Tutti i racconti di Berto. L’alter Zeno della letteratura italiana





Giuseppe Berto: scrittore, drammaturgo e sceneggiatore. Una notevole vita tra onorificenze, opere letterarie e molto altro


Noto soprattutto per “Il male oscuro”, che su queste pagine abbiamo definito come il più importante romanzo italiano sulla psicanalisi insieme con “La coscienza di Zeno”, Giuseppe Berto fu anche un prolifico autore di racconti, che raccolti a suo tempo dallo scrittore stesso e ora nuovamente usciti in volume con la Bur. Al tema del male di vivere, qui, si accompagnano molti altri spunti, in particolare i ricordi militari dell’autore che formano in titoli quali: “La colonna Feletti”, “Avvenimento a Hereford”, “Sosta a Cassino”, “La vita militare”.
La scrittura tracima spesso nell’autobiografia vera e propria. Né vi è alcuna distinzione, in fondo nella narrativa bertiana, tra questi due aspetti, l’introspezione e la memoria. Tutte le scelte compiute dall’autore furono infatti improntate a una continua ‘uccisione del padre’: la scelta di arruolarsi, di combattere, di vestire la divisa fascista e rifiutarsi di collaborare con gli alleati, e poi quelle di ingaggiare contro la consorteria intellettuale a lui coeva una guerra polemica inesausta e dagli accenti talvolta eccessivamente acrimoniosi.
Lo scrittore di Mogliano Veneto, pure, ebbe ammiratori del calibro di Hemingway, ottenne un notevole riscontro anche all’estero e agguantò tra l’altro con ‘Il male oscuro’, nel 1964, una straordinaria doppietta: premio Viareggio e Campiello. Ma nemmeno il successo poté lenire un’insoddisfazione esistenziale che affondava in un rapporto così intimo e compromesso, che ebbe il suo climax con l’agonia paterna.

Giuseppe Berto fu “ostracizzato con livore oppure trascurato con simulata indifferenza quando era in vita” ed “è tuttora celato dalla cortina della rimozione letteraria”. L’affermazione di Paola Culicelli può essere difficilmente smentita. “Per qualche motivo sull’autore grava una damnatio memoriae”, prosegue l’autrice del saggio “La coscienza di Berto” sullo scrittore di Mogliano Veneto che, pure, ebbe ammiratori del calibro di Hemingway, ottenne un notevole riscontro anche all’estero e agguantò tra l’altro con ‘Il male oscuro’, nel 1964, una straordinaria doppietta: premio Viareggio e Campiello.
Proprio il successo, anzi, fu probabilmente una delle ragioni dell’ostilità dell’establishment culturale, insieme con un ‘eccesso’ di fascino che lo scrittore non mancò di usare con le donne, e con la scorrettezza politica: “Dando alle stampe prima Il Brigante e poi Guerra in camicia nera“, ricorda l’autrice, egli “si inimicò” sia gli anticomunisti sia gli antifascisti. Un attacco effettivamente malmostoso a Dacia Maraini, poi, non migliorò certo i rapporti di Berto con i colleghi.
Dopo il pregevole lavoro di Dario Biagi di qualche anno fa, arriva adesso a recuperare almeno parte della distrazione dei critici questo volume che però non si configura tanto come una biografia quanto come un saggio mirato all’aspetto centrale dell’opera più famosa dell’autore, assunta quale segnavia di tutta la sua produzione. In effetti, dopo ‘La coscienza di Zeno’, come la crasi del titolo del saggio di Cucinelli vuol far intendere, ‘Il male oscuro’ rimane il più importante romanzo italiano dedicato alla psicanalisi.
“Aver coscienza di troppe cose è una malattia, una vera e propria malattia. Eppure sono convinto che non soltanto una coscienza eccessiva, ma la coscienza stessa è una malattia”, scrive Berto, il cui senso di colpa gli viene trasmesso, secondo la diagnosi piuttosto classica della studiosa, dal padre, che in effetti fu sul piano storico un tipico Super-Io, perennemente insoddisfatto del figlio, per il quale ebbe solo espressioni denigratorie e sfiduciate. Un rapporto che conobbe il suo momento topico proprio “nel frangente estremo dell’agonia paterna” e che lo scrittore tentò di risolvere con tre anni di terapia, incapaci però di liberarlo del tutto da imprinting, fobie e cicatrici caratteriali quali l’ipocondria (“la fissazione maniacale di essere ormai segnato, condannato a essere ghermito dal cancro”), le dimostrazioni di coraggio come quella esibita con l’arruolamento volontario e soprattutto uno stato depressivo cronico, a quei tempi si parlava di “esaurimento” che lo portarono a una continua “spola da un medico all’altro”, alternata alle più varie auto-prescrizioni.

Marco Ferrazzoli


Giuseppe Berto, “Tutti i racconti”, Rizzoli (2012)
Paola Culicelli, “La coscienza di Berto”, Le Lettere (2012)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni – Tutti i racconti di Berto
Fonte: Almanacco CNR – Recensioni – L’alter Zeno della letteratura italiana


Giuseppe Berto – Biografia

Maledetto Malaparte

Ecco una serie di stralci da “La pelle”, il romanzo di Curzio Malaparte che racconta l’arrivo dei soldati americani a Napoli sotto la metafora di una “peste” morale


« È certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra tutti son buoni, non tutti son capaci di perderla.
[…]
Nessun popolo sulla terra ha mai tanto sofferto quanto il popolo napoletano. Soffre la fame e la schiavitù da venti secoli, e non si lamenta. Non maledice nessuno, non odia nessuno: neppure la miseria. Cristo era napoletano.
[…]
Voglio bene agli americani, qualunque sia il colore della loro pelle, e l’ho provato cento volte, durante la guerra. Bianchi o neri, hanno l’anima chiara, molto più chiara della nostra. Voglio bene agli americani perché sono buoni cristiani, sinceramente cristiani. Perché credono che Cristo sia sempre dalla parte di coloro che hanno ragione. Perché credono che è una colpa grave aver torto, che è una cosa immorale aver torto. Perché credono che essi soli son galantuomini, e che tutti i popoli d’Europa sono, più o meno, disonesti. Perché credono che un popolo vinto è un popolo di colpevoli, che la sconfitta è una condanna morale, è un atto di giustizia divina.
[…]
Il 1 ottobre 1943 è una data memorabile nella storia di Napoli: perché segna l’inizio della liberazione dell’Italia e dell’Europa dall’angoscia, dalla vergogna, e dalle sofferenze della schiavitù e della guerra, e perché proprio in quel giorno scoppiò la terribile peste, che da quell’infelice città si sparse a poco a poco per tutta l’Italia e per tutta l’Europa.
[…]
Ma le zone più frequentate dai liberatori erano proprio quelle Off limits, cioè quelle più infette e perciò più vietate, poiché è nella natura dell’uomo, specie dei soldati di tutti i tempi e di qualunque esercito, preferire le cose proibite a quelle permesse.
[…]
Ma quel che più commuoveva il popolo napoletano era la gentilezza di modi dei liberatori, specie degli americani, la loro disinvolta urbanità, il loro senso di umanità, il loro sorriso innocente e cordiale di onesti, buoni, ingenui ragazzoni. Se è mai stato un onore perdere la guerra, era certamente un grande onore, per i napoletani, e per tutti gli altri popoli vinti dell’Europa, aver perduto la guerra di fronte a soldati così cortesi, eleganti, lindi, così buoni e generosi.
[…]
La fame umana ha una voce meravigliosamente dolce e pura. Non v’è nulla di umano nella voce della fame.
[…]
Napoli […] è la più misteriosa città d’Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell’immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta. Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto intatto alla superficie del mondo moderno. […] Non potete capire Napoli, non capirete mai Napoli.
[…]
Erano i giorni della «peste» di Napoli. Ogni pomeriggio alle cinque, dopo mezz’ora di punching-ball e una doccia calda nella palestra della P.B.S., Peninsular Base Section, il Colonnello Jack Hamilton ed io scendevamo a piedi verso San Ferdinando, aprendoci il varco a gomitate nella folla che, dall’alba all’ora del coprifuoco, si accalcava tumultuando in via Toledo.
Eravamo puliti, lavati, ben nutriti, Jack ed io, in mezzo alla terribile folla napoletana squallida, sporca, affamata, vestita di stracci, che torme di soldati degli eserciti liberatori, composti di tutte le razze della terra, urtavano e ingiuriavano in tutte le lingue e in tutti i dialetti del mondo.
L’onore di essere liberato per primo era toccato in sorte, fra tutti i popoli d’Europa, al popolo napoletano: e per festeggiare un così meritato premio, i miei poveri napoletani, dopo tre anni di fame, di epidemie, di feroci bombardamenti, avevano accettato di buona grazia, per carità di patria, l’agognata e invidiata gloria di recitare la parte di un popolo vinto, di cantare, di battere le mani, saltare di gioia tra le rovine delle loro case, sventolare bandiere straniere, fino al giorno innanzi nemiche, e gettar dalle finestre fiori sui vincitori.
Ma nonostante l’universale e sincero entusiasmo, non v’era un solo napoletano, in tutta Napoli, che si sentisse un vinto. Non saprei dire come questo strano sentimento fosse nato nell’animo del popolo. »

Curzio Malaparte


Il cancro dal “brutto male” all’outing. E all’alba delle Car-T

Riportiamo dal sito dell’Associazione Culturale Clara Maffei un articolo sulla Notte dei ricercatori che si è svolta venerdì 27 settembre 2019 in tutta Europa e, in particolare, su Ern Apulia, uno dei progetti approvati dall’Unione Europea per questa grande manifestazione di divulgazione scientifica, svoltosi a Lecce, nella splendida cornice del complesso monastico degli Olivetani. Nell’ambito delle conferenze organizzate per la Notte da Cnr-Nanotec e Unisalento, si è svolta una presentazione della mostra sulla “Rappresentazione della medicina e della malattia nella letteratura e nell’arte”


Nell’ambito della Notte dei ricercatori che si è svolta venerdì 27 settembre in tutta Europa, e in particolare di Ern Apulia, uno dei progetti approvati dall’Unione Europea per questa grande manifestazione di divulgazione scientifica, si è svolta a Lecce, nella splendida cornice degli Olivetani, un complesso monastico che è divenuto l’hub degli exhibit e delle conferenze organizzate per la Notte da Cnr-Nanotec e Unisalento, una presentazione della mostra sulla “Rappresentazione della medicina e della malattia nella letteratura e nell’arte”. L’esposizione – composta da sei stanze con 18 pannelli e da teche con oggetti del Museo di Storia della medicina dell’Università di Roma La Sapienza – è stata allestita per il Festival della scienza di Genova 2018, e accolta con un successo merito soprattutto delle molte collaborazioni che hanno consentito di realizzarla, a partire da quelle degli Uffici stampa e comunicazione, informazione e Urp del Cnr. La mostra è poi stata oggetto di una tesi di laurea discussa da Rossella Casciello presso la cattedra di Teoria e tecnica della divulgazione della conoscenza, all’Università di Roma Tor Vergata, ed è stata allestita successivamente a Pisa in occasione del 50nnale dell’Istituto di fisiologia clinica Cnr.

Il tema rientra nella cosiddetta medicina narrativa e sintetizza un materiale quasi sterminato, un archivio di centinaia di fonti che partono ovviamente da latini e greci, in particolare da questi secondi per i quali la parola peste aveva anche il significato più ampio di epidemia. I classici guardano alla peste con una duplice ottica: di nemesi (secondo Omero le divinità diffondono l’epidemia come punizione per punire le infrazioni commesse dagli uomini) ma anche naturale, potremmo dire scientifica. Si pensi alla precisione con cui Tudicidide, ma anche Lucrezio, descrivono oggettivamente gli aspetti epidemiologici e somatici delle malattie contagiose. Non a caso Susan Sontag, in uno dei libri più celebri in questo ambito, parla di “malattia come metafora”. Questa connotazione concreta e simbolica assieme rimane peraltro anche nelle epoche successive, per esempio in Boccaccio e Manzoni (che fa della peste il Deus ex machina della sua opera: la celebre “scopa” di Don Abbondio), anche quando il rischio legato al contagio viene contrastato dalle sempre migliori misure igieniche, sanitarie, terapeutiche. La cosa diviene evidente nel ‘900 con autori quali Camus, Malaparte, Mann, dove la peste assurge a simbolo del nazismo, della guerra e dell’abbrutimento morale.
Una svolta nella medicina narrativa avviene con la rivoluzione freudiana, di cui si sta tornando a discutere in questo periodo, in occasione dell’80esimo dalla morte di Sigmund Freud: la profonda revisione critica della psicanalisi, ad opera soprattutto delle neuroscienze e dell’imaging, che hanno ricondotto a cause organiche e chimico-fisiche gran parte dei processi che un tempo definivamo “mentali” e psichici, non inficia l’importanza della riflessione sul valore della parola nel rapporto tra terapeuta e paziente, sulla “parola che cura”, alla quale la psicanalisi ci ha spinto. Una riflessione che – nella psichiatria – si è anche tradotta in senso politico con la riforma Basaglia, che nella seconda metà del ‘900 ha portato l’Italia all’avanguardia rispetto alle pratiche del contenimento, della reclusione, del nascondimento e delle vere e proprie torture cui venivano sottoposti i malati di mente, che in qualche modo Basaglia trasforma da “pazzi da legare” a “pazzi con cui parlare”.

Di questa rivoluzione sociale e terapeutica, direttamente e indirettamente, si sono resi protagonisti letterari autori come Svevo, Berto, Pirandello, Campana: talvolta lambendo – per esempio con Alda Merini – una sorta di “mistica della follia”, di mitologia della “pazzia creativa”, intrepretata come stato “altro” e alternativo, se non addirittura superiore, alla “normalità”. In realtà il mondo della sofferenza psichica è reale e doloroso almeno quanto quello della malattia organica. Peraltro, il medico-scrittore Mario Tobino ha sempre sostenuto, a livello letterario e clinico, la possibilità di un diverso modello di cura ospedaliera, purché si concedessero alle strutture i mezzi e il personale necessari, in opere quali “Le libere donne di Magliano”. E comunque, a distanza di decenni, resta irrisolto lo scarico di gran parte del peso della cura e dell’assistenza dei malati sulle famiglie: il disagio psichico è forse il primo caso con cui si è posto il problema dei caregiver, oggi esploso con l’aumento dell’età media e delle malattie neurodegenerative.
Anche con la cecità, altra “stanza” della mostra illustrata a Lecce, ci troviamo a metà tra realtà e metafora. Omero è cieco, Tiresia è un non vedente, per quanto riguarda gli occhi del corpo, ma come profeta è stato dotato dagli dèi della vista del futuro: in realtà si tratta di due disgrazie che non si compensano, ma si sommano tra loro. Sul piano letterario, questo handicap dà il “la” dal punto di vista letterario a un’esplosione del registro simbolico – Saramago, Borges, Wells con il “Paese dei ciechi”, Hofmann con la “Parabola dei ciechi”… – ma soprattutto patetico, solo che si pensi alle opere di Dickens e Bronte (nel “Jane Eyre”, di nuovo, la malattia è il Deus ex machina che consente il lieto fine dell’opera).

Nella narrativa è però sempre possibile un doppio registro, persino quando si parla dei bambini e di una branca della medicina perturbante come poche, quale la pediatria. Collodi vs de Amicis, potremmo dire, contrapponendo “Cuore” e “Pinocchio”. Ma pensiamo anche alla distanza che corre tra Dickens e Cronin da un lato e Molière dall’altro. Oppure a “Braccialetti rossi”, seriale televisivo di grande successo che in fondo– se guardassimo aridamente al plot – potremmo ridurre a una serie di storie d’amore adolescenziali, che sceneggiatori e produttori hanno però avuto il coraggio di ambientare in un reparto di oncologia pediatrica. Con “Braccialetti rossi” arriviamo alla rivoluzione comunicativa odierna, seguendo un percorso che va dal “brutto male” all’“outing”. Il cancro è un tema molto presente in letteratura con scrittori quali Buzzati, Verga e Solzenicyn, che nelle loro opere focalizzano il terribile “momento zero” della diagnosi, quando le parole diventano pietre ed è davvero difficile trovare “le parole per dirlo”.

Nonostante ciò, anche in questo caso c’è chi riesce a fare del geniale sarcasmo come Luis Bunuel, regista che in una scena de “II fantasma della libertà” trasforma surrealmente il rifiuto della diagnosi da parte del paziente. Per lungo tempo in oncologia hanno prevalso l’eufemismo, le perifrasi, il silenzio, da parte di malati e famiglie, e i tecnicismi come lesione, neoplasia, nodulo da parte dei medici. Oggi siamo in una fase del tutto diversa, quella del coming outing di Nadia Toffa ma anche di Emma Marrone, Mihailovic, Lea Pericoli (la tennista fu il primo personaggio pubblico ad aver reso pubblica la propria condizione di malata): una scelta, ormai una tendenza, che ha le sue contraddizioni e rischia di indurre ottimismo eccessivo, di confondere i termini e i concetti, che lambisce la retorica del “dono”, della malattia che “migliora”. Ma che induce anche a condividere, che esorta alla sincerità e questo è un progresso importante della comunicazione.

Con queste considerazioni la parola è passata ad Attilio Guarini, ematologo all’Istituto tumori Giovanni Paolo II di Bari, che ha parlato delle CAR-T (Chimeric Antigens Receptor Cells-T), cellule modificate in laboratorio a partire dai linfociti T: una nuova strategia di cura che sfrutta il sistema immunitario per combattere alcuni tipi di tumore come linfomi aggressivi a grandi cellule e leucemie linfoblastiche acute a cellule B. Guarini definisce le CAR-T la “vis sanatrix naturae”, il “farmaco vivente”, proprio perché prodotto a partire dalle cellule dello stesso paziente. Ma anche “l’alba di una nuova era”, che il medico ha voluto come titolo della sua presentazione, aprendo alla speranza che il metodo possa illuminare a giorno la cura dei tumori liquidi e anche solidi. Lo sviluppo di nuove tecnologie per la produzione di CAR-T è parte integrante delle attività di ricerca condotte dal TecnoMed Puglia, il “TecnoPolo per la Medicina di Precisione” coordinato da Giuseppe Gigli, direttore del Cnr Nanotec di Lecce. Si tratta di un trattamento estremamente complesso e costoso, non sempre applicabile ma, laddove possibile, dai risultati davvero molto incoraggianti.
Ern Apulia è un progetto europeo coorrdinato da Unisalento. L’evento ha aperto la nuova stagione della rassegna divulgativa “Jam session Nanotec: note di scienza su scala nanometrica”, un progetto Cnr Nanotec di Gabriella Zammillo, realizzato in collaborazione con Liberrima.

Marco Ferrazzoli


Fonte: Associazione Clara Maffei


Il racconto delle epidemie svela le nostre paure

Un articolo dell’Almanacco della scienza illustra brevemente la mostra dell’Ufficio stampa del Cnr “Racconti e ritratti di medicina e malattia”, allestita a Genova e Pisa rispettivamente nel 2018 e nel 2019. Analizzando in particolare come il tema del contagio è stato affrontato nelle varie forme di narrazione letteraria, visuale e artistica che si sono succedute nei secoli. Un viaggio che segue l’evoluzione scientifica e clinica della medicina, da un lato, e della narrazione della malattia, dall’altro


Malattie e contagi ricorrono in letteratura sin dall’antichità: l’Iliade, considerata il punto di inizio della narrazione occidentale, esordisce con il racconto della pestilenza provocata da Apollo, adirato con gli Achei accampati sotto la città di Troia. Le epidemie venivano interpretate come un segno dell’ira della divinità, una punizione inflitta agli uomini per aver violato un ordine morale o giuridico. Ma anche comeun fenomeno naturale che rende evidenti i limiti dell’uomo nei confronti della natura: ne troviamo testimonianza nelle accurate descrizioni della peste a opera di Tucidide (V secolo a.C.) nelle “Guerre del Peloponneso” o, alcuni secoli dopo, di Tito Lucrezio Caro nel “De rerum natura”.

Analizzare come il tema è stato affrontato nelle varie forme di narrazione letteraria, visuale e artistica che si sono succedute nei secoli è uno dei fili narrativi della mostra dell’Ufficio stampa del Cnr “Racconti e ritratti di medicina e malattia”, allestita a Genova e Pisa rispettivamente nel 2018 e nel 2019, i cui contenuti sono riassunti in una pagina dedicata del portale dell’Ente. Un vero e proprio viaggio che segue l’evoluzione  da un lato l’evoluzione scientifica e clinica della medicina, dall’altro della narrazione della malattia.

Il tema della punizione divina non cessa con l’acquisizione di nuove conoscenze razionali. In tempi più vicini a noi, Boccaccio parla nel “Decameron” della “mortifera pestilenza […] a nostra correzione mandata per nostre inique opere, da giusta ira di Dio”. E ancora nell’800 Manzoni attribuisce alla peste un ruolo provvidenziale: il morbo, infatti, provoca la morte di Don Rodrigo e permette, come noto, il lieto fine dei “Promessi sposi”.

Ancora nel ‘900, nonostante il decisivo progresso della medicina, la circolazione di virus mantiene una valenza simbolica molto forte. La malattia in molti autori subisce una trasformazione metaforica, diventando simbolo del male spirituale e morale che pervade la società, soprattutto in coincidenza di particolari crisi storiche. In “Morte a Venezia” di Thomas Mann (1912), ad esempio, o ne “La pelle” (1949) di Curzio Malaparte, in cui gli eserciti alleati liberano Napoli ma privandola della fiera dignità mostrata durante la guerra. Altra opera prepotentemente tornata alla ribalta in tempi di Coronavirus è “La peste” di Albert Camus (1947), dove attraverso il morbo l’autore affronta l’orrore del nazional-socialismo appena sconfitto, un topos letterario perfetto per parlare di odio, sopraffazione, ingiustizia.

Oggi, mentre l’epidemia da Covid ha una dimensione tragicamente reale, queste pagine del passato recente e remoto ci ricordano che nell’idea del nemico sconosciuto – il virus è un rappresentante ideale – risiedono sempre le nostre paure più profonde.

Francesca Gorini


Fonte: Almanacco CNR – Focus, Distopia

Il piacere della lettura, tra lockdown e bella stagione

La lettura è uno dei grandi piaceri della vita, che il lockdown ci ha in qualche modo indotto a riscoprire. Ma anche la bella stagione ha sempre agevolato questa pratica, ahinoi così poco diffusa in Italia. Ecco perché le abbiamo voluto dedicare il Focus monografico del secondo Almanacco della Scienza di maggio 2020. Per realizzare questo Focus sulla lettura abbiamo chiesto ai direttori dei sette Dipartimenti del Consiglio nazionale delle di consigliarci un libro della loro macroarea


La lettura è un piacere, uno dei grandi piaceri della vita, che il lockdown ci ha in qualche modo indotto a riscoprire. Ma anche la bella stagione alle porte, a prescindere da pandemia e ripartenza, ha sempre agevolato questa pratica, ahinoi così poco diffusa in Italia. Ecco perché abbiamo voluto dedicare il Focus monografico del secondo Almanacco della Scienza di maggio a questo tema. Chiariamo subito che con “lettura” non intendiamo riferirci a una tipologia di supporto, che non vogliamo entrare nella rovente e un po’ stantia polemica tra cartaceo e digitale, libro tradizionale ed e-book, tra testi complessi, articoli e sms, whatsapp, chat, post social. Non perché non ci siano differenze: il medium e il messaggio si condizionano a vicenda, insegnava Marshall McLuhan, e la sua lezione è oggi ancora più valida. Ma l’unica possibile strada che abbiamo davanti è una composizione equilibrata tra le diverse forme di scrittura e lettura. Il tomo realizzato mediante stampa a caratteri mobili nato con Johann Gutenberg conserva intatto il suo primato culturale (lo dicono anche i dati della produzione e della fruizione), ma l’incessante avanzamento delle tecnologie della comunicazione è ineludibile, così come la relativa rivoluzione concettuale e cerebrale (riduzione del testo, mescolanza tra lettere e altri segni grafici, accelerazione dell’interazione tra messaggi).

Per realizzare questo Focus sulla lettura abbiamo adottato una chiave inconsueta. Il Consiglio nazionale delle ricerche è il maggiore Ente pubblico di ricerca per dimensioni umane, estensione territoriale ma soprattutto per la multidisciplinarietà che i sette Dipartimenti rappresentano, racchiudendo poi ciascuno di loro un mondo amplissimo di competenze. Abbiamo quindi chiesto ai direttori dei Dipartimenti di consigliarci un libro della loro macroarea, che fosse però adatto al grande pubblico dei non specialisti, scrivendone o facendone scrivere la recensione: il nostro suggerimento è semplicemente quello di seguire i loro suggerimenti, di fidarsi, inanellando una collana di letture che vi terrà compagnia per questo prossimo futuro di auspicato ritorno alla normalità.

Una sola condizione abbiamo posto ai direttori che cortesemente ci hanno risposto: nessun libro che parli di Covid-19, epidemie, pandemie, contagi… Non perché ne manchino ma, al contrario, perché la letteratura scientifica e narrativa sul tema è sterminata e qualche spunto da questa ricca miniera ci permettiamo di suggerirvelo noi. Date intanto un’occhiata alla prima “stanza” della mostra “Racconti e ritratti di medicina e malattia”. Vi ricorda nulla il: “Cantami, o Diva, del Pelìde Achille l’ira funesta, che infiniti addusse lutti agli Achei […] Irato al Sire, destò quel Dio nel campo un feral morbo”? L’incipit dell’“Iliade”, opera che in qualche modo possiamo assumere come punto di partenza della nostra narrativa, ha quale soggetto proprio le epidemie: interpretate come un segno dell’ira delle divinità, certo, ma nella stessa epoca in cui altri autori come Tucidide e Lucrezio forniscono descrizioni sintomatologiche ed epidemiologiche dei contagi che non esiteremmo a definire “proto-scientifiche”.

Da allora a oggi, la lista di autori e opere, spesso capolavori immortali rimasti nel nostro immaginario, va dal “Decamerone” di Giovanni Boccaccio ai “Promessi sposi” di Alessandro Manzoni, per citare i due classici più celebri, dalla “Peste” di Albert Camus a “La pelle” di Curzio Malaparte, per restare al solo ‘900. E poi, citando randomicamente: Giuseppe Belli raccontò in romanesco “Er collera moribbus”, “Allegro ma non troppo” di Carlo Maria Cipolla, “La peste di Londra” di Daniel Defoe, la canzone “La peste” di Giorgio Gaber, “Morte a Venezia” di Thomas Mann, “Cecità” di Josè Saramago, “Inferno” di Dan Brown, sempre di Manzoni la “Storia della colonna infame”, i già citati Tucidide con la “Guerra del Peloponneso” e Lucrezio per il “De rerum natura”, Edgard Allan Poe e “La maschera della morte rossa”, “Nemesi” di Philip Roth, Jack London e “La peste scarlatta”, Gesualdo Bufalino con “Diceria dell’untore”, Gabriel García Màrquez con “L’amore ai tempi del colera”.

Ci fermiamo qui per non togliere spazio ai sette libri consigliati nel Focus, dai quali vi consigliamo di cominciare. Oppure mescolate a vostro piacere. Se il Coronavirus, tra tanti immensi danni e vittime, ci avesse davvero riportato al piacere della lettura facciamo di tutto per non smarrirlo.

Marco Ferrazzoli


Fonte: Almanacco CNR – Editoriale

Almanacco CNR – Consigli di lettura


La lunga vita di Marianna Ucrìa

Il romanzo storico di Dacia Maraini è stato pubblicato nel 1990; nello stesso anno, l’opera vinse il Premio Campiello. “Marianna Ucrìa” è invece il titolo del film del 1997, diretto da Roberto Faenza, tratto dal romanzo. Assieme alla scheda del libro, vi proponiamo alcuni contributi utili ad approfondirne la genesi e la trama


Protagonista è Marianna, la figlia sordomuta di una grande famiglia palermitana della prima metà del Settecento. Marianna comunica per mezzo di bigliettini con il mondo ed in parte è guidata dagli altri sensi, che ha sviluppato notevolmente; fra lei e il padre, il duca Signoretto Ucrìa di Fontanasalsa, sembra esserci una tenera complicità, mentre con la madre il rapporto è improntato a una reciproca diffidenza.

All’età di sette anni, la bambina è portata dal padre ad assistere all’esecuzione di un condannato a morte, nella speranza che una forte emozione possa guarirla dalla menomazione che sarebbe stata causata da un forte spavento (altrove la madre aveva scritto a Marianna che la figlia era nata sordomuta), il che non dà alcun risultato. I cinque fratelli le vivono accanto senza troppa confidenza: Signoretto, il più grande, freddo e formale, vuole somigliare al padre, di cui imita i modi e dal quale dovrà ereditare tutte le proprietà; dell’atteggiamento di Agata che è già promessa sposa, e della meno bella Fiammetta che è destinata al convento, nulla si dice; Carlo e Geraldo, tanto simili da sembrare gemelli, entreranno uno in convento, l’altro nell’esercito e il primo è il più garbato dei fratelli verso Marianna.

A tredici anni Marianna, che tenta invano di opporsi, viene sposata allo zio, Pietro Ucrìa di Campo Spagnolo, fratello della madre. Dopo quattro anni di matrimonio, ha già tre figlie (Felice, Giuseppa e Manina), ma il marito aspetta con trepidazione quel figlio maschio che, quando finalmente arriverà, ai diciannove anni della sposa, sarà chiamato Mariano. Marianna si ritira per sua volontà nella villa di Bagheria, da cui non esce quasi mai, passando giornate intere a leggere e a scrivere, nonostante il marito preferisca Palermo e non ami i segni di desiderio di libertà che la moglie-nipote fa emergere; in particolare egli guarda male la passione di lei per la lettura, considerato che i libri diffondono le nuove correnti filosofiche fra cui l’Illuminismo e le teorie di David Hume che intaccano la concezione della superiorità dei nobili e della ragione, che deve dominare ad ogni costo le passioni ed i desideri. Muore la madre e, poco dopo, anche il padre, le cui disposizioni testamentarie suscitano un forte sdegno nei figli maschi perché la maggior parte dei beni viene destinata alle figlie. I fratelli, nel frattempo, hanno seguito le volontà dei genitori e pure non mostrano molta confidenza: Agata sposata e madre di numerosi figli fino allo sfinimento, indifferente ai tradimenti del marito Diego, Fiammetta monaca ma forse con una dedizione inaspettata, Signoretto aspirante alla carica di senatore, Carlo che in convento si dedica alla traduzione della letteratura, Geraldo che, ora ufficiale, muore in un alterco per strada.

Marianna trascorre le sue giornate in compagnia dei libri, ma non è felice essendo comunque moglie di un uomo che ella non ama davvero. Dopo aver sorpreso la serva Fila in intimità con il giovane Saro, che si rivela il fratellino di lei, nuove inquietudini turbano la sua apparente tranquillità: lo stesso ragazzo inizia con lei un gioco di seduzione cui si sente attratta, divertita e impaurita. Intanto Giuseppa ottiene di sposare un ragazzo che ama, ma dal quale è delusa perché ella ama leggere e il marito odia le nuove idee filosofiche quanto il duca Pietro; Felice è mandata dal padre in convento in cui fa la suora con un comportamento non irreprensibile, amando lussi e pettegolezzi; Manina è data in moglie a 12 anni e come la zia Agata trascorre la vita in casa sottomessa al marito. Muore anche il marito Pietro e la donna, durante una passeggiata per la campagna, soccorre Saro che finge una caduta da cavallo per poter ricevere un suo bacio. Successivamente, Marianna si ammala di pleurite e, durante la convalescenza, comincia a interrogarsi sull’inerzia della propria vita che l’ha portata a negarsi a un vero amore. Decide di ammogliare Saro per sentirlo distante, e durante un colloquio con il fratello Carlo, cui chiede di trovare una moglie da dare a Saro, lo interroga sull’origine del proprio mutismo. La reticenza di Carlo le fa affiorare il ricordo di quando, a sei anni, lo zio Pietro l’aveva violentata, e dallo shock era derivata la perdita di udito e parola: per mettere a tacere la cosa (che certamente il padre sapeva, per le donne della famiglia non è chiaro quanto sapessero del fattaccio) la famiglia aveva aspettato il momento buono di combinare un matrimonio riparatore proprio fra la bambina e lo zio orco, che avrebbe anche portato una ricca contraddote ai genitori di Marianna.

Dal matrimonio di Saro con la moglie Peppinedda nasce un figlio, ma Fila, in un impeto di gelosia, cerca di uccidere Peppinedda mentre dorme con Saro e il bambino. Durante l’aggressione Saro viene gravemente ferito e il bambino muore schiacciato dai genitori che cercavano di reagire. Peppinedda lascia la casa e Fila è portata in Vicaria, a Palermo, per essere giustiziata, ma Marianna intercede per lei presso il pretore della città, Don Giacomo Camalèo, per cui la cameriera verrà rinchiusa in manicomio per un certo tempo. Assistendo Saro, che sta lentamente guarendo dalle ferite, fa l’amore con lui e, per la prima volta, si abbandona a un rapporto dolce e coinvolgente. Tuttavia, al ritorno della moglie di Saro, ormai anche lei guarita, Marianna decide di troncare la relazione. Parte per Napoli, recando con sé Fila che è riuscita a fare uscire dal manicomio.

I familiari cominciano a rimproverarle i presunti “scandali” che la vedono coinvolta: per esempio, quello di vedersi spesso con Camalèo, uomo ricco e influente ma, per loro, di dubbia reputazione in quanto un tempo in relazioni con i francesi (la famiglia di Marianna invece è filo-spagnola), che peraltro le fa la corte anche se Marianna lo considera solo un amico. Le rimproverano inoltre di avere smesso il lutto soltanto un anno dopo la morte del marito e, soprattutto, di circondarsi di persone non del suo ceto, Fila e Saro. Frattanto il rapporto di Giuseppa con il marito peggiora e la ragazza lo tradisce con Olivo il figlio di Signoretto, Saro e Mariano fanno una vita da signori, Felice si atteggia a monaca più devota interessandosi alla medicina e riscuotendo successo, Manina continua a fare la moglie. Nel viaggio verso Napoli, il brigantino su cui le due donne sono imbarcate fa naufragio. Da Napoli esse si dirigeranno a Roma. Fila, infine, grazie anche alla dote procuratale da Marianna, sposa il padrone di una locanda e insieme alla duchessa rimane ancora a Roma.


Fonte: Wikipedia – La lunga vita di Marianna Ucrìa


| ilSicilia.it | – Marianna Ucrìa, la nobile adolescente tra realtà e finzione letteraria

| Periodico Italiano Magazine | – La vera storia di Marianna Ucrìa


Discutibile, disgustosa, inammissibile pedofilia

Dal sito dell’Associazione Culturale Clara Maffei la recensione di un pamphlet intitolato “Vanessavirus”, dedicato alla vicenda di Gabriel Matzneff. Lo scrittore francese, molti anni dopo i fatti, è stato accusato di pedofilia da Vanessa Springora, all’epoca quattordicenne, con la quale aveva intrattenuto una relazione nonostante i circa 40 anni di differenza di età. Lo scrittore, braccato dalla polizia francese, si è rifugiato in Italia, dove ha dato alle stampe la propria versione della vicenda, il pamphlet è stato tradotto da Giuliano Ferrara e pubblicato da Liberilibri. Un’operazione che viene definita “quantomeno discutibile”. Quello che ci interessa qui è però l’uso del suffisso “virus” per attualizzare la vicenda ai tempi della pandemia e ricalcare il frequente uso del riferimento morale, sociale o cultural ai contagi


La frequente considerazione secondo la quale i nostri atteggiamenti istintivi andrebbero subordinati al ragionamento incontra nella pedofilia una delle contraddizioni più pesanti. Sul tema del rapporto sessuale con bambini, infatti, sembra conveniente far prevalere il pregiudizio culturale del divieto assoluto anziché imbarcarsi in disquisizioni teoriche che rischiano di aprire derive permissive pericolosissime. Detto ciò, è altrettanto evidente che qualunque condanna senza appello e, in qualche modo, senza neppure processo rischia anch’essa di dare il “la” a pericolose tentazioni colpevoliste e forcaiole, contraddicendo i fondamentali del nostro stato di diritto.

Quanto la questione sia complessa lo hanno attestato di recente due operazioni culturali. La prima è la docu-fiction di Amazon “Veleno”, che ha riportato alla luce una vicenda giudiziaria svoltasi a fine millennio scorso nella bassa modenese e che giornalisticamente prese il titolo di “diavoli”, termine attribuito ai genitori e agli adulti accusati presunti abusi su bambini. Le condanne e le conseguenze furono pesantissime: 16 figli furono allontanati dai loro genitori; il sacerdote considerato il vertice della squallida cupola di pervertiti morì di infarto mentre si trovava nello studio del suo legale, dopo avere assistito alla requisitoria con la quale lo si accusava di vomitevoli nefandezze; una delle mamme accusate si tolse la vita, dichiarando nell’ultimo messaggio la propria innocenza. Le vite di tutte le persone coinvolte sono state distrutte per sempre.

Alcuni anni dopo un giornalista, Pablo Trincia, decise di dedicare a questa vicenda un’attenzione fuori dal comune che produsse un reportage audio nel quale tutta la conduzione della vicenda da parte della magistratura e degli assistenti sociali fu illuminata nelle sue non poche zone d’ombra, tanto che l’esito finale del lavoro del cronista è tendenzialmente innocentista. Ora il lavoro di Trincia, già pubblicato in podcast da Repubblica, è stato trasformato da Amazon in una docu-fiction seriale di grande efficacia, come sempre nei prodotti di questo broadcaster. La percezione che tutto il castello costruito sui “diavoli della bassa modenese” poggiasse su fondamenta fragilissime si è ulteriormente rafforzata, grazie anche alle ampie e approfondite testimonianze rese dai genitori e dagli adulti le cui vite sono state sconvolte dalle testimonianze di alcuni bambini. 

Uno di questi ex bambini, dalle cui accuse si montò la terribile vicenda, di recente ha confessato di essersi inventato tutto, dicendo di essere stato plagiato da inquirenti e assistenti sociali che gli rivolgevano le domande. La vicenda resterà probabilmente in sospeso, ma resta anche l’ammonimento a osservare la massima cautela nel momento in cui si mettono sotto inchiesta delle persone per questo terribile reato. Molto diversa invece la vicenda di Gabriel Matzneff, uno scrittore francese accusato molti anni dopo i fatti da Vanessa Springora, la donna all’epoca quattordicenne con la quale lo scrittore intrattenne una relazione nonostante i circa 40 anni di differenza di età. Lo scrittore è braccato dalla polizia francese e si è rifugiato in Italia, dove ha dato alle stampe la propria versione della vicenda con un pamphlet intitolato “Vanessavirus”, tradotto da Giuliano Ferrara e pubblicato da Liberilibri. Questa operazione, che segue la pubblicazione francese avvenuta a spese dello stesso Marzneff in duecento copie vendute anche a 600 euro ciascuna, è quantomeno discutibile. La linea decisamente liberale dell’editore e del fondatore del Foglio sono state senz’altro meritorie, in più occasioni nelle quali il conformismo culturale e il mainstream mediatico lasciavano ben poco spazio alle voci controcorrente. 

In questo caso, però, la solidarietà concessa mediante il diritto di parola a un uomo che è reo confesso di avere praticato e predicato la libertà di amore e di sesso anche con minorenni appare una sorta di mossa elitaria, un po’ come quella che ha a lungo coperto – perlomeno mediante l’omertà, la mancanza di condanna aperta – i registi Roman Polanski e Woody Allen quando sono stati toccati da accuse di comportamenti riprovevoli. Ricordiamo un precedente, quello di Marcello Baraghini che con la sua Stampa Alternativa pubblicò a suo tempo il “Diario di un pedofilo” scritto da William Andraghetti: anche in quel caso la motivazione liberal-radicale fu che a tutti va concesso il diritto di parola e di difendersi.

Il terreno è infido, il rischio di una caccia all’untore sempre dietro l’angolo. Ma la cautela non può in alcun modo diventare giustificazione di una presunta libertà che si traduce in un abuso traumatizzante che le vittime portano come una ferita non più rimarginabile per tutto il resto della loro vita. In questi tempi di pandemia il tema di come debbano essere interpretate le libertà è tornato di un’attualità imprevedibile, non è più soltanto oggetto di un dibattito intellettuale ma una questione molto pratica e concreta. Proprio perché le siamo fedeli in modo appassionato, pensiamo che la bandiera della Libertà debba essere sì sempre sventolata, ma anche protetta da possibili strappi quando il vento soffia troppo forte.

Lorenzo Stella


Fonte: Associazione Clara Maffei


“Veleno”, docu-fiction di Amazon

Un techno thriller tra Nanotec e Leopoli

Vito Marangelli nei due romanzi di “Caffè Enigma” costruisce una saga di science fiction, prendendo per protagonisti i laboratori leccesi di nanotecnologia, una ricercatrice ucraina e altri personaggi del Paese martoriato dalla guerra. Una scelta avvenuta, però, molto prima che il conflitto scoppiasse


Vito Marangelli è un medico pugliese, per la precisione un cardiologo esperto di imaging, che soltanto nei giorni scorsi ha visitato per la prima volta i laboratori Nanotec di Lecce, nonostante li avesse scelti come location del suo primo romanzo “Caffè Enigma”. Ancor più sorprendente è che abbia descritto la vita, professionale e non, di un paio di ricercatori dell’Istituto del Cnr basandosi solo su dati pubblici, con una fedeltà tale che i diretti interessati, incontrati successivamente, hanno dichiarato di riconoscersi perfettamente nei loro alter ego letterari. Sono i misteri affascinanti della narrativa. D’altronde il successivo romanzo di Marangelli, “Caffè Enigma Leopoli”, è stato ambientato nella città ucraina senza che l’autore l’avesse mai visitata ma con una precisione assoluta, basata sempre sulla consultazione delle informazioni disponibili on-line. Ai misteri dell’invenzione narrativa si aggiungono poi quelli del caso, talvolta drammatico: queste due opere di science fiction, techno thriller o spy story vedono per protagonisti una ricercatrice e altri personaggi del Paese martoriato dalla guerra per una scelta avvenuta molto prima che il conflitto scoppiasse. L’autore annuncia anzi che, nel probabile terzo e ultimo volume della serie, si potrebbe distaccare dall’Ucraina proprio per non entrare nel merito della tragica attualità.

Non riveliamo comunque troppi particolari, per non bruciare il piacere della sorpresa della lettura, limitandoci ad accennare ai molti elementi che si intrecciano nel plot narrativo: dalla droga alla musica classica, dai marchi industriali ai più innovativi dispositivi di bio-monitoraggio, dagli scacchi fino alle ricette leccesi come ciceri e tria o pasticciotti. Tra le varie figure che popolano le due storie troviamo agenti segreti, gestori di locali, giornalisti e due brillanti commissari, anche se l’autore assicura di non voler creare una saga alla Montalbano, dichiarando di preferire a Camilleri come modello letterario, Crichton e Asimov.

L’elemento portante di “Caffè Enigma”, nella prima come nella seconda puntata, è però un aspetto scientifico di fantasia eppure strettamente legato alla ricerca che si conduce realmente nei laboratori di Nanotec e agli interessi professionali di Marangelli: la speranza di poter curare mediante le nanotecnologie uno dei problemi cardiocircolatori fondamentali, l’aterosclerosi, cioè la formazione delle placche, causa di molti problemi e di una mortalità ancora pesantissima. Mentre su altri aspetti dei romanzi ci auguriamo ovviamente che l’invenzione letteraria resti tale, su questo la speranza è che un giorno si possa davvero tramutare in realtà.

Marco Ferrazzoli


Vito Marangelli, “Caffè Enigma”, La Rambla (2021)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Groviglio di sentimenti

“Gomitoli di memoria” è un viaggio “fra realtà e fantasie” che Maria Paola Graziani, alias Airamp Lever, sceglie per la sua protagonista. In queste pagine, soprattutto in quelle dedicate a bulimia ed anoressia, si coglie direttamente l’esperienza professionale dell’autrice, psicologa e già ricercatrice dell’Istituto di scienza dell’alimentazione del Cnr


“Quando si ritrova il bandolo e lo si riesce a districare dagli ingarbugliati nodi, la vita si presenta come una vera avventura al pari di una sceneggiatura piena di colpi di scena, di colori e di ombre che, pur fra realtà e fantasie, appare comprensibile”. Questo è il viaggio “fra realtà e fantasie” che Maria Paola Graziani, alias Airamp Lever, sceglie per la protagonista dei suoi ‘Gomitoli di memoria’.
Il racconto è un intreccio tra la storia personale di Lei e i luoghi fisici custodi della sua memoria su cui, tra tutti, spicca una Roma lontana, piegata sia fisicamente che moralmente dalla guerra. La ricostruzione storica e la riflessione scientifica sono le due sponde che accompagnano questo viaggio nella memoria. Un cammino lungo dieci momenti dell’esistenza senza un apparente rapporto di consequenzialità, in cui trovano spazio l’incontro prematuro con la morte, l’amore, la solitudine, la lotta, le madri di gioia e gli amici dell’infanzia.
Tutto, dai luoghi agli oggetti, perfino gli odori, ha un ordine interno, quasi a scandire il tempo delle scelte, delle nuove curiosità, della vita. Così la riflessione si avvicenda alla narrazione ed è con Jo, amico d’infanzia e interlocutore muto che la accompagna nelle sue elaborazioni più intime, che Lei riflette sul significato di simboli e modelli culturali, dal dopoguerra fino alla ‘società liquida’.
E, ancora, la magia dell’incontro con lo Zahir che, “impadronitosi dell’altro, detta le regole del gioco e l’importanza delle ricompense e delle delusioni, il limite e la barriera”; la sua “memoria intellettuale”, il dolore della separazione e, infine, il tempo dell’accettazione. Pensieri che generano nuovi pensieri e nuove domande, in un salto continuo dal passato al presente.
Il dolore è sullo sfondo, come “il grande tema che gira intorno al nostro universo”. Il dolore del distacco dai propri cari e la sofferenza per “le domande senza risposta” che restano, ma che non impedisce di risalire verso una ritrovata consapevolezza di sé fino alla rinnovata capacità di progettare il domani. Ed è in queste pagine, come in quelle dedicate a bulimia ed anoressia, che più direttamente si coglie l’esperienza professionale dell’autrice, psicologa e già ricercatrice dell’Istituto di scienza dell’alimentazione del Cnr.
Voltarsi indietro per comprendere e non per abbandonarsi al dolore o alla gioia di momenti ormai andati. Voltarsi e riconoscersi negli eventi passati, perché “noi siamo i nostri ricordi” e “… narrare forse, resta uno dei pochi percorsi che allentano il dolore e danno suono ai silenzi della memoria”.

Monica Di Fiore


Airamp Lever, “Gomitoli di memoria”, Nuova Cultura (2014)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

Storia di fede, libri e anoressia

La fede religiosa, la politica, l’anoressia e la cultura si intrecciano in “Sarà bella la vita”. A scriverlo è Monica Mondo, una giornalista che definisce il libro un “romanzo”, anche se vi racconta in prima persona la propria esperienza di rifiuto del cibo, con le sue profonde e complesse motivazioni, nelle quali trova posto anche una sorta di patologico senso della vicinanza a chi ha fame perché non ha di che mangiare


La fede religiosa, la politica, l’anoressia e la cultura si intrecciano in un libro breve, ‘Sarà bella la vita’ di Monica Mondo, che l’autrice e l’editore Marietti 1820 definisce come “romanzo” ma che sarebbe invece più appropriato chiamare ‘testimonianza’. A scriverlo è infatti una giornalista che racconta in prima persona il rifiuto del cibo, dalle sue profonde e complesse motivazioni, nelle quali forse trova posto anche una sorta di patologico senso della vicinanza a chi ha fame perché non ha di che mangiare, fino alla completa uscita dal tunnel grazie, di nuovo, a un concerto di stimoli positivi.
La cornice è rappresentata da una serie di citazioni, letterarie e musicali, che attestano la provenienza dell’autrice da una famiglia in cui libri e giornali costituivano un oggetto di lavoro quotidiano e che rappresentano gli spunti per inquadrare ricordi di persone e fatti. Si inanella così una trama esile ma estremamente intensa e significativa, soprattutto la generazione che ha vissuto, o almeno visto, in prima persona gli anni plumbei dell’odio ideologico.
Essere scampata al terrorismo, come pure alla droga, avere trovato accoglienza da parte di un prete sensibile, avere provato l’inevitabile sentimento di amore-odio per i terapeuti sono solo alcuni dei passaggi attraverso i quali Mondo riesce a vincere l’anoressia. Oggi, adulta e madre nonostante le pessimistiche previsioni di sterilità dei medici, può guardare a quei ricordi di bambina e ragazza con una maturità tranquilla che le consente di trasformarli in racconto.

Marco Ferrazzoli


Monica Mondo, “Sarà bella la vita”, Editore Marietti-1820 (2012)


Fonte: Almanacco CNR – Recensioni