Il contributo esplora la nascita della disciplina della psicopatologia, e il suo affermarsi come metodo per l’analisi della “complessità” dell’esperienza vissuta.
La psicopatologia fra scienze della natura e scienze dello spirito
Parlare del reale o supposto statuto scientifico o filosofico del pensiero psichiatrico significa, soprattutto, inserirsi profondamente nel dibattito attuale. Questo dibattito sulle condizioni di possibilità della psichiatria come scienza riguarda particolarissimamente i modelli di conoscenza proposti fino ad ora alla psichiatria, modelli costantemente in bilico, per dirla con Dilthey (1883); fra il paradigma delle Scienze della Natura e quello delle Scienze dello Spirito o, per riferirsi ad una dizione più aggiornata e pittoresca, in bilico fra scienze dure e scienze molli. Il nodo problematico che abbiamo indicato come titolo di questo paragrafo ci sembra ben riassunto dalla seguente citazione tratta dagli Studi newtoniani di Koyré (1968):
“…la scienza moderna abbatté le barriere tra cielo e terra, unificando l’universo. E questo è vero. Ma essa realizzò tale unificazione sostituendo al nostro mondo delle qualità e delle percezioni sensibili, un mondo che è il teatro della nostra vita, delle nostre passioni e della nostra morte, un altro mondo: il mondo della quantità, della geometria reificata, nel quale, sebbene vi sia posto per ogni cosa, non vi è posto per l’uomo. Così il mondo della scienza divenne estraneo e si differenziò profondamente da quello della vita, un mondo quest’ultimo che la scienza non era stata capace di spiegare……” (p. 23).
Queste parole riportano la questione ai due modelli di conoscenza originariamente dicotomici proposti da Dilthey e ripresi da Jaspers (1913): lo “spiegare” (Erklären) e il “comprendere” (Verstehen). Il primo riguarderebbe l’area delle “scienze della natura” (scienze fisico-matematiche, scienze biologiche, ecc.), l’altro l’area delle “scienze dello spirito” o scienze umanistiche (storia, psicologia, sociologia, antropologia, filosofia, psichiatria, ecc.).
È certamente la psicopatologia, come già segnalava Jaspers, una disciplina fra le più coinvolte circa l’uso delle due diverse strategie cognitive: 1) l’approccio rigidamente neutrale, alla ricerca delle cause oggettive e ultime del fenomeno (che orbita intorno al concetto di «spiegazione»); 2) l’approccio comprensivo (che il pensiero ermeneutico definirà, una volta per tutte, interpretativo), che teorizza la storicità, la provvisorietà, la soggettività e la finitezza di ogni progetto conoscitivo.
L’incertezza sullo statuto scientifico della psichiatria deriva dal suo collocarsi all’interno di alcuni nodi problematici irrisolti, o per meglio dire, in alcuni obbligati luoghi di transizione della scienza contemporanea. Per ricordarne alcuni: il rapporto mente/corpo in primis, poi gli intricati rapporti di connessione/disgiunzione fra biologia, scienze sociali, antropologia, filosofia ecc.
Questi nodi problematici definiscono diversi livelli di complessità, o prospettive su diversi livelli di complessità.
Una prospettiva storica sulle “trasformazioni” in psichiatria
La psichiatria italiana negli anni ’50, così come la si apprendeva negli ambiti accademici, era agganciata ad un contesto culturalmente povero, appiattito su modelli meccanicistici, banali e ipersemplificati. I testi attraverso i quali si pretendeva di entrare nel mondo complesso della patologia psichiatrica erano per di più “vulgate”, sintesi ipersemplificate della lezione kraepeliniana. Fra i testi consigliati basta citare un nome per tutti, il compendio di psichiatria del Gozzano, diffuso su larga scala in ambito accademico come unico testo didattico. Un testo, a ripensarlo, che finiva per scoraggiare chi, avvicinandosi alla psichiatria, sperava di affrontare in modo adeguatamente problematico le questioni psicopatologiche. I sintomi psichiatrici a connotazione psicotica venivano osservati sotto una luce esclusivamente comportamentale, privi del benché minimo tentativo di interpretazione della loro eco interiore, del loro vissuto antropologico. Ricordiamo “il segno del cappuccio”, “il segno dello specchio”, l’“insalata di parole” ecc., termini caratterizzati da una loro inesplicabile e inquietante connotazione senza perché.
Da allora, anche attraverso la lettura diretta delle fondamentali opere di Edmund Husserl, di M. Heidegge, di S. Kirkegaard e dei grandi psicopatologi tedeschi e francesi, dei fondamentali contributi psicoanalitici, l’approccio più umanistico alla clinica psichiatrica volle estrapolare dalla riflessione fenomenologica-dinamica gli strumenti metodologici per un approccio antropologicamente fondato e non riduttivo ai fenomeni psicopatologici. La specificità di una psichiatria capace di aprirsi a questi orizzonti consiste proprio nel suo riflettere la complessità bio-psico-sociale della mente umana e della sua patologia. Altre professioni – neurologi e psicologi in particolare – hanno certamente un’identità che viene percepita come meglio definita rispetto allo psichiatra, ma questa apparente maggiore chiarezza della loro sfera di competenza traduce l’unidirezionalità della loro visione, non adatta a riflettere la complessità della patologia mental. La psichiatria nella sua capacità di integrare saperi diversi e approcci diversi, rappresenta in questo senso un esempio di straordinario valore a cui l’intera medicina dovrà prima o poi fare riferimento nei suoi persistenti tentativi di ridefinizione e di aggiornamento delle sue basi concettuali e metodologiche.
La psicopatologia fenomenologica come metodo
La psicopatologia fenomenologica si configura oggi come l’unica strada metodologica che consenta una comprensione antropologicamente fondata dell’esperienza interiore del mondo normale e patologico, due mondi fra i quali ristabilisce una assoluta continuità. Libera da preoccupazioni eziologiche e nosografiche essa può occuparsi con impegno totale delle strutture di senso intorno alle quali si organizzano tutti i fenomeni psichici.
Gli strumenti di cui si serve sono l’attenzione partecipe, la descrizione e l’analisi delle esperienze interne quali si danno alla coscienza, e la comprensione dei modi attraverso i quali le esperienze interiori si manifestano nella costruzione di un “immaginario” e di un mondo propri. Di qui la vocazione della disciplina psichiatrica ad interrogarsi sulla varietà, il senso, la progettualità di mondi antropologici possibili, col compito di comprenderli per poterli in qualche modo abitare.
La psicopatologia può configurarsi anche e soprattutto come metodo per l’analisi della “complessità” dell’esperienza vissuta.
Senza giungere mai a formulazioni compiute e definitive essa consente piuttosto di intravedere la qualità antropologica nella quale ogni fenomeno clinico si riflette continuamente, in modi infinitamente aperti.
Così intesa la psicopatologia introduce una tonalità antispeculativa e ribadisce un tratto etico: ciò che si esercita attraverso questa disciplina è in definitiva una capacità di ascolto messa in atto da un’attenzione rigorosa e responsabile. Attitudine all’esercizio dell’intersoggettività potrebbe anche definirsi questa metodologia che rappresenta forse l’unica condizione possibile perché il paziente comunichi allo psicopatologo qualcosa che segretamente gli appartiene. Per questo appare sempre più necessario coltivare nel giovane psichiatra quello che Bruno Callieri definisce “la fondamentale passione per l’esistenza”.
Questo modello didattico scuote dalle fondamenta un modello tradizionale di apprendimento. Esso richiede l’esercizio di un pensiero multidimensionale, che cerca un rapporto più complesso e consapevole con il proprio oggetto di osservazione.
Questa prospettiva delinea una conoscenza consapevole della propria finitezza e provvisorietà e scopre possibilità sempre nuove di leggere il mondo, soprattutto quello psicopatologico.
Si vuole ora indicare, per chiarire meglio questo itinerario, cosa si intende come esercizio quotidiano e coerente di un approccio fenomenologico-dinamico applicato alla clinica psichiatrica. Si intende soprattutto sottolineare l’importanza della psicopatologia fenomenologica come asse portante della ricerca in psichiatria. In essa si può intravvedere la ricerca di una prospettiva globale sull’esperienza umana come portatrice e donatrice di senso, anche (soprattutto) nelle sue manifestazioni-limite come quelle psicopatologiche. Potremo così recuperare, e anche rilanciare, una istanza fondamentale della antropoanalisi applicata alla psicopatologia: quella di essere una scienza di fenomeni antropologicamente fondati, tesa a scavalcare gabbie disciplinari, riduttive antinomie e frammentari, dispersivi tecnicismi. È possibile così tracciare alcune coordinate fondamentali della psicopatologia fenomenologica:
a) ricerca del senso e della continuità antropologica nei fenomeni psicopatologici;
b) rilievo determinante conferito all’esperire soggettivo come sola, vera occasione di conoscenza;
c) assoluto primato dell’incontro interpersonale.
Fare della psicopatologia fenomenologica significa porsi, ancora ed ancora, la stessa nevralgica domanda capace di dare da pensare ad intere generazioni di futuri psicopatologi. Quale valore antropologico si cela dietro ciò che abitualmente percepiamo, ascoltiamo, esperiamo circa i “fenomeni clinici” che di volta in volta ci offre l’infinito orizzonte dei vissuti psicopatologici? Come decodificare l’assolutamente privato, l’indicibile?
Fare della psicopatologia significa, comunque, cercare la continuità nella discontinuità dei diversi agglomerati psicopatologici e leggere questa discontinuità nell’ottica di una “continuità narrativa” che apra alla comprensione di esperienze, eventi, storie ai margini estremi dell’intellegibilità e, qualche volta, della dicibilità. Solo muovendosi in questa direzione il discorso psicopatologico potrà essere in grado di oltrepassare il dato meramente descrittivo per aprirsi alla genesi strutturale e “storica” del fenomeno clinico.
Un esercizio fenomenologico di grande interesse, inteso a rintracciare continuità narrative in funzione di una continuità antropologico-strutturale, capace di illuminare eventi clinici.
Senza giungere mai a formulazioni compiute e definitive essa consente piuttosto di intravedere la qualità antropologica essenziale di un epifenomeno clinico a cui rimanda continuamente in modi infinitamente aperti. Così intesa essa ha più a che vedere con un’attitudine di pensiero, con un “esercizio” ermeneutico paziente, ma inesauribile. Nel porre in questione la soggettività, la psicopatologia fenomenologica esprime una vocazione verso conoscenze non causalistiche e ribadisce un tratto etico: ciò che si esercita attraverso questa disciplina è in definitiva una capacità di ascolto messa in atto da un’attenzione rigorosa e responsabile. Custodire, salvaguardare, lasciar essere saranno i vertici di questo ascolto che esige una attitudine all’astensione e alla attesa. Come scrive Rovatti: “Un simile atteggiamento di ascolto non è un arresto dello sguardo quanto piuttosto una riscoperta del visibile”.
La fenomenologia scuote dalle fondamenta il modello tradizionale di apprendimento. Il pensiero complesso e multidimensionale, che cerca un rapporto più consapevole con il proprio oggetto di osservazione, delinea un nuovo profilo della conoscenza, che nella consapevolezza della propria finitezza e provvisorietà scopre possibilità sempre nuove di leggere il mondo. Questo processo, così lontano dalle forme di apprendimento tradizionali del pensiero scientifico, legate ad un modello del pensare neutrale, affermativo ed onnipotente.
Il lavoro psicopatologico consiste proprio nella disponibilità a smarrire questa chiarezza non appena la si è acquisita come saldo punto di riferimento”. L’apprendimento di questo metodo e di questa attitudine di pensiero può realizzarsi solo all’interno di una dimensione interpersonale, nello spazio di una relazione che interessi lo psicopatologo e il paziente, l’allievo e il maestro.
La figura del maestro acquista nella prospettiva di una formazione non solo tecnica, ma soprattutto etica, un valore ineguagliabile. Solo il maestro può risvegliare l’allievo ad un problema, solo il maestro ha la capacità di ricreare il problema nella mente del discente e dargli l’essenziale consapevolezza che ogni vera conoscenza è conoscenza personale. E questo vale soprattutto per lo psichiatra.
P. Scudellari, Istituto di Psichiatria “P. Ottonello”, Università di Bologna
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