Céline, demonio antisemita e angelo dei malati

Lo scrittore francese è un personaggio controverso: la sua trilogia lo ha reso celebre e amato dai lettori ma le posizioni espresse in “Bagattelle per un massacro” lo hanno reso un “maledetto” inviso a molti. Non è certo la sua l’unica figura della letteratura in cui si mescolano il valore artistico e la scorrettezza politica, ma nel caso di Louise Ferdinand Destouches si aggiunge un terzo elemento di interesse: l’attività di medico svolta anche negli ultimi anni di vita in modo letteralmente e simbolicamente periferico, marginale, assieme agli ultimi. Lo ricordiamo attraverso un testo che ricorda proprio questa duplicità


[…]
«Il personaggio Céline non potrà mai diventare simpatico a nessun lettore […] Tutto il suo dramma sta […] nella mancanza di equilibrio tra l’intelligenza piena della realtà e la sua resistenza morale»; una realtà sua, fatta però di allucinazioni prodotte dalla realtà vera, e una sua morale negativa che è ispirata e si rivolge a uomini contraffatti che recitano e vivono indossando una maschera mostruosa plasmata dai propri vizi, quelli dichiarati e quelli taciuti. «Céline bisogna prenderlo tutto insieme …» accettando la sua esacerbazione verbale come insostitui

bile mezzo di ricerca. Questo è il giudizio sofferto, ma chiaro e condivisibile, delineato da Carlo Bo, eminente critico cattolico, in un famoso saggio sull’autore di Viaggio al termine della notte (trad. it. Corbaccio 1933), anteposto alla traduzione italiana della sua seconda opera letteraria uscita in Francia nel 1936, Morte a credito (Garzanti 1964). Si tratta di un giudizio utile perché, a differenza delle condanne senza appello espresse da personaggi come Sartre e Moravia, non fomenta la messa all’indice di tutte le opere di questo autore e nel contempo sollecita una condanna senza attenuati delle sue derive antiebraiche e collaborazioniste con i nazisti. Non può infatti essere richiesta a tutti la capacità di un Cesare Cases, lui grande germanista letterato ed ebreo, che, dovendo ammettere che quella di Céline è un’opera straordinaria di ricognizione umana che non ha avuto seguito e che il Viaggio è una delle proposte più forti, il maggior romanzo del Novecento, si spinge a sostenere che quando egli usa il termine “ebreo” indirizzando a questi un odio allucinante, in realtà intende additare al pubblico ludibrio gli emblemi più brutali della modernizzazione capitalistica e cioè l’impero del denaro, la standardizzazione della vita quotidiana, la tecnocrazia, la burocrazia, l’America e l’Unione Sovietica, tutto o quasi tutto. È lo stesso Cases tuttavia che sintetizza meglio il suo pensiero quando dice che Cèline deve essere trattato come qualcuno da stampare al mattino e da fucilare nel primo pomeriggio.



Una vita vissuta
Tutti gli scritti di Céline, quelli letterari e quelli medici, hanno una forte derivazione autobiografica, una biografia complessa, pericolosa, straripante. Precocemente viaggia, impara inglese e tedesco e si impiega in diverse ditte commerciali. Volontario nella Prima guerra mondiale, viene ferito a un braccio e riformato: da questo momento e per tutta la vita soffrirà d’insonnia, di angoscia e di acufeni; nel 1916 dirige per nove mesi una piantagione di cacao in Camerun, quindi lavora in Francia nella redazione di una rivista di divulgazione scientifica.
Nel 1918 si iscrive alla facoltà di medicina di Rennes e si laurea nel 1924 con una tesi “romanzata” su Semmelweis, avendo come tutor il suocero e usufruendo di facilitazioni come reduce; in questo stesso periodo è attivo in una campagna antitubercolare della Fondazione Rockfeller.
Fa per un periodo il ricercatore all’Institut Pasteur; dal 1924 al 1928 lavora per la Società delle nazioni, branca “salute”, e viaggia da Ginevra a Liverpool, in Africa, in Italia (a Roma incontra Mussolini in persona che gli parla delle sue campagne antimalariche), a Cuba, negli Stati Uniti e in Canada (dove guida una delegazione di medici sudamericani in visite, tra l’altro, alle fabbriche Ford e Westinghouse) e dopo di nuovo in Europa; in alcuni di questi spostamenti fa anche il medico di bordo. Alla fine del 1927 apre uno studio medico a Clichy dove, a eccezione di un periodo trascorso all’ospedale Laennec, svolge con poche gratificazioni la professione di medico di base nei confronti di una clientela molto povera, disperata, ma contemporaneamente è assunto in un servizio municipale di igiene pubblica, pratica «una medicina collettiva terapeutica» e sperimenta, per conto di alcune società farmaceutiche, dei farmaci, compreso un medicamento contro i dolori mestruali, partecipando attivamente alla Società di medicina di Parigi. Compie viaggi in Germania, Gran Bretagna, nei Paesi Scandinavi e a Vienna; nel 1944, dopo la liberazione della Francia, ripara in Germania con i membri del governo collaborazionista di Vichy e, quindi, in Danimarca, dove passerà in prigione quattordici mesi e risiederà sino al 1951, quando l’amnistia gli consentirà il ritorno in Francia con una condanna per “indegnità nazionale” con la confisca dei beni. Vivrà con la moglie Lucette e numerosi animali a Meudon, a circa 10 chilometri da Parigi, dove continuerà fino alla fine la sua attività di medico, anche se poche erano le persone che accettavano di farsi curare da lui.




Destouches ovvero Céline
In sintesi, Louis-Ferdinand Auguste Destouches (1894-1932) è il medico che diventerà scrittore; Louis-Ferdinand Céline (1932-1961), pseudonimo mutuato dalla nonna materna con il quale pubblica, nel 1932, la sua prima opera letteraria, Viaggio al termine della notte, è lo scrittore medico.
Difficilmente tuttavia apprezzando cumulativamente la vita e le opere dei due personaggi, a differenza di come ha fatto qualche critico, si potrà pensare a una separatezza, a una doppia personalità, del medico e dello scrittore.
Altrettanto difficilmente si potrà pensare all’antisemitismo teorizzato e praticato come a un episodio isolato, espressione di una sorta di terza personalità (1937-1941) illustrato soltanto da tre pamphlet:
Bagatelle per un massacro (trad. it., Corbaccio 1938),
La scuola dei cadaveri (trad. it., Edizioni Soleil 1997),
La bella rogna (trad. it., Fata Morgana 1981).

Ancora difficile sarebbe pensare, come ha suggerito qualcuno, che è esistito un Destouches-Céline comunista, o per lo meno simpatizzante comunista, solo sino al 1937, quando, dopo una visita in Unione Sovietica, formalmente per reclamare e spendere i diritti dei suoi libri tradotti, pubblica un terribile pamphlet antisovietico, Mea culpa (trad.it, Scheiwiller 1975).
Infine, travagliati ma non indice di sicuro pentimento dell’adesione al nazismo, risultano le ultime prove letterarie, la Trilogia del Nord (Da un castello all’altro, Nord, Rigodon), tradotte in Italia nei primi anni Settanta e oggi disponibili in un unico volume (Einaudi 2010). Dunque abbiamo a che fare con un individuo dotato di una certa coerenza, anche spregevole, che solleva, parlandone senza ritegno, problemi personali, sociali da lui direttamente interpretati, importanti e irrisolti e con prospettive che non fanno scorgere nulla di buono, alcuna soluzione, operando abitualmente in maniera politicamente e moralmente scorretta.
Alla fine Céline risulta essere tante cose assieme: populista, volontario in guerra, pacifista, anticolonialista, cosmopolita, anarchico e nichilista, animalista, medico dei poveri, irreligioso e antimassone, igienista e temperante (non beve e non fuma), riservato, affettuoso; tutte queste cose e anche il contrario di esse, o di quasi tutte. È per tali motivi che l’autore e l’uomo Céline è ammirato da alcuni, una ristretta élite intellettuale, osannato da scalmanati che evocano principalmente il suo antiebraismo, guardato con timore dalla maggioranza.
Prima di affrontare gli scritti più direttamente medici e igienici di Céline è opportuno soffermarsi sul Viaggio, un affresco dell’umanità, quella della guerra, dell’industrializzazione, delle colonie, del lavoro industriale, dell’alienazione metropolitana, della miseria delle periferie, delle aridità delle coscienze. In questo scenario si muove lo sconsolato e ironico medico Ferdinand Bardamu che, ferito durante la Prima guerra mondiale e in convalescenza a Parigi, conosce l’americana Lola; si ritrova in Africa; incorre in una serie di avventure sia tragiche sia buffe; raggiunge fortunosamente l’America e si arruola nel servizio immigrazione e nell’industria automobilistica; ritrova Lola, si fa prestare fraudolentemente del denaro e torna in Francia; apre uno studio medico in provincia, dove conoscerà una realtà macabra. Bardamu, dopo un tortuoso ma vitale percorso, iniziato nel buco nero della guerra sbocca al fondo, nel buco ancora più oscuro della morte. La narrazione, incalzante è ricca di esercizi fonici, di slittamenti semantici, di paratassi, di puntini che non assumono soltanto il significato della sospensione. Quelli che seguono sono delle citazioni (tratte dalle edizione dall’Oglio del 1962) scelte perché esprimono più da vicino impressioni o concetti medici molto influenti nell’opera complessiva:


– « I malati non mancavano, ma non c’erano molti che potessero o volessero pagare. La medicina è una cosa ingrata. Quando ci si fa pagare dai ricchi s’ha l’aria d’essere un domestico, e dai poveri ci si diventa un ladro. ‘Onorari’! Quella è una parola! Non ne hanno già abbastanza per mangiare o per andare al cine, i malati, e volete ancora cavarci dei baiocchi per pagare gli ‘onorari’? Soprattutto proprio nel momento che tiran le cuoia. Non è comodo. Si lascia perdere. Si diventa cortesi. E s’è fottuti. » [pag. 277]

– « I miei clienti invece erano degli egoisti, dei poveri, dei materialisti concentrati nei loro progettacci di pensione, ottenuta con lo sputo sanguigno e positivo. Il resto era loro indifferente, persino le stagioni erano loro indifferenti. In fatto di stagioni sentivano e volevano conoscere solo quella che aveva un rapporto con la tosse e la malattia. » [pag. 348]


Numerose sono poi, sempre nel Viaggio, le sentenze riguardanti l’esperienza alla Ford di Detroit che assumono un significato sostanzialmente diverso da come gli stessi argomenti vengono trattati negli scritti più propriamente igienici e in quelli che qualcuno, forse arditamente, chiama di medicina del lavoro. Nell’opera letteraria il lavoro standardizzato, quello osservato e descritto alla Ford di Detroit, viene condannato, se ne rilevano gli eccessi e gli effetti perversi intollerabili, la disumanità che disumanizza, la passività e la subalternità in cui cadono e sono tenuti gli operai. In questo contesto sono inserite espressioni forti di condanna del taylorismo: «Il girone infernale del lavoro», «rimbambimento industriale» («gâtisme industriel»), «Atrocità materiale della fabbrica» e ciò anni prima che altri autori, da Sinclair a Chaplin, descrivessero o rappresentassero le stesse condizioni. Ecco alcuni esempi:


 – « Quel che ci trovavano di buono da Ford, m’ha spiegato un vecchio russo in via di confidenze, è che si accettava qualunque persona e qualunque cosa ‘Solo, stai attento – m’ha aggiunto perché mi sapessi regolare – non bisogna far grane da lui, ché se pianti grane ti scaraventano alla porta in quattr’e quattr’otto, e sarai in quattr’e quattr’otto sostituito da una delle macchine meccaniche che hanno sempre a portata di mano e allora non ci hai più mezzo di rientrarci!’ » [pag. 235]

– « Non vi serviranno a nulla i vostri studi qui, ragazzo mio! Voi non siete venuto qui per pensare, ma per fare i gesti che vi si comanderà d’eseguire … Non abbiamo bisogno di immaginativi nell’officina. L’è di scimpanzè che abbiamo bisogno. Un consiglio ancora. Non parlate mai più della vostra intelligenza! Ci saranno altri che penseranno per voi! Tenetevelo per detto. » [pag. 236]

– « Tutto tremava nell’immenso edificio e anche noi dai piedi alle orecchie possedute da quel tremore, le scosse venivano da vetri e dal pavimento e dalla ferraglia, vibrate dall’alto in basso. Si diventava macchine per forza e con tutta la propria carne ancor tremante in quel rumore di rabbia enorme che prendeva il di dentro e il giro della testa e più e più in basso agitava le trippe e risaliva agli occhi in leggeri colpi precipitati, infiniti, continui. A misura che s’avanzava, perdevamo dei compagni. Si faceva loro un sorrisetto lasciandoli come se tutto quel che succedeva fosse pura cortesia. Non si poteva più né parlare né sentire. Ne rimanevamo ogni volta tre o quattro intorno a una macchina. » [p. 236-237]



La tesi di laurea in medicina di Destouches
La tesi di laurea in medicina inizia con un colpo di fulmine, uno stratagemma storico-narrativo rappresentato dal clamore della rivoluzione, «Mirabeau gridava così forte che Versailles ebbe paura»; l’Europa partorisce con dolore una nuova era, febbrile e solo dopo anni si instaura una epoca di “convalescenza”; è in questa contesto che nasce Semmelweis. La conclusione è piuttosto lirica, ma centrata su di una inconfutabile verità storica:


« Fu un grandissimo cuore e un grande genio medico. Egli rimane, senza alcun dubbio, il precursore clinico dell’antisepsi, perché i metodi da lui preconizzati per evitare la febbre puerperale sono ancora, e sempre saranno d’attualità. La sua opera è eterna. Tuttavia nella sua epoca, venne assolutamente misconosciuta. … sembra che la sua scoperta superasse le forze del suo genio. E questo fu forse la causa profonda di tutte le sue sventure. »
[Il dottor Semmelweis, Adelphi 1975, p. 102-103]



Come scrive Guido Ceronetti nella sua acrobatica e scoppiettante postfazione, Céline evoca «la religione laica dell’affamato d’anima che cercava qualcuno da adorare, il santo, il profeta, l’eroe» [pag. 111] e dimostra ampiamente che si tratta di «una squisita agiografia laica, che racconta un solo miracolo e dopo poco pagine precipita il suo santo nel martirio finale» [pag. 112]. È una storia romanzata di grande impatto condotta dall’autore con licenze letterarie poco apprezzate da storici della medicina accademici. Sherwin B. Nuland (Il morbo dei dottori. La strana storia di Ignàc Semmelweis, Codice Edizioni, Torino 2004) nella sua bibliografia la liquida con due parole: «alquanto confusa» (pag. 145). Altri autori si sono impegnati, ma senza ledere minimamente il valore intrinseco e comunicativo dell’opera, a elencare numerosi errori od omissioni riguardanti date, nomi, percentuali di ammalate e di morti; in particolare vengono contestati alcuni aspetti della persecuzione del medico ungherese e più di tutti il finale truculento, quello della autoinoculazione e del suicidio […].


Finale di partita che merita di essere letto:

«C’era un cadavere, sul marmo, al centro, per una dimostrazione, Semmelweis, impadronitosi di uno scalpello, si apre un varco fra gli allievi, rovesciando varie sedie, si accosta al marmo, e, prima che si riesca a impedirglielo, incide la pelle del cadavere, taglia nei tessuti putridi, abbandonato ai suoi impulsi, strappando lacerti di muscoli che poi scaglia lontano. Accompagna le sue mosse con esclamazioni e frasi sconnesse … fruga con le dita e con la lama al tempo stesso in una cavità cadaverica gocciolante di umori. Con un gesto più brusco degli altri si taglia in profondità. La ferita sanguina. Grida. Minaccia. Viene disarmato. Circondato. Ma è troppo tardi … si è infettato mortalmente. » [pag. 98]


I testi “igienici” e di “medicina sociale” di Destouches-Céline
Una raccolta degli scritti medici di Céline è stata pubblicata per la prima volta da Gallimard nel 1977 (Semmelweis et autres écrits médicaux, a cura di J-P. Dauphin e H. Godard, Cahier Céline 3) Si tratta di tutti quelli conosciuti, adeccezione di uno (La santé publique en France, Monde, n. 92, 8 mars 1930, 35-36). Solo una parte di questi testi sono tradotti in italiano in un volume dal titolo di fantasia (I Sotto uomini, Testi sociali, a cura di Giuseppe Leuzzi, Shakespeare and Co., 1993) e cioè:
Nota sull’organizzazione sanitaria degli stabilimenti Ford a Detroit, del 1925);
Nota sul servizio sanitario della Compagnia Westinghouse a Pittsburgh, del 1925;
Per abbattere la disoccupazione abbatteranno i disoccupati? (Le Mois, 1 février 1933, 57-60);
La medicina alla Ford (Lectures 40, n°4, 1 août 1941 et n. 5, 15 août 1941);
Le assicurazioni sociali e una politica economica della salute pubblica (La Presse Medicale, n. 94, 24 novembre 1928, 1499-1501).


Nella raccolta italiana compaiono anche due brevi scritti assenti nella raccolta francese, Luisiana I e Luisiana II del 1925, relazioni dattiloscritte come le altre dello stesso anno scritte da Céline in occasione del suo viaggio per conto della Società delle nazioni e conservate nell’archivio storico dell’Organizzazione mondiale della sanità di Ginevra. Sono disponibili dunque solo in francese gli altri testi:
A propos du service sanitaire des usines Ford à Detroit, Bulletins et Mémoires de la Société de medécine de Paris, n. 10, 26 mai 1928, 303-312;
Essai de diagnostic et de thérapeutique méthodiques ‘en série’ sur certains malades d’un dispensaire, Bulletins et mémoires de la Société de medécine de Paris, n. 6, 22 mars 1930, 163-168;
Mémoire pour le cours des hautes etudes, 1932 (inedito sino al 1977).


Si tratta complessivamente di un corpus che èstato studiato a fondo da più autori francesi negli ultimi anni e ultimamente con una monografia da David Labreure (Louis Ferdinand Céline, une pensée médicale, Editions Publibook, 2009). Dettagliata è anche l’analisi fatta in precedenza da Philippe Roussin (Destouches avant Céline: le taylorisme et le sort de l’utopie hygiéniste. Une lecture des écrits médicaux des années vingt, Sciences Sociales et Santé, 1988, 3-4, 5-48).


La lettura degli scritti “medici” di Céline più o meno influenzata dagli scritti specialistici riportati sopra porta a fare alcune considerazioni essenziali.
Si tratta nella quasi totalità di quella che alcuni chiamano “letteratura grigia”, d’occasione (come le relazioni prodotte in occasione del viaggio negli stati Uniti del 1925), in alcuni casi rielaborata in anni successivi; oppure si tratta dei testi di interventi svolti in riunioni di società scientifiche e sono frutto della propria esperienza professionale che, in qualche caso, offre il destro alla formulazione di una teoria generale.
Un nucleo preponderante di questi scritti fa riferimento al lavoro e si capisce che l’autore è stato profondamente colpito dalla novità e dall’importanza di ciò che verrà inteso come fordismo. Si dimostra convinto della ineluttabilità del lavoro come condizione di guerra permanente, della fabbrica come campo di battaglia, dei lavoratori come soldati prima votati al sacrificio e poi reduci invalidi. Ed ecco il rimedio a questo stato di cose: l’igiene non può che divenire «una medicina militare» capace di gestire gli invalidi, di mantenerli nei luoghi di lavoro sfruttando ancora delle capacità residue che si deve materializzare proprio nella organizzazione produttiva inaugurata da Ford. Viene prefigurato un «capitalismo organizzatore» che eroga, a partire dalle grandi fabbriche, una «medicina razionalizzata, preventiva, collettiva». I malati cronici, gli invalidi, i reduci di ogni tipo di guerra dovranno essere inseriti o rimanere nella produzione con una speciale sorveglianza sanitaria dove i medici dell’azienda sono anche sociologi che si recano a casa dei lavoratori per curarli ed educarli: il medico, a differenza di come opera il paternalismo cattolico, deve saper riconoscere nella malattia la colpa individuando le condotte da correggere. Ne risulta un “igienismo industriale” improntato alla congruenza tra razionalizzazione della medicina e razionalizzazione del lavoro che riconduce alle aziende moderne, e non allo stato liberale, la possibilità di aver cura dello stato sanitario della popolazione. Applicando in pieno una tale ipotesi, secondo l’autore, si risolverebbe alle radici il problema delle assicurazioni sociali, il cui compito sarebbe svolto in tutto e per tutto dalle aziende. Viene così enunciata un’utopia igienistico-produttivistica, un controllo feroce della manodopera e il controllo sociale, gli stessi che hanno ispirato Metropolis, il film di Fritz Lang del 1927.

Il titolo dello scritto del 1933 Per abbattere la disoccupazione abbatteranno i disoccupati? è tanto accattivante quanto deludente risulta la lettura del testo. Dopo una visita in Germania Céline indaga le cause del «gran casino» in cui vive tale nazione e afferma che il problema è costituito «anzitutto e soprattutto» dalla massa sottoproletaria, definita come «la miseria tedesca» che sopravvive solo grazie all’assistenza statale; le ingenti risorse utilizzate per sfamare i disoccupati e le loro famiglie potrebbero infatti – a detta dello scrittore – risollevare il Paese dalla crisi economica se diversamente investite; per il futuro Céline auspica che «nella cerchia di Hitler si trovi il dittatore alla disoccupazione che organizzi infine questa miseria anarchica e la stabilizzi a un livello ragionevole».

Franco Carnevale

Fonte: E&P – Epidemiologia e prevenzione, rivista dell’associazione italiana di epidemiologia (2012)



Almanacco – Recensione del libro “Céline segreto” della vedova Lucette Céline


Enciclopedia Treccani online: Céline, Louis-Ferdinand


Zivago, non solo un film

La notorietà del capolavoro di Boris Pasternak “Il dottor Zivago” e oggi probabilmente dovuta al film che vi è stato tratto più che all’originale letterario. Succede quando Hollywood come in questo caso si impegna con una regia di grande capacità, con un cast che più stellare non si potrebbe e con una colonna sonora che è rimasta nell’immaginario collettivo. L’efficacia della pellicola non deve fare però dimenticare che fu questo libro a determinare la scelta dell’accademia di Stoccolma di assegnare il Nobel per la letteratura allo scrittore, che non poté ritirarlo poiché le autorità sovietiche gli negarono il permesso. Del resto l’opera, raccontando le tragiche vicende della rivoluzione russa, costituiva per il rigido regime di Mosca un problema a dir poco imbarazzante. All’interno di questo scenario politico si svolgono le non meno drammatiche vicende d’amore del medico eponimo, al quale sul grande schermo resta il volto Omar Sharif, attore icona dell’epoca


Russia, anni ’10. Yurij Zivago è un giovane e brillante studente di medicina con un’inclinazione per la poesia; l’uomo sta completando i suoi studi ed è fidanzato con la cugina Tonya. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Yurij si reca al fronte per prestare i suoi servizi come medico; qui ritrova Lara, una ragazza che aveva conosciuto anni prima a Mosca e della quale si scopre innamorato…

Il dottor Zivago, filmato nel 1965 dal regista inglese David Lean, autore di classici quali Il ponte sul fiume Kwai e Lawrence d’Arabia, rappresenta senza dubbio uno degli eventi cinematografici più importanti di tutti i tempi: un film sontuoso ed indimenticabile, consacrato fra le pellicole più famose ed amate che siano mai state realizzate. Tratto dal celeberrimo romanzo dello scrittore russo Boris Pasternak, adattato per lo schermo da Robert Bolt, Il dottor Zivago è passato alla storia come uno dei maggiori colossal di Hollywood, con quasi un anno di riprese per una durata di oltre tre ore. Prodotta dall’italiano Carlo Ponti per la MGM e costata 11 milioni di dollari, l’opera si è rivelata un successo di pubblico senza precedenti, con 110 milioni incassati al botteghino americano e circa 250 milioni di spettatori in tutto il mondo; all’epoca, è diventato il quarto film più visto di sempre negli Stati Uniti (120 milioni di spettatori), ed ancora oggi rimane fra i primi dieci in assoluto.
Rispetto al libro di Pasternak, che alla sua pubblicazione aveva provocato notevole clamore per i suoi contenuti politici ed era stato bandito dall’Unione Sovietica, il film di Lean (girato tra la Spagna, la Finlandia e il Canada) riduce gli aspetti prettamente storici e sociali della vicenda per soffermarsi invece sull’amore travagliato fra i due protagonisti: il dottor Yurij Zivago e la bella infermiera Lara, interpretati rispettivamente dal popolare attore egiziano Omar Sharif e da una splendida Julie Christie; al loro fianco, un cast stellare formato da giovani talenti emergenti (Geraldine Chaplin, Tom Courtenay, Rita Tushingham) e da affermati veterani (Rod Steiger, Alec Guinness, Ralph Richardson). Riuscendo a fondere la maestosità della ricostruzione scenica con il gusto per il racconto epico e sentimentale, Lean ci regala uno spettacolo decisamente coinvolgente, che si avvale di una galleria di personaggi ben caratterizzati e di una regia magistrale, efficace soprattutto nelle scene di massa e nelle panoramiche mozzafiato.
I grandi eventi storici della Russia di inizio secolo (la Rivoluzione bolscevica, la guerra civile, la nascita del regime socialista) si intrecciano con le passioni private dei vari personaggi, le cui esistenze sono ripercorse tramite la voce narrante del fratello di Yurij, il generale Yevgraf Zivago (Guinness), in un prologo introduttivo ambientato diversi decenni più tardi. Da antologia la stupenda colonna sonora composta da Maurice Jarre, incluso il mitico Tema di Lara, memorabile leit-motiv della pellicola. Presentato al Festival di Cannes nel 1966, Il dottor Zivago è stato un trionfo mondiale ed ha ottenuto cinque premi Oscar (sceneggiatura, musiche, fotografia, scenografia e costumi) e cinque Golden Globe.

Stefano Lo Verme

Fonte: MyMovies

Michael Bulgakov: Margherita e…

Tra storia d’amore e persecuzione sovietiche, un capolavoro senza tempo ma con un po’ di satira


Michail Bulgakov ha legato per sempre la sua notorietà di scrittore a “Il maestro e Margherita”, uno dei romanzi più celebri e amati della letteratura degli ultimi secoli, storia allo stesso tempo surreale, dove entrano da protagonisti elementi metafisici e magici, il ritratto impietoso della società staliniana. Un’ambivalenza che mise in difficoltà lo stesso dittatore sovietico, il quale concesse allo scrittore un particolare regime di “quasi libertà”. Dal punto di vista della salute e della malattia, però, è per noi più interessante il libro nel quale Bulgakov raccontò in modo realistico ma affabulatorio, umoristico e drammatico nello stesso tempo, i suoi incerti esordi come medico, catapultato senza supporto né preparazione sufficienti in una sperduta condotta siberiana. La serie di aneddoti ed episodi che l’autore riferisce è riconducibile ad un messaggio crudo e ineludibile: per il giovane medico i pazienti sono una sorta di cavie sulle quali formare l’esperienza professionale. Le vicende che il grande romanziere descrive fanno ovviamente riferimento a una pratica molto diversa da quella dei nostri giorni, nei quali le scelte dei sanitari sono supportate da strumentazioni, tecnologia e, quindi, dati obiettivi. Lo scrittore medico si trova invece a dover intervenire in presenza di un parto podalico oppure a dover eseguire una indispensabile amputazione senz’altro conforto che quello di improvvisati assistenti, trovandosi costretto persino a correre nella propria stanza per dare un’occhiata ai libri di testo e ripassare l’argomento del quale, nella concitata emergenza di cui è spesso fatta la sanità, non ricorda nulla.

Redazione CNR


Michail Bulgakov, “Il maestro e Margherita”, Einaudi (2014)


RaiPlaySound – Rai Radio 3 , Audiolibri ad alta voce – Il maestro e Margherita

Una semplice azione contro le infezioni puerperali

Dimostrazione dell’ammirazione che un allievo ha per il suo meastro, Louis-Ferdinand Céline, dottore e scrittore francese, scrive una tesi sulla vita del suo mentore, il dottor Semmelweis, e della sua scoperta riguardo all’importanza dell’igienizzazione delle mani da parte dei medici prima di occuparsi del paziente


Prima di diventare Céline, cioè uno degli scrittori grandissimi del nostro secolo, Céline fu lo studente di medicina Louis-Ferdinand Destouches. Come tale dedicò la sua tesi, nel 1924, alla vita di uno degli eroi scientifici dell’Ottocento: Ignazio Filippo Semmelweis, il debellatore dell’infezione puerperale – che falciava allora migliaia e migliaia di vite – grazie a una scoperta enorme, eppure semplicissima: osservò che le puerpere venivano visitate dai medici che avevano appena sezionato cadaveri e non pensavano certo a lavarsi le mani. Imponendo la disinfezione, Semmelweis si rivelò l’unico non colpito dalla mostruosa cecità del suo secolo, che trattava morte e nascita come fossero la stessa cosa. Con lo slancio entusiastico di un giovane adepto della scienza, Céline traccia in questo testo la vita di un puro, trascinato dal destino alla sua scoperta e, insieme con essa, a un clamoroso susseguirsi di incomprensioni e persecuzioni, che lo spingeranno alla follia e a una morte atroce. Ma il materiale sembra trasformarsi nel corso del libro: al destino di Semmelweis si sovrappone quello, non ancora vissuto, di Céline stesso, il suo senso costante di persecuzione e di isolamento, la sua sete di colpa e di tortura; alla prosa classica e nitida, quasi da immacolato compito scolastico, su cui il testo è costruito, si sostituisce, per squarci, la prosa forsennata del Céline maturo, scandita dai suoi prodigiosi tre puntini, abitata da quella petite musique che, una volta udita, non si può dimenticare.

Adelphi Editore


Louis-Ferdinand Céline, “Il dottor Semmelweis”, Adelphi (2020, 23ª ediz.)


Almanacco – Saggi: Enciclopedia cronologica della scienza

Enciclopedia Treccani online – Semmelweis, Ignác Fülöp

Cronin, quando la cura diventa eroismo

Lo scrittore scozzese Archibald J. Cronin è una delle figure più note del medico scrittore ed è soprattutto l’autore dei romanzi dove questa figura professionale viene descritta nel modo più limpido quasi eroico. La cura del paziente e del malato viene raccontata come una missione


Archibald Joseph Cronin, medico e scrittore nato il 19 luglio 1896 nella contea di Dumbartonshire, Scozia. Laureatosi all’università di Glasgow e prestato servizio come medico chirurgo nella Royal Navy durante la Prima Guerra Mondiale, poi esercitò presso i minatori del Galles e da qui si interessò dei loro problemi sociali. Ritiratosi alle coste di Loch Fyne per un lungo periodo di riposo dopo una diagnosi di un’ulcera cronica nel 1930, si dedicò alla scrittura del suo primo romanzo, “Il castello del cappellaio”, pubblicato l’anno seguente. Segnò il suo successo per gli anni a venire, tanto che mise da parte lo stetoscopio per impugnare la penna.
In italia le opere di Cronin fecero molta fama soprattutto grazie alle riproduzioni televisive, in particolare “E le stelle stanno a guardare” e “La Cittadella”. Ma non furono le uniche opere ad andare sul grande e piccolo schermo.
Continuò a scrivere senza sosta fino all’età di ottanta anni, poi morì a Montreux, Svizzera, il 6 gennaio 1981.

Redazione CNR


Wikipedia – A.J. Cronin

Bompiani Editore – Autori – Archibald Joseph Cronin

Enciclopedia Treccani online – Cronin, Archibald Joseph

Dalla Cittadella alle stelle, quando la serie si chiamava sceneggiato

Le miniserie televisive italiane degli anni ’60 – ’70 che incantarono il pubblico con il personaggio del buon dottore


È una televisione ancora molto ingenua, in bianco e nero, quella che rende due opere di Archibald J. Cronin celeberrime tra gli spettatori italiani: “La cittadella” e “Le stelle stanno a guardare”. Sono i tempi nei quali le serie televisive si chiamano ancora sceneggiati e tengono inchiodati davanti al televisore milioni di persone, che si emozionano e commuovono davanti alle storie strappalacrime del medico scrittore britannico, grazie anche alle partecipate interpretazioni di noti attori dell’epoca come Alberto Lupo.

Redazione CNR


Rai Play – La cittadella (1964), lo sceneggiato dal romanzo di Archibald Joseph Cronin

Bompiani Editore:
A.J. Cronin, “La Cittadella”
A.J. Cronin, “E le stelle stanno a guardare”

Wikipedia:
La cittadella (miniserie televisiva 1964)
E le stelle stanno a guardare (miniserie televisiva 1971)

Oblomov

“Atteggiamento di apatica e fatalistica indolenza, assunto come caratteristica emblematica della generazione russa anteriore all’abolizione della schiavitù della gleba (1861)”: questa è la definizione che il vocabolario Treccani attribuisce al termine “oblomovismo”. L’origine di questa parola (e, dunque, dello stesso concetto) risale al romanzo Oblomov redatto da Ivan Aleksandrovič Gončarov. È lo stesso autore ad utilizzare la parola “oblomovismo”, come vediamo nel brano antologizzato.

«Ebbene», rispose Oblomov, «che altro dovrei raccontare?… è tutto qui!… Gli invitati si ritirano nelle stanze per gli ospiti, nelle ali della casa e nei padiglioni, e l’indomani se ne andranno ognuno per suo conto: uno va a pescare, un altro prende il fucile, e c’è anche chi semplicemente rimane in casa».
«Rimane in casa così, semplicemente, senza metter mano a niente?».
«A che vuoi che metta mano? Al fazzoletto, forse. Perché, non piacerebbe anche a te vivere così?», chiese
Oblomov. «Eh? Non ti pare vita, questa?».
«Un’esistenza così per sempre?», chiese Stolz.
«Fino ad avere i capelli bianchi, fino alla tomba. Questa è vita!».
«No, questa non è vita».
«Come non è vita? Cosa le manca? Pensa un po’: non vedresti mai un viso pallido e sofferente; niente
preoccupazioni, niente discorsi riguardanti il senato, la borsa, le azioni, i rapporti, le consultazioni del ministro, le promozioni, gli aumenti di indennità. Ma sempre conversazioni su quel che più ti va a genio! Non avresti mai bisogno di cambiare casa: e già vuol dire tanto! Dunque, non è vita questa?».
«Non è vita!», ripeté cocciuto Stolz.
«Che cos’è allora, secondo te?».
«È… (Stolz rimase un momento pensieroso, alla ricerca del nome da dare a quella vita)… è una specie di…
oblomovismo», disse infine.
«O-blo-movismo!», ripeté lentamente Il’ja Il’ič, meravigliato da quella strana parola, sillabandola: «O-blo-mo-vi-smo!».
Fissò su Stolz uno sguardo strano.
Ma qual è, secondo te, l’ideale della vita? Che cosa non è oblomovismo?», chiese titubante e senza entusiasmo.
«Forse non aspirano tutti a quello che io sogno? Ma via!», aggiunse più ardito. «La meta finale di tutto il vostro correre di qua e di là, delle vostre passioni, delle vostre guerre, dei vostri traffici e della vostra politica, non è forse la tranquillità, non è l’aspirazione a questo ideale di paradiso perduto?».
«Anche la tua utopia è oblomovistica», obiettò Stolz.
«Tutti cercano il riposo e la tranquillità», si difese Oblomov.
«Non tutti; e tu stesso, una decina di anni fa, non cercavi questo nella vita».
«E cosa cercavo?», domandò perplesso Oblomov, perduto nei ricordi del passato.
«Ricordalo, pensaci. Dove sono i tuoi libri, le traduzioni?».

Ivan Aleksandrovič Gončarov

Su quel ramo del lago di Como c’è uno scrittore. Anzi, un medico

Andrea Vitali è la figura più emblematica della letteratura contemporanea italiana di narratore e medico. Considerato l’erede di Piero Chiara è un prolifico autore di romanzi e racconti ambientati nella provincia dove è nato e risiede e dove, fino a poco tempo fa, ha svolto l’attività clinica. Protagonisti delle sue opere sono per l’appunto personaggi provinciali, semplici, tra i quali naturalmente anche medici e il maresciallo Maccadò


Confesso che sin da giovane ho avvertito la necessità di scrivere, di usare la scrittura come mezzo di comunicazione con gli altri. All’inizio quindi era la scrittura, non concepita come esercizio solitario – nessun diario nella mia infanzia e nemmeno nella gioventù – ma come esperienza da condividere. Insomma, ci voleva qualcuno che leggesse quel che scrivevo. Fu proprio grazie a mio padre che, alla fine, compresi come potevo indirizzarla.
Mio padre, va detto, era un uomo di poche parole: casa, lavoro, telegiornale e poi a letto, dove spesso tirava tardi leggendo. Era la sua regola e, con il passare del tempo, è divenuta anche la mia. Alla quale, ogni tanto, lui si concedeva un’eccezione. In quel caso chiacchierava un po’ di più, raccontava storie, avventure che gli erano capitate quand’era giovane o che aveva sentito raccontare da altri. Accadeva di rado, a occhio e croce a ogni cambio di stagione. Fu proprio durante un passaggio di stagione, dalla primavera all’estate, che ascoltandolo ebbi l’idea di scrivere un romanzo, il primo, Il procuratore.
Fu così che il mio genitore si lasciò andare sull’onda dei ricordi e poiché la sua generazione ebbe la vita tristemente offesa dalla guerra, raccontò aneddoti guerreschi. Ricordo l’avventura di un salame, partito insieme con lui da Bellano per raggiungere l’isola di Rodi e finito poi, misteriosamente, nella pancia di un gatto; e quella di un lungo pomeriggio trascorso seduto sull’ala di un aereo da ricognizione planato, per avaria, in mare aperto. Non ci sono, come si vede, morti o feriti: non credo che mio padre abbia mai tirato un colpo d’arma da fuoco contro qualcuno, fece la guerra perché vi fu obbligato, come tanti altri, e come tanti altri ritornò con un carico di racconti che ogni tanto serviva ai figli.
Ecco Il procuratore è stato il mio punto di partenza; il 1988 l’anno in cui ho cominciato a rubare storie per restituirle scritte su carta. Ma anche l’anno in cui ho cominciato a ripensare all’infinità di storie che avevo già sentito e che aspettavano solo di essere raccontate.
Da allora non ho più smesso di ripensare a quelle che già so né di andare alla ricerca di quelle che ancora non conosco. E, a dire la verità, non ho proprio nessuna intenzione di farlo.

Andrea Vitali



BIOGRAFIA
Andrea Vitali è nato a Bellano, sul lago di Como, nel 1956. Medico di professione, ha coltivato da sempre la passione per la scrittura esordendo nel 1989 con il romanzo Il procuratore, che si è aggiudicato l’anno seguente il premio Montblanc per il romanzo giovane. Nel 1996 ha vinto il premio letterario Piero Chiara con L’ombra di Marinetti. Approdato alla Garzanti nel 2003 con Una finestra vistalago ( premio Grinzane Cavour 2004, sezione narrativa, e premio Bruno Gioffrè 2004), ha continuato a riscuotere ampio consenso di pubblico e di critica con i romanzi che si sono succeduti, costantemente presenti nelle classifiche dei libri più venduti, ottenendo, tra gli altri, il premio Bancarella nel 2006 (La figlia del podestà), il premio Ernest Hemingway nel 2008 (La modista), il premio Procida Isola di Arturo Elsa Morante, il premio Campiello sezione giuria dei letterati nel 2009, quando è stato anche finalista del premio Strega (Almeno il cappello), il premio internazionale di letteratura Alda Merini, premio dei lettori, nel 2011 (Olive comprese). Nel 2008 gli è stato conferito il premio letterario Boccaccio per l’opera omnia e nel 2015 il premio premio De Sica.
Con Massimo Picozzi ha scritto anche La ruga del cretino . I suoi romanzi più recenti sono
Sotto un cielo sempre più azzurro e Un uomo in mutande.

Garzanti Editore


Almanacco CNR – Recensione del libro “Nome d’arte Doris Brilli” di Andrea Vitali

La7 Attualità – Intervista a Andrea Vitali, scrittore e medico tornato in campo per la campagna vaccinale

Faust

Il brano è tratto dal dramma Faust di Goethe. Il protagonista incontra nel suo viaggio, interiore e fisico contemporaneamente (verso le profondità dell’universo e della mente), l’angoscia.

Faust:
Quattro ne ho visto venire, soltanto tre andarsene. Il senso del loro discorso non l’ho potuto intendere. Verso un libero spazio io non ancora
mi sono aperto il passo. Potessi
dal mio cammino la magia rimuovere
e come uomo soltanto starti a fronte, Natura, essere umana creatura allora varrebbe la pena.
Lo ero una volta, prima di cercare nelle tenebre e bestemmiando maledire il mondo e me.
Se un giorno mai di limpida ragione ci sorride, la notte nella trama dei suoi sogni ci chiude.
E, spauriti, si rimane soli.
La porta cigola e nessuno viene avanti. (Di soprassalto).
C’è qualcuno?
Angoscia:
La domanda vuole un sì.
Faust:
E tu, chi sei tu allora?
Angoscia: Faust:
Va’ via di qui!
Angoscia:
Ci sono, ecco.
Sono dove ho da essere.
Sotto parvenza mutevole
la mia potenza è feroce.
Sui sentieri, sulle onde
eterna compagna angosciosa, mai la cerchi, sempre la trovi,
e lusingata e maledetta… l’Angoscia l’hai mai conosciuta?
Faust:
Non ho fatto che correre, io, attraverso il mondo. Ogni piacere l’ho afferrato a volo.
Ho avuto solo desideri e solo
desideri saziati
e nuove voglie; e di forza, così
ho attraversato d’impeto la vita.
La conosco abbastanza, questa terra.
Sull’al di là ci è impedita la vista.
L’uomo si tenga saldo qui e si guardi intorno: non è muto questo mondo a chi sa e opera.
L’Angoscia:
Quando ho qualcuno in mio potere il mondo gli diventa inutile.
Su lui cala buio eterno.
Ha perfetti i sensi esterni
ma tenebre intime lo abitano.
Faust:
Certe sciocchezze non voglio ascoltarle.
L’Angoscia:
Ha da andare? Ha da venire?
Il potere di decidere gli è tolto.
A metà d’una via sgombra vacilla, vede sempre più storta ogni cosa; peso e noia a sé e agli altri
può respirare eppure soffoca, non soffoca eppure non vive.
Faust:
Il tuo potere, Angoscia, insinuante e grande, io non lo riconoscerò.
Angoscia:
Tutta la vita sono ciechi gli uomini: e tu diventalo, Faust, alla fine!
(Gli soffia sul viso).
Faust (accecato):
La notte sembra scendere su me sempre più fonda
ma brilla entro di me una luce chiara.

Johann Wolfgang von Goethe

L’amore ai tempi del colera

Il colera causò una strage di persone di cui non si conosce l’entità. Nel bel mezzo dell’epidemia, il dottor Marco Aurelio Urbino si trova davanti al dilemma: metodo scientifico o caritatevole?

L’epidemia di colera, le cui prime vittime caddero fulminate nelle pozzanghere del mercato, aveva provocato in undici settimane la più grande mortalità della nostra storia.

Durante le due prime settimane del colera il cimitero traboccava, e non era rimasto un posto libero nelle chiese, nonostante avessero passato nell’ossario comune i resti consunti di parecchi grandi senza nome.

Nella terza settimana il chiostro del convento di Santa Clara si trovò pieno fino ai viali e fu necessario abilitare il cimitero, l’orto della comunità, che era grande il doppio. Lì scavarono fosse profonde per interrare a tre livelli, in fretta e senza precauzioni, ma si dovette desistere dal progetto perché il terreno che era traboccato si trasformo come in un una spugna che trasudava sotto i suoi passi in un sangue marcio e nauseabondo. Allora si dispose di continuare le sepolture alla Mano de Dios, una fattoria di bestiame a meno di una lega dalla città, che poi venne consacrata Cimitero Universale.

Da quando fu proclamato il bando del colera, nella fortezza della guarnigione locale si sparò un colpo di cannone ogni quarto d’ora, di giorno e di notte, d’accordo con la superstizione cittadina che la polvere purificava l’ambiente. Il colera fu molto più feroce con la popolazione negra, che era la più numerosa e la più povera, ma in realtà non fece considerazioni di colore né di lignaggio. Cessò improvvisamente come era iniziato, e non si conobbe mai la quantità dei suoi danni, non perché fosse impossibile stabilirla ma perché una delle nostre virtù più usuali era il pudore delle proprie disgrazie. Il dottor Marco Aurelio Urbino, padre di Juvenal, fu un eroe civile di quelle giornate infauste, e anche la sua vittima più notevole.

Anni dopo rivedendo la cronaca di quei giorni, il dottor Juvenal Urbino verificò che il metodo di suo padre era stato più caritatevole che scientifico e che in molti modi era contrario alla ragione così da aver favorito in gran misura la voracità della peste.

Quando riconobbe in se stesso gli scompigli irreparabili che aveva visto e compatito negli altri, non tentò neanche una battaglia inutile, ma si appartò dal mondo per non contaminare nessuno. Chiuso, da solo, in una stanza di servizio dell’Ospedale della Misericordia, sordo alle chiamate dei colleghi e alle suppliche dei suoi, estraneo all’orrore dei pestiferi che agonizzavano sul pavimento dei corridoi traboccanti, scrisse alla moglie e ai figli una lettera d’amore febbrile, di gratitudine per essere esistiti, nella quale si rivelava quanto e con quanta avidità avesse amato la vita. Fu un addio di venti fogli stracciati nei quali si notavano i progressi della malattia dal deterioramento della scrittura, e non era necessario avere conosciuto chi li avesse scritti per sapere che la firma era stata messa con l’ultimo respiro, d’accordo con le sue disposizioni, il corpo incenerito si confuse nel cimitero comune e non fu visto da nessuno che lo avesse amato.

Gabriel García Marquez

Treccani Enciclopedia Online

Gabriel García Marquez, “L’amore ai tempi del colera” (1985)