L’uomo della pioggia

Donny Ray è malato di leucemia acuta, ma non ha un’assicurazione tale da permettergli di affrontare ulteriori cicli di chemioterapia e/o ricevere il trapianto di midollo osseo.

<<Peso un po’ meno di cinquanta chili. Undici mesi fa ne pesavo settantadue. Hanno scoperto la leucemia in tempo per curarla. Ho un gemello identico, e il midollo osseo è compatibile. Il trapianto mi avrebbe salvato la vita, ma non abbiamo potuto permettercelo. Avevamo l’assicurazione, ma il resto lo sa. (…) >>

[…] Poco dopo che a Donny Ray era stata diagnosticata la leucemia acuta, è stato fatto un modesto tentativo di raccogliere fondi per la terapia. Dot ha attivato diversi amici, che hanno sstampato la faccia di Donny Ray sui cartoni per il latto in vendita nei caffè e nei supermercati di tutta North Memphis. Però non hanno tirato su molto, mi ha detto. Allora hanno affittato un Circolo Ricreativo locale e hanno organizzato una grande festa a base di pescigatto e insalate aromatiche e hanno addirittura chiamato un disc jockey di musica country. Come risultato, ci hanno rimesso ventotto dollari.

Il primo ciclo di chemioterapia è costato quattromila dollari; due terzi li ha assorbiti il St.Peter’s, il resto l’hanno messo insieme alla meglio. Cinque mesi dopo, la leucemia si è manifestata di nuovo.

[…] se i trapianti di midollo osseo non fossero tanto costosi, forse avremmo potuto fare qualcosa. Ero disposto a lavorare gratis, ma è un intervento che viene a costare duecentomila dollari. Nessun ospedale, nessuna clinica del nostro paese può permettersi di sorvolare su una somma simile>>

<<C’è da odiare le società di assicurazione, no?>>

John Grisham

Treccani Enciclopedia Online

John Grisham, L’uomo della pioggia (1995)

Gustave Flaubert – Tre racconti

 

Tre racconti è l’ultima produzione narrativa compiuta di Gustave Flaubert. Un cuore semplice, La leggenda di San Giuliano Ospitaliere e Erodiade, costituiscono questa piccola antologia che ben riassume le sfumature e le capacità dell’autore francese. Infatti, nonostante le tre storie differiscono l’una dall’altra per ambientazione geografica e storica, riescono ad esprimere a pieno lo stile dello scrittore francese, capace di descrivere e dar vita a realtà e personaggi tra loro così lontani.

 

Era la prima volta della loro vita, la signora Aubain non aveva una natura espansiva. Felicita gliene fu riconoscente come di un favore, e da allora in poi la amò con una devozione animale e una venerazione religiosa.

La bontà del suo cuore si espanse.

Quando udiva nella strada i tamburi di un reggimento in marcia, si metteva sulla porta con una brocca di sidro, e offriva da bere ai soldati. Curò alcuni colerosi. Proteggeva i polacchi; e ce ne fu perfino uno che dichiarava di volerla sposare. Ma litigarono; perché una mattina, di ritorno dall’angelus, lo trovò in cucina, dove si era introdotto, e servito una salsa che stava tranquillamente mangiando.

Dopo i polacchi, fu la volta del vecchio Colmiche, di cui si diceva che avesse commesso delle atrocità nell’83. Viveva sulla riva del fiume, nei ruderi di un porcile. I ragazzini lo guardavano attraverso le fessure del muro, e gli gettavano i sassi che cadevano sul pagliericcio, dove se ne stava coricato, continuamente scosso dal catarro, con i capelli lunghissimi, le palpebre infiammate, e su un braccio un tumore più grosso della testa. Lei gli procurò un po’ di biancheria, cercò di pulirgli il tugurio, sperava di sistemarlo nello stanzino del forno, senza che desse fastidio alla signora. Quando il cancro scoppiò lei glielo medicò tutti i giorni, ogni tanto gli portava un po’ di focaccia, lo sistemava al sole su un fascio di paglia; e il povero vecchio, sbavando e tremando, la ringraziava con voce spenta, temeva di non vederla più, tendeva le mani appena la vedeva allontanarsi. Morì; lei fece dire una messa per la pace della sua anima. In quello stesso giorno, le capitò una grande felicita: all’ora di cena, il negro della signora di Larsonniere si presento, portando il pappagallo, con il trespolo, la catenella e il lucchetto. Un biglietto della baronessa annunziava alla signora Aubain che, siccome suo marito era stato promosso prefetto, partivano la sera stessa; e la pregava di accettare quell’uccello, come un ricordo, e in segno della sua deferenza.

 

Gustave Flaubert

 

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Gustave Flaubert, Tre racconti (1877)

Sette piani

Giuseppe Corte è ricoverato al settimo piano di un celebre sanatorio. Qui vengono ricoverati i pazienti meno gravi. Giuseppe Corte è tranquillo fino a quando, con garbo, non è invitato a spostarsi al sesto piano.

Benché avesse soltanto una leggerissima forma incipiente, Giuseppe Corte era stato consigliato di rivolgersi al celebre sanatorio, dove non si curava che quell’unica malattia. Ciò garantiva un’eccezionale competenza nei medici e la più razionale ed efficace sistemazioni d’impianti.

[…] ebbe un ottima impressione. Il bianco edificio a sette piani era solcato da regolari rientranze che gli davano una fisionomia vaga d’albergo. Tutt’attorno era una cinta di alti alberi. 

Dopo una sommaria visita medica, in attesa di un esame più accurato Giuseppe Corte fu messo in una gaia camera del settimo ed ultimo piano. […] tutto era tranquillo, ospitale e rassicurante.

[…]la sua strana caratteristica di quell’ospedale. I malati erano distribuiti piano per piano a seconda della gravità. Il settimo, cioè l’ultimo, era per le forme leggerissime. Il sesto era destinato ai malati non gravi ma neppure da trascurare. Al quinto si curavano già affezioni serie e così di seguito, di piano in piano. Al secondo erano i malati gravissimi. Al primo quelli per cui era inutile sperare.

Questo singolare sistema, oltre a sveltire grandemente il servizio, impediva che un malato leggero potesse venir turbato dalla vicinanza di un collega in agonia, e garantiva in ogni piano un’atmosfera omogenea. D’altra parte la cura poteva venir così graduata in modo perfetto.

[…] Giuseppe Corte se ne stette ancora immobile alla finestra fissando le persiane abbassate dal primo piano. Le fissava con un’intensità morbosa, cercando di immaginare i funebri segreti di quel terribile primo piano dove gli ammalati venivano confinati a morire, e si sentiva sollevato di sapersene così lontano.

[…] il sanitario gli rivolse parole cordiali e incoraggianti. Un principio di male c’era-gli disse- ma leggerissimo; in due o tre settimane probabilmente tutto sarebbe passato.

<<E allora resto al settimo piano?>> aveva domandato ansiosamente Giuseppe Corte a questo punto. 

<<Ma naturalmente!>> gli aveva risposto il medico battendogli amichevolmente una mano su una spalla. <<E dove pensava di dover andare? Al quarto forse? >> chiese ridendo, come per alludere alla ipotesi più assurda.

<<Meglio così, meglio così>> fece il Corte. <<Sa? Quando si è ammalati si immagina sempre il peggio…>>

[…] erano passati circa dieci giorni, quando a Giuseppe Corte si presentò il capo-infermiere del settimo piano. Aveva da chiedere un favore in via puramente amichevole: il giorno dopo doveva entrare all’ospedale una signora con due bambini; due camere erano libere, proprio di fianco alla sua ma mancava la terza; non avrebbe consentito il signor Corte a trasferirsi in un’altra camera, altrettanto confortevole?

[…] Guardi che bisogna scendere al piano di sotto>> aggiunge con voce attenuata come se si trattasse di un particolare assolutamente trascurabile. <<Purtroppo in questo piano non ci sono altre camere libere. Ma è una sistemazione assolutamente provvisoria>> si affrettò a specificare vedendo che Corte, rialzatosi di colpo a sedere, stava per aprir bocca in atto di protesta.

[…] Mi spiego: l’intensità del male è minima, ma considerevole l’ampiezza; il processo distruttivo delle cellule>> era la prima volta che Giuseppe Corte sentiva là dentro quella sinistra espressione <<il processo distruttivo delle cellule è assolutamente agli inizi, forse non è neppure cominciato, ma tende, dico solo tende, a colpire contemporaneamente vaste porzioni dell’organismo.

[…] si manifestò sulla gamba una specie di eczema, che non accennò a riassorbirsi nei giorni successivi. Era un’affezione -gli disse il medico- che poteva capitare alla persona più sana del mondo. Ci sarebbe voluta, per eliminarlo in pochi giorni, una intensa cura di raggi gamma.

Dino Buzzati

Premio Strega

Dino Buzzati, I sessanta racconti (1958)

Padiglione cancro

Accettare una diagnosi di cancro è dura anche per Pàvel Nikolàevic, che si trova proprio nel padiglione cancro dell’ospedale di una città dell’Asia centrale.

Di fuori entrò un contadino che portava un barattolo da mezzo litro, con sopra un’etichetta, quasi pieno di un liquido giallo. E non cerca di nasconderlo, ma lo teneva alto dinnanzi a sé come un boccale di birra conquistato dopo una lunga coda. Proprio davanti a Pàvel Nikolàevic , quasi tendendogli quel suo barattolo, l’uomo si fermò per domandare qualcosa, ma poi vide il berretto di lontra e si rivolse a un ammalato con le stampelle, che era un po’ più in là:

“Ehi, amico! Dove si porta questo?”

L’uomo senza una gamba gli indicò la porta del laboratorio.

Pàvel Nikolàevic aveva la nausea.

“Ah, ecco un altro cancretto”.

Pàvel Nikolàevic non ritenne opportuno rispondere a tanta familiarità. Sentiva che tutta la stanza lo stava fissando, ma non aveva voglia di guardare a sua volta quella gente, con cui si trovava per caso, e tanto meno di salutarla. Fece solo un gesto in aria, come per dire al rosso di farsi da parte. Questi lasciò passare Pàvel Nikolàevic e di nuovo si volse, con tutto il corpo e quella sua testa inchiodata:

“Senti, fratello, che cancro hai, tu?”, domandò con voce roca.

Questa domanda colpì in pieno Pàvel Nikolàevic, che già era arrivato al suo letto. Alzò gli occhi sull’impudente, e, sforzandosi di non uscire dai gangheri (ma le sue spalle sussultarono), disse con dignità:

“Nessuno. Non è affatto cancro, il mio”.

Il rosso sbuffò e sentenziò per tutta la corsia:

“Ecco un idiota! E che l’avrebbero mandato qui, se non aveva il cancro?”

Solženicyn Aleksandr Isaevič 

Treccani Enciclopedia Online

Solženicyn Aleksandr Isaevič, Padiglione cancro (1966)

Un cancro chiamato Cameo

La storia di un uomo nel suo percorso di rievocazione e autoanalisi di fronte al cancro che lo ha colpito: un destino che lo porta inevitabilmente a ripercorrere la propria esistenza.

“Cameo” di Raffaele Crovi è un’opera di mestiere, godibilissima alla lettura, ma priva di una forza narrativa autentica, perennemente indecisa e oscillante tra la contemplazione descrittiva e il malcelato intento autobiografico.

Protagonista ne è Nando Mortara: ebreo, convertito per opportunità (nel 1939: i genitori sarebbero stati deportati e uccisi) e poi tornato alla fede originaria per ‘protesta’, di formazione psichiatra ma senza essere mai riuscito ad affrontare l’impegno di una attività terapeutica ospedaliera.

Un ‘non personaggio’, tipico di molta narrativa minimalista, che non a caso nel corso del libro sembra pigramente, rassegnatamente lasciare il posto al cancro che lo ha colpito: un destino, più che una disgrazia, davanti al quale ripercorrere la propria esistenza è inevitabile, quasi scontato.

Marco Ferrazzoli

Raffaele Crovi, “Cameo” (Mondadori, 2006)

La scheda sul sito dell’editore

Battaglia contro il cancro in forma di fumetto


La memoria in forma grafica della malattia dell’autrice e delle emozioni che l’hanno accompagnata restituisce una vivida storia di coraggio e rinascita.

La diaristica dei malati, specialmente di cancro e specialmente coronata dall’happy end della guarigione, è un genere scientifico-letterario ormai diffuso, anche perché molto incentivato come ammonimento per le tantissime persone che debbono affrontare un tunnel analogo.

Quello che rende ‘Cancer Vixen’ del tutto originale, all’interno di tale genere, è la scelta del fumetto come mezzo espressivo, che non si limita all’aspetto stilistico ma dà a tutta la narrazione un tono opposto a quello di ottimismo buonistico che spesso informa questi libri, rendendoli un po’ ostentatamente esortativi.

Nel libro di Marisa Acocella Marchetto le strips aiutano il ritmo veloce, agile, in molte pagine divertente e in altre drammatico (il cancro, nelle sembianze della morte incappucciata, irrompe nella vita della protagonista alle soglie di un tardivo e felicissimo matrimonio), spesso poetico, grazie anche a citazioni di grande raffinatezza. Del disegno, poi, basti dire che l’autrice è un’illustratrice de ‘The New Yorker’ per comprenderne la qualità e anche il taglio molto ‘fotografico’, con evidenti richiami alla pop art.


Marco Ferrazzoli

Marisa Acocella Marchetto, “Cancer Vixen” (Salani, 2007)