Un’epidemia che colpisce lo spirito

In questa pagina, un breve saggio critico su “La pelle” di Curzio Malaparte. Come contributi aggiuntivi, suggeriamo un’intervista con Rita Monaldi e Francesco Sorti, autori di un giallo storico ispirato a Malaparte, “Morte come me”, e un contributo dalla rivista Domus su “Casa come me”, villa-icona del Novecento, perfetta espressione della visione architettonica di Malaparte


Il gruppo di lettura Casa d’altri, insieme a Nicola Lagioia, si è riunito in un nuovo incontro online per confrontarsi sul controverso romanzo di Curzio Malaparte, “La pelle”. Nel delineare i tratti salienti della vita di un personaggio discutibile e ambiguo, Nicola ha sottolineato come in Italia la parabola biografica di Malaparte abbia influenzato la valutazione della sua opera, proiettando un’ombra sulla sua attività letteraria, mentre all’estero sia considerato uno dei protagonisti del Novecento europeo.
Curzio Malaparte è il nome d’arte di Kurt Suckert, nato a Prato e soprannominato l’Arcitaliano perché avrebbe incarnato qualità e difetti del popolo italiano, primo fra tutti il trasformismo, che era una scelta dettata da ragioni di convenienza, ma anche un tratto distintivo del suo temperamento. Fascista della prima ora, Malaparte entrò più avanti in contrasto con il regime: venne mandato al confino, dove continuò comunque a godere della protezione di alcuni gerarchi. Dopo l’8 settembre 1943 si unì come ufficiale di collegamento alle truppe americane, per cambiare ancora orientamento nel dopoguerra, avvicinandosi a Togliatti. Nel ’57, dopo una diagnosi di tumore ai polmoni, lasciò in eredità la propria casa al Partito comunista cinese e in punto di morte si convertì alla religione cattolica.

Pubblicato a puntate in Francia tra il ’47 e il ’48, uscito in Italia nel ’49, al centro di una trilogia sulla decadenza dell’Europa iniziata con Kaputt e proseguita con Il ballo al Kremlino, “La pelle” racconta l’esperienza di Malaparte al seguito degli alleati a partire dalla liberazione di Napoli.
Nicola ha osservato come il libro possa essere considerato una non-fiction novel, una forma ibrida tra romanzo, reportage letterario e giornalismo, una rielaborazione letteraria della realtà più intensa e complessa di una semplice cronaca. L’altro genere letterario anticipato dalla Pelle è quello dell’autofiction: l’io narrante è Malaparte stesso, senza nemmeno un alter ego a fargli da schermo.
All’inizio il titolo avrebbe dovuto essere La peste, cambiato a causa della pubblicazione nel ’47 del libro di Albert Camus; mentre però la peste di Camus è una metafora del nazifascismo, quella di Malaparte è la corruzione, una malattia morale portata dagli eserciti alleati a Napoli, e da lì diffusa per l’Europa: i napoletani, che durante la guerra avevano combattuto con dignità, dopo la liberazione si vendevano per salvare la propria pelle.
La Napoli della Pelle non è una città ma un continente letterario, un luogo di immaginario potentissimo e al tempo stesso immobile: è il centro della paralisi, della tragedia e dell’abiezione, e proprio per questo luogo ideale per la letteratura.

Un tema ricorrente nel libro è il rapporto tra la civiltà degli europei vinti – verticale, profonda, consapevole dell’abisso in cui è precipitata, e per questo perduta – e la civiltà orizzontale, ingenua e inconsapevole, degli americani vincitori, che in quanto tali non hanno bisogno di interrogarsi. Alla riflessione sulle macerie di un’idea di Europa amata da Malaparte si accompagna una sorta di elegia su una tradizione letteraria.
Il dialogo che si è intrecciato dopo l’introduzione di Nicola ha messo in rilievo diversi aspetti, a partire dalla profonda e struggente pietas, espressa con accenti lirici, che prevale sui momenti in cui viene raccontata l’abiezione, l’uomo che perde la sua humanitas: Malaparte riesce a darci una lezione di umanità lì dove l’umanità sembra essere negata, anche se scrive in un secolo in cui l’idea di uomo – frammentata, disgregata – è molto diversa rispetto all’epoca in cui il sentimento della pietas nasce e viene elaborato, anche dal punto di vista letterario.
Alcune lettrici hanno sottolineato la sua sofferenza davanti a un processo storico, sentito come ineluttabile, che evolve grazie alla violenza, il suo amore per i vinti accanto alla ripugnanza per l’uomo nel suo miserabile trionfo.
Qui Nicola ha collegato “La pelle” con un libro apparentemente molto distante, La Storia di Elsa Morante, mettendo in luce come entrambi scelgano di scrivere la storia dal punto di vista delle vittime e non dei vincitori, perché solo coloro sui quali la storia ha inciso più a fondo il proprio marchio ne sono i veri testimoni. Lo stesso ragionamento, ma più vertiginoso, lo fa Primo Levi nei Sommersi e i salvati, dove sostiene di non essere lui il vero testimone: i testimoni integrali sono quelli che non sono tornati, o che sono tornati muti, totalmente annichiliti.

Anche per quanto riguarda il potere, l’oggetto privilegiato della narrazione nella letteratura moderna sono quasi sempre le persone che ne subiscono le conseguenze, come se chi detiene il potere fosse il centro di una tromba d’aria, che è l’unico luogo immobile, dove non succede niente.
È stato ricordato anche come Malaparte nel capitolo ambientato a Firenze non ponga l’accento sulla liberazione, sulla rinascita di un paese distrutto: analogamente a Fenoglio, racconta una guerra civile in cui, dal punto di vista narrativo e umano, c’erano dei ragazzi, con le loro complessità e fragilità, che si uccidevano tra loro.
Il rapporto tra civiltà europea e americana è stato ripreso nella conversazione, evidenziando come il candore degli americani, più che nel loro pudore, consista nella loro incapacità di concepire il male come qualcosa di irrimediabile, nel loro incrollabile ottimismo: convinti che tutto si può combattere, che si può guarir della miseria, della fame, del dolore, che v’è rimedio a ogni male, mancano del senso del tragico, che è il grande bagaglio – ma anche la grande zavorra – degli europei, dotati invece di una consapevolezza innata dovuta ad alcuni millenni di civiltà alle spalle e al trauma della guerra vissuta sul proprio suolo.

Tra le lettrici e i lettori c’è chi ha considerato “La pelle” un libro ancora più disperato di Addio alle armi perché, anche se non ha un finale tragico, racconta un mondo perduto, e chi ha visto un momento non proprio di catarsi, ma comunque di speranza, nella morte di un ufficiale alleato: io sentii, per la prima volta nella mia vita, che un essere umano era morto per me.
L’appuntamento, partecipato e coinvolgente, con Casa d’altri è stato l’occasione per riscoprire la forza linguistica e immaginativa di uno scrittore capace di raccontare una malattia dello spirito paurosamente attuale.

Alessandra Sirotti

Curzio Malaparte, “La pelle”, Adelphi (2010, 6ªediz)

Fonte: MinimumLab


Almanacco CNR – Faccia a faccia

DomusWeb – Curzio Malaparte: la storia e i retroscena di Casa come me

Grazia e delirio

Nel suo dotto contributo, il critico e storico della letteratura Giancarlo Vigorelli contestualizza la “Storia della colonna infame” non solo nella maturazione spirituale di Alessandro Manzoni ma anche nel contesto letterario italo-francese, suggerendo spunti e confronti di grande interesse


[…]
…. diciamo allora che la Colonna è un romanzo, una scheggia di romanzo, che è cristiano soltanto à rébours, è il romanzo dello smarrimento dell’uomo e Dio, allora, non si sa se si è nascosto o piuttosto se è stato trafugato? Infatti, questo secondo romanzo breve, brusco ed intenso è un po’ la ricerca e la richiesta di là delle incrostazioni private o legali di una pur credibile giustizia, di una alfine conseguibile verità, una verità anche soltanto umana, ove almeno la decenza e la onestà dell’uomo sia a sufficienza probabile e provata, insomma quell’attestato pur parziale di verità da scalfire alla congerie della menzogna propria e di tutti. Che era poi di radice la umana preoccupazione del Manzoni, e chissà che questa non sia l’origine autentica della sua insistita crisi, come dicevo, tra verità e poesia e – più evidentemente e sul piano letterario – tra storia e romanzo.
[…]
La peste, allora, questo flagello di tutti e per tutti, finiva così ad essere il necessario scenario, persino di scusa, persino di giustificazione, del trionfo ovunque del male dell’uomo: direi che quel male ne era quasi mitigato, sovraeccitandogli intorno uno spettacolo di tanta corruzione e di tanto contagio. Insomma, né sfondo né inserto, come potrebbe essere per esempio la Rivoluzione Francese in Balzac; e anche in Verga la malaria non è un accidente e una miseria di più. Così questa peste, non fortuitamente (e non sorprenda), viene a prendere dal Rovani in giù quasi un senso ed un consenso metaforico allusivo. È troppo dire che i lazzaretti del Manzoni sono – da noi – una lontana introduzione persino degli ospedali di Baudelaire? Direi di sì, se si passa a leggere gli scapigliati lombardi.

Giancarlo Vigorelli



Alessandro Manzoni, “Storia della colonna infame”, Bompiani 1985 Milano

Sciascia e gli untori

Leonardo Sciascia, in un saggio scritto per la “Storia della colonna infame”, individua con grande acutezza alcuni meccanismi psicologici e sociali, soggiacenti alle dicerie in merito alla diffusione del contagio. Lo scrittore siciliano mette qui in campo la sua capacità di analisi non solo da “collega” di Manzoni ma anche da osservatore dei fatti della sua epoca e della storia della sua terra d’origine


La credenza che peste e colera venissero artatamente sparsi tra le popolazioni è antica. La registra Livio per, come ricorda Pietro Verri nelle sue “Osservazioni sulla tortura” che, appunto muovono dai funesto casi cui la credenza dette luogo nel 1630. “Veggiano i saggi Romani stessi al tempo in cui erano rozzi cioè l’anno di Roma 428 sotto Claudio Marcello e Cajo Valerio attribuire la pestilenza che gli afflisse a’ veleni apprestati da una troppo inverosimile congiura di marrone romane”. Al tempo in cui erano rozzi: perché pare che meno rozzi tra loro più non sia insorta quella credenza. E c’è da credere si fosse del tutto spenta nei secoli successivi e fino al XIII e XIV. Non ne troviamo traccia, infatti, nei cronisti che pure abbondano di notizie sulle epidemie pestifere del due e del trecento. Nelle loro pagine le tremende epidemie non trovano altra causa che il volere di Dio o l’influsso degli astri; e la propagazione del morbo ad altro non è attribuita che agli scambi e ai viaggi. Per tutti Giovanni Boccaccio
[…]
Quel che sappiamo quasi con certezza qui ed ora è che nel secolo XIV nessuno avanza il sospetto di una peste manufatta e diffusa da persone convenientemente immunizzate per decisione del potere (visibile o invisibile) o di una associazione cospirativa contro il potere o di un gruppo delinquenziale che si propone nella calamità più facile depredazione; mentre nel secolo XVII un tale sospetto non solo viene formulato ma arriva alla certezza medica e giuridica, tramandandosi – non più per fortuna sul piano della scienza medica e leguleia – fino a un tempo cui arrivano i nostri ricordi. Del colera del 1885-86 e della “spagnola”, ultima mortale epidemia che si è avuta in Italia subito dopo la guerra del ’15-18, abbiamo infatti sentito favoleggiare come di provvedimenti per così dire malthusiani; e della “spagnola” venuta dopo il grande macello della guerra si diceva fosse effetto di un conto da cui ancora risultava eccedenza di popolazione, essendo la guerra per errato calcolo finita un po’ prima di quanto doveva: e dunque la correzione da parte dei governi per quel tanto né più né meno che ci voleva a far tornare il conto.
[…]
Che si potesse come oggi, in un laboratorio batteriologico, manufare la peste e diffonderla, intanto era questione controversa. Il Tadino medico ci credeva: ma allora non c’era differenza tra uno che si diceva o dicevano medico e una qualsiasi persona colta. Le conoscenze del Tadino in fatto di medicina non erano né diverse né superiori a quelle di un don Ferrante: il quale risulta personaggio comico, caricatura nelle pagine dei Promessi Sposi, con senno di poi ma è in effetti il ritratto del Tadino tal quale. Anzi: il Tadino vedeva la peste scendere dalle stelle e andare a finire nelle ampolle degli untori; don Ferrante invece si fermava alle stelle e morì prendendosela con le stelle e non con gli untori.

Leonardo Sciascia



Alessandro Manzoni, “Storia della colonna infame”, Bompiani (1985)

Alessandro Manzoni o l’ipotesi di un realismo cattolico

Alberto Moravia si sofferma, in un saggio su Manzoni, sulla funzione simbolica che la peste assume nei “Promessi sposi”. Il contributo è pubblicato in premessa alla “Storia della colonna infame”, nell’edizione Bompiani del 1985


[…]
…. la peste è la corruzione per eccellenza per antonomasia; con i suoi bubboni, le sue febbri, il suo sfacelo fisico, essa è il simbolo di tutto ciò che non è sano né integro: con il suo diffondersi misterioso e inarrestabile essa è l’immagine stessa del male morale, contro il quale è impossibile difendersi. A sua volta, per aver fatto della peste, unico tra gli scrittori di tutto il mondo e di tutti i tempi, uno degli argomenti principali del suo romanzo, il Manzoni è per antonomasia il dipintore dell’epidemia, ossia della corruzione. Ma c’è peste e peste; la celebrità della peste de ‘I promessi sposi’, al contrario delle analoghe descrizioni del Boccaccio e del Defoe, si deve al fatto che essa è realmente sentita dal Manzoni come un fenomeno anzitutto morale; un po’ come le sette piaghe d’Egitto nell’Antico Testamento.
Così descrivendo la peste, il Manzoni si trova per così dire nel suo elemento, quello di una corruzione metafisica e universale che non risparmia niente e nessuno. Anche in questa parte della peste, come già in quella della Monaca di Monza, il Manzoni tocca i punti più alti della sua arte, come per esempio nel celebre episodio della madre che consegna ai monatti la sua bambina morta.


Alberto Moravia



Alessandro Manzoni, “Storia della colonna infame”, Bompiani Milano (1985)

Bianciardi, prefatore di Buzzati

Lo scrittore e giornalista Luciano Bianciardi realizza, per l’edizione di Mondadori del 1958 dei “Sessanta racconti” del collega Dino Buzzati, un testo breve e incentrato in gran parte sui due nei quali la malattia la fa da protagonista assoluta: “Sette piani” e “Una cosa che comincia per elle”. Evidenziando il crescente terrore che, in entrambi i casi, pervade chi ne è colpito


Si al settimo piano le forme leggerissime al sesto le leggere al quinto le poco gravi e così giù e giù. Al piano terreno i casi disperati. In tal modo si evitava che i malati leggerissimi come lui Giuseppe Corte fossero turbati dallo stato preagonico dei dannati. E i medici sorridenti lusinghieri tutti li a rassicurarlo che in un paio di settimane lo dimetteranno. Ma naturalmente va in tutt’altro modo. In capo a dieci giorni si presenta il capo-infermiere a chiedere in via puramente amichevole un trasferimento al piano di sotto. Qui al settimo le camere scarseggiano e ci sarebbe da sistemare una gentile signora con due bambini. Naturalmente il trasferimento che al nostro amico Corte non garba gran che non ha alcuna motivazione medica. È un semplice trasloco momentaneo. E lui ai compagni di degenza tiene a precisare che si trova in mezzo a loro per una questione puramente formale …

[…]

E la vita è sempre una cosa che comincia per elle. Rammenti tu l’uomo cui l’altro giorno chiedesti soccorso a spingere il tuo carro? Rammenti che aveva un campanello al collo? Tu credi dunque che fosse uno zingaro? Credi pure quel che ti pare ma intanto applicati ai-polsi queste due sanguisughe visto che hai bisogno di un salasso. Ebbene l’uomo che ti diede soccorso è una cosa che comincia per elle. È un lebbroso e ora anche tu sei un lebbroso una cosa che comincia per elle. E anche tu avrai un campanello al collo e ti verranno tolti tutti i tuoi beni te ne andrai in giro ramingo poi altri diventeranno lebbrosi come te ineluttabilmente.

Luciano Bianciardi

Dino Buzzati “Sessanta racconti”, Mondadori Milano (1958)

Manzoni il nichilista

Un saggio indaga in senso critico la religiosità del romanzo manzoniano, secondo l’autore del brano, “I promessi sposi” sono un’opera “pervasa da un micidiale nichilismo anticristiano”, del quale si ravvisano le tracce anche nella descrizione della peste. Una visione opposta a quella di Niccolò Tommaseo, secondo cui la contingenza drammatica ha il solo scopo di far emergere la pietas cristiana: “Il Manzoni trova in quel libro, raccolti intorno a Federigo, i fatti d’un potente senza nome, d’una monaca strana, d’una sommossa, d’una fame, d’una peste; e, nella peste, le cure di alcuni uomini pii”


Nella bolgia della peste succede qualcosa di diverso e di infinitamente più significativo ai nostri fini.
[…]
L’esito disastroso della processione viene letto dalla gente come una vittoria del diabolico che ha prevalso sugli attesi effetti magici della salma di San Carlo. In questo atteggiamento la morte non viene misteriosamente da Dio ma dal Demonio che si serve degli untori cioè del nostro prossimo.
[…]
L’esito del ricorso alla religione nella prova suprema della peste è qualcosa che va oltre la disfatta che ha i segni della pazzia un marchio peggiore di quello della peste. Lo spettacolo è quello di un’intera città di un’intera comunità umana che lotta non contro la peste ma contro un nemico invisibile insidioso inafferrabile perché alleato del Demonio: gli untori le streghe.
[…]
Non c’è cenno di solidarietà cristiana: la comunità cristiana non esiste. I “cristiani” si mettono assieme solo per la processione che appare uno dei punti culminanti del delirio. Ancora una volta: perché la peste ha generato tutte le follie dell’odio e non quelle della carità? Perché l’enorme energia che si sprigiona nelle catastrofi non prende la strada dell’amore? Perché tanta paura del Demonio se Cristo è con noi? Perché i pastori lasciano andare il gregge allo sbando in questo modo? Dov’è la Provvidenza?
[…]
Non solo dicevamo i monatti sono in una numerosa compagnia. Ciò che produce il salto quantitativo è l’entrata in scena di altre decine di migliaia di feroci saccheggiatori che assieme ai monatti si avvengano su un’umanità indifesa esercitando su di essa una violenza che possiede quei connotati sadici e vigliacchi di cui abbiamo detto: i soldati che calano in massa e dirigendosi verso meridione attraversano e devastano la Lombardia.
[…]

Aldo Spranzi


“L’altro Manzoni”, Ares (2008)

Una cosa che comincia per elle

In questo racconto, contenuto nell’antologia “Boutique del mistero”, Buzzati racconta la lebbra, malattia innominabile e contratta dal mercante Schroder costretto a girare seminudo con la campanella del lebbroso.

Versione integrale audio del racconto

Cristoforo Schroder, mercante in legnami, andò subito a letto, perché non si sentiva bene. Mandò poi a chiamare il medico dottor Lugosi, ch’egli conosceva da anni. Il medico venne e sembrò rimanere perplesso. Escluse che ci fossero cose gravi, si fece dare una bottiglietta di orina per esaminarla e promise di tornare il giorno stesso.
Il mattino dopo lo Schroder si sentiva molto meglio (…)

“Sono qui con un amico, questa mattina” (…)

“Tutto bene, le orine. Solo vorrei farvi un piccolo salasso. ” (…)

Intanto il visitatore estraneo, senza togliersi l’ampio mantello, aveva deposto sul tavolo il cappello e un pacchetto oblungo che mandò un rumore metallico. Lo Schroder notò con un senso di vago malessere, che l’uomo si era seduto quasi sulla soglia come se gli premesse di stare lontano da lui.
” Don Valerio, voi non lo immaginate, ma vi conosce già” disse allo Schroder il medico (…)

Vi dirò non ho mai avuto l’onore di incontrarvi personalmente, ma so qualche cosa di voi che certo non immaginate. ” (…)

“Non era un uomo alto, tutto nero in faccia, con uno strano cappello a cilindro? ” insisteva don Valerio. ” E non aveva una specie di campanella? Non vi ricordate che continuava a suonare? ”  (…)

” E chi era quell’uomo, allora? ” chiese lo Schroder con asprezza, come per far capire che se il Melito aveva qualche cosa da dire, era meglio che lo dicesse subito. (…)

Voi, piuttosto, chi credeste che fosse?” (…)

Un povero diavolo, un disgraziato (…)

“Uno zingaro, poteva essere. Per far venire gente li ho visti tante volte suonare una campana” (…)

” No. Non era uno zingaro. O, se lo era stato una volta, non lo era più. Quell’uomo, per dirvelo chiaro, è una cosa che comincia per elle. “
” Una cosa che comincia per elle? ” (…)

“Un ladro? Volete dire?” (…) Un lanzichenecco forse?… ” (…)

” Nè un ladro nè un lanzichenecco ” disse lentamente il Melito. ” Un lebbroso, era. ” (…)

Sono l’alcade, caro signore (…)” In quel pacchetto c’è la vostra campanella ” rispose. ” Uscirete immediatamente di qui e continuerete a suonarla, fino a che sarete uscito fuori del paese, e poi ancora, fino a che non sarete uscito dal regno. “

“La giacca, la mantella, e basta. L’altro deve essere bruciato. Per la carrozza e il cavallo si è già provveduto.” (…)

Dino Buzzati. La boutique del mistero. (Oscar Mondadori, Mondadori, 1968)

Dino Buzzati, Romanzi e racconti

In questo racconto, Buzzati descrive questa sconosciuta malattia (peste canina) e i suoi strani sintomi. Le poche conoscenze circa questa nuova epidemia generavano preoccupazione generale che sfociò in un “decreto del governatore” che proibii gli assembramenti, unita a ipocondria e allarmismi veri…O presunti.

Paurosissimo delle malattie, io le sento venire da lontano. (…)

Di questa malattia si raccontava una quantità di cose strane. Secondo alcuni proveniva dal cuore impenetrabile dell’Africa, altri invece dicevano che fosse stata provocata da un sacrilegio in Terrasanta. La chiamavano canina non perché colpisse i cani ma perché nella fase dell’incubazione, che durava uno o due giorni, l’ammalato emanava un forte odore. (…) Spesso ricordava il cane. (…) Un effluvio specialissimo, indefinibile a parole; che era lo stesso marchio della peste. E pochissimi erano in grado di distinguerlo. (…) medici o infermieri, o suore che erano vissuti in Africa o in Oriente.  Altri sintomi denotavano l’esplodere della peste vera e propria. (…) Ma ce n’era uno tipico e fatale: l’uomo colpito dal contagio non era più capace di un discorso organizzato (…)

Perciò la si chiamava anche peste sillabica.  (…)

Esisteva, è vero, un vaccino capace di stroncare l’infezione: ma doveva essere iniettato al tempo giusto, nel corso dell’incubazione, né prima né dopo; guai se si tardava; guai anche se lo si propinava, per errore, a una persona sana; se in seguito costui si contagiava, il vaccino non sarebbe più servito a niente. L’allarme fu gettato all’improvviso. Un decreto del governatore, alludendo in modo vago a pericoli di epidemie, proibì gli assembramenti e gli spettacoli, chiuse i locali pubblici, impose il controllo dei viaggiatori eccetera. In poche ore tutta la popolazione seppe. E già si udivano le sirene delle autoambulanze chiamata qua e là a trasportare i moribondi. Fu il terrore. (…)

Per fortuna io ero amico del professore Ettore Tiriaca, il clinico famoso (…)

Scoppiata l’epidemia, divenni l’ombra stessa del Tiriaca. (…) Col mio terrore di essere infettato, sentivo un odore dopo l’altro, immaginandomi che venissero da me. Il Tiriaca mi rassicurava: “Ma io non sento niente” (…)

Una sera – ero invitato a pranzo – appena entrato a casa Tiriaca, sento odore di tartufo. Magnifico, dico a me stesso, perché di tartufi sono ghiotto. (…)

“Ma dimmi, professore… come mai quest’odore di tartufi” “Tartufi?… Io non sento odore di tartufi… (…)

“Non sarò mica io per caso a …?” Lui mi annusa col suo grande naso, sorridendo. “Tu sei su una brutta china, caro mio… Di questo passo finirai dritto al manicomio” “Professore non inquietarti, l’odore c’è, ti giuro… E io ti sono amico… Io te lo volevo dire…  ascolta… non potrebbe darsi che … non potrebbe darsi che a odorare di tartufo… insomma non potresti essere tu?”

Il Tiriaca mi fissa, il sorriso gli si è fermato sulle labbra, non capisce se io voglio scherzare. Gli viene forse un dubbio? No. Si mette anzi a ridere di gusto. “Non mi illudevo che tu mi stimassi un luminare” dice “ma almeno che io non fossi un asino del tutto… Se mi fossi impestato, per capirlo credi forse che avrei bisogno dell’odore?” (…)

Per la prima volta io non gli credo, le sue parole non danno più sollievo. E intanto l’odore va crescendo, la casa ne è ammorbata, io cerco di andarmene al più presto. (…)

Anche la notte passa. Alle otto e mezzo salgo dal Tiriaca per accompagnarlo in clinica. Entrato, annuso. L’odore di tartufo non c’è più. Meno male, mi dico, si vede che era tutta suggestione. In quel mentre arriva il professore. “Beh, come la va? Senti ancora la presenza di tartufi? Ti sei calmato?… Ieri sera dopo che te ne sei andato, non credere, io non ci ho pensato su… e ho capito da dove ghe ghe quell’odore, in parte credo che sia… in parte… mah… invece, eh già… sgabusè toil gragiueaaa…” la frase si perse in un groviglio incomprensibile. (…)

La sera stessa fuggii dalla città (…)

E già è passato un mese. A quest’ora, se io fossi rimasto contagiato, il male sarebbe pur venuto fuori. Invece io sto bene, non emetto odori, parlo speditamente vero che parlo con la massima scioltezza? Il brutto sarebbe infatti se all’improvviso cominciassi anch’io a barbugliare, confondendomi, allora si sippo po potrei dirmi spaccirmi…

Dino Buzzati. “Romanzi e racconti”. A cura di Giuliano Gramigna. I Meridiani Mondadori, 1975

Batteri e virus, una guerra. Contro la paura

‘Le grandi epidemie’ di Barbara Gallavotti evidenzia come gli agenti infettivi siano stati capaci di uccidere più uomini di qualsiasi armata sulla Terra e si chiede: “Chi vincerà alla fine?”. La risposta è che uno dei principali alleati di questi nostri temibili e minuscoli avversari è il sentimento irrazionale che porta da un lato a diffidare dei vaccini e dall’altro ad assumere con leggerezza gli antibiotici. Mentre il corretto uso di queste innovazioni è la migliore arma a nostra disposizione


La letteratura divulgativa su virus, batteri, microbi, vettori e agenti patogeni è amplissima. Solo per citare randomicamente alcuni titoli degli ultimi lustri, va da ‘Epidemie’ di Giovanni Rezza a ‘Pillola del giorno prima. Vaccini, epidemie, catastrofi, paure e verità’ di Marco Malvaldi e Roberto Vacca; da ‘Batteri spazzini e virus che curano’ e ‘Occhio ai virus’ del nostro Giovanni Maga a testi opportunamente rivolti ai lettori più giovani come ‘Le difese del mio corpo’ di Laurent Degos e ‘Virus, microbi e vaccini’ di Clara Frontali; da monografie su specifiche patologie come ‘Aids. Breve storia di una malattia che ha cambiato il mondo’ di Cristiana Pulcinelli a ‘Metafisica della peste’ di Sandro Givone. Il tema delle patologie epidemiche e infettive è poi protagonista di saggi fondamentali come ‘Quarto cavaliere – Storia di epidemie, pestilenze e virus’ di Andrew Nikiforuk e ‘Armi, acciaio e malattie’ di Jared Diamond.

Quest’ultimo titolo, in particolare, è citato nella bibliografia dell’ultimo arrivato in questa cospicua e importante galleria saggistica: ‘Le grandi epidemie’ di Barbara Gallavotti, per il quale la giornalista di Superquark ha preso spunto da un’intervista di Francesco Maria Galassi, professore di Paleopatologia alla Flinders University in Australia e che si arricchisce di un’introduzione in cui Piero Angela evidenzia come i microrganismi siano “stati capaci di uccidere più uomini di qualsiasi armata sulla Terra”, nonostante (o forse proprio perché) siano “nostri parenti”, addirittura “i nostri più lontani progenitori”. I batteri sono stati infatti “i primi ad arrivare sulla Terra e saranno con ogni probabilità gli ultimi ad andarsene”, affermazione con cui il nostro massimo divulgatore focalizza la questione centrale del libro: “Chi vincerà alla fine l’eterna guerra fra gli esseri umani e gli agenti infettivi?”, si chiede Gallavotti in conclusione del volume. Rispondendo che, comunque, “non abbasseremo mai la guardia” e avvertendo che uno dei principali alleati di questi nostri avversari temibili e minuscoli (i batteri misurano millesimi di millimetro e i virus sono molto più piccoli) è la paura, il sentimento che “spinse i genovesi a lasciare precipitosamente Caffa e altri ad abbandonare le città appestate nel tentativo di sfuggire a un morbo che in realtà portarono con loro”. E che in tempi più recenti “ha indotto il governo del Sudafrica per diversi anni a sposare tesi negazioniste riguardo all’Hiv come causa dell’Aids”, che temendo gli untori “in innumerevoli casi” non ha fatto che produrre altre vittime innocenti, che sospetta dei migranti come ambasciatori di nuove o vecchie malattie.
Ma le paure forse più attuali e rischiose sono quelle, in qualche modo opposte, che ci portano da un lato a diffidare dei vaccini e dall’altro ad “assumere con leggerezza farmaci inappropriati, ad esempio antibiotici”. Se “Tutta la storia dell’umanità è stata una lunga battaglia contro i microbi responsabili delle malattie infettive”, che però abbiamo “combattuto per decine di migliaia di anni solo con gli strumenti messi a disposizione dall’evoluzione”, infatti, fortunatamente “negli ultimi decenni abbiamo messo a punto strumenti in grado di proteggerci dalle infezioni”, cioè vaccini e antibiotici. Influenza, morbillo, vaiolo, tifo, colera, sifilide hanno sterminato generazioni, compiuto genocidi, sin dai tempi raccontati da Tucidide, passando per il contatto tra europei e popolazioni amerindie, hanno cambiato il corso della storia, colpendo personaggi come Cesare Borgia, William Shakespeare e Friedrich Nietzsche. Ancora tra il 1918 e il 1919 l’influenza spagnola provocò tra 50 e 100 milioni di morti, più della contestuale guerra mondiale. E nel Novecento il vaiolo, prima di essere definitivamente sconfitto, ha causato 300-500 milioni di vittime…
Ma oggi abbiamo due tipi di farmaci fondamentali, “i vaccini, capaci addirittura di prevenire le malattie, e gli antibiotici, in grado di contrastare le principali infezioni batteriche”. Peccato che “i vaccini rischiano di essere resi inefficaci dalla decisione di alcuni di non servirsene e gli antibiotici da quella di usarli male”. Certo, virus e batteri hanno una straordinaria capacità di sviluppare ceppi resistenti, quella che combattiamo è “una rincorsa tra ricercatori e germi patogeni”, avverte cauto Angela. Ma per sperare di vincerla dobbiamo usare le armi che abbiamo in modo adeguato e convinto. Senza paura (per non usare altri termini).

Marco Ferrazzoli


Barbara Gallavotti, “Le grandi epidemie” (Donzelli, 2019)



Fonte: Almanacco CNR – Recensioni

La peste di Abbate ricorda la nostra

Impossibile leggere questo romanzo senza riferirsi al contesto attuale. Il protagonista è un inventore di barzellette. Tra le pagine sono disseminati continuamente dubbi e considerazioni analoghi ai nostri di oggi


È uscito in pieno anno di pandemia il romanzo di Fulvio Abbate “La peste nuova” ed è ovviamente impossibile leggerlo senza riferirsi al contesto attuale. Il protagonista è Guido Battaglia, un inventore di barzellette: questo il suo “impiego ufficiale nel collocamento dello spettacolo tragico della città”. Il suo compito è inventare “l’ultima risolutiva salvifica” barzelletta che serva “a proteggere le città”. Ma oltre a questo personaggio, evidentemente metaforico del ruolo dell’intellettuale nella società contemporanea, se ne affacciano altri che è difficile non rimandare all’attualità, per esempio l’ufficiale sanitario che consegna “i moduli obbligatori entrati in vigore dove segnare i propri spostamenti”.

Tra le pagine sono continuamente disseminati dubbi e considerazioni a dir poco analoghi ai nostri di oggi. “Guardati intorno vedi la città quanto credi che potrà ancora reggere? Questa nuova epidemia è gigantesca incalcolabile fuori dalla portata dell’umano”. “Quanto a Dio nelle circostanze estreme mostra la propria assenza la sua non esistenza”. “Nelle settimane di peste, quando l’unica notizia accampata nei media riguardava il batterio e le possibilità di sconfiggerlo, l’attesa di un vaccino, la penuria di mascherine sterili, ammesso che queste potessero proteggere realmente le persone, insieme alla cura nel lavarsi le mani con liquidi disinfettanti”. “Anche la Procura aveva indagato su irregolarità nel ricovero di pazienti in strutture private”. “Dalla città del Vaticano direttamente dal profilo Twitter del pontefice confermarono che l’Angelus della domenica successiva si sarebbe svolto in collegamento video”. “Irresponsabili o increduli che ancora ignorano la gravità delle circostanze” e che “trovavano il tempo di immaginare alcune allegorie per nulla scientifiche della peste”. “Il pensiero degli ospedali ormai colmi di ricoverati mi ha riportato agli ultimi giorni di vita di mio padre”. Il “comunicato seguito da un tweet” della Prefettura “dove pur continuando a definire seria la situazione si accennava a tenui segnali di miglioramento” di regressione del contagio”.
In altri punti del libro si colgono invece riferimenti, più o meno espliciti, a contagi del passato. “Sul muro accanto all’ingresso della casa dove vivevo è apparso un doppio cerchio giallo segnato a spray. Il presidio medico d’intervento e valutazione dell’epidemia aveva individuato un focolaio”. “Un amico omosessuale raccontava che nei giorni più drammatici dell’Aids molti gay si ritrovavano in circolo ognuno a masturbare se stesso”. Un altro protagonista de “La peste nuova”, a proposito, è il sesso, che entra nella storia attraverso un’oggettistica da porno-shop, “i vibratori, i dildi e le protesi falliche” e profferte di scambio: “Amore interessato, è vero, ma tu in caso di buona riuscita verresti ripagato, conviene pure a te […] Ci sembra il minimo proporti la nostra scommessa dunque il destino della città è nelle tue mani”.
Più alate, letteralmente, altre figurazioni come quella di “una mousse che, spalmata sulle scapole, in poche settimane avrebbe fatto crescere le ali a ogni acquirente” dal “cuore puro, come libero, non cuore prigioniero”. Qualcuno, prendendo spunto dal preparato, “aveva proposto la costruzione di un nuovo aeroporto da dove abbandonare la città quando la situazione sarebbe precipitata definitivamente. Un’idea che certo consorzio di imprenditori privati, assenti al ritegno, accolse senza remore, dando così inizio allo spianamento di un terreno e alla messa in opera di un capannone coperto dove intrattenersi nell’attesa del peggio”.
Il romanzo nasce dalla riscrittura radicale di “La peste bis”, apparso in libreria nel gennaio 1997. L’omaggio a Camus resta intatto quale fonte di precisazione e, spiega l’autore: “Il dramma concreto quotidiano della pandemia da Covid-19, insieme agli obblighi della quarantena, dell’esilio domestico con la desertificazione del paesaggio urbano, sono stati una semplice sollecitazione”.

Marco Ferrazzoli


Fulvio Abbate, “La peste nuova”, La nave di Teseo (2020)