in alcuni casi rielaborata in anni successivi; oppure si tratta dei testi di interventi svolti in riunioni di società scientifiche e sono frutto della propria esperienza professionale che, in qualche caso, offre il destro alla formulazione di una teoria generale. Un nucleo preponderante di questi scritti fa riferimento al lavoro e si capisce che l’autore è stato profondamente colpito dalla novità e dall’importanza di ciò che verrà inteso come fordismo. Si dimostra convinto della ineluttabilità del lavoro come condizione di guerra permanente, della fabbrica come campo di battaglia, dei lavoratori come soldati prima votati al sacrificio e poi reduci invalidi. Ed ecco il rimedio a questo stato di cose: l’igiene non può che divenire «una medicina militare» capace di gestire gli invalidi, di mantenerli nei luoghi di lavoro sfruttando ancora delle capacità residue che si deve materializzare proprio nella organizzazione produttiva inaugurata da Ford. Viene prefigurato un «capitalismo organizzatore» che eroga, a partire dalle grandi fabbriche, una «medicina razionalizzata, preventiva, collettiva». I malati cronici, gli invalidi, i reduci di ogni tipo di guerra dovranno essere inseriti o rimanere nella produzione con una speciale sorveglianza sanitaria dove i medici dell’azienda sono anche sociologi che si recano a casa dei lavoratori per curarli ed educarli: il medico, a differenza di come opera il paternalismo cattolico, deve saper riconoscere nella malattia la colpa individuando le condotte da correggere. Ne risulta un “igienismo industriale” improntato alla congruenza tra razionalizzazione della medicina e razionalizzazione del lavoro che riconduce alle aziende moderne, e non allo stato liberale, la possibilità di aver cura dello stato sanitario della popolazione. Applicando in pieno una tale ipotesi, secondo l’autore, si risolverebbe alle radici il problema delle assicurazioni sociali, il cui compito sarebbe svolto in tutto e per tutto dalle aziende. Viene così enunciata un’utopia igienistico-produttivistica, un controllo feroce della manodopera e il controllo sociale, gli stessi che hanno ispirato Metropolis, il film di Fritz Lang del 1927.
Il titolo dello scritto del 1933 Per abbattere la disoccupazione abbatteranno i disoccupati? è tanto accattivante quanto deludente risulta la lettura del testo. Dopo una visita in Germania Céline indaga le cause del «gran casino» in cui vive tale nazione e afferma che il problema è costituito «anzitutto e soprattutto» dalla massa sottoproletaria, definita come «la miseria tedesca» che sopravvive solo grazie all’assistenza statale; le ingenti risorse utilizzate per sfamare i disoccupati e le loro famiglie potrebbero infatti – a detta dello scrittore – risollevare il Paese dalla crisi economica se diversamente investite; per il futuro Céline auspica che «nella cerchia di Hitler si trovi il dittatore alla disoccupazione che organizzi infine questa miseria anarchica e la stabilizzi a un livello ragionevole».
La notorietà del capolavoro di Boris Pasternak “Il dottor Zivago” e oggi probabilmente dovuta al film che vi è stato tratto più che all’originale letterario. Succede quando Hollywood come in questo caso si impegna con una regia di grande capacità, con un cast che più stellare non si potrebbe e con una colonna sonora che è rimasta nell’immaginario collettivo. L’efficacia della pellicola non deve fare però dimenticare che fu questo libro a determinare la scelta dell’accademia di Stoccolma di assegnare il Nobel per la letteratura allo scrittore, che non poté ritirarlo poiché le autorità sovietiche gli negarono il permesso. Del resto l’opera, raccontando le tragiche vicende della rivoluzione russa, costituiva per il rigido regime di Mosca un problema a dir poco imbarazzante. All’interno di questo scenario politico si svolgono le non meno drammatiche vicende d’amore del medico eponimo, al quale sul grande schermo resta il volto Omar Sharif, attore icona dell’epoca
Russia, anni ’10. Yurij Zivago è un giovane e brillante studente di medicina con un’inclinazione per la poesia; l’uomo sta completando i suoi studi ed è fidanzato con la cugina Tonya. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Yurij si reca al fronte per prestare i suoi servizi come medico; qui ritrova Lara, una ragazza che aveva conosciuto anni prima a Mosca e della quale si scopre innamorato…
Il dottor Zivago, filmato nel 1965 dal regista inglese David Lean, autore di classici quali Il ponte sul fiume Kwai e Lawrence d’Arabia, rappresenta senza dubbio uno degli eventi cinematografici più importanti di tutti i tempi: un film sontuoso ed indimenticabile, consacrato fra le pellicole più famose ed amate che siano mai state realizzate. Tratto dal celeberrimo romanzo dello scrittore russo Boris Pasternak, adattato per lo schermo da Robert Bolt, Il dottor Zivago è passato alla storia come uno dei maggiori colossal di Hollywood, con quasi un anno di riprese per una durata di oltre tre ore. Prodotta dall’italiano Carlo Ponti per la MGM e costata 11 milioni di dollari, l’opera si è rivelata un successo di pubblico senza precedenti, con 110 milioni incassati al botteghino americano e circa 250 milioni di spettatori in tutto il mondo; all’epoca, è diventato il quarto film più visto di sempre negli Stati Uniti (120 milioni di spettatori), ed ancora oggi rimane fra i primi dieci in assoluto. Rispetto al libro di Pasternak, che alla sua pubblicazione aveva provocato notevole clamore per i suoi contenuti politici ed era stato bandito dall’Unione Sovietica, il film di Lean (girato tra la Spagna, la Finlandia e il Canada) riduce gli aspetti prettamente storici e sociali della vicenda per soffermarsi invece sull’amore travagliato fra i due protagonisti: il dottor Yurij Zivago e la bella infermiera Lara, interpretati rispettivamente dal popolare attore egiziano Omar Sharif e da una splendida Julie Christie; al loro fianco, un cast stellare formato da giovani talenti emergenti (Geraldine Chaplin, Tom Courtenay, Rita Tushingham) e da affermati veterani (Rod Steiger, Alec Guinness, Ralph Richardson). Riuscendo a fondere la maestosità della ricostruzione scenica con il gusto per il racconto epico e sentimentale, Lean ci regala uno spettacolo decisamente coinvolgente, che si avvale di una galleria di personaggi ben caratterizzati e di una regia magistrale, efficace soprattutto nelle scene di massa e nelle panoramiche mozzafiato. I grandi eventi storici della Russia di inizio secolo (la Rivoluzione bolscevica, la guerra civile, la nascita del regime socialista) si intrecciano con le passioni private dei vari personaggi, le cui esistenze sono ripercorse tramite la voce narrante del fratello di Yurij, il generale Yevgraf Zivago (Guinness), in un prologo introduttivo ambientato diversi decenni più tardi. Da antologia la stupenda colonna sonora composta da Maurice Jarre, incluso il mitico Tema di Lara, memorabile leit-motiv della pellicola. Presentato al Festival di Cannes nel 1966, Il dottor Zivago è stato un trionfo mondiale ed ha ottenuto cinque premi Oscar (sceneggiatura, musiche, fotografia, scenografia e costumi) e cinque Golden Globe.