Mostrami Kim

Sguardi. Emozioni. Accoglienza. La mostra fotografica “Mostrami Kim” ha acceso i riflettori sul diritto alla cura dei bambini malati.

Giovedì 1 Dicembre è stata inaugurata a Roma la mostra fotografica dal titolo “Mostrami Kim. Venticinque anni di accoglienza e di lotta per il diritto alla cura”. La mostra fotografica, aperta al pubblico dal 2 al 4 Dicembre, è stata realizzata  dall’Associazione KIM per i suoi venticinque anni di impegno al fianco dell’infanzia malata. L’allestimento a Palazzo Velli, nel magnifico quartiere Trastevere, è stato curato da Elisa Clementelli, ha raccolto opere di dieci fotografi: sguardi di professionisti e istantanee amatoriali raccolte dai volontari dell’Associazione KIM. 

Le immagini e le parole della mostra accendono i riflettori sulla condizione dei numerosi bambini italiani in stato di povertà e provenienti da Paesi in guerra o senza strutture sanitarie adeguate e per i quali – oggi – l’intervento, chirurgico o farmacologico, in un Paese come il nostro rimane l’unica speranza di vita.

La mostra è stata preceduta dalla tavola rotonda “Curare o prendersi cura?” per riflettere sul diritto alla salute dei bambini. La riflessione è stata moderata dal Dr. Marco Ferrazzoli, giornalista ed esperto di  comunicazione scientifica presso la Presidenza del Consiglio. Oltre al Presidente e fondatore dell’Associazione KIM, Paolo Cespa, erano presenti anche Fulvio Caldarelli, designer curatore e fondatore del Centro interdisciplinare di ricerca sul paesaggio contemporaneo; Elisa Clementelli, fotografa e autrice di laboratori fotografici in ambito sociale; Federica Chiara,  Presidente di Associazione LINFA contro le neurofibromatosi e ricercatrice all’Università di Padova (Istituto Veneto di Oncologia IOV-IRCCS); Antonella Guido,  Psicologa-psicoterapeuta dell’Unità Operativa di Oncologia Pediatrica e Unità Operativa Psicologia Clinica del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS; Bernadette Guarrera, educatrice, counselor familiare, e Vice Presidente e fondatrice dell’Associazione KIM. 

Le opere esposte sono di Flavia Castorina, Mimmo Chianura, Elisa Clementelli, Emiliano Gallo, Luigina Di Giampietro, Bernadette Guarrera, Omar Kheiraoui, Martino Pisanello, Laura Saviola, Elisabetta Tufarelli. L’iniziativa è sostenuta da una donazione del Circolo Dipendenti Quirinale.

L’Associazione KIM è nata nel 1997 per dare una risposta concreta all’emergenza sanitaria di bambini gravemente malati che abbiano bisogno di un intervento tempestivo. L’associazione KIM ha sviluppato un percorso che, dal primo contatto, porta alla cura del bambino in diverse fasi: un modello di accoglienza e di cura che non si limita alla sola ospitalità, ma che prevede l’assistenza dei piccoli pazienti in durante il ricovero, nei periodi convalescenza nel centro d’accoglienza o, una volta tornati a casa, nel proprio Paese d’origine. Tutto ciò è reso possibile lavorando in rete con ospedali, associazioni e istituzioni.

Riferimenti:

“L’arte profonda dell’errore”

La sezione arte e neuropsichiatria del quotidiano L’Osservatore Romano intervista l’artista visivo Luca Santiago Mora riguardo il suo esperimento psico-artistico, chiamato L’Atelier dell’Errore (AdE), in collaborazione con bambini e ragazzi

Andare oltre l’idea comune di normalità per progettare un futuro diverso aperto a narrazioni fuori dall’ordinario, ma proprio per questo potenti. Era il 2002, vent’anni fa, quando l’artista visivo Luca Santiago Mora decideva di creare l’Atelier dell’Errore (AdE), un esperimento controcorrente insieme ai bambini e ragazzi della neuropsichiatria infantile dell’Azienda Ospedaliera di Reggio Emilia e Bergamo. L’AdE è uno spazio libero, non gravato da preconcetti e aspettative, dove ognuno ha la possibilità di raccontare sé stesso e il suo mondo interiore attraverso il gesto più semplice, il disegno. Abbiamo chiesto a Santiago Mora di raccontarci questa esperienza, che dal 2015 si è evoluta diventando uno collettivo artistico ospitato permanentemente dalla Collezione Maramotti di Reggio Emilia.
[…]

Il fascino ambiguo del “mostro”

“Mostro” è un termine che nella lingua italiana si colora di molte accezioni diverse: il prodigio, il genio, ma anche l’essere orribile, deforme e però -in quanto tale- in grado di suscitare stupore. Un campionario del quale sono piene la mitologia e la narrativa, fiabe, leggende, cronache, storie e racconti, ma anche la letteratura scientifica. Al tema è dedicato un capitolo del volume “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo”.

Quando un individuo diventa “anormale” per la società? “Mostro” è un termine che nella lingua italiana si colora di molte accezioni diverse: il prodigio, il genio, ma anche l’essere orribile, deforme e però -in quanto tale- in grado di suscitare stupore. Un campionario del quale sono piene la mitologia e la narrativa, fiabe, leggende, cronache, storie e racconti, ma anche la letteratura scientifica. La categoria del “mostruoso” tassonomicamente nasce per contrapposizione, accogliendo il diverso, lo sconosciuto, l’anomalo, l’anormale. Ed esercita un’ambigua fascinazione che spesso diventa atteggiamento giudicante, stigma, allarme.

Nella letteratura i richiami alle disabilità e alle deformità sono frequenti, sin dagli esordi: nell’Olimpo Efesto, dio del fuoco e marito di Afrodite, è descritto come “storpio” e oggetto di burle: «questo ci ricorda che gli zoppi erano originariamente visti come personaggi buffi», avverte Leslie Fiedler, evidenziando la differenza con l’atteggiamento invalso nei secoli seguenti, quando il “diverso” sarà spesso associato a malvagità e timore. Visioni rappresentate, ad esempio, dallo “storpio” e machiavellico sovrano Riccardo III di Shakespeare; da Quilp, il “nano mostruoso” in agguato contro Little Nell nella Bottega dell’antiquario di Charles Dickens; dall’animo inaridito del capitano Achab del Moby Dick di Herman Melville, con una gamba sola; dal suo omologo assassino Long John Silver, nell’Isola del tesoro di Robert Louis Stevenson.

E ancora, il “deforme” e spietato Roger Chillingworth nella Lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne, il
Capitano Uncino ritratto da James Barrie nel Peter Pan, il “gobbo” di Notre Dame de Paris di Victor Hugo. Il campionario negativo delle persone menomate e con deformità è ricco quanto quello compassionevole, presente soprattutto nella letteratura infantile. Si pensi alla sopravvivenza finale del piccolo Tim nella Favola di Natale di Dickens, intenzionata a convincerci che il disagio della disabilità può sempre essere alleviato o risolto dalla filantropia.

Ma, ammonisce Fiedler, «altri racconti incentrati su guarigioni quasi miracolose (come Heidi e il Giardino Segreto) rivelano similitudini impressionanti con le storie basate sulla paura: è il desiderio che non esistano handicappati e che finalmente spariscano tutti».

Lorenzo Montemagno Ciseri, analizzando figure reali, mitologiche e letterarie identifica la dimensione come uno degli elementi determinanti del mostruoso: si pensi solo agli esseri giganteschi e minuscoli in cui si imbatte Gulliver. Tante soprattutto «le figure di giganti che caratterizzano il Medioevo occidentale, a cominciare da quella del mostruoso Grendel nemico dell’umanità e protagonista diabolico del Beowulf» per arrivare alla Commedia di Dante, che cristallizza più di ogni altra opera «nel nostro immaginario le figure dei mostri infernali».

Analoga morbosità, curiosità e interesse letterario si legano alle persone più piccole, come i Pigmei citati già in Omero, mentre Aristotele nei Problemi si interroga sul motivo che porta alla nascita di uomini nani
e, più in generale, di creature più grandi e più piccole, rispondendo che due sono i possibili motivi: lo spazio in cui si sviluppa l’embrione o il suo nutrimento. La poesia “Judge Selah Lively” tratta dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, nella trasposizione di Fabrizio De Andrè del 1971, descrive un nano con una famosa strofa che è forse la più feroce e fedele espressione dello stigma: «una carogna, di sicuro, perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo».

In altri casi l’atteggiamento è quanto meno formalmente diverso. Il reality show “Our Little Family”, in onda anche in Italia con il titolo di “Una famiglia extra small”, vede protagonista Michelle Hamill con i suoi
tre figli, tutti con nanismo. Sempre su Real Time ha avuto un notevole successo, tanto da aver già inanellato nove stagioni, “Questo piccolo grande amore”, serie che racconta la storia di Bill Klein e di Jennifer Arnold, una coppia di persone nane. E rimane nella memoria di tutti gli amanti del jazz il pianista Michel Antoine Petrucciani (1962-1999), con una osteogenesi imperfetta, patologia ereditaria nota come “sindrome delle ossa di cristallo”, spesso definito per contrappasso come un “gigante”.

Da osservare a margine come, con la pandemia di Covid-19, il mondo sia stato sconvolto dall’aggressività di microrganismi, mentre la letteratura distopica e fantascientifica preferisce immaginare nemici macroscopici, in genere più grandi e forti degli esseri umani.

Michel Foucault stabilisce un nesso tra il pregiudizio socio-culturale e le categorie etico-giuridiche:
Il mostro è una violazione delle leggi e della natura che fa cadere il modello di essere umano, la legge si trova davanti all’impossibilità di concettualizzare secondo natura ciò che egli è […] è un essere che non rientra nelle categorie morali e questo stravolge, allarma il diritto che non riesce a funzionare. L’ausilio arriva dal sapere medico che differenzia ciò che è mostruoso per natura, che è più giustificante, da ciò che è mostruoso per la condotta.

Ma anche l’approccio scientifico non risolve la questione, secondo Focault, poiché con le perizie psichiatriche «si seleziona una mostruosità morale e da qui parte la storia di questo concetto che ne porterà un altro: quello della perversione»


Su una tavoletta d’argilla babilonese risalente al 2800 a.C. si distingue tra mostri: per eccesso, ad esempio con sei dita; per difetto, cioè mancanti di un organo; doppi, come i gemelli siamesi. Non meno antiche sono le prime immagini del genere: la Venere di Willendorf, raffigura una donna steatopigia, cioè con una spiccata lordosi lombare.

Secondo Fiedler rappresentazioni simili sono frutto dell’osservazione di esseri umani con anomalie fisiche e per questo eretti a divinità: la famosa statuetta paleolitica simbolo di fertilità, risalente al 23.000-19.000 a.C., «ritrae con precisione quasi clinica» una donna obesa «diencefaloendocrina con ipertonia parasintomatica, sterilità e riduzione della libido», mentre «altri mostri, ritenuti per molto tempo puramente fantastici, possono essere stati dei tentativi di rappresentare anomalie riscontrabili soltanto nei feti abortiti».

La teoria è insomma che «l’osservazione delle malformazioni umane precedette la creazione dei mostri mitici». Nella maggior parte dei casi, però, le nascite di bambini con deformità venivano interpretate come presagio di malaugurio e portavano all’infanticidio. La stessa parola “mostro” porta con sé questa duplicità: il latino monstrum, cioè “segno degli dèi”, rimanda alla stessa radice di monstrare e di monere, ammonire, mettere in guardia.

Con l’Illuminismo la connotazione magico-religiosa del corpo mostruoso comincia a cedere all’analisi scientifica. In particolare Cesare Taruffi, professore di Anatomia patologica nell’Università di Bologna dal
1859 al 1894 e autore della prima “Storia della Teratologia” (dal greco τέρας, “mostro”), inaugura gli studi delle patologie legate a somatizzazioni corporee anomale. E proprio in questo periodo nasce anche il freak show, come se lo spettacolo facesse da versione popolare della speculazione scientifica.

Comunque anche nei secoli successivi e persino oggi, in una società scientificamente molto più avanzata, non di rado si scivola nello stesso ambiguo obiettivo di suscitare attrazione. Varie forme di spettacolarizzazione della diversità sono presenti nel cinema, nella televisione, nei nuovi media,
magari con l’intento di sensibilizzare i pubblici sul tema delle disabilità.

Marco Ferrazzoli, Francesca Gorini, Francesco Pieri, “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” (LuCe Edizioni 2019).

Marco Ferrazzoli, Francesca Gorini, Francesco Pieri, “Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” (LuCe Edizioni 2019).

“Il Superdisabile. Analisi di uno stereotipo” sul sito di LuCe Edizioni


Mio fratello rincorre i dinosauri. Storia mia e di Giovanni che ha un cromosoma in più

Down: una parola straniera? Una notizia travolgente? Un’etichetta? Una sindrome?

Una persona, un fratello, una questione di sguardo.

Abbiamo una cosa da dirvi… Riguarda vostro fratello.

Papà le strinse la mano.

– Vostro fratello… – disse, e fece una pausa. – Ecco, vostro fratello sarà… speciale.

Io e Chiara ci scrutammo l’un l’altra muovendo solo gli occhi.

– Speciale? – disse lei.

– In che senso speciale? – chiesi io.

– Nel senso, – disse papà, – che sarà… diverso. Affettuoso, anzitutto. Molto. Moltissimo. E poi sorridente e gentile. E tranquillo. E con i suoi, ecco, diciamo con i suoi tempi.

Sollevai un sopracciglio: – I suoi tempi?

– E altre cose sue speciali che ancora non sappiamo, – sorrise mamma.

– Quindi è una buona notizia? – chiese Chiara.

– Non è solo una buona notizia, – disse papà serio. Aggrottò la fronte in un modo buffo e la macchina cominciò a gonfiarsi e a sgonfiarsi come se stesse respirando con noi. – È molto di piú, – disse. – È una notizia travolgente –. Poi si girò e accese la radio. […]

– In che senso da dove arriva?

– Non è di questo pianeta. È evidente.

– Te l’avevamo detto, – disse lui, stringendomi la spalla con una mano cosí calda e ferma che con quella mano sulla spalla, giuro, sarei stato capace di andare ovunque nel mondo, affrontare qualunque cosa. – L’avevamo detto che era speciale.

Annuii.

Anzitutto gli occhi. Gli occhi erano cinesi, o venusiani forse, non sapevo decidermi; o di qualche altro pianeta con cristalli luminosi che sbucavano dalla sabbia e dieci lune viola nel cielo. Anch’io ho un taglio degli occhi un po’ orientale, in questo si vede che siamo fratelli, ma i suoi erano proprio tanto orientali. E poi la nuca. La nuca era piatta come una pista di atterraggio per microscopiche navicelle spaziali; se si fosse messo a quattro zampe potevi usarla come vassoio. Ma nulla mi colpí come le dita del piede che era scivolato fuori dalle coperte e che muoveva con scatti elettrici. Perché di dita, Giovanni, in quel piede, ne aveva quattro. O meglio, s’intuiva che potenzialmente erano cinque, ma il quarto e il quinto – il minolo e il pondolo – erano fusi insieme. Come due Kit Kat. […]

Aveva la copertina blu, un blu mogio e polveroso, e l’avevo intercettato già diverse volte, in camera da letto o sulla poltrona in salotto. Cosí, un giorno che stavo ciondolando per casa, finii per avvicinarmi e prenderlo in mano. Lessi l’autore, uno straniero, e il titolo, che conteneva anch’esso una parola straniera, e che quella parola era straniera lo sapevo perché c’era la lettera w. Noi non abbiamo tante lettere w o x nella lingua italiana, pensai. La parola era Down. La lessi pronunciandola: dovn. Prima di quella c’era la parola sindrome. Non sapevo cosa volesse dire sindrome, non sapevo cosa volesse dire Down. Lo aprii e, come sempre accade quando ci sono delle pagine piú spesse, il libro si spalancò su una fotografia.
Sgranai gli occhi. È Giovanni, pensai. […]

Ecco, allo stesso modo, interrogavo i miei genitori sui problemi di Gio. Sui suoi limiti, evidenti come il panino alla Nutella che mangiavo a merenda. E interrogavo soprattutto me stesso. Non mi interessavano piú le cause, quelle ormai erano cose passate. Pensavo piú che altro al suo futuro. Lui che non riusciva a imparare i numeri, come avrebbe fatto a pagare dal panettiere? Lui che aveva impiegato anni per parlare – e avrebbe sempre parlato male – come avrebbe fatto a scrivere? Se non sapeva né contare né scrivere, non avrebbe mai trovato un lavoro. Mi chiedevo perché avesse messo gli occhiali cosí presto: nessun altro bambino li portava. Mi chiedevo perché non ascoltasse niente, perché non capisse niente.
Addirittura – fu la cosa che mi sconvolse di piú – non avrebbe mai potuto fare le capriole. […]

Prima di quel giorno pensavo che il silenzio fosse assenza di rumore. Invece il silenzio è un suono, e c’è silenzio e silenzio. In quella mezz’ora, il silenzio mi parlò: mi disse che Gio aveva bisogno di me, costante bisogno di me; e io capii che ormai, senza Gio, non ci volevo piú stare a questo mondo. I suoi problemi erano i miei. E i miei problemi? A quelli ci avrei pensato da solo, senza disturbare; avrei trovato una soluzione. O almeno ci speravo. […]

Fu come il sole di mattina, quando filtra attraverso la tapparella che cerca di chiuderlo fuori e lui no, liquido e imprescindibile non si lascia imbrigliare, s’infila in ogni buco, in ogni fessura. Pensai ad Alice, alla sua reazione di fronte al bambino con il fucile. Pensai a Chiara, a quando aveva detto lascialo fare, che non è detto che le storie debbano sempre finire come sono state scritte. Ecco. Chi è che aveva scritto la nostra storia? Chi è che aveva sceneggiato la relazione tra me e Giovanni, e tra me, lui e il mondo, chi? Nessuno. Eravamo noi gli scrittori. Mia poi era la responsabilità di decidere come sarebbe finita la nostra storia. Nessuno instillava la paura del giudizio nel mio cuore, ero io a nutrirla.

Giacomo Mazzariol

Giacomo Mazzariol, “Mio fratello rincorre i dinosauri”, Einaudi, Torino, 2016

 

Canto di Natale

Nel Canto di Natale di Charles Dickens, Tim, bambino storpio, che si aiuta con una stampella per camminare, confida nello spirito natalizio per essere accettato dalla comunità dei fedeli.

Così Marta si nascose ed entrò il piccolo Bob, il padre, con almeno tre piedi di sciarpa, senza contare la frangia, che gli pendeva davanti e i vestiti logori, rammendati e spazzolati che sembravano nuovi, e Tiny Tim sulle spalle. Povero Tim, portava una piccola stampella e aveva le membra sostenute da una struttura di ferro.

[…] <<Come si è comportato Tim?>>, chiese la signora Cratchit, dopo essersi burlata di Bob per la sua credulità e dopo che Bob si fu saziato di tenersi stretta la figlia.

<<Buono come l’oro>>, disse Bob, <<e anche più buono. Qualche volta si mette a pensare, giacchè passa tanto tempo a sedere solo solo, e pensa le cose più strane che si possano immaginare. Tornando a casa, mi ha detto che sperava che la gente lo avesse visto in chiesa, perché era storpio e per loro poteva essere un piacere ricordarsi nel giorno di Natale di Colui che fece camminare gli storpi e vedere i ciechi>>

Nel dire queste parole, la voce di Bob tremava e si mise a tremare ancor più quando disse che Tim stava facendosi forte e coraggioso.

Si udì sul pavimento il rumore della sua piccola stampella, e Tiny Tim tornò indietro prima che fosse stata detta un’altra parola, scortato dal fratello e dalla sorella fino al suo panchetto accanto al fuoco.

[…] <<Dio ci benedica, ciascuno di noi!>>, disse Tim per ultimo. Stava seduto sul suo panchetto vicinissimo al padre, e Bob teneva nella propria la sua esile manina, come se avesse amato quel bambino, desiderato di tenerselo accanto e temuto che potessero portarglielo via.

<<Spirito>>, disse Scrooge, con un interessamento che non aveva mai provato prima di allora, <<dimmi se Tim vivrà.>>

<<Vedo una sedia vuota>> replicò lo Spirito, <<nell’angolo di quel misero caminetto e una gruccia senza proprietario, conservata con ogni cura. Se queste ombre rimangono inalterate nel futuro il bimbo non morirà.>>

<<No, no>>, disse Scrooge. <<Oh no, Spirito buono. Dimmi che sarà risparmiato.>>

<<Se queste ombre rimangono inalterate nel futuro, nessun altro della mia razza>>, replico lo Spirito, <<lo troverò più qui, ma che importa? Se deve morire, è meglio che muoia e faccia diminuire la popolazione in sovrappiù.>>

Nel sentire lo Spirito citare le sue stesse parole, Scrooge chinò la testa e si sentì schiacciato dal pentimento e dal rimorso.

Charles Dickens

Treccani Enciclopedia Online

Charles Dickens, “Canto di Natale” (1843)

I bambini rachitici di De Amicis

Una pagina di Cuore mostra le condizioni di salute degli scolari di fine Ottocento in Italia. Il medico, a scuola, visita i bambini e ne osserva le carenze e le deformità che ne determinano l’emarginazione sociale.

Erano una sessantina, tra bambini e bambine… povere ossa torturate! Povere mani, poveri piedini rattrappiti e scontorti! Poveri corpicini contraffatti! […] Alcuni, visti da davanti, son belli, e paion senza difetti; ma si voltano… e vi danno una stretta all’anima. C’era il medico che li visitava. Li metteva ritti sui banchi e alzava i vestitini per toccare i ventri enfiati e le giunture grosse; ma non si vergognavano punto, povere creature; si vedeva che erano bimbi assuefatti a essere svestiti, esaminati, rivoltati per tutti i versi.[…] Ma chi può dire quello che soffrirono durante il primo deformarsi del corpo, quando col crescere della loro infermità, vedevano diminuire l’affetto intorno a sé, poveri bambini, lasciati soli per ore ed ore nell’angolo di una stanza o d’un cortile, mal nutriti, e a volte anche scherniti, o tormentati per mesi. […] Parecchi non potevano alzarsi dal banco, e rimanevan lì, col capo ripiegato sul braccio, accarezzando le stampelle con la mano.

[…] – Vieni,- ripetè l’infermiere entrando. Il ragazzo si fece animo e lo seguito, gettando sguardi paurosi a destra e a sinistra, sui visi bianchi e smunti dei malati, alcuni dei quali avevano gli occhi chiusi e parevano morti, altri gurdavan per aria con gli occhi grandi e fissi, come spaventati. Parecchi gemevano come bambini. Il camerone era oscuro, l’aria impregnata d’un odore acuto di medicinali. Due suore di carità andavano attorno con delle boccette in mano.

Arrivato in fondo al camerone, l’infermiere si fermò al capezzale d’un letto, aperse le tendine e disse: – ecco tuo padre.

Il ragazzo diede in uno scoppio di pianto, e lasciato cadere l’involto, abbandonò la testa sulla spalla del malato, afferandogli con una mano il braccio che teneva disteso immobile sopra la coperta, il malato non si scosse.

Edmondo De Amicis

Testo completo

Edmondo De Amicis, Cuore (1886)

Pinocchio

Il povero Pinocchio è vivo o morto? Tre medici si susseguono per accertarsi delle condizioni del burattino, ma solo la Fata riuscirà a trovare la chiave per la sua guarigione.

[…] I medici arrivarono subito, uno dopo l’altro: arrivò, cioè, un Corvo, una Civetta e un Grillo-parlante.

-vorrei sapere da lor signori,- disse la Fata, rivolgendosi ai tre medici riuniti intorno al letto di Pinocchio- vorrei sapere da lor signori se questo disgraziato burattino sia morto o vivo!…

A quest’invito, il Corvo, facendosi avanti per il primo, tastò il polso a Pinocchio: poi gli tastò il naso, poi il dito mignolo dei piedi: e quando ebbe tastato ben bene, pronunziò solennemente queste parole:

-a mio credere il burattino è bell’e morto: ma se per disgrazie non fosse morto, allora sarebbe indizio sicuro che è sempre vivo!

-Mi dispiace- disse la Civetta- di dover contraddire il Corvo, mio illustre amico e collega: per me, invece, il burattino è sempre vivo: ma se per disgrazia non fosse vivo, allora sarebbe segno che è morto davvero!

[…] A questo punto si sentì nella camera un suono soffocato di pianti e di singhiozzi. Figuratevi come rimasero tutti, allorché, sollevati un poco i lenzuoli, si accorsero che quello che piangeva e singhiozzava era il povero Pinocchio.

-Quando il morto piange, è segno che è n via di guarigione—disse sollenemente il Corvo.

-Mi duole di contraddire il mio illustre amico e collega,-soggiunse la Civetta – ma per me, quando il morto piange è segno che gli dispiace a morire.

Appena i tre medici furono usciti di camera, la Fata si accostò a Pinocchio, e, dopo averlo toccato sulla fronte, si accorse che era travagliato da un febbrone da non si dire.

Allora sciolse una certa polverina bianca in mezzo al bicchier d’acqua, e porgendolo al burattino gli disse amorosamente:

-Bevila, e in pochi giorni sarai guarito.

Pinocchio guardò il biacchiere, storse un po’ la bocca, e poi domandò con voce di piagnisteo:

-è dolce o amara?

Carlo Collodi

Treccani Enciclopedia Online

Carlo Lorenzini, Pinocchio (1883)

Un antropologo su Marte. Sette racconti paradossali

Oliver Sacks presenta sette persone diverse, con le loro peculiarità, il loro vissuto e le straordinarie abilità sviluppate da ciò che per i più è una menomazione. Non casi, ma singoli individui da cui imparare ancora il potenziale creativo derivato dalla patologia.

 

Egli sapeva dire il colore di ogni cosa con una straordinaria precisione (era in grado di indicare non solo il nome del colore, ma anche il numero con il quale era riportato in un catalogo Pantone che aveva usato per anni). E così riusciva a identificare senza esitazione il verde del tavolo da bigliardo di van Gogh. Il signor I. sapeva quali fossero i colori di tutte le sue pitture preferite, ma non poteva più vederli, né con gli occhi, né con la mente: probabilmente la sua conoscenza del colore si fondava ora esclusivamente sulla memoria verbale. […]

In seguito, egli affermò che né «grigio» né «plumbeo» trasmettevano, sia pur lontanamente, le reali sembianze del suo mondo. Ciò che egli percepiva non era il solito «grigio»: si trattava di altre qualità percettive che non hanno equivalenti nell’esperienza e nel linguaggio ordinari. […]

Il signor I. non rappresentava solo un caso relativamente puro di acromatopsia cerebrale (quasi non contaminato da altri difetti nella percezione della forma, del movimento o della profondità), ma era anche un testimone esperto dotato di un’intelligenza superiore, capace di disegnare e di riferire quel che vedeva. […]

 

Quando lo videro, furono travolti dall’orrore: il loro ragazzo, che ricordavano snello e con i capelli lunghi, era diventato grasso e calvo; aveva stampato sul volto un perenne sorriso «ebete» (questo fu almeno il termine usato dal padre per descriverlo); continuava a borbottare brevi frammenti di canzoni o di versi, o commenti «idioti», mostrando ben poche emozioni profonde («come se fosse stato svuotato, senza più niente dentro» disse il padre); aveva perso interesse per gli eventi del presente; era disorientato – e completamente cieco. […]

Greg fu ricoverato in ospedale, visitato e trasferito in neurochirurgia. Gli esami avevano evidenziato un enorme tumore in posizione mediana, che stava distruggendo l’ipofisi, il chiasma e i tratti ottici e andava estendendosi in tutte le direzioni, verso i lobi frontali, i lobi temporali e il diencefalo. In sede chirurgica si scoprì che il tumore era un meningioma di natura benigna, che però era cresciuto fino ad avere le dimensioni di un piccolo pompelmo o di un’arancia; sebbene i chirurghi fossero riusciti a rimuoverlo quasi del tutto, non poterono cancellare il danno che esso aveva già arrecato. […]

Per me, questo aspetto della cecità di Greg, la sua singolare inconsapevolezza della propria condizione, il suo non sapere più il significato di parole come «vedere» o «guardare», erano fonte di grande perplessità. Tutto questo sembrava indicare la presenza di qualcosa di più strano e più complesso di un semplice «deficit»; sembrava piuttosto testimoniare una qualche alterazione radicale della struttura stessa della conoscenza, della coscienza e dell’identità. […]

I lobi frontali sono la parte più complessa del cervello; essi infatti non sono interessati alle funzioni «inferiori» del movimento e della sensazione, ma a quelle superiori di integrazione complessiva del giudizio e del comportamento, dell’immaginazione e dell’emozione; in altre parole, alla formazione di quell’identità unica che siamo soliti chiamare «personalità» o «sé». […]

 

Incontrai per la prima volta il dottor Carl Bennett a una conferenza scientifica sulla sindrome di Tourette che si teneva a Boston. Il suo aspetto era impeccabile: sulla cinquantina, di corporatura media, con barba e baffi appena brizzolati, sobriamente vestito con un abito scuro; impeccabile, sì, finché d’improvviso non si lanciava in un affondo, si allungava a toccare il pavimento o cominciava a sobbalzare e a saltellare. Fui colpito sia dai suoi tic bizzarri, sia dalla sua calma dignitosa. Quando espressi la mia incredulità sulla professione che aveva scelto, Bennett mi invitò ad andarlo a trovare e a trattenermi un po’ da lui, a Brànford, nella Columbia Britannica, dove egli viveva ed esercitava; così avrei potuto seguirlo nei giri di visite e in sala operatoria, l’avrei visto in azione. […]

 

Ma quando Virgil aprì il suo occhio dopo essere stato cieco per quarantacinque anni, e avendo alle spalle quasi soltanto l’esperienza visiva di un bambino di pochi mesi (peraltro ormai da tempo dimenticata), non c’erano ricordi visivi che potessero sostenere la sua percezione; non c’era alcun mondo di esperienza e significato ad attenderlo. Virgil vedeva, ma ciò che vedeva non aveva coerenza alcuna. La sua rètina e il suo nervo ottico erano attivi, trasmettevano impulsi, ma il suo cervello non riusciva a comprenderli; come dicono i neurologi, Virgil era agnosico. […]

Il comportamento di Virgil non era certo quello di un vedente, e tuttavia non era più nemmeno quello di un cieco. […]

 

Proprio mentre doveva prendere la tormentosa decisione, Franco fu colpito da una strana malattia, che infine lo portò al ricovero in un sanatorio. Ancora oggi, è tutt’altro che chiaro di quale malattia si trattasse. Certo ci fu la crisi della decisione, accompagnata da speranza e paura; ma ci furono anche febbre alta, delirio, dimagrimento e forse convulsioni; fu fatta l’ipotesi che Franco soffrisse di una tubercolosi, o di una psicosi, o di qualche disturbo neurologico. Ma nessuno comprese mai davvero che cosa fosse accaduto, e la natura della patologia rimane tuttora un mistero. Quel che è certo, comunque, è che al culmine della malattia, con il cervello forse stimolato dall’agitazione e dalla febbre, Franco cominciò ad avere, ogni notte e per tutta la notte, sogni straordinariamente realistici. […]

Per quanto dotato di una grandissima immaginazione, Franco non aveva mai avuto prima di allora visioni di tale intensità – immagini sospese in aria come apparizioni che gli promettevano una «riappropriazione» di Pontito. Ora esse sembravano dirgli: «Dipingici. Rendici reali». […]

 

Oggi è chiaro che la condizione patologica che chiamiamo autismo è sempre esistita e, pur essendo poco frequente, ha mietuto le sue vittime in tutte le epoche e le culture, suscitando sempre nella mente popolare un’attenzione ora divertita, ora timorosa o perplessa (e forse anche generando archetipi e personaggi mitici: quello dell’individuo strano e diverso, del bambino portato dalle fate, o di quello stregato da un incantesimo). […]

In quella via, dunque, ci imbattemmo in un’auto la cui targa si leggeva «autism» (c’era una probabilità su un milione, che potesse capitare). La indicai a Stephen: «Che cosa c’è scritto?».

Faticosamente, Stephen lesse una lettera alla volta: «A-U- T-I-S-M-2».

«Sì,» lo incoraggiai «e si legge…?».
«U… U… Utism» balbettò.
«Quasi, ma non proprio. Non “utism”: autism. Che cos’è l’autismo?».
«È quello che c’è sulla targa di quell’auto» rispose, e non si andò oltre. […]

 

È strano, ma moltissime persone, quando parlano di autismo, si riferiscono solo ai bambini e mai agli adulti, come se a un certo punto – non si sa come – i bambini sparissero dalla faccia della terra. Ma se è vero che all’età di due o tre anni l’autismo può comportare un quadro devastante, è anche vero che alcuni ragazzini autistici, contrariamente alle aspettative, riescono pian piano ad acquisire discrete capacità di linguaggio e qualche abilità sociale, perfino a conseguire apprezzabili risultati intellettuali; possono, insomma, diventare esseri umani autonomi, capaci di una vita almeno in apparenza piena e normale (anche se sotto la superficie può persistere un’individualità autistica profonda). […]

Temple mi disse che riusciva a comprendere le emozioni «semplici, forti, universali», ma che era sconcertata da quelle più complesse o simulate. «Molto spesso» mi confidò «mi sento come un antropologo su Marte».

 

Oliver Sacks

 

Oliver Sacks, “Un antropologo su Marte. Sette racconti paradossali”, Adelphi Edizioni, Milano, 1995.

https://www.adelphi.it/libro/9788845911453

Il piccolo malato di Cronin

Il destino di Yu era segnato: sotto lo sguardo di tre medici barbuti, lo attendevano dolore e ferite. L’estratto dell’opera “Le chiavi del regno” di Archibald Joseph Cronin evidenziano la missione della cura del malato.

[…] La camera del piccolo malato era immersa nella penombra. Cià Yu era coricato sopra una Kang riscaldato, sotto gli sguardi di tre medici barbuti avvolti in lunghi roboni, e seduti su stuoie di vimini. Di quando in quando uno dei medici si piegava sul busto e lasciava cadere un pezzo di carbone nel kang scatoliforme. A un angolo della stanza un prete taoista avvolto in una veste color lavagna borbottava preghiere ed esorcismi, con accompagnamento di flauti dietro la tramezza di bambù.

Yu era un grazioso bambino di sei anni, dalla carnagione morbida e giallina e occhi d’antracite. Allevato secondo le più strette tradizioni del rispetto filiale, era adorato, ma non viziato. Adesso, consumato da una febbre divorante e dalla terribile novità del dolore, giaceva sul dorso con le ossa che sembravano dovergli bucare la pelle. Il braccio destro, livido, mostruosamente enfiato e tumefatto, era incasellato in un orribile plastico di sporcizia mista a frammenti di carta.

[…] Curvo sul bambino privo ormai di conoscenza, Francesco valutò nel suo giusto valore quella marmorea immobilità sacerdotale. I suoi guai attuali sarebbero stati meno che niente, a petto della persecuzione che sarebbe seguita se il suo intervento falliva. Ma le disperate condizioni del ragazzo, e quell’insolente pretesa di cura agirono ugualmente su di lui come una frustata, con gesti rapidi e delicati tolse dal braccio infetto lo Hao kao, il lurido bendaggio che aveva così spesso visto nei poveri che accorrevano al suo dispensario; poi, liberato il braccio, lo lavò in acqua calda. Nella bacinella l’arto quasi galleggiava, vescica gonfia di pus che dava alla pelle un colore verdognolo. A Francesco il cuore faceva ora un gran battere, ma senza esitare cavò dalla tasca l’astuccio di cuoio ricevuto dall’amico Tulloch, e ne trasse un bisturi. Non si illudeva sulle sue capacità, ma sapeva anche che se non incideva profondamente nel braccio del bambino giù moribondo, il destino del poveretto era segnato.

[…] Un gran fiotto di materia putrida sgorgò dalla ferita e colò denso nel vaso di coccio pronto a riceverlo. Un puzzo orribile riempì l’aria. Mai tuttavia Francesco aveva sentito odore con maggiore letizia.

Archibald Joseph Cronin

Adattamento radiofonico in cinque puntate del romanzo “Le Chiavi del Regno” di Archibald Joseph Cronin 

Archibald Joseph Cronin, “Le chiavi del regno” (1941, Bompiani)