Simone Cristicchi, il ricercautore

Di esperienze, tra cui quelle sanremesi, ne ha collezionate molte. Abbina collaborazioni, ispirazioni e modalità sempre nuove, dalla canzone al “teatro civile”, dalla musica ai libri, dai video ai fumetti: il suo primo maestro è stato Jacovitti. Temi centrali: la poesia, la follia, la memoria storica


Si è svolto di recente un Sanremo anomalo, unico, per la mancanza di pubblico e la carenza di ospiti dovute alla pandemia, che si sono riflesse anche in un pesante calo di ascolti. In passato, però, il Festival è stato l’occasione per la scoperta, il rilancio o l’esplosione di molti artisti italiani: tra questi, Simone Cristicchi, che di esperienze sanremesi ne ha collezionate diverse. In particolare nel 2007 quando, con “Ti regalerò una rosa”, ha vinto il Festival e i premi della Critica e Radio Tv, aggiungendoci un disco d’oro e un tour con più di 100 eventi live. Difficile comunque ricordarne tutti i riconoscimenti, dai premi Gaber ed Endrigo al Cilindro d’argento dedicato a Rino Gaetano; e poi la Targa Tenco, i premi Musicultura, Mogol, Giancarlo Bigazzi, Anna Magnani, Tomizza, Dante musica e parole (assegnato dall’Accademia della Crusca), Amnesty Italia, Nassiriya per la pace, la cittadinanza onoraria di Trieste. A colpire di questo artista è soprattutto l’eclettismo, che lo porta ad abbinare collaborazioni, ispirazioni e modalità espressive sempre diverse, tra cui quella del “teatro civile” legato a temi sociali e storici spinosi. “In tutte le mie esperienze – spiega – ho però cercato di portare un tratto di originalità: ogni allievo, a un certo punto, deve recidere il nastro che lo lega al maestro. È stato questo il più grande insegnamento che ho ricevuto da Jacovitti”.

Partiamo da questa sua origine artistica, che forse non tutti conoscono
Sono stato sin da piccolo un appassionato di disegno e fumetto e Jacovitti, all’epoca in cui i miei coetanei stravedevano per Silvester Stallone, Rambo e Rocky, era lui il mio idolo. Così sono stato suo allievo. Quando andai a imparare da lui conobbi da un lato un uomo burbero, come lo immaginavo, dall’altro una figura tenera, quasi paterna. Agli inizi mi limitavo a imitarlo come una fotocopiatrice umana, lui mi rimproverò ma mi prese sotto la sua ala protettrice con grande pazienza.

Tempo dopo sono arrivati il teatro civile, o “teatro canzone”
L’innamoramento per questa forma d’arte straordinaria, un’invenzione tutta italiana. Di Giorgio Gaber mi colpì particolare la capacità, con le sue invettive inarrivabili, di non distaccarsi mai dai fatti storici. Ma ricordiamo anche Ascanio Celestini, il “Vajont” di Marco Paolini. E poi Gigi Proietti: lo vidi e teatro quando avevo 16 anni, stette tre ore da solo sul palco, uno sforzo incredibile, davvero “uno contro tutti”. Nella mia formazione e ispirazione ha avuto un ruolo importante anche mio nonno, che era un grande narratore. Il mio è un percorso con molte tappe, fino a un certo punto fatto solo di musica e concerti, poi ho avvertito il bisogno di misurarmi con il monologo, che è stato un po’ come cimentarmi nelle Olimpiadi, considerando che non ho mai frequentato una scuola di teatro.

Si è cimentato anche con temi storici non sempre “pacificati”: come mai in Italia fatichiamo a condividere la nostra memoria?
Io credo che la memoria condivisa sia possibile, la parte che la rifiuta è una minoranza infinitesimale. Chi ha criticato “Magazzino 18”, il musical che ho dedicato al dramma delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, appartiene a un’area estremistica. Inizialmente ho provato a dialogare con queste persone poi, quando la contestazione si è fatta più dura, come per una rappresentazione a Scandicci, ho capito che non era possibile. In quell’occasione mi sono sentito sia imbarazzato per loro sia divertito, visto che così hanno dato allo spettacolo una pubblicità enorme, che ha contribuito a realizzare 300 repliche sold out.

A proposito di memoria dolorosa, è stato anche direttore artistico del Teatro dell’Aquila. Che ricordo ne porta?
Durante l’incarico ho avvertito la responsabilità di rappresentare una città sofferente, ancora in piena rinascita e ricostruzione, con una ferita non rimarginata. Io ho provato a farla vedere da un’altra prospettiva, producendo con il Teatro Stabile d’Abruzzo lo spettacolo “Manuale di volo per uomo”. Una favola in musica e poesia su un quarantenne bambino, che trova stupefacente qualunque cosa guardi e che non sappiamo se considerare un “ritardato” o un genio. Io lo definisco un “super-sensibile”, capace di mettere a fuoco particolari che nascondono un’infinita bellezza, apparentemente insignificanti ma che non dovremmo lasciarci sfuggire.

Un tema, quello delle sensibilità sbrigativamente classificate come malattia mentale, che torna in molte sue opere. Come mai?
Il mio mondo è stato molto abitato dalla malattia mentale, io stesso ho camminato sul filo della follia. Ero bambino quando morì mio padre e quel dolore mi spinse al rifiuto della realtà: per anni mi sono rinchiuso nella mia stanza, creando un mondo tutto mio, di fantasia, fumetti, poesia, un mondo perfetto in cui nulla poteva ferirmi. Poi arrivò l’interesse per i “matti” del quartiere dove vivevo. Ho avuto anche un amico con problemi di dipendenza che finì in ospedale per un Tso, il Trattamento sanitario obbligatorio: andando a trovarlo scoprii una realtà che ignoravo completamente, quella dei “nuovi” manicomi.

Per lei è diventata una sorta di battaglia civile.
Lo stigma del malato di mente resta irraccontabile, ma io cerco di rappresentare le storie di queste persone dimenticate, abbandonate in un reparto: con la mia piccola telecamera sono stato nel manicomio calabrese di Girifalco, ho realizzato un viaggio per gli ospedali psichiatrici d’Italia. Sono nati così opere come “I matti de Roma”, “Centro di igiene mentale”, che racconta la mia esperienza di servizio civile, l’album e il documentario “Dall’altra parte del cancello” e, naturalmente, “Ti regalerò una rosa”.

La sofferenza dell’attuale pandemia, il lockdown e la riduzione dei contatti sociali non le ricordano un po’ quell’isolamento?
Per noi artisti questo è stato un trauma reale. A me sono state cancellate all’improvviso 60 date, un danno economico enorme, personale e per il mio staff. Ma ho cercato comunque di prendere questo evento come un regalo: da una vita estremamente movimentata mi sono ritrovato a vivere in campagna, a contatto con me stesso, con il tempo di pensare e di scrivere un album e un libro, “Abbi cura di me”. In attesa di tornare a percorrere la mia strada.

Quali altre tappe prevede?
Molte, tra cui “Happy next – Alla ricerca della felicità”, uno spettacolo e documentario con canzoni, racconti e video che considero una priorità, la condivisione di una mia scoperta. Attraverso la voce di personaggi dello spettacolo e della cultura, e di gente comune, cerco di rispondere alla domanda che tutti ci poniamo: che cosa è veramente la felicità?

La definizione di “ricercautore” le si adatta bene.
Mi considero una sorta di rigattiere, di antiquario, continuo a scandagliare la memoria storica ma anche una geografia sconosciuta, un mondo interiore invisibile.

Alla ricerca scientifica in senso stretto è interessato?
Molto. Sono curioso e affascinato soprattutto dalla ricerca che coniuga scienza e spiritualità, come la fisica quantistica. Quelle connessioni che Ervin Laszlo racconta in “Risacralizzare il cosmo”.

Lei unisce il registro ironico di “Vorrei cantare come Biagio”, brano che l’ha lanciata nel 2005, con quello serio. In questo ricorda Sergio Endrigo, con cui ha realizzato il duetto “Questo è amore” e di cui ha cantato una versione di “Io che amo solo te”
Nella mia vita privata come pubblica non c’è nulla di progettuale, cerco di fare in modo che l’artista e l’uomo coincidano. Endrigo, è stato un artista equivocato, oltre che una parte del mio percorso. “Biagio” fu un brano di grande successo ma poi il tempo taglia le cose, fa affiorare l’anima autentica dell’artista che, nel mio caso, è quella emersa con “Ti regalerò una rosa”. A un certo punto ho capito che l’artista deve avere un ruolo preciso nella società, un compito, una visione. Non tornerei più a parlare di cose relativamente futili e la corda popolare dell’ironia può descrivermi solo in parte. Ora per me è importante la parola, la poesia.


Marco Ferrazzoli


Lettere dal Manicomio
Ti regalerò una rosa

Pirandello, un autore in cerca di

In una sorta di psicobiografia, Annamaria Andreoli dettaglia la vicenda pirandelliana identificandovi una costante caratteriale che combina egocentrismo, depressione, ambizione. Lo scrittore novecentesco che meglio indagò contraddizioni, profondità, abissi dell’animo umano fu segnato dalle stesse caratteristiche di incertezza e insensatezza dei suoi personaggi e delle sue storie


Si potrebbe definire a buon titolo una psicobiografia, “Diventare Pirandello” di Annamaria Andreoli, un saggio monumentale che abbina uno stile narrativo molto coinvolto e coinvolgente a una precisione minuziosa nel dettagliare la vicenda pirandelliana. Il focus non è però meramente cronologico ma identifica, nelle vicende personali e professionali, private e famigliari, letterarie ed economiche, una costante caratteriale precisa, decisa, che potremmo definire un misto di egocentrismo, depressione, ambizione.
Il successo per Luigi Pirandello giunse alle soglie della vecchiaia, coronato nel 1934 dal premio Nobel per la letteratura, travolgente e improvviso quanto planetario, forse tardivo. Arrivò dopo centinaia di novelle, racconti, romanzi, saggi e opere teatrali. Ma la vita dello scrittore novecentesco che meglio indagò le contraddizioni, le profondità, gli abissi dell’animo umano (assieme a diversi altri colleghi, Italo Svevo in primis) fu segnata dalle stesse caratteristiche di incertezza e insensatezza che diedero la gloria ai suoi personaggi e alle sue storie. Le “maschere” della tragicomica condizione umana sembrano insomma calzare alla perfezione anche allo stesso Pirandello uomo e scrittore: divorato dall’ansia, votato maniacalmente al proprio talento e alla propria arte, affetto per decenni da sofferenze e frustrazioni.

Il libro di Andreoli ne dà conto producendo innumerevoli spunti e riferimenti, innnanzitutto poggiando sulle lettere ai famigliari, che rivelano un coacervo di affetti, interessi, dipendenze e ricatti, finzioni e menzogne, desideri e fantasmi, realtà e invenzioni della mente. È davvero difficile leggere i documenti qui indagati – molti dei quali per la prima volta – dall’autrice senza avere l’impressione di trovarsi nel backstage teatrale o nel cantiere letterario di un’opera pirandelliana. La formazione, i viaggi e le permanenze a Palermo, Roma e Bonn, la vita intima e sentimentale, la durezza del carattere, i malesseri, i tormenti si intrecciano agli avvenimenti letterari ed editoriali in modo indissolubile. La scrittura e il bisogno assillante di denaro; il matrimonio, l’insegnamento, i contatti e i contratti patiti come ragioni di sofferenza; la rivalità con Gabriele d’Annunzio (del quale, pure, Annamaria Andreoli è una studiosa di grande esperienza): lo scrittore del Caos – come artista e come autore – fu davvero “uno, nessuno e centomila”.

Marco Ferrazzoli


Andreoli Annamaria, “Diventare Pirandello”, Mondadori (2020)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Parini contro i “no vax”

L’antologia che raccoglie poesie di autori distribuite in otto secoli, facendo scoprire scrittori che non sono letterati di professione, come il fisico-matematico Sergio Doplicher, Francesco Redi, primo medico del granduca di Toscana Ferdinando II, il matematico-astronomo Eustachio Manfredi


L’antologia curata da Luca Serianni “Il verso giusto” raccoglie cento poesie di sessantatré autori, distribuite in otto secoli, una selezione “dipesa in una certa misura dal gusto personale” dell’autore con l’auspicio di assicurare una discreta rappresentanza della lirica femminile o di abbinare classici celeberrimi e poeti meno conosciuti come Giovanni Antonio de Petruciis, che, nei quattro mesi passati in carcere prima della decapitazione, scrive un’ottantina di sonetti conservati da un solo manoscritto non autografo scoperto fortunosamente nell’Ottocento. Poeti che talvolta non sono letterati di professione, quali l’insegnante valdostano Bruno Germano, l’economista Franco Tutino, il fisico e matematico Sergio Doplicher che firma con lo pseudonimo di Sergio Doraldi.
Ovviamente il rasoio ha dovuto essere inflessibile, escludendo per esempio la poesia dialettale e le traduzioni, limitando anche autori particolarmente significativi a solo una poesia (tranne eccezioni al di sopra di qualunque sospetto, quali Dante e Petrarca), ricorrendo per i testi più lunghi a tagli che non hanno risparmiato neppure i Sepolcri foscoliani e “La Signorina Felicita” di Gozzano, e riducendo al minimo o sopprimendo quando superflue le notizie biografiche. Il commento invece rimane e diciamo pure che prevale, come senso dell’operazione editoriale, pur nella consapevolezza che nelle antologie poetiche le note sono state spesso guardate con sospetto perché “più adatte a fomentar la pigrizia che ad aiutare la intelligenza dei giovani” (come recitava una relazione ministeriale del 1883). Oggi però sarebbe impensabile non spiegare chi sono Dite e Sardanapalo o cosa vogliono dire “invidierà l’illusion” e “insultar de’ nembi”.

Le antologie scolastiche sono uno strumento di alfabetizzazione fondamentale, capace di lasciare nello studente un imprinting indelebile. D’altra parte, spesso si tratta di “libri concepiti più per essere adottati dagli insegnanti che non funzionali alle esigenze degli alunni”, lamenta Serianni. Nel caso specifico della poesia, poi, l’evoluzione stilistica e contenutistica recente è stata tale che, anche solo per distinguere il genere dalla prosa, il lavoro del curatore antologico è e resta fondamentale. “Nel corso del Novecento” è “tramontato il tradizionale lessico poetico”, nel contempo però quando si affronta un contemporaneo “molte cose semplicemente non possono e non devono essere spiegate”.
Non pochi gli autori antologizzati che rimandano alla cultura scientifica. Francesco Redi fu in primo luogo uno scienziato di fama, primo medico del granduca di Toscana Ferdinando II, sfatò tra l’altro la leggenda della generazione spontanea degli insetti dalla carne putrefatta. Eustachio Manfredi fu matematico, astronomo ed esperto di idraulica, oltre che letterato. Giuseppe Parini nelle Odi tocca un tema di grande attualità come la necessità di vaccinarsi ne “L’innesto del vaiuolo” del 1765.

Marco Ferrazzoli

Luca Serianni, “Il verso giusto”, Laterza (2020)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Un dialogo a più voci sulla pandemia da Covid 19

Marco Annoni, ricercatore presso l’Istituto di tecnologie biomediche (Itb), nel libro “Etica dei vaccini” (Donzelli), riflette con altri scienziati sulla campagna vaccinale in corso contro il virus SarsCoV2. Chiama così a dialogare tra loro voci provenienti da diversi ambiti scientifici


Il libro “Etica dei vaccini” (Donzelli) curato da  Marco Annoni, ricercatore presso l’Istituto di tecnologie biomediche (Itb-Cnr), propone una serie di approfondimenti e riflessioni di diversi autori sulla campagna di vaccinazione contro il Covid-19.
“Le malattie infettive sono parte integrante della storia dell’umanità e le continue interazioni dell’uomo con i diversi microrganismi hanno modellato, in un processo di co-evoluzione e di selezione naturale, sia il genoma degli esseri umani sia quello dei patogeni” afferma Angela Santoni, professoressa ordinaria di immunologia e immunopatologia all’Università di Roma La Sapienza. Grazie a vaccini e antibiotici, nel corso degli anni 60-70 del’900, viene dichiarata vinta la battaglia contro le malattie infettive però le illusioni vengono presto rese vane dalla comparsa di altre patologie collegate a virus infettivi, come quelle provocate dall’Hiv fino alle recenti Sars e Mers: “Un fattore determinante per la comparsa e persistenza delle malattie infettive soprattutto virali, essendo i virus incapaci di vita autonoma, è la capacità dei microrganismi di mutare velocemente il loro genoma per sopravvivere in ambienti cellulari nuovi e diversi (nicchie ecologiche) ed eludere le difese immunitarie dell’ospite”.
La vaccinazione tramite inoculazione, un’arma importantissima in questa lotta, è stata introdotta in Europa “nel 1721 da Lady Wortley Montagu, moglie dell’ambasciatore inglese a Costantinopoli, dopo aver osservato tale pratica in Turchia e con straordinaria lungimiranza fatto inoculare suo figlio”. I brillanti risultati ottenuti con le vaccinazioni hanno bloccato quella che è stata definita “esitazione vaccinale”, le cui prime avvisagli affondano le radici nella seconda metà dell’800, quando venne dichiarata obbligatoria entro i tre mesi di vita la vaccinazione contro il vaiolo. Questo fenomeno di “esitazione vaccinale”, così definito dal gruppo di esperti Sage (Strategic Advisory Group of Experts on immunization) nominato nel 2012 dall’Oms, si è osservato soprattutto in Occidente. In particolare in Italia, ha determinato una forte riduzione delle vaccinazioni obbligatorie, facendo precipitare il nostro Paese nel 2013 ben al di sotto dell’asticella di sicurezza del 95% raccomandata dall’Oms. Questo non ha in alcun modo fermato l’azione salva vita dei vaccini: “Si è calcolato che i vaccini salvano circa due milioni e mezzo di vite umane ogni anno, circa cinque vite al minuto, e mai nella storia come in questo momento di pandemia da Covid-19 il destino della salute e dell’economia del nostro pianeta è stato (e presumibilmente sarà) così dipendente dai vaccini”.
Quando il virus SarsCoV2, a fine dicembre 2019, fa la sua comparsa in Cina, l’umanità sembra del tutto impreparata di fronte a questa nuova realtà. Convinto che i virus pandemici fossero eventi confinati nella storia passata, il mondo si è ritrovato completamente impreparato, obbligato a ripensare le tradizionali modalità di incontro e di lavoro, con le strutture sanitarie sul punto di collassare e con le persone confinate in una sorta di isolamento sociale. Rispetto ad altre pandemie del passato, come quella dell’influenza spagnola che provocò circa 50 milioni di morti e oltre 500.000 casi di contagio, le cose sono andate molto diversamente. In brevissimo tempo, la comunità scientifica ha saputo isolare e sequenziare il virus, mettere a punto cure diverse e produrre vaccini efficaci. Tuttavia i risultati ottenuti non hanno posto fine alla crisi del SarsCoV2. Negli Stati Uniti e nel resto del mondo, quando “il 12 aprile del 1955 fu pubblicamente dichiarato che il vaccino Salk per la poliomielite si era dimostrato sicuro, efficace e potente” ci fu un tripudio di gioia collettiva. Mentre il 9 novembre 2020, “quando fu annunciato che il vaccino a mRna Pfizer-BionTech si era dimostrato efficace e sicuro, le reazioni sono state positive ma decisamente meno eclatanti”. A causa di una comunicazione scientifica spesso caotica e disordinata, dell’aggravarsi della crisi e della sfida rappresentata dalla distribuzione del siero vaccinale in tutte le parti del mondo, la notizia non è stata accolta come una liberazione.
Coinvolgendo voci provenienti da ambiti diversi tra loro  (immunologia, biologia, etica pubblica, diritto, filosofia della scienza, bioetica), il contributo di Evandro Agazzi, Marco Annoni, Enrico M. Bucci, Carlo Casonato, Lorenzo d’Avack, Alberto Giubilini, Manuela Monti, Telmo Pievani, Carlo Alberto Redi, Angela Santoni, Marta Tomasi, cerca di rispondere a una serie di domande: quali ragioni permettono di giustificare o contrastare l’imposizione di un obbligo vaccinale a tutta la popolazione? Come dovremmo ripensare la nostra coesistenza con altre forme di vita biologica e con gli ecosistemi per ridurre il rischio di nuove pandemie? È giusto permettere agli operatori sanitari di non vaccinarsi o ciò rientra, invece, tra i loro obblighi morali, deontologici e professionali? Quale mondo dovremmo immaginare, progettare e costruire una volta che lattuale emergenza sarà finalmente passata? Sono solo alcuni degli interrogativi a cui gli autori del volume hanno cercato di dare una risposta per “aiutarci a capire come dovremmo vivere e decidere in situazioni morali difficili e complesse”.

Gianmaria Carpino

Marco Annoni, “Etica dei vaccini”, Donzelli Editore (2021)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Una malattia chiamata Solitudine

Secondo Mattia Ferraresi, giornalista del quotidiano “II Foglio” e corrispondente del “New York Times”, è questo “Il male oscuro delle società occidentali”, una patologia del nostro tempo, frutto dell’individualismo e dell’autocompiacimento che si sublima nel selfie. Al punto che l’Inghilterra ha creato un ministero ad hoc


L’autore Mattia Ferraresi – giornalista del quotidiano “II Foglio” e corrispondente del “New York Times” che così ama descriversi: “Nato nella terra di Virgilio e cresciuto in quella di Tassoni, ora vivo nel quartiere di Tony Manero” – nel suo ultimo libro dal titolo “Solitudine” (Einaudi), affronta il tema soffermandosi in particolare sul “nuovo narciso”. Una “figura ben più tragica di quella antica. Il Narciso della mitologia, condannato ad amare solo se stesso, sa che si tratta di una condanna e non di un dono. Il nuovo narciso non ha questa percezione, è così immerso nel suo individualismo che non ha nemmeno gli strumenti per rendersi conto di questa prigione interiore”, sostiene l’autore. “Pensa che concentrarsi su di sé e sulle proprie potenzialità sia una forma di emancipazione, un modo per superare tutto ciò che lo ha oppresso: autorità, gerarchie, partiti, chiese, convenzioni. Ed ecco che si ritrova solo. Il selfie è il meccanismo perfetto per il nuovo narcisista, che interpreta e presenta ogni cosa in relazione a sé”.
Al tema della solitudine è stata dedicata un’ampia letteratura. Per esempio, in “Solitudine” di John T. Cacioppo e William Patrick (il Saggiatore), gli autori sostengono che privarsi dello scambio con gli altri provoca uno strappo nel tessuto genetico che si espande nel nostro essere fino a pervadere le emozioni, e propongono al lettore le acquisizioni più avanzate della ricerca per la diagnosi e la cura di quella che ritengono una delle più diffuse “malattie” del nostro tempo. Secondo Ferraresi, invece, la solitudine è frutto di un individualismo, di un autocompiacimento che diventa una prigione. La scrittrice francese nota con lo pseudonimo di Colette scrisse: “Ci sono giorni in cui la solitudine è un vino inebriante che ti ispira libertà, altri in cui è un tonico amaro, e altri ancora in cui è un veleno che ti fa sbattere la testa contro il muro”.
Negli ultimi 400 anni l’ideale di liberazione dell’uomo, nello sviluppo delle società occidentali, si è affermato come indipendenza dall’altro, liberazione del singolo da tutte le costrizioni, siano esse leggi, autorità, gerarchia sociale. Questo processo di scardinamento delle relazioni profonde con l’altro è riuscito, ma ci si è resi conto che il tipo di società che ne è derivato non è garanzia di felicità, generando così – aggiunge l’autore – un paradosso: “I governi oggi cercano di combattere quello che essi stessi hanno generato e approvato”. O cercano, diciamo meglio, di correre ai ripari per curare questa sorta di epidemia che abbiamo deliberatamente diffuso, e da cui ci siamo fatti volontariamente contagiare.
L’Inghilterra è arrivata a creare il primo “ministero per la Solitudine” in Europa, nella consapevolezza che questa condizione è correlata ad altri disagi, patologie, disabilità croniche dagli effetti preoccupanti. Secondo una ricerca condotta della Brigham Young University nello Utah (Usa), l’isolamento ha un impatto così forte sull’organismo da aumentare del 30% la predisposizione dell’individuo ad ammalarsi.

Patrizio Mignano


Mattia Ferraresi, “Solitudine”, Einaudi (2020)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Un ictus che ricorda qualcosa…

È quasi scontato leggere il libro di Andrea Vianello condizionati dallo scenario del Covid-19. Ma la comparazione è giustificata: l’ischemia che colpisce il giornalista e conduttore Tv viene da lui vissuta come l’invasione di un male improvviso, misterioso e incomprensibile. Esattamente come sta capitando a tutti noi


In questi tempi è facile, fin troppo facile, quasi scontato, ma anche inevitabile, leggere qualunque vicenda – di malattia ma non solo – nello scenario, nell’ottica, nella chiave del Coronavirus. Il libro di Andrea Vianello però si presta a questa comparazione, pur distorsiva, in modo particolare. Il giornalista e conduttore televisivo si è deciso a raccontare la storia dell’ictus, per la precisione dell’ischemia cerebrale che ha colpito il lato sinistro del suo cervello, causata da una dissecazione della carotide.
Rispetto all’antico ma oggi particolarmente diffuso genere della medicina letteraria, dei diari di malattia, degli outing clinici e sanitari, in questa vicenda c’è infatti un aspetto più specifico: Vianello viene colpito in modo violento, rischia la vita, deve subire una fortunatamente riuscitissima operazione d’urgenza, segnata però da una complicanza non banale: la lesione della parola, che è il suo strumento di lavoro. Chi lo abbia visto di recente in una delle presentazioni del libro ha potuto constatare che il trauma è stato quasi completamente recuperato, non a caso un capitolo è dedicato alla struttura che l’ha curato e riabilitato, ma rimane intatto il senso di invasione da parte di un male improvviso e – almeno all’inizio – del tutto misterioso e quindi incomprensibile. Esattamente come è capitato a tutti noi con il Covid-19: siamo malati asintomatici, parenti, residenti in zone rosse e arancioni, cambia la misura, non lo sgomento.
Il merito di farci cogliere questa somiglianza, verrebbe da dire di affratellarci in questo comune destino, è ovviamente della impeccabile, lucidissima scrittura dell’autore. Basti citare il passo che giustamente è stato valorizzato dall’editore Mondadori nella bandella di – questo il titolo del diario – “Ogni parola che sapevo”. “Mia moglie arriva trafelata. Mi sembra un gigante sopra di me, un gigante buono che mi aiuterà, io sono inciampato in un buco nero del bosco ma lei mi tirerà fuori da lì. Ha gli occhi sgranati. ‘Che succede? Che succede?’ mi chiede. La mia risposta è chiara: ‘Megpdeiigrhiaa!’ le dico concitato, ‘mrlaiofoourhdka uhfe giumhu’. Non si capisce niente, lei non capisce niente, nemmeno io capisco niente, parlo una lingua nuova, eppure lo so cosa voglio dire, ma un demone si è intrufolato nella mia bocca. ‘Ceritturgra, mathra, titdiiiadotaio.’ Sono infuriato con me, sono infuriato con lei perché non capisce. ‘Stai calmo’ la sento dire, ma sono alle prese con questa follia, non riesco a dire una parola, maledizione, una vera parola, mi sento imprigionato, imbavagliato, sperduto, nel buco nero del bosco non ci sono parole, le mie amatissime parole, solo versi infantili, muggiti incomprensibili, rantoli disperati”.
La vulnerabilità fisica, l’insufficienza del nostro vocabolario, la necessità per se stessi e per gli altri di dare testimonianza della propria debolezza e anche della propria sofferenza, dei calvari personali e collettivi, la consapevolezza che possiamo passare in poche ore – o in qualche settimana, cambia poco – dalla vita “normale”, anche se non brillante come quella di chi vive illuminato dai riflettori di un studio tv, ai meandri inestricabili della sanità pubblica… Sì, le analogie tra la vicenda di Vianello e quella di noi tutti ci sono, e non sono poche.

Marco Ferrazzoli


Andrea Vianello, “Ogni parola che sapevo”, Mondadori (2020)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Le Humanities per la pratica medica

Attraverso l’arte e le discipline umanistiche è possibile conoscere lo sviluppo dei metodi di cura e i ruoli degli operatori sanitari nel corso dei secoli. Tale bagaglio è un prezioso patrimonio per la professione medico e sanitaria, perché crea empatia e una corretta relazione con il paziente. Il volume di Vincenza Ferrara, docente presso l”Università Sapienza di Roma, illustra la storia di questa complessa materia e le sue applicazioni


Le Medical humanities cosa sono e a cosa servono? Lo spiega il volume “L’arte come strumento per la formazione in area medica e sanitaria” (Aracne editore), scritto da Vincenza Ferrara, docente presso l”Università Sapienza di Roma e pioniera nell’insegnamento di questa disciplina che è una “sinergia” di materie di studio assai differenti. “La definizione, utilizzata in un campo interdisciplinare della medicina e in generale della cura, include la letteratura, filosofia, storia e religione, le scienze sociali (antropologia, psicologia e sociologia), le arti (letteratura, teatro, film e arti visive) e la loro applicazione sia nell’educazione medica che nella pratica clinica”, spiega l’autrice. Già nel 1994, in un articolo scientifico apparso negli Stati Uniti, veniva sottolineato che l’assistenza infermieristica non può svilupparsi da un background basato esclusivamente sulle scienze fisiche e sociali. Il personale sanitario, grazie a questi studi, può ridurre il gap nel rapporto con i pazienti e “umanizzare” la cura, superando una visione esclusivamente biomedica della professione. Dal 2014 è stata istituito presso l’Università di Roma un gruppo di ricerca per applicare il metodo nell’ambito della Medical education, cui è dedicato un laboratorio diretto dalla stessa Ferrara; è stata attivata una sperimentazione nei corsi di laurea in Medicina, Scienze infermieristiche e nella formazione specifica in Medicina generale.
Nello scorrere le pagine del libro sorprende rilevare quanto resti archeologici, sculture, dipinti, possano testimoniare lo sviluppo della scienza medica e l’affinarsi dello sguardo dell’artista nel ritrarre anche le imperfezioni del corpo umano, elementi che consentono di comprendere la diffusione di alcune patologie nel passato, campo di indagine dell’icodiagnostica. Basta andare nell’antica Grecia, dove gli anatomisti chiedevano aiuto agli artisti, “la dissezione era praticata sui corpi degli animali, mentre era vietato esplorare l’anatomia umana per motivi sociali e religiosi… Solo due medici ellenistici, che hanno operato ad Alessandria d’Egitto circa tra il 330 e il 240 a.C., sono noti non solo per l’uso della dissezione sistematica dei cadaveri, ma anche per la pratica della vivisezione sperimentale condotta sui condannati a morte: Erofilo ed Erasistrato”.
Nel Discobolo (copia del secolo II d.C. da originale greco del V secolo a.C.), conservato al Museo nazionale romano in Palazzo Massimo, ammiriamo i gruppi muscolari dell’atleta ritratti nell’atto di partecipare al movimento. Nei corso dei secoli, molti pittori – da Leonardo da Vinci a Michelangelo a Raffaello – hanno approfondito l’esame delle parti del corpo. Nel XVI secolo Bartolomeo Passarotti realizzò il dipinto “Lezione di anatomia per artisti” (Galleria Borghese, Roma) e Rembrandt nel 1632 raffigurò il dottor Tulp mentre mostra l’anatomia del braccio di un condannato a morte (Mauritshuis, L’Aia). L’autrice cita altri esempi di legame tra arte e medicina, che si traducono nelle modalità di riprodurre e conservare i corpi, quali la ceroplastica anatomica e la recente plastinazione, messa a punto da Gunther von Hagens. La rappresentazione della cura nell’arte, conclude Ferrara, è stimolante anche per lo sviluppo dell’empatia e della relazione tra personale di cura e paziente.

Sandra Fiore


Vincenza Ferrara, “L’arte come strumento per la formazione in area medica e sanitaria”, Aracne Editrice (2020)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Buona medicina, buoni medici, buona Sanità

Il saggio di Domenico Ribatti affronta il tema dell’etica in medicina in un’accezione molto ampia, che include il rapporto tra sanitari e paziente, i ruoli della politica e dell’industria farmaceutica, l’evoluzione scientifico-tecnologica, il significato stesso del termine “malattia”


Il tema dell’etica in medicina vanta una tradizione di studi e riflessioni ampia e autorevole, che va da Hans Jonas a Hugo Tristram Engelhardt, Martin Heidegger, Umberto Galimberti, Giorgio Cosmacini… Il saggio di Domenico Ribatti “La buona medicina”, però, affronta la problematica in un’accezione molto ampia, che include il rapporto medico-paziente, le politiche sanitarie, il ruolo dell’industria farmaceutica, l’evoluzione scientifica e tecnologica, il significato stesso del termine “malattia” che – nota l’autore – ne assume almeno tre diversi: concetto patologico, condizione esistenziale vissuta e condizione percepita dagli altri, tanto che in inglese esistono tre termini specifici: disease, illness e sickness.
Per lungo tempo la medicina ha posto l’accento più sulla patogenesi, cioè sugli aspetti meccanicistici che caratterizzano l’insorgenza della malattia, che su quelli eziologici che investono i rapporti tra l’individuo e l’ambiente. L’evoluzione successiva, dai postulati di Koch nello studio della tubercolosi  all’introduzione tra Ottocento e Novecento di numerosi strumenti medici, farmaci e vaccini, dall’epidemiologia clinica alla Evidence Based Medicine (Ebm) basata sulle prove sperimentali effettuate su grandi numeri, ha ovviamente spostato l’interesse molto sul secondo aspetto e sulle sue intersezioni con il “programma genetico” e con l’evoluzione, un combinato disposto che rende ogni individuo un “prodotto” unico.
“Non più del 2 per cento delle malattie umane” devono “la loro insorgenza a un chiaro meccanismo monogenetico”, mentre il 98 “si conforma a un modello complesso”. Si è così passati da un’idea deterministica della causalità a un’idea probabilistica. Il saggio ricorda il caso dell’attrice Angeline Jolie, che si sottopose a una doppia mastectomia preventiva dopo avere saputo di essere portatrice di una mutazione del gene Brca1 che le dava l’87 per cento di probabilità di sviluppare un tumore della mammella. Il problema della “cultura della scienza” diviene quindi nodale quanto quello della salute. L’Oms alla sua fondazione nel 1948 l’aveva definita “uno stato di completo benessere fisico mentale e sociale” e non soltanto “un’assenza di malattia o di infermità”, ma lo storico della medicina Mirko Grmek notava come questa definizione rischiasse di attribuire alla medicina una sorta di impossibile scopo “di assicurare l’agiatezza e la felicità”.
Se secondo Umberto Veronesi “la medicina è insieme scienza arte e magia”, tanta è l’importanza della capacità del medico (e non solo) “di influenzare psicologicamente il paziente”, secondo molte fonti – tra le quali il saggio cita un editoriale degli “Annals of Internal Medicine” – una significativa quota dei test di diagnostica per immagini non sono necessari. In Italia l’incremento delle radiazioni assorbite in tal modo è stato del 600 per cento negli ultimi venticinque anni. “Colpa” di una medicina troppo cautelativa, di medici che sono ormai ridotti a prescrittori di farmaci, analisi ed esami? Certamente un recupero del contatto professionale e umano è auspicabile, già nel 1984 Howard B. Beckman e Richard N. Frankel rilevarono “che solo nel 23 per cento dei casi al paziente era consentito di completare la presentazione dei suoi sintomi e che nel 63 per cento dei casi il medico interrompeva il paziente mediamente diciotto secondi dopo che questi aveva iniziato a parlare”. Un processo che in qualche misura si accentua dopo il Settecento, quando gli ospedali diventano il luogo in cui l’ammalato viene curato ma anche separato dalla comunità, tema sul quale ha molto scritto Michel Foucault. D’altronde gli eccessi diagnostico-terapeutici sono l’altra faccia di una medaglia che si chiama prevenzione, sulla quale è necessario insistere soprattutto nella lotta contro malattie particolarmente dure da sconfiggere come il cancro, nel quale la percentuale dei casi maligni che può essere attribuita a fattori ambientali varia tra il 70 e il 90 per cento.
La parte del saggio dedicata alla cronaca politico-istituzionale recente è utile soprattutto per capire quante acquisizioni della Sanità odierna siano nate solo dalla seconda metà del secolo scorso. Nel 1954 la Federazione nazionale degli Ordini dei medici introduce il principio del consenso informato, nel 1958 nasce il ministero della Salute e solo vent’anni dopo il Servizio sanitario nazionale, con la nascita delle Unità sanitarie locali (Usl) e un significativo incremento della spesa pubblica, mentre ci vuole l’intero decennio 1992-2001 per la definizione dei Livelli essenziali di assistenza (Lea), subordinati però alla disponibilità finanziaria. Ci avviciniamo così alla attuale gestione della Sanità, al frequente dissidio tra sanitari, amministrativi e politici nella stessa, e all’indebolimento progressivo del coordinamento nazionale a favore delle autonomie regionali, che anche in tempo di Covid-19 ha mostrato alcune lacune e contraddizioni. Questo non deve però farci dimenticare che la Sanità pubblica italiana resta un modello tutto sommato virtuoso, a paragone di altri, pensiamo agli Stati Uniti con il loro sistema assicurativo ancora sostanzialmente privatistico.

Marco Ferrazzoli


Domenico Ribatti, “La buona medicina” (La nave di Teseo, 2020)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Grazia e delirio

Nel suo dotto contributo, il critico e storico della letteratura Giancarlo Vigorelli contestualizza la “Storia della colonna infame” non solo nella maturazione spirituale di Alessandro Manzoni ma anche nel contesto letterario italo-francese, suggerendo spunti e confronti di grande interesse


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…. diciamo allora che la Colonna è un romanzo, una scheggia di romanzo, che è cristiano soltanto à rébours, è il romanzo dello smarrimento dell’uomo e Dio, allora, non si sa se si è nascosto o piuttosto se è stato trafugato? Infatti, questo secondo romanzo breve, brusco ed intenso è un po’ la ricerca e la richiesta di là delle incrostazioni private o legali di una pur credibile giustizia, di una alfine conseguibile verità, una verità anche soltanto umana, ove almeno la decenza e la onestà dell’uomo sia a sufficienza probabile e provata, insomma quell’attestato pur parziale di verità da scalfire alla congerie della menzogna propria e di tutti. Che era poi di radice la umana preoccupazione del Manzoni, e chissà che questa non sia l’origine autentica della sua insistita crisi, come dicevo, tra verità e poesia e – più evidentemente e sul piano letterario – tra storia e romanzo.
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La peste, allora, questo flagello di tutti e per tutti, finiva così ad essere il necessario scenario, persino di scusa, persino di giustificazione, del trionfo ovunque del male dell’uomo: direi che quel male ne era quasi mitigato, sovraeccitandogli intorno uno spettacolo di tanta corruzione e di tanto contagio. Insomma, né sfondo né inserto, come potrebbe essere per esempio la Rivoluzione Francese in Balzac; e anche in Verga la malaria non è un accidente e una miseria di più. Così questa peste, non fortuitamente (e non sorprenda), viene a prendere dal Rovani in giù quasi un senso ed un consenso metaforico allusivo. È troppo dire che i lazzaretti del Manzoni sono – da noi – una lontana introduzione persino degli ospedali di Baudelaire? Direi di sì, se si passa a leggere gli scapigliati lombardi.

Giancarlo Vigorelli



Alessandro Manzoni, “Storia della colonna infame”, Bompiani 1985 Milano

Sciascia e gli untori

Leonardo Sciascia, in un saggio scritto per la “Storia della colonna infame”, individua con grande acutezza alcuni meccanismi psicologici e sociali, soggiacenti alle dicerie in merito alla diffusione del contagio. Lo scrittore siciliano mette qui in campo la sua capacità di analisi non solo da “collega” di Manzoni ma anche da osservatore dei fatti della sua epoca e della storia della sua terra d’origine


La credenza che peste e colera venissero artatamente sparsi tra le popolazioni è antica. La registra Livio per, come ricorda Pietro Verri nelle sue “Osservazioni sulla tortura” che, appunto muovono dai funesto casi cui la credenza dette luogo nel 1630. “Veggiano i saggi Romani stessi al tempo in cui erano rozzi cioè l’anno di Roma 428 sotto Claudio Marcello e Cajo Valerio attribuire la pestilenza che gli afflisse a’ veleni apprestati da una troppo inverosimile congiura di marrone romane”. Al tempo in cui erano rozzi: perché pare che meno rozzi tra loro più non sia insorta quella credenza. E c’è da credere si fosse del tutto spenta nei secoli successivi e fino al XIII e XIV. Non ne troviamo traccia, infatti, nei cronisti che pure abbondano di notizie sulle epidemie pestifere del due e del trecento. Nelle loro pagine le tremende epidemie non trovano altra causa che il volere di Dio o l’influsso degli astri; e la propagazione del morbo ad altro non è attribuita che agli scambi e ai viaggi. Per tutti Giovanni Boccaccio
[…]
Quel che sappiamo quasi con certezza qui ed ora è che nel secolo XIV nessuno avanza il sospetto di una peste manufatta e diffusa da persone convenientemente immunizzate per decisione del potere (visibile o invisibile) o di una associazione cospirativa contro il potere o di un gruppo delinquenziale che si propone nella calamità più facile depredazione; mentre nel secolo XVII un tale sospetto non solo viene formulato ma arriva alla certezza medica e giuridica, tramandandosi – non più per fortuna sul piano della scienza medica e leguleia – fino a un tempo cui arrivano i nostri ricordi. Del colera del 1885-86 e della “spagnola”, ultima mortale epidemia che si è avuta in Italia subito dopo la guerra del ’15-18, abbiamo infatti sentito favoleggiare come di provvedimenti per così dire malthusiani; e della “spagnola” venuta dopo il grande macello della guerra si diceva fosse effetto di un conto da cui ancora risultava eccedenza di popolazione, essendo la guerra per errato calcolo finita un po’ prima di quanto doveva: e dunque la correzione da parte dei governi per quel tanto né più né meno che ci voleva a far tornare il conto.
[…]
Che si potesse come oggi, in un laboratorio batteriologico, manufare la peste e diffonderla, intanto era questione controversa. Il Tadino medico ci credeva: ma allora non c’era differenza tra uno che si diceva o dicevano medico e una qualsiasi persona colta. Le conoscenze del Tadino in fatto di medicina non erano né diverse né superiori a quelle di un don Ferrante: il quale risulta personaggio comico, caricatura nelle pagine dei Promessi Sposi, con senno di poi ma è in effetti il ritratto del Tadino tal quale. Anzi: il Tadino vedeva la peste scendere dalle stelle e andare a finire nelle ampolle degli untori; don Ferrante invece si fermava alle stelle e morì prendendosela con le stelle e non con gli untori.

Leonardo Sciascia



Alessandro Manzoni, “Storia della colonna infame”, Bompiani (1985)