I pazzi salutano Clarisse

La tragica realtà di un reparto psichiatrico dove si intrecciano il lavoro del medico, di Clarisse, dei malati e di ciò che avviene nella loro mente.

Un “reparto tranquillo”, – spiegò il medico.

C’erano soltanto donne; avevano i capelli sciolti sulle spalle e i loro visi erano repulsivi, con lineamenti molli, enfiati, deformi.

Una di esser corse subito dal medico e gli consegnò una lettera.

E’ sempre la stessa storia, – disse Friedenthal e lesse forte:

-“Adolfo mio adorato! Quando vieni? Mi hai dimenticata?” –

La donna, più che sessantenne, ascoltava con aria ebete. – La spedirai subito, vero? – ella pregò – Certo! – promise il dotto Friedenthal e sotto i suoi occhi strappò la lettera ammiccando alla sorvegliante. Clarisse lo rimproverò: – Come può agire così? – esclamò con sdegno – I malati bisogna prenderli sul serio!

Venga via! – esortò Friedenthal. – Non mette conto di fermarsi qui. Se vuole le posso mostrare centinaia di lettere simili. Avrà osservato che la vecchia è rimasta indifferente quando ho strappato il suo biglietto.

Clarisse era allibita perché ciò che diceva il dottore era vero ma le sconvolgeva le idee.

(Cfr. Lechon, Il difficile problema del rispetto del paziente psichico)

sovente sono grandi artisti, molto moderni.

E ammalati? – dubitò Clarisse.

– Perché no? – sospirò Friedenthal pateticamente.

“Dunque anche un’arte rispettabile e rispettata come l’accademia ha una sorella rinnegata, defraudata e tuttavia quasi identica in manicomio?”

Nei letti della nuova stanza eran seduti o buttati una serie di orrori. Tutto di quei corpi era storto, imbrattato, contraffatto o paralitico. Dentature guaste. Teste ciondolanti. Crani troppo grandi, troppo piccoli e tutti deformi. Mascelle cascanti, colanti di saliva, bocche macinanti a vuoto, animalescamente, senza cibo né parole. (…)

Le sale dei gravemente affetti da idiozia sono fra gli spettacoli più raccapriccianti che si possan trovare nelle brutture di un manicomio, e Clarisse si sentì sprofondare in una tenebra fitta e spaventosa dove non distingueva più nulla.

Il dottor Friedenthal la seguiva spiegando: – Idiozia familiare amaurotica – Sclerosi ipertrofica tuberosa. – Idiozia timica.

Il generale che s’era stufato di vedere ebeti e lo stesso supponeva di Ulrich, guardò l’orologio e disse: – Dov’eravamo rimasti? 

il dottor Friedenthal (…)

Era abituato a quel, trantran. Ordine come in una caserma o in ogni altra comunità, alleviamento delle principali sofferenze e incomodi, prevenzione dei peggioramenti evitabili, ogni tanto un miglioramento, una guarigione: questi erano gli elementi della sua attività quotidiana. (…)

Adesso entriamo in un reparto di agitati, – annunziò Friedenthal, e già s’avvicinavano a uno schiamazzo, a un grido, che pareva erompere da un’immensa gabbia d’uccelli. (…)

Tutti i pazzi roteavano gli occhi e le braccia, eccitati e urlanti (…)

Alcuni erano liberi, altri erano legati all’orlo dei letti con cinghie che lasciavano pochissimo gioco alle mani. (…)

Infine il pazzo disse lentamente: – E’ il settimo figlio dell’Imperatore.

Stumm von Bordwehr diede una gomitata a Ulrich.

– Non è vero, – contraddisse Friendenthal, e continuando il gioco si rivolse a Clarisse coll’invito: – Gli dica lei stessa che s’inganna.

– Non è vero, amico mio, – mormorò Clarisse, che per la commozione quasi non riusciva a parlare.

Robert Musil

Trecani Enciclopedia Online

Robert Musil, “L’uomo senza qualità” (1930-1942)

La coscienza di Zeno

Italo Svevo descrive il rapporto tra uno psicoanalista e un suo paziente molto problematico.

Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di pisco-analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica. 

[…] Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico-analisi arricceranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l’autobiografia fosse un buon preludio alla psico-analisi. oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie. Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch’io sono pronto di dividere con lui i lauti onorari che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura.

[…] Il dottore al quale ne parlai mi disse d’iniziare il mio lavoro con un’analisi storica della mia propensione al fumo:
– Scriva! Scriva! Vedrà come arriverà a vedersi intero.

[…] La malattia, è una convinzione ed io nacqui con quella convinzione. Di quella dei miei vent’anni non ricorderei gran cosa se non l’avessi allora descritta ad un medico, 

Curioso come si ricordino meglio le parole dette che i sentimenti che non arrivarono a scotere l’aria.

Ero andato da quel medico perché mera stato detto che guariva le malattie nervose con l’elettricità. Io pensai di poter ricavare dall’elettricità la forza che occorreva per lasciare il fumo.

[…] Furono settanta le applicazioni elettriche e avrebbero continuato tuttora se io non avessi giudicato di averne avute abbastanza. Più che attendermi dei miracoli, correvo a quelle sedute nella speranza di convincere il dottore a proibirmi il fumo. Chissà come sarebbero andate le cose se allora fossi stato fortificato nei miei propositi da una proibizione simile.

Ed ecco la descrizione della mia malattia quale io la feci al medico: « Non posso studiare e anche le rare volte in cui vado a letto per tempo, resto insonne fino ai primi rintocchi delle campane. È perciò che tentenno fra la legge e la chimica perché ambedue queste scienze hanno l’esigenza di un lavoro che comincia ad un’ora fissa mentre io non so mai a che ora potrò essere alzato».

  • L’elettricità guarisce qualsiasi insonnia,- sentenziò l’Esculapio, gli occhi sempre rivolti al quadrante anziché al paziente.

Giunsi a parlare con lui come s’egli avesse potuto intendere la psico-analisi ch’io, timidamente, precorsi. Gli raccontai della mia miseria con le donne. Una non mi bastava e molte neppure. Le desideravo tutte!

[…] Il grosso uomo dimagrato non diede subito la sua risposta. Era un uomo di metodo e prima ci pensò lungamente. Poi con aria dottorale che gli competeva data la sua grande superiorità in argomento, mi spiegò che la mia vera malattia era il proposito  non la sigaretta. Dovevo tentar di lasciare quel vizio senza farne un proposito. In me – secondo lui – nel corso degli anni erano andate a formarsi due persone di cui una comandava e l’altra non era altro che uno schiavo il quale, non appena la sorveglianza diminuiva, contravveniva alla volontà del padrone per amore alla libertà. Bisognava perciò dargli la libertà assoluta e nello stesso tempo dovevo guardare il mio vizio in faccia come se fosse nuovo e non l’avessi mai visto. Bisognava non combatterlo, ma trascurarlo e dimenticare in certo modo di abbandonarvisi volgendogli le spalle con noncuranza come a compagnia che si riconosca indegna di sé.

Semplice, nevvero?

[…] Dal maggio dell’anno scorso non avevo più toccato questo libercolo. Ecco che dalla Svizzera il dottor S. i scrive pregandomi di mandargli quanto avessi ancora annotato. È una domanda curiosa, ma non ho nulla in contrario di mandargli anche questo libercolo dal quale chiaramente vedrà come io la pensi di lui e della sua cura. Giacchè possiede tutte le mie confessioni, si tenga anche queste poche pagine e ancora qualcuna che volentieri aggiungo a sua edificazione. Ho poco tempo perché il mio commercio occupa la mia giornata. Ma al signor S. voglio pur dire il fatto suo. Ci pensai tanto che oramai ho le idee ben chiare.

Intanto egli crede di ricevere altre mie confessioni di malattia e debolezza e invece riceverà la descrizione di una salute solida, perfetta quanto la mia età abbastanza inoltrata può permettere. Io sono guarito! Non solo non voglio fare la psico-analisi, ma non ne ho neppure il bisogno. E la mia salute non proviene solo dal fatto che mi sento un privilegiato in mezzo a tanti martiri.

Italo Svevo

Treccani Enciclopedia Online

Italo Svevo, “La coscienza di Zeno” (1923)

Le memorie di un pazzo

Gogol scrive il racconto delirante di un uomo uscito di senno: Cina e Spagna sono la stessa nazione; febbraio ha 30 giorni e gennaio lo segue nel calendario.

3 ottobre

[…]L’ho riconosciuta subito: era la carrozza del nostro direttore. Ma lui non aveva motivo d’entrare in quel negozio, ho pensato; di certo è sua figlia. Mi sono addossato al muro. Il lacchè ha aperto gli sportelli e lei è svolazzata fuori dalla carrozza come un uccellino. Che occhiate ha dato a destra e a sinistra, che balenio di ciglia e di occhi… Signoriddio! Ero perduto, completamente perduto. E perchè poi lei era uscita con un tempo così piovoso? E va’ poi a raccontare che le donne non perdono la testa per tutti quegli stracci! Lei non mi ha riconosciuto, e del resto anch’io di proposito mi sono imbacuccato il più possibile, perchè avevo indosso un cappotto molto sudicio e poi di vecchio taglio. Adesso si portano i mantelli con il collo a scialle, mentre il mio è abbottonato sino in cima; e poi anche la stoffa non è affatto buona. La sua cagnetta, che non aveva fatto in tempo a infilare la porta del negozio, è rimasta sulla strada. Conosco questa cagnetta. Si chiama Meggy. Stavo lì appena da un minuto quando, a un tratto, sento una vocina sottile: «Salve, Meggy.» Questa si che era bella! Chi aveva parlato? Mi sono guardato in giro e ho visto due signore che camminavano sotto a un ombrello: una vecchia, l’altra abbastanza giovane; ma loro erano già passate e vicino a me ho udito di nuovo: «Guai a te, Meggy!» Che razza di diavolo! Allora ho visto che Meggy annusava l’altra cagnetta che seguiva le signore. Eh! mi son detto; questo è troppo, non sarò ubriaco? Davvero, per quanto mi risulta questa è una cosa che mi succede molto di rado. «No, Fidèle, fai male a pensare così», e io con i miei occhi ho visto che era Meggy a parlare. «Sono stata, bau! bau! Sono stata, bau, bau, bau! molto ammalata.» Ah, razza di cagnetta! Confesso d’essermi molto stupito a sentirla parlare nella lingua degli uomini. Ma poi, quando ho ragionato per bene su tutto questo, ho cessato di meravigliarmi. Effettivamente, al mondo ci sono già stati parecchi esempi del genere. Si dice che in Inghilterra sia venuto a galla un pesce il quale ha detto due parole in una lingua stranissima che da tre anni ormai gli scienziati si sforzano di decifrare, ma finora non hanno scoperto nulla. Sui giornali ho letto anche di due vacche che sono entrate in un negozio e hanno chiesto una libbra di tè. Ma, lo confesso, mi sono meravigliato molto di più quando Meggy ha detto: «Io ti ho scritto, Fidèle; di certo Polkan non ha portato la mia lettera!» Che non riceva lo stipendio se in vita mia avevo mai sentito che un cane potesse scrivere. Solo un nobile può scrivere correttamente. Sì, naturale, anche certi mercanti e persino i servi della gleba talvolta scrivono, ma il loro scrivere per lo più è meccanico: nè virgole, nè punti, nè stile.

Anno 2000, 43 aprile

Oggi è una giornata di immenso trionfo! In Spagna c’è un re. È stato trovato. Questo re sono io. L’ho saputo solo oggi. Confesso che, di colpo, è stato come se avessi avuto un’illuminazione. Non capisco come abbia potuto immaginarmi di essere un consigliere titolare. Come mi sia passato per il capo un pensiero così stravagante. Meno male che nessuno ha pensato allora di mettermi in manicomio. Adesso tutto è chiaro dinanzi a me. Adesso vedo tutto come sul palmo della mano. Mentre prima, io non capisco, prima tutto mi stava davanti come in una nebbia. E tutto questo, credo, avviene perchè gli uomini credono che il cervello umano si trovi nella testa; nient’affatto: lo porta il vento dalla parte del Mar Caspio. Dapprima ho annunciato a Mavra chi sono io. Quando ha sentito che dinanzi a lei stava il re di Spagna, ha battuto le mani e per poco non moriva dalla paura. Stupida, lei non ha mai visto il re di Spagna. Io, tuttavia, ho cercato di tranquillizzarla e con parole affettuose ho cercato di assicurarla circa i miei sentimenti, e che non me la sarei presa se certe volte lei mi ha pulito male le scarpe. Questa infatti è plebaglia. A loro non si può parlare di argomenti elevati. Lei si è spaventata, perchè è convinta che tutti i re in Spagna assomigliano a Filippo II. Ma io le ho spiegato che fra me e Filippo non c’è nessuna affinità e che io non ho nemmeno un cappuccino … Al ministero non sono andato. Al diavolo anche quello! No, amici, adesso non mi attirate più; non mi metterò a copiare le vostre schifose carte!

Madrid, 30 febbraio

E così sono in Spagna e tutto è successo così rapidamente che ho fatto appena in tempo a fiatare. Questa mattina si sono presentati da me i deputati spagnoli e sono salito con loro in carrozza. M’è sembrata strana l’insolita velocità. Andavamo così lesti che in mezz’ora abbiamo raggiunto la frontiera spagnola. Del resto, adesso in tutta l’Europa ci sono strade ferrate e i treni viaggiano velocissimi. Strano paese la Spagna: quando siamo entrati nella prima stanza ho visto una quantità di persone con la testa rapata. Però ho intuito che dovevano essere domenicani o cappuccini, perchè loro si rapano la testa. Mi è sembrato molto strano il modo di fare del cancelliere di stato, che mi ha preso per mano, mi ha spinto in una piccola stanza e ha detto: «Siediti qui, e se seguiti a raccontare di essere il re Ferdinando, te la levo io la voglia.» Ma io, sapendo che quello era solamente un modo per tentarmi, ho risposto picche, per la qual cosa il cancelliere mi ha battuto due volte sulla schiena con un bastone e in modo così doloroso che per poco non lanciavo un grido, ma mi sono trattenuto ricordando che si tratta d’un uso cavalleresco quando si assurge a un alto titolo, giacchè in Spagna sono ancor oggi in vigore gli usi cavallereschi. Rimasto solo, ho deciso di occuparmi degli affari di stato. Ho scoperto che la Cina e la Spagna sono la stessa identica terra e solo per ignoranza li considerano due stati diversi. Consiglio a tutti di provare a scrivere su un pezzo di carta «Spagna» : verrà fuori «Cina». Mi ha tuttavia straordinariamente amareggiato un avvenimento che deve aver luogo domani. Domani alle sette si compirà uno strano fenomeno: la terra si poserà sulla luna. Ne scrive anche il celebre chimico inglese Wellington. Confesso che mi sono sentito stringere il cuore considerando l’insolita morbidezza e la fragilità della luna. La luna infatti di solito viene fatta ad Amburgo, e vien fatta malissimo. Mi stupisco come l’Inghilterra non se ne interessi. La fa un bottaio zoppo ed è evidente che quel cretino non ha nessuna nozione della luna. Adopera del catrame e olio; per questo su tutta la terra c’è un lezzo terribile, tanto che bisogna tapparsi il naso. E per questo che la luna stessa è un globo così tenero che gli uomini non possono viverci e adesso lassù ci vivono solamente i nasi. E per questo anche che noi non possiamo vedere i nostri nasi, giacchè si trovano tutti sulla luna. E quando ho considerato che la terra è una materia pesante e, posandosi, può schiacciare i nostri nasi, mi ha preso un’inquietudine tale che, infilatemi calze e scarpe, sono corso nella sala del consiglio di stato per dare ordine alla polizia di non autorizzare la terra a posarsi sulla luna. I cappuccini, di cui ho trovato un gran numero nella sala del consiglio di stato, erano gente molto intelligente, e, quando ho detto: «Signori, salviamo la luna, perchè la terra vuole posarsi su di lei», all’istante si sono precipitati tutti a eseguire la mia sovrana volontà e molti si sono arrampicati sul muro allo scopo di agguantare la luna, ma in quel momento è entrato il grande cancelliere. Vedendolo, tutti sono scappati via. Io, in quanto re, sono rimasto solo. Ma, con mia meraviglia, il cancelliere mi ha colpito con il bastone e mi ha cacciato nella mia stanza. Tanto potere ha ancor oggi in Spagna l’usanza popolare.

Gennaio dello stesso anno, che vien dopo febbraio

Non riesco ancora a capire che razza di paese sia la Spagna. Le usanze e l’etichetta di corte sono assolutamente insolite. Non capisco, non capisco, proprio non capisco. Oggi mi hanno rapato la testa sebbene gridassi con tutte le forze che non desideravo farmi monaco. Ma non sono più capace di ricordare che cosa ne è stato di me quando hanno cominciato a versarmi sulla testa dell’acqua fredda. Un inferno simile non l’avevo ancora mai provato. Ero lì lì per montare su tutte le furie, tanto che a fatica potevano trattenermi. Non capisco assolutamente il significato di questa strana usanza. Usanza stupida, insensata! Mi è incomprensibile l’irragionevolezza dei re, che ancora non l’aboliscono. A giudicare da tutte le apparenze, credo di indovinare, forse sono caduto nelle mani dell’Inquisizione e quello che ho preso per il cancelliere forse è il grande inquisitore. Solamente non riesco ancora a capire come il re possa esser sottomesso all’Inquisizione. È vero che potrebbe essere una cosa che viene dalla Francia, e probabilmente da Polignac. Oh, quella bestia di Polignac! Ha giurato di danneggiarmi mortalmente. Ed ecco che mi perseguita e mi perseguita, ma io lo so, amico bello, che è l’inglese che ti guida. L’inglese è un gran politico. S’intrufola dappertutto. È ormai universalmente noto che quando I’Inghilterra fiuta il tabacco, la Francia starnuta.

Giorno 25

Oggi il grande inquisitore è venuto nella mia stanza, ma io, avendo sentito da lontano i suoi passi, mi sono nascosto sotto una sedia. Vedendo che non c’ero, lui ha cominciato a chiamarmi. Prima ha gridato: «Poprišèìn!» e io, neanche una parola. Poi: «Aksèntij Ivànoviè! Consigliere titolare! Nobile!» Io, sempre zitto. «Ferdinando VIII, re di Spagna!» Avrei voluto cacciar fuori la testa, ma poi ho pensato: no, bello, non me la fai! Ti conosco, mascherina: mi vuoi versare di nuovo dell’acqua fredda sulla testa. Lui però mi ha visto e col bastone mi ha fatto uscire di sotto la sedia. Quel maledetto bastone colpisce in una maniera incredibilmente dolorosa. Comunque, di tutto questo mi ha ricompensato la scoperta che ho fatto oggi: sono venuto a sapere che ogni gallo ha una Spagna e che essa si trova sotto le sue penne. Il grande inquisitore, tuttavia, se n’è andato furibondo, minacciandomi chissà che castigo. Ma io non ho fatto assolutamente caso alla sua rabbia impotente, sapendo che lui agisce come una macchina, come uno strumento degli inglesi.

Li 34 slo Mc gdao febbraio 349

No, non ho più la forza di sopportare. Dio! che cosa fanno di me! Mi versano in testa acqua fredda. Non mi ascoltano, non mi vedono, non mi danno retta. Che cosa gli ho fatto? Perchè mi torturano? Che cosa vogliono da me, poveretto? Che cosa posso dargli? Io non ho niente. Non ho la forza, non posso sopportare tutte le loro torture, la testa mi brucia e tutto mi gira intorno. Salvatemi! Portatemi via! Datemi una trojka di cavalli veloci come il vento! A cassetta, mio cocchiere; tintinna, mia campanella; impennatevi, cavalli, e portatemi via da questo mondo! Lontano, più lontano, che non si veda nulla, nulla. Ecco che il cielo turbina davanti a me; lontano brilla una stellina; sotto di me corre la foresta con gli alberi scuri e con la luna; una nebbia bluastra si stende sotto i miei piedi; nella nebbia, vibra una corda; da una parte c’è il mare, dall’altra l’Italia; ecco che si vedono anche le isbe russe. È la mia casa quella che azzurreggia lontano? È mia madre quella che siede alla finestra? Mamma, salva il tuo povero figliolo! Versa una lacrimuccia sulla sua testolina malata! Guarda come lo torturano! Stringi al petto il tuo povero orfanello! Non c’è posto per lui al mondo! Lo perseguitano! Mammina! abbi pietà del tuo bambino malato!… Ma lo sapete che il re di Francia ha un bernoccolo proprio sotto il naso?

Gogol

Treccani Enciclopedia Online

Gogol (Janovskij Nikolaj Vasil’evič), “I racconti di Pietroburgo

Psichiatria tra scienza e terapia

“Benvenuti in una branca medica misteriosa e appassionante, dove i progressi delle neuroscienze si scontrano di continuo con quel gran pasticcio che è in realtà l’essere umano”: così l’autore Tom Burns accoglie i lettori di “Psichiatria”, un manuale dalla lettura agile, che introduce a una disciplina complessa, che va oltre la “mera medicina”.

Il libro numero 100 della collana Paperback di Codice è un manualetto agile e semplice, anche nel linguaggio, sulla psichiatria. Disciplina molto attraente, che talvolta rischia di scontare qualcosa al successo della psicologia o, più ancora, del dilagare delle ‘terapie’ per il disagio e la malattia mentale, per la quale c’è dunque bisogno di conoscere e comprendere i capisaldi scientifici.

Il libro di Tom Burns lo fa con equilibrio, spiegando come sia riduttivo pensare la psichiatria in termini di mera ‘medicina’, assimilandola eccessivamente alle branche che si occupano di altri organi del nostro corpo o di patologie diverse, come la cardiologia o l’oncologia. D’altronde, non bisogna neppure cedere al fascino che a questa scienza deriva dal fatto di dare forma ai nostri ‘demoni’ interiori: la depressione come versione amplificata delle nostre tristezze, lo squilibrio conclamato e patologico come amplificazione speculare delle nostre inibizioni e paure.

Quella della psichiatria è una storia travagliata, durante la quale i progressi hanno sempre dovuto fare i conti con i risvolti sociali della malattia, con il pregiudizio e la paura del ‘diverso’, scontrandosi continuamente con quel mistero irrisolto che è l’essere umano nella sua ‘psiche’ (anima, dal greco). Una sfida che si rinnova ad ogni scoperta, imponendo un continuo ripensamento delle questioni filosofiche irrisolte: libero arbitrio, dualismo mente-cervello, autonomia personale e obblighi sociali.

Ufficio stampa Cnr

Tom Burns, “Psichiatria” (Codice, 2006)

L’anteprima sul sito di Codice Edizioni

Il padre, dalla Bibbia alla psicanalisi

Un saggio dedicato al tema dell’interpretazione psicanalitica della figura paterna, partendo da Freud per poi approfondire il pensiero di due studiosi che da questo si discostarono, Carl Gustav Jung e Jacques Lacan.

‘Il nome del padre’ richiama inequivocabilmente un segno religioso, ma anche un aspetto fondamentale dell’interpretazione psicanalitica.

Il saggio dedicato a questo tema da Giuliana Kantzà prende le mosse proprio dall’appartenenza ebraica di Sigmund Freud, per poi approfondire il distacco dalla originaria formulazione freudiana su tale tema che connotò il pensiero di Carl Gustav Jung e Jacques Lacan.

Il padre, in Freud, è uno dei soggetti principali della formazione della psiche, un protagonista di quell’imprinting infantile che segnerebbe in modo indelebile la nostra personalità per tutto il resto della vita. Il padre è al centro del tabù dell’incesto che, secondo il fondatore della psicanalisi, fa da perno alla nostra struttura relazionale. Ed è proprio dalla sua uccisione ad opera dei figli che, sul piano simbolico, le società si sono evolute secondo la forma che conosciamo.

Il dissenso di Jung, che trasferì sul piano mitico la ragione di gran parte dei meccanismi psicologici individuati da Freud, fu vissuto dai due studiosi in modo piuttosto traumatico anche sul piano personale. Toccò poi a Lacan rielaborare l’insegnamento freudiano, facendone la lente di lettura delle società contemporanee. Ma all’origine resta sempre il padre veterotestamentario al quale Freud, al di là del professato laicismo, era legato in modo ‘non puramente casuale’.

Marco Ferrazzoli

Giuliana Kantzà, “Il nome del padre nella psicanalisi” (Ares, 2008)

La scheda sul sito di Ares Edizioni

Wedekind, educatore tragico e ‘osceno’

Considerato il capolavoro drammaturgico di Wedekind, “Risveglio di primavera” pone l’accento sulla scoperta, da parte degli adolescenti, del mondo degli adulti.

“Risveglio di primavera” è una delle più note opere drammaturgiche di Frank Wedekind, che Bertolt Brecht considerava, insieme con Tolstoj e Strindberg, ‘uno dei grandi educatori dell’Europa nuova’.

Scritto nel 1890, fu rappresentato però solo nel 1906 a Berlino, in versione riveduta e censurata a causa del suo contenuto ritenuto ‘osceno’. In effetti, il dramma pone l’accento sulla scoperta, da parte degli adolescenti, del mondo degli adulti: il titolo sta a indicare proprio l’affacciarsi delle nuove generazioni su una cultura dominante che viene però loro meramente imposta nella sua ipocrita stupidità.

“Frühlings Erwachen” affronta dunque il tema dei diritti della giovinezza che occupano impetuosi anche altre opere teatrali di Wedekind, “Lulù” tra tutte, con l’obiettivo di combattere i valori borghesi ottocenteschi, mitteleuropei in particolare. Il conflitto tra eros e morale descritto dall’autore fece sobbalzare la società guglielmina, anche per il linguaggio tagliente e per le situazioni grottesche nelle quali sono collocati i personaggi, destinati alla tragedia.

Moritz morirà suicida per i sensi di colpa nei confronti dei propri genitori, Wendla per un aborto praticato furtivamente, mentre Melchior è condannato al riformatorio e al bivio tra la reintegrazione e la fuga dalla socialità convenuta.

Ufficio stampa Cnr

Frank Wedekind, “Risveglio di primavera” (Il Melangolo, 2007)

La scheda sul sito dell’editore

Queneau e il suo romanzo… con meteo

L’epopea della famiglia Nabonide in un’opera visionaria e avventurosa, scritta nell’arco di quindici anni.

L’uscita di “Tempi duri, Saint Glinglin!” è un’operazione di coraggiosa raffinatezza letteraria, e smentisce l’assioma editoriale classista che riduce la Newton a semplice ‘ristampatrice’ di classici in volumoni a prezzo stracciato, su carta scadente e in corpi tipografici illeggibili. Il romanzo di Raymond Queneau esce nella collana dei “Grandi tascabili economici” con introduzione del critico letterario Renato Minore, traduzione e postfazione di Francesco Bergamasco, che si è sobbarcato un lavoro non semplice.

L’autore francese è notoriamente bizzarro e irregimentabile nei canoni letterari tradizionali. Ma mentre la sua fantasia, in opere come il celeberrimo “Esercizi di stile”, può essere seguita con divertito alleggerimento, in “Saint Glinglin” la complessità dell’opera richiede al lettore un impegno notevole, essendo frutto di una gestazione durata ben 15 anni, dal 1933 al ’48, e di una ispirazione dichiaratamente joyciana: ‘Ho voluto imitare l’Ulisse, cioè un romanzo con una struttura, con una forma fissa’, scrive Queneau a una lettrice. A tanto, si aggiungano poi le eruzioni lessicali e stilistiche tipiche dello scrittore e alcuni problemi di traduzione, a cominciare da quello che rischia di far equivocare il titolo: Saint Glinglin, cui è dedicata la ricorrenza che scandisce il tempo nella Città Natale, deriva da un’espressione che significa ‘alle calende greche’ o, come si direbbe gergalmente a Roma, ‘il giorno del poi, l’anno del mai’.

L’avventura è dunque ardua, ma interessante, e corredata da alcuni elementi di particolare curiosità come l’azione del coprotagonista Jean, che ha elaborato un sistema per far cambiare il tempo. Con il risultato che nella Città Natale non piove più.

Marco Ferrazzoli

Raymond Queneau, “Tempi duri, Saint Glinglin!” (Newton, 2007)

Un tunnel psicanalitico mitteleuropeo

Un’opera che rappresenta un viaggio personale e al tempo stesso storico, popolata da un dedalo di personaggi testimoni della complessità e delle atrocità del ventesimo secolo.

Un uomo rimasto solo al mondo si rivolge a una chiromante per entrare in contatto con il padre e il fratello defunti. La truffatrice lo imbroglia, sottraendogli tutti i beni, ma il protagonista riesce a rifarsi una vita in capo a cinque anni di duro lavoro. L’11 agosto 1999, assiste all’ultima eclissi solare del millennio. Poi ricorre alla psicanalisi.

È quasi dadaista, la trama di ‘Nel regno oscuro’ di Giorgio Pressburger. Il lettore che vuol affrontare il libro deve accettarne il plot caleidoscopico, degno delle scale di Escher. Per dare almeno una dimensione quantitativa della complessità di quest’opera, si tenga conto che in 330 pagine si ammassano ben 902 note. Viene in mente, a tratti, il ben più lineare ‘La malattia chiamata uomo’ di Ferdinando Camon, e il collegamento non dev’essere casuale, considerato che si tratta di due scrittori mitteleuropei, dunque provenienti della koinè che ci ha dato anche Svevo, Freud e Basaglia.

Non è questa, però, la sede nella quale indagare le complesse ragioni per le quali l’ex ombelico del mondo ha prodotto – durante la sua crisi epocale, che chiude non solo l’impero asburgico ma il predominio europeo sul pianeta – una fioritura culturale così ombelicale, lo studio tanto appassionato del sé e delle sue contraddizioni. Limitiamoci a segnalare, a chi ne fosse attratto, quest’opera nella quale il Novecento prende la forma di un inferno dantesco, popolato da persone imprigionate, uccise, torturate, suicide, sofferenti. Un tunnel che però prelude a una uscita insperata: il protagonista si avvia lentamente verso la guarigione, intravedendo nell’ultima seduta psicanalitica i suoi cari scomparsi.

Chi abbia una anche minima dimestichezza con tali questioni, sa bene che si tratta di un messaggio di straordinario ottimismo, anche se (anzi: proprio perché) in calce a un’opera tanto cupa, rispetto a una casistica reale che vede spesso i percorsi analitici non approdare a nessun risultato concreto.

Marco Ferrazzoli

Giorgio Pressburger, “Nel regno oscuro” (Bompiani, 2008)

https://www.bompiani.it/catalogo/nel-regno-oscuro-9788845261602

La grande poesia di Piersanti, tra natura e malattia

Nostalgia e ricordo, dolore di un padre e incomunicabilità di un figlio: i sentimenti profondamente autentici, tracciati dalla penna dell’autore in una emozionante raccolta poetica.

Capita raramente di imbattersi in un libro di poesia che, come “L’albero delle nebbie” di Umberto Piersanti, ci riavvicini alla grande sorgente classica e alla non meno grande tradizione otto-novecentesca italiana. Una poesia in cui si colgono echi di Ovidio, Pascoli, Carducci… una volta per una citazione, un’altra per lo stile o per il tema: ma tutto questo senza che si profili mai l’ombra del plagio, al contrario, in una rielaborazione personalissima, intima nell’afflato e nel ricordo eppure oggettiva fino al cinismo nella descrizione della realtà.

I temi affrontati nel libro sono due: le Cesane che hanno fatto da sfondo ad altri libri di Piersanti e il figlio Jacopo, malato di un’incomunicabilità inaccessibile anche per i suoi affetti più vicini. Nei versi più legati alla terra natìa, la particolare campagna appenninica del Montefeltro, l’autore si dispiega in una serie di indicazioni e descrizioni storiche, famigliari ed ambientali: dalla guerra ai riti domestici, fino alla dolce litania di specie animali e vegetali. E’ soprattutto nel paesaggio che il ricordo reale si fonde con un immaginario evocativo, profondamente nostalgico. Nella parte dedicata al figlio, invece, emerge lo strazio di un padre impotente che pure trova, dentro la propria sofferenza, la forza e la ragione sufficienti per vivere. I due temi, poi, si mescolano progressivamente, fino quasi a rincorrersi l’un l’altro nella terza parte del libro.

E’ davanti a opere come queste che si spiega come Piersanti abbia ottenuto una candidatura al Nobel per la letteratura.

Marco Ferrazzoli

Umberto Piersanti, “L’albero delle nebbie” (Einaudi, 2008)

L’informatico che sapeva troppo (presto)

Un saggio ”romanzato” sulle vicende della breve e straordinaria vita di Alan Turing, le cui intuizioni non smettono di sorprendere, anche dopo decenni, e di rivelare nuove strade per la scienza.

Il binomio genio-sregolatezza, forse follia, affascina sempre. Quello tra un grande scrittore e un grande personaggio realmente esistito, pure. Ecco dunque due buone ragioni per farsi vincere dal saggio, forse anche un po’ romanzo, che David Leavitt ha dedicato ad Alan Turing: “L’uomo che sapeva troppo”, titolo volutamente allusivo alla giallistica, che la copertina (una cornetta telefonica che penzola misteriosa) rimarca efficacemente. Turing è l’uomo che ha inventato il computer o, meglio, che lo ha intuito, lo ha precorso, gettando le basi dell’intelligenza artificiale quando ancora i pc erano molto lontani. Tra le altre cose, tanto per dare un’idea della sua statura intellettiva, Turing durante la Seconda guerra mondiale riuscì a violare il celeberrimo codice Enigma, creato dai tedeschi per le loro comunicazioni cifrate. Sospettato di attività sovversivo-spionistiche, accusato di atti osceni e omosessualità, suicidatosi in età ancora giovanile e in ‘circostanze misteriose’, tanto per usare una espressione tipica del noir, Turing è insomma un uomo la cui storia ha molte ragioni di attrattiva. E che ha colpito un maestro della letteratura americana come Leavitt, critico e storico nonché romanziere (tradotto in Italia da Mondadori), il quale ce ne rende la vicenda in uno stile asciutto, reso in modo molto pulito dalla traduzione di Carolina Sargian.

Marco Ferrazzoli

David Leavitt, “L’uomo che sapeva troppo” (Codice, 2007)

https://www.codiceedizioni.it/libri/alan-turing-l-uomo-che-sapeva-troppo/