Divulgazione e (neuro)diversità, il Talk coffee per il Retreat Cnr-Irib

Divulgazione e (neuro)diversità, il Talk coffee per il Retreat Cnr-Irib

22/06/2023

Nell’ambito del Retreat del Cnr-Irib (Istituto per la ricerca e l’innovazione biomedica del Consiglio nazionale delle ricerche), Messina 20-22 giugno, si è svolto il primo Coffee talk presso il Museo regionale, che ha inaugurato un nuovo format di divulgazione dell’Irib che proseguirà a settembre. Tra i protagonisti, il prof. Angelo Quartarone, direttore scientifico dell’Irccs Bonino Pulejo di Messina, e il quartetto GLORIUS4, moderati da Marco Ferrazzoli, dirigente tecnologo del Cnr.

Il tema affrontato è quello del rapporto tra modalità espressive artistiche, in particolare musicali, e neurodiversità, declinato attraverso tre domande. Ne sono emersi sostanzialmente il funzionamento “super” del cervello di musicisti e cantanti, attestato dalla minor attivazione durante l’esecuzione di una semplice scala musicale, e le straordinarie potenzialità terapeutiche della musica, dimostrate tra l’altro dal “risveglio” dal loro torpore di pazienti alzheimeriani e parkinsoniani.

Sono stati mostrati al pubblico un’ex ballerina e un ex jazzista, rispettivamente stimolati dal “Lago dei cigni” e da un brano di Cab Calloway, e alcuni pazienti coinvolti in un ballo al ritmo di musiche irlandesi, oggetto di video particolarmente emozionali che in rete sono difatti divenuti virali. Il gruppo delle GLORIUS4 (Agnese Carruba, Cecilia Foti, Federica D’Andrea e Maria Chiara Millimaggi) ha interloquito con Ferrazzoli e Quartarone sulla base della propria esperienza ed eseguito a cappella alcuni brani: “Uluaki” (delle Isole Tonga), “More than words” in un mash up con “You’ve got a friend”, “Don’t worry, be happy” e “Tu vuo’ fa’ l’americano”.

Sempre in tema di interazione tra fragilità, neurodiversità e sindrome dello spettro autistico in particolare, la serata ha poi visto l’inaugurazione della mostra “Racconti e ritratti di medicina e malattia”, evento ufficiale del centenario Cnr, in corso dal 10 al 31 luglio e dal 4 settembre al 31 dicembre 2023 sempre a Messina, presso la sede Cnr-Irib, e che si è arricchita, rispetto alle sei stanze delle precedenti edizioni, di una settima stanza dedicata all’autismo. L’Istituto per la ricerca e l’innovazione biomedica, infatti, ha sviluppato un expertise unica di ricerca e trattamento dei disturbi dello spettro autistico.

La stanza è stata arricchita dall’esposizione dei quadri di Ugo Prestipino, 31enne con neurodiversità, mentre Samuele Di Meo, 18enne Asperger, ha fatto da guida della mostra per l’ampio pubblico presente. Tra ricercatori e ospiti erano presenti oltre un centinaio di persone, tra le quali il direttore dell’Irib Andrea De Gaetano, i ricercatori Antonio Cerasa, Flavia Marino, Giovanni Pioggia, Alfio Puglisi, Rosa Musotto, il direttore del MuMe-Museo regionale di Messina Orazio Micali, l’assessore comunale Alessandra Calafiore, l’imprenditore Antonio Barbera.

Per informazioni:
Giovanni Pioggia
Cnr – Irib
giovanni.pioggia@irib.cnr.it

Mostrami Kim

Sguardi. Emozioni. Accoglienza. La mostra fotografica “Mostrami Kim” ha acceso i riflettori sul diritto alla cura dei bambini malati.

Giovedì 1 Dicembre è stata inaugurata a Roma la mostra fotografica dal titolo “Mostrami Kim. Venticinque anni di accoglienza e di lotta per il diritto alla cura”. La mostra fotografica, aperta al pubblico dal 2 al 4 Dicembre, è stata realizzata  dall’Associazione KIM per i suoi venticinque anni di impegno al fianco dell’infanzia malata. L’allestimento a Palazzo Velli, nel magnifico quartiere Trastevere, è stato curato da Elisa Clementelli, ha raccolto opere di dieci fotografi: sguardi di professionisti e istantanee amatoriali raccolte dai volontari dell’Associazione KIM. 

Le immagini e le parole della mostra accendono i riflettori sulla condizione dei numerosi bambini italiani in stato di povertà e provenienti da Paesi in guerra o senza strutture sanitarie adeguate e per i quali – oggi – l’intervento, chirurgico o farmacologico, in un Paese come il nostro rimane l’unica speranza di vita.

La mostra è stata preceduta dalla tavola rotonda “Curare o prendersi cura?” per riflettere sul diritto alla salute dei bambini. La riflessione è stata moderata dal Dr. Marco Ferrazzoli, giornalista ed esperto di  comunicazione scientifica presso la Presidenza del Consiglio. Oltre al Presidente e fondatore dell’Associazione KIM, Paolo Cespa, erano presenti anche Fulvio Caldarelli, designer curatore e fondatore del Centro interdisciplinare di ricerca sul paesaggio contemporaneo; Elisa Clementelli, fotografa e autrice di laboratori fotografici in ambito sociale; Federica Chiara,  Presidente di Associazione LINFA contro le neurofibromatosi e ricercatrice all’Università di Padova (Istituto Veneto di Oncologia IOV-IRCCS); Antonella Guido,  Psicologa-psicoterapeuta dell’Unità Operativa di Oncologia Pediatrica e Unità Operativa Psicologia Clinica del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS; Bernadette Guarrera, educatrice, counselor familiare, e Vice Presidente e fondatrice dell’Associazione KIM. 

Le opere esposte sono di Flavia Castorina, Mimmo Chianura, Elisa Clementelli, Emiliano Gallo, Luigina Di Giampietro, Bernadette Guarrera, Omar Kheiraoui, Martino Pisanello, Laura Saviola, Elisabetta Tufarelli. L’iniziativa è sostenuta da una donazione del Circolo Dipendenti Quirinale.

L’Associazione KIM è nata nel 1997 per dare una risposta concreta all’emergenza sanitaria di bambini gravemente malati che abbiano bisogno di un intervento tempestivo. L’associazione KIM ha sviluppato un percorso che, dal primo contatto, porta alla cura del bambino in diverse fasi: un modello di accoglienza e di cura che non si limita alla sola ospitalità, ma che prevede l’assistenza dei piccoli pazienti in durante il ricovero, nei periodi convalescenza nel centro d’accoglienza o, una volta tornati a casa, nel proprio Paese d’origine. Tutto ciò è reso possibile lavorando in rete con ospedali, associazioni e istituzioni.

Riferimenti:

“L’arte profonda dell’errore”

La sezione arte e neuropsichiatria del quotidiano L’Osservatore Romano intervista l’artista visivo Luca Santiago Mora riguardo il suo esperimento psico-artistico, chiamato L’Atelier dell’Errore (AdE), in collaborazione con bambini e ragazzi

Andare oltre l’idea comune di normalità per progettare un futuro diverso aperto a narrazioni fuori dall’ordinario, ma proprio per questo potenti. Era il 2002, vent’anni fa, quando l’artista visivo Luca Santiago Mora decideva di creare l’Atelier dell’Errore (AdE), un esperimento controcorrente insieme ai bambini e ragazzi della neuropsichiatria infantile dell’Azienda Ospedaliera di Reggio Emilia e Bergamo. L’AdE è uno spazio libero, non gravato da preconcetti e aspettative, dove ognuno ha la possibilità di raccontare sé stesso e il suo mondo interiore attraverso il gesto più semplice, il disegno. Abbiamo chiesto a Santiago Mora di raccontarci questa esperienza, che dal 2015 si è evoluta diventando uno collettivo artistico ospitato permanentemente dalla Collezione Maramotti di Reggio Emilia.
[…]

David Copperfield

Il brano antologizzato riguarda la terribile morte della prima moglie di David, Dora, che viene a mancare a causa di un aborto spontaneo.

Tento di trattenere le lacrime e di rispondere: «Oh, Dora, amor mio, eri adatta come lo ero io per essere un marito!»
«Non lo so,» e scuote ancora i riccioli come un tempo. «Forse! Ma se fossi stata più adatta al matrimonio, avrei reso più adatto anche te. Inoltre tu sei intelligente, e io non lo sono mai stata.»
«Siamo stati molto felici, Dora mia dolce.»
«Sono stata molto felice, molto. Ma, col passar degli anni, il mio caro ragazzo si sarebbe stancato della sua moglie-bambina. Sarebbe stata sempre meno un compagno per lui. E lui avrebbe sentito sempre più quello che mancava nella sua casa. Non sarebbe migliorata. È meglio che sia andata così.»
«Oh, Dora, cara, cara, non dirmi queste cose. Ogni tua parola mi sembra un rimprovero!»
«No, nemmeno una sillaba!» mi risponde baciandomi. «Oh, caro, non lo meriti, e io ti amo troppo per dirti una sola parola di rimprovero, davvero: è tutto il merito che ho avuto oltre al fatto di essere graziosa… o almeno tu mi consideravi tale. C’è molta solitudine da basso, Doady?»
«Tanta! Tanta!»
«Non piangere! C’è ancora la mia sedia?»
«Al suo solito posto.»
«Oh, come piange il mio povero ragazzo! Zitto, zitto! Adesso fammi una promessa. Voglio parlare ad Agnes. Quando scendi, dillo ad Agnes e mandamela su; e mentre le parlo non lasciar venire nessuno, nemmeno la zia. Voglio parlare solo ad Agnes. Voglio parlare ad Agnes da sola.»
Le prometto che verrà subito; ma, nel mio dolore, non posso lasciarla.
«Ho detto che è meglio che sia andata così!» mi mormora tenendomi fra le braccia. «Oh, Doady, fra qualche anno tu non avresti amato la tua moglie-bambina più di quanto la ami adesso; e dopo qualche anno ancora lei ti avrebbe così messo alla prova e deluso che tu non saresti stato capace di amarla nemmeno la metà di adesso! So che ero troppo giovane e stupidella. È molto meglio che sia andata così!»
Quando scendo in salotto, Agnes è lì; le comunico il messaggio. Scompare lasciandomi solo con Jip.
La sua pagoda cinese è accanto al fuoco; lui vi è sdraiato dentro, sul suo letto di flanella, tentando
lamentosamente di dormire. La luna brilla luminosa nell’alto. Mentre guardo fuori nella notte, le lacrime mi cadono copiose e il mio indisciplinato cuore è castigato duramente… molto duramente.
Mi siedo accanto al fuoco pensando con un sordo rimorso a tutti i segreti sentimenti che ho nutrito durante il mio matrimonio. Penso a ogni piccola cosa intervenuta fra me e Dora, e capisco la verità che di piccole cose è formata la nostra vita. Sempre risorge dal mare dei ricordi l’immagine della cara fanciulla quale l’avevo conosciuta dapprima, aggraziata dal mio giovane amore e dal suo, con tutte le magie di cui questo amore è ricco. Sarebbe stato davvero meglio se ci fossimo amati come due fanciulli e ci fossimo poi dimenticati? Indisciplinato cuore, rispondi!
Non so come il tempo trascorra; finché sono richiamato a me dal vecchio compagno della mia moglie-
bambina. Più inquieto del solito, si trascina fuori della sua casa, e mi guarda, e va incerto alla porta, e uggiola per salire.
«Non stanotte, Jip! Non stanotte!»
Torna molto lentamente verso di me, mi lecca la mano e alza verso il mio volto i suoi occhi appannati.
«Oh, Jip! Forse non avverrà mai più!»
Si abbandona ai miei piedi, si allunga come per dormire, e, con un grido lamentoso, muore.
«Oh, Agnes, guarda qui!»
…Quel volto, così pieno di pietà e di dolore, quel fluire di lacrime, quel terribile, silenzioso appello a me,
quella mano solenne levata verso il cielo!

Charles Dickens

Mio fratello rincorre i dinosauri. Storia mia e di Giovanni che ha un cromosoma in più

Down: una parola straniera? Una notizia travolgente? Un’etichetta? Una sindrome?

Una persona, un fratello, una questione di sguardo.

Abbiamo una cosa da dirvi… Riguarda vostro fratello.

Papà le strinse la mano.

– Vostro fratello… – disse, e fece una pausa. – Ecco, vostro fratello sarà… speciale.

Io e Chiara ci scrutammo l’un l’altra muovendo solo gli occhi.

– Speciale? – disse lei.

– In che senso speciale? – chiesi io.

– Nel senso, – disse papà, – che sarà… diverso. Affettuoso, anzitutto. Molto. Moltissimo. E poi sorridente e gentile. E tranquillo. E con i suoi, ecco, diciamo con i suoi tempi.

Sollevai un sopracciglio: – I suoi tempi?

– E altre cose sue speciali che ancora non sappiamo, – sorrise mamma.

– Quindi è una buona notizia? – chiese Chiara.

– Non è solo una buona notizia, – disse papà serio. Aggrottò la fronte in un modo buffo e la macchina cominciò a gonfiarsi e a sgonfiarsi come se stesse respirando con noi. – È molto di piú, – disse. – È una notizia travolgente –. Poi si girò e accese la radio. […]

– In che senso da dove arriva?

– Non è di questo pianeta. È evidente.

– Te l’avevamo detto, – disse lui, stringendomi la spalla con una mano cosí calda e ferma che con quella mano sulla spalla, giuro, sarei stato capace di andare ovunque nel mondo, affrontare qualunque cosa. – L’avevamo detto che era speciale.

Annuii.

Anzitutto gli occhi. Gli occhi erano cinesi, o venusiani forse, non sapevo decidermi; o di qualche altro pianeta con cristalli luminosi che sbucavano dalla sabbia e dieci lune viola nel cielo. Anch’io ho un taglio degli occhi un po’ orientale, in questo si vede che siamo fratelli, ma i suoi erano proprio tanto orientali. E poi la nuca. La nuca era piatta come una pista di atterraggio per microscopiche navicelle spaziali; se si fosse messo a quattro zampe potevi usarla come vassoio. Ma nulla mi colpí come le dita del piede che era scivolato fuori dalle coperte e che muoveva con scatti elettrici. Perché di dita, Giovanni, in quel piede, ne aveva quattro. O meglio, s’intuiva che potenzialmente erano cinque, ma il quarto e il quinto – il minolo e il pondolo – erano fusi insieme. Come due Kit Kat. […]

Aveva la copertina blu, un blu mogio e polveroso, e l’avevo intercettato già diverse volte, in camera da letto o sulla poltrona in salotto. Cosí, un giorno che stavo ciondolando per casa, finii per avvicinarmi e prenderlo in mano. Lessi l’autore, uno straniero, e il titolo, che conteneva anch’esso una parola straniera, e che quella parola era straniera lo sapevo perché c’era la lettera w. Noi non abbiamo tante lettere w o x nella lingua italiana, pensai. La parola era Down. La lessi pronunciandola: dovn. Prima di quella c’era la parola sindrome. Non sapevo cosa volesse dire sindrome, non sapevo cosa volesse dire Down. Lo aprii e, come sempre accade quando ci sono delle pagine piú spesse, il libro si spalancò su una fotografia.
Sgranai gli occhi. È Giovanni, pensai. […]

Ecco, allo stesso modo, interrogavo i miei genitori sui problemi di Gio. Sui suoi limiti, evidenti come il panino alla Nutella che mangiavo a merenda. E interrogavo soprattutto me stesso. Non mi interessavano piú le cause, quelle ormai erano cose passate. Pensavo piú che altro al suo futuro. Lui che non riusciva a imparare i numeri, come avrebbe fatto a pagare dal panettiere? Lui che aveva impiegato anni per parlare – e avrebbe sempre parlato male – come avrebbe fatto a scrivere? Se non sapeva né contare né scrivere, non avrebbe mai trovato un lavoro. Mi chiedevo perché avesse messo gli occhiali cosí presto: nessun altro bambino li portava. Mi chiedevo perché non ascoltasse niente, perché non capisse niente.
Addirittura – fu la cosa che mi sconvolse di piú – non avrebbe mai potuto fare le capriole. […]

Prima di quel giorno pensavo che il silenzio fosse assenza di rumore. Invece il silenzio è un suono, e c’è silenzio e silenzio. In quella mezz’ora, il silenzio mi parlò: mi disse che Gio aveva bisogno di me, costante bisogno di me; e io capii che ormai, senza Gio, non ci volevo piú stare a questo mondo. I suoi problemi erano i miei. E i miei problemi? A quelli ci avrei pensato da solo, senza disturbare; avrei trovato una soluzione. O almeno ci speravo. […]

Fu come il sole di mattina, quando filtra attraverso la tapparella che cerca di chiuderlo fuori e lui no, liquido e imprescindibile non si lascia imbrigliare, s’infila in ogni buco, in ogni fessura. Pensai ad Alice, alla sua reazione di fronte al bambino con il fucile. Pensai a Chiara, a quando aveva detto lascialo fare, che non è detto che le storie debbano sempre finire come sono state scritte. Ecco. Chi è che aveva scritto la nostra storia? Chi è che aveva sceneggiato la relazione tra me e Giovanni, e tra me, lui e il mondo, chi? Nessuno. Eravamo noi gli scrittori. Mia poi era la responsabilità di decidere come sarebbe finita la nostra storia. Nessuno instillava la paura del giudizio nel mio cuore, ero io a nutrirla.

Giacomo Mazzariol

Giacomo Mazzariol, “Mio fratello rincorre i dinosauri”, Einaudi, Torino, 2016

 

Canto di Natale

Nel Canto di Natale di Charles Dickens, Tim, bambino storpio, che si aiuta con una stampella per camminare, confida nello spirito natalizio per essere accettato dalla comunità dei fedeli.

Così Marta si nascose ed entrò il piccolo Bob, il padre, con almeno tre piedi di sciarpa, senza contare la frangia, che gli pendeva davanti e i vestiti logori, rammendati e spazzolati che sembravano nuovi, e Tiny Tim sulle spalle. Povero Tim, portava una piccola stampella e aveva le membra sostenute da una struttura di ferro.

[…] <<Come si è comportato Tim?>>, chiese la signora Cratchit, dopo essersi burlata di Bob per la sua credulità e dopo che Bob si fu saziato di tenersi stretta la figlia.

<<Buono come l’oro>>, disse Bob, <<e anche più buono. Qualche volta si mette a pensare, giacchè passa tanto tempo a sedere solo solo, e pensa le cose più strane che si possano immaginare. Tornando a casa, mi ha detto che sperava che la gente lo avesse visto in chiesa, perché era storpio e per loro poteva essere un piacere ricordarsi nel giorno di Natale di Colui che fece camminare gli storpi e vedere i ciechi>>

Nel dire queste parole, la voce di Bob tremava e si mise a tremare ancor più quando disse che Tim stava facendosi forte e coraggioso.

Si udì sul pavimento il rumore della sua piccola stampella, e Tiny Tim tornò indietro prima che fosse stata detta un’altra parola, scortato dal fratello e dalla sorella fino al suo panchetto accanto al fuoco.

[…] <<Dio ci benedica, ciascuno di noi!>>, disse Tim per ultimo. Stava seduto sul suo panchetto vicinissimo al padre, e Bob teneva nella propria la sua esile manina, come se avesse amato quel bambino, desiderato di tenerselo accanto e temuto che potessero portarglielo via.

<<Spirito>>, disse Scrooge, con un interessamento che non aveva mai provato prima di allora, <<dimmi se Tim vivrà.>>

<<Vedo una sedia vuota>> replicò lo Spirito, <<nell’angolo di quel misero caminetto e una gruccia senza proprietario, conservata con ogni cura. Se queste ombre rimangono inalterate nel futuro il bimbo non morirà.>>

<<No, no>>, disse Scrooge. <<Oh no, Spirito buono. Dimmi che sarà risparmiato.>>

<<Se queste ombre rimangono inalterate nel futuro, nessun altro della mia razza>>, replico lo Spirito, <<lo troverò più qui, ma che importa? Se deve morire, è meglio che muoia e faccia diminuire la popolazione in sovrappiù.>>

Nel sentire lo Spirito citare le sue stesse parole, Scrooge chinò la testa e si sentì schiacciato dal pentimento e dal rimorso.

Charles Dickens

Treccani Enciclopedia Online

Charles Dickens, “Canto di Natale” (1843)

I bambini rachitici di De Amicis

Una pagina di Cuore mostra le condizioni di salute degli scolari di fine Ottocento in Italia. Il medico, a scuola, visita i bambini e ne osserva le carenze e le deformità che ne determinano l’emarginazione sociale.

Erano una sessantina, tra bambini e bambine… povere ossa torturate! Povere mani, poveri piedini rattrappiti e scontorti! Poveri corpicini contraffatti! […] Alcuni, visti da davanti, son belli, e paion senza difetti; ma si voltano… e vi danno una stretta all’anima. C’era il medico che li visitava. Li metteva ritti sui banchi e alzava i vestitini per toccare i ventri enfiati e le giunture grosse; ma non si vergognavano punto, povere creature; si vedeva che erano bimbi assuefatti a essere svestiti, esaminati, rivoltati per tutti i versi.[…] Ma chi può dire quello che soffrirono durante il primo deformarsi del corpo, quando col crescere della loro infermità, vedevano diminuire l’affetto intorno a sé, poveri bambini, lasciati soli per ore ed ore nell’angolo di una stanza o d’un cortile, mal nutriti, e a volte anche scherniti, o tormentati per mesi. […] Parecchi non potevano alzarsi dal banco, e rimanevan lì, col capo ripiegato sul braccio, accarezzando le stampelle con la mano.

[…] – Vieni,- ripetè l’infermiere entrando. Il ragazzo si fece animo e lo seguito, gettando sguardi paurosi a destra e a sinistra, sui visi bianchi e smunti dei malati, alcuni dei quali avevano gli occhi chiusi e parevano morti, altri gurdavan per aria con gli occhi grandi e fissi, come spaventati. Parecchi gemevano come bambini. Il camerone era oscuro, l’aria impregnata d’un odore acuto di medicinali. Due suore di carità andavano attorno con delle boccette in mano.

Arrivato in fondo al camerone, l’infermiere si fermò al capezzale d’un letto, aperse le tendine e disse: – ecco tuo padre.

Il ragazzo diede in uno scoppio di pianto, e lasciato cadere l’involto, abbandonò la testa sulla spalla del malato, afferandogli con una mano il braccio che teneva disteso immobile sopra la coperta, il malato non si scosse.

Edmondo De Amicis

Testo completo

Edmondo De Amicis, Cuore (1886)

Pinocchio

Il povero Pinocchio è vivo o morto? Tre medici si susseguono per accertarsi delle condizioni del burattino, ma solo la Fata riuscirà a trovare la chiave per la sua guarigione.

[…] I medici arrivarono subito, uno dopo l’altro: arrivò, cioè, un Corvo, una Civetta e un Grillo-parlante.

-vorrei sapere da lor signori,- disse la Fata, rivolgendosi ai tre medici riuniti intorno al letto di Pinocchio- vorrei sapere da lor signori se questo disgraziato burattino sia morto o vivo!…

A quest’invito, il Corvo, facendosi avanti per il primo, tastò il polso a Pinocchio: poi gli tastò il naso, poi il dito mignolo dei piedi: e quando ebbe tastato ben bene, pronunziò solennemente queste parole:

-a mio credere il burattino è bell’e morto: ma se per disgrazie non fosse morto, allora sarebbe indizio sicuro che è sempre vivo!

-Mi dispiace- disse la Civetta- di dover contraddire il Corvo, mio illustre amico e collega: per me, invece, il burattino è sempre vivo: ma se per disgrazia non fosse vivo, allora sarebbe segno che è morto davvero!

[…] A questo punto si sentì nella camera un suono soffocato di pianti e di singhiozzi. Figuratevi come rimasero tutti, allorché, sollevati un poco i lenzuoli, si accorsero che quello che piangeva e singhiozzava era il povero Pinocchio.

-Quando il morto piange, è segno che è n via di guarigione—disse sollenemente il Corvo.

-Mi duole di contraddire il mio illustre amico e collega,-soggiunse la Civetta – ma per me, quando il morto piange è segno che gli dispiace a morire.

Appena i tre medici furono usciti di camera, la Fata si accostò a Pinocchio, e, dopo averlo toccato sulla fronte, si accorse che era travagliato da un febbrone da non si dire.

Allora sciolse una certa polverina bianca in mezzo al bicchier d’acqua, e porgendolo al burattino gli disse amorosamente:

-Bevila, e in pochi giorni sarai guarito.

Pinocchio guardò il biacchiere, storse un po’ la bocca, e poi domandò con voce di piagnisteo:

-è dolce o amara?

Carlo Collodi

Treccani Enciclopedia Online

Carlo Lorenzini, Pinocchio (1883)

Pozzuoli ai tempi del colera

Il romanzo storico di Rosario Zanni ci porta a Pozzuoli alla fine del XIX secolo, quando il colera causò centinaia di vittime.

La presenza delle epidemie nella letteratura è imponente: scenario e deus ex machina narrativo, esse consentono spesso agli autori di rinforzare emotivamente il racconto, oppure di creare le location ideali per far emergere caratteri e storie private dei loro personaggi. Solo immaginare “I promessi sposi” e il “Decamerone” boccaccesco senza la peste, oppure Verga senza la malaria e il colera, sarebbe impossibile.

Ora, Stampa Alternativa propone nella sua Collana Eretica “Mal’aria”, un romanzo storico su ‘Colerosi, affamati e ribelli di fine ‘800’ scritto da Rosario Zanni. Ci troviamo a Pozzuoli, a fine XIX secolo, quando il colera causò centinaia di vittime. La famiglia Pollio deve però combattere, oltre che con l’epidemia, con le rapine ai casotti del dazio, il movimento anarchico, gli stupri, l’emigrazione e il carcere. Difficile non pensare ai vinti verghiani, almeno per contrappasso, visto che la vicenda è segnata da un’ambizione incomprimibile di rivolta e riscatto.

La scrittura di Zanni è molto efficace, classica nel periodare, grazie anche alle frequenti incursioni semidialettali e al sapiente uso dell’anacoluto. Ne fanno fede già le prime righe del libro. “I negozi venivano chiusi, le strade erano deserte, la contrada Ospizio completamente abbandonata, infelicissime condizioni igieniche della parete inferiore del quartiere Castello e del quartiere Teatro, non da meno i quartieri del Largo a mare e dei vichi Torre, bisognosi di una portentosa basalatura e di lavori di condutture in ferro per la canalizzazione. I bambini scalzi e nudi, alcuni più grandi coperti di piccoli cenci che fungevano da mutande, rotolavano lungo le strade ricoperte di acque immonde di latrina e di rifiuti domestici con aria meno baldanzosa del consueto”.

Marco Ferrazzoli

Rosario Zanni, “Mal’aria” (Stampa Alternativa, 2008)

La grande poesia di Piersanti, tra natura e malattia

Nostalgia e ricordo, dolore di un padre e incomunicabilità di un figlio: i sentimenti profondamente autentici, tracciati dalla penna dell’autore in una emozionante raccolta poetica.

Capita raramente di imbattersi in un libro di poesia che, come “L’albero delle nebbie” di Umberto Piersanti, ci riavvicini alla grande sorgente classica e alla non meno grande tradizione otto-novecentesca italiana. Una poesia in cui si colgono echi di Ovidio, Pascoli, Carducci… una volta per una citazione, un’altra per lo stile o per il tema: ma tutto questo senza che si profili mai l’ombra del plagio, al contrario, in una rielaborazione personalissima, intima nell’afflato e nel ricordo eppure oggettiva fino al cinismo nella descrizione della realtà.

I temi affrontati nel libro sono due: le Cesane che hanno fatto da sfondo ad altri libri di Piersanti e il figlio Jacopo, malato di un’incomunicabilità inaccessibile anche per i suoi affetti più vicini. Nei versi più legati alla terra natìa, la particolare campagna appenninica del Montefeltro, l’autore si dispiega in una serie di indicazioni e descrizioni storiche, famigliari ed ambientali: dalla guerra ai riti domestici, fino alla dolce litania di specie animali e vegetali. E’ soprattutto nel paesaggio che il ricordo reale si fonde con un immaginario evocativo, profondamente nostalgico. Nella parte dedicata al figlio, invece, emerge lo strazio di un padre impotente che pure trova, dentro la propria sofferenza, la forza e la ragione sufficienti per vivere. I due temi, poi, si mescolano progressivamente, fino quasi a rincorrersi l’un l’altro nella terza parte del libro.

E’ davanti a opere come queste che si spiega come Piersanti abbia ottenuto una candidatura al Nobel per la letteratura.

Marco Ferrazzoli

Umberto Piersanti, “L’albero delle nebbie” (Einaudi, 2008)